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    Riciclo, downcycling e upcycling: qual è la differenza?

    “Il riciclo è una forma di conservazione e la conservazione è una forma di amore per la Terra”, ha affermato Gina McCarthy, ex amministratore dell’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti. Il riciclaggio consente, infatti, di trasformare un rifiuto in un nuovo oggetto, dando così nuova vita a ciò che non viene più utilizzato. Tuttavia, accanto a tale meccanismo esistono anche due alternative per gestire gli scarti: downcycling e upcycling. Mentre con il riciclo il prodotto viene trasformato per crearne uno con un valore simile, con questi processi il valore del bene finale può rispettivamente diminuire o aumentare.

    Downcycling
    Il termine downcycling si riferisce a un procedimento degradativo, in cui i materiali vengono riutilizzati, ma con una perdita di qualità e potenzialità. Molti prodotti vengono sottoposti a questa procedura perché la materia prima impedisce di mantenere la precedente longevità una volta riprocessata e non può, quindi, essere reinserita nel ciclo di vita originario. Un esempio è la plastica, che compone bottiglie in Pet, flaconi di detersivo, imballaggi: a ogni processo di riciclo si degrada sempre di più, riducendo la sua resistenza. Finisce così per essere usata in zerbini, moquette o pavimentazioni stradali. Questi derivati sono di rado riciclabili, il che significa che sarà, quindi, necessaria nuova plastica. Così il circuito virtuoso si interrompe, creando il cosiddetto ciclo aperto. Un altro esempio è quello del calcestruzzo frantumato in seguito alla demolizione di un edificio. Di solito viene impiegato come riempitivo stradale, un prodotto che, pur avendo il vantaggio di limitare l’uso di sabbia e ghiaia, è di complessità inferiore rispetto a quello originale. Un ulteriore esempio è quello della carta. Durante ogni processo di riciclaggio, le fibre che la compongono si accorciano progressivamente, limitandone gli utilizzi. La maggior parte della carta riciclata, inclusa quella di alta qualità, finisce, infatti, per convertirsi in cartone, carta velina o tovaglioli di carta. In sostanza, il downcycling degrada i materiali originari, senza tornare alla materia prima. Pur richiedendo comunque energia, tempo e manodopera, resta preferibile all’incenerimento o allo smaltimento in discarica. Tuttavia, sarebbe auspicabile puntare su riutilizzo diretto o ricondizionamento.

    Upcycling
    È, in sostanza, ciò che fa l’upcycling, termine utilizzato per la prima volta dall’ingegnere tedesco Reiner Pilz in un articolo del 1994 e diventato un concetto consolidato nel 2002, grazie al libro “Cradle to Cradle” di William McDonough e Michael Braungart. Si tratta, in questo caso, di trasformare materiali di scarto in prodotti con maggiore valore economico, estetico o funzionale rispetto all’originale. A differenza del downcycling, l’upcycling si basa su un ciclo chiuso, in cui i rifiuti vengono riutilizzati ripetutamente senza una significativa perdita di qualità. Gli esempi virtuosi non mancano. Tra questi, c’è The Upcycle, un laboratorio di Amsterdam, in Olanda, che organizza workshop per trasformare vecchi pneumatici in cinture, borse della spesa dismesse in quaderni, biciclette rotte in lampade e mobili. C’è poi Rebottled, azienda che ricicla bottiglie di vino vuote trasformandole in bicchieri di design, con un risparmio energetico di circa 63 megawattora, una quantità sufficiente per alimentare una piccola città. Oltre a ciò, questo sistema consente di ridurre fino al 70% le emissioni di anidride carbonica correlate alla produzione di materia prima vergine, senza contare che molti progetti hanno anche un impatto sociale positivo. Per esempio, alcune cooperative impiegano persone in condizioni di fragilità per realizzare prodotti upcycled, creando lavoro e inclusione. Un caso di questo tipo in Italia è Progetto Quid, che recupera tessuti di scarto per creare nuove collezioni, offrendo un’occupazione a donne svantaggiate.

    Strategie diverse
    L’upcycling rappresenta oggi una delle leve più promettenti per un’economia davvero circolare. Tuttavia, il principale problema resta la scalabilità: molte iniziative rimangono confinate a contesti artigianali o di nicchia e non sempre riescono a competere, per costi e quantità, con la produzione industriale tradizionale. Inoltre, la tracciabilità dei componenti è essenziale: senza conoscere esattamente la composizione e la storia del materiale di scarto è difficile garantire qualità e sicurezza del nuovo prodotto. Il downcycling, pur essendo meno virtuoso, resta ancora indispensabile in molti settori, in cui la qualità della materia prima è compromessa o non è possibile implementare cicli chiusi. In questo caso, l’obiettivo è ridurre al minimo la perdita di valore nelle fasi di lavorazione, magari utilizzando tecnologie avanzate di separazione e purificazione dei materiali. In sintesi, upcycling e downcycling non sono solo due strategie di gestione dei rifiuti, ma rappresentano visioni opposte del futuro dei prodotti. Una sfida destinata a diventare sempre più cruciale nei prossimi decenni, che si giocherà sull’innovazione, sull’ingegneria, sulla cultura industriale. LEGGI TUTTO

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    Il crollo dell’Impero Romano: tutta colpa della siccità

    Il crollo dell’Impero Romano? Tutta colpa della siccità. Almeno leggendo uno studio condotto dall’Università di Cambridge e pubblicato su Climatic Change, dal titolo “Siccità e conflitti nel tardo periodo romano”. Risultato di un intreccio tra ricerche su cambiamenti climatici, testi e reperti archeologici. Arrivando alla conclusione che le battaglie nell’Impero Romano d’Occidente erano profondamente legate […] LEGGI TUTTO

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    Classe energetica degli elettrodomestici: cosa sapere e come risparmiare

    Quando si acquista un elettrodomestico, uno degli aspetti più importanti da considerare è la classe energetica. Questo valore, che va dalla lettera A (più efficiente) alla G (meno efficiente), indica il consumo di energia di un apparecchio e ha un impatto significativo sulle bollette. Ma cosa indica esattamente la classe energetica? E come può aiutare a risparmiare?

    Cos’è la classe energetica degli elettrodomestici
    La classe energetica di un elettrodomestico è una valutazione che indica quanta energia consuma rispetto alla quantità di lavoro che svolge. Ogni apparecchio viene classificato su una scala che parte dalla classe A+++ (la più efficiente) fino alla classe G (la meno efficiente). La classe energetica è indicata su una etichetta energetica che accompagna ogni prodotto, rendendo facile confrontare l’efficienza dei diversi modelli.

    Come si legge l’etichetta energetica
    Lo strumento informativo che ti permette di fare scelte consapevoli è l’etichetta energetica. Su di essa troverai le seguenti informazioni: la classe energetica (dalla A+++ alla G), il consumo di energia (espresso in kWh, indica quanto consuma l’elettrodomestico in un anno o per un determinato utilizzo), il volume o capacità (ad esempio il volume di un frigorifero o la capacità di lavaggio di una lavatrice) e la rumorosità (espresso in decibel, sigla “dB”). Queste informazioni ti aiutano a fare una scelta consapevole, tenendo conto non solo del prezzo iniziale ma anche dei costi di utilizzo a lungo termine.

    Come scegliere elettrodomestici a basso consumo
    Quando si acquista un nuovo elettrodomestico, è importante tenere a mente alcuni fattori chiave per scegliere quello con la classe energetica migliore. È consigliabile, innanzi tutto, preferire gli elettrodomestici di classe A+++, ossia i più efficienti. Esistono anche modelli A++ e A+ che consumano un po’ più energia, pur rimanendo comunque ottimali. Investire in un modello più efficiente ti permette di ridurre il consumo di energia e, di conseguenza, di abbassare le bollette nel lungo termine. Importante, poi, valutare il consumo annuale: leggi attentamente il consumo annuale di energia riportato sull’etichetta, perché anche tra i modelli di classe A++ ci possono essere differenze nel consumo: un modello che consuma leggermente più energia ma ha un prezzo d’acquisto inferiore potrebbe non essere conveniente nel lungo periodo. Tieni conto anche alle tue esigenze personali: se una lavatrice ha un programma a bassa temperatura che consente di risparmiare energia, potrebbe essere una scelta migliore rispetto a una lavatrice più economica ma che richiede temperature elevate per un lavaggio ottimale. L’efficienza dipende anche dall’uso che farai dell’apparecchio. Controlla, infine, la durabilità dell’apparecchio (se scegli un modello con una maggiore efficienza, ridurrai anche i costi di riparazione e sostituzione nel lungo periodo).

    I vantaggi di scegliere elettrodomestici efficienti
    I vantaggi nello scegliere elettrodomestici efficienti sono diversi. Questione primaria è il risparmio energetico: scegliendo elettrodomestici a basso consumo, riduci il costo delle bollette. Sebbene l’investimento iniziale possa essere più alto, il risparmio nel tempo è significativo. Significativo anche l’impatto ambientale: un uso ridotto di energia non solo fa bene al tuo portafoglio, ma contribuisce anche a ridurre l’impronta ecologica. Meno consumo di energia significa meno emissioni di gas serra. Innegabili, infine, i maggiori comfort: scegliendo elettrodomestici moderni e più efficienti otterrai anche più silenzio e performance migliori. Potrai godere di un ambiente domestico più confortevole senza rinunciare alla qualità.

    Come risparmiare nella gestione degli elettrodomestici
    Oltre alla scelta degli elettrodomestici, una cosa importante per ridurre i costi è anche imparare ad usarli con consapevolezza: sostituire gli elettrodomestici obsoleti (diventano meno efficienti dopo 10 anni) e usarli con intelligenza (privilegiando le funzioni eco o avanzate che ottimizzano l’uso dell’energia e riducono i consumi) sono azioni che permettono di risparmiare nel lungo periodo. Importante anche una manutenzione regolare dei propri elettrodomestici: la pulizia dei filtri o la sbrinatura del frigorifero possono migliorare l’efficienza energetica degli apparecchi. Un frigorifero con il congelatore pieno lavora meglio, mentre una lavatrice pulita consuma meno energia. È possibile, infine, anche ottimizzare l’uso di energia accendendo gli elettrodomestici solo quando necessario. Un altro consiglio è quello di non lasciare apparecchi in stand-by, poiché consumano comunque energia. LEGGI TUTTO

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    Sostanze tossiche nei parchi urbani? Ce lo dicono i ricci

    I ricci di mare sono molto sensibili ai cambiamenti ambientali e vengono spesso usati come organismi “bioindicatori”. Come se fossero delle sentinelle marine. Seppur appartenenti a tutta altra specie, anche i ricci terrestri sembrano avere caratteristiche simili, secondo un recente studio condotto dai ricercatori dell’Università di Lund, in Svezia; raccogliendo questi piccoli mammiferi morti, sono risaliti alle cause del decesso e hanno iniziato ad indagare su una serie di inquinanti riscontrabili negli ambienti urbani. Gli spazi verdi delle città fungono da attrattiva per questi animali selvatici, che purtroppo devono fare i conti con materiali sintetici e sostanze chimiche. Veleno. Infatti, i ricci percorrono lunghe distanze – entrano ed escono da parchi e giardini ogni notte – alla ricerca di cibo, come insetti e altri invertebrati. Ma allo stesso tempo, sono particolarmente esposti ad alte concentrazioni di inquinanti che si trovano nell’ambiente: piombo, pesticidi, additivi plastici e metalli pesanti che sono elementi letali. A sorprendere gli scienziati svedesi, sono state proprio le cause all’origine della morte dei ricci: le elevate concentrazioni di alcuni metalli pesanti, tra cui il piombo.

    Ue: inquinamento in calo, ma non basta

    di Sibilla Di Palma

    08 Aprile 2025

    Per comprendere il fenomeno, i ricercatori di Lund hanno analizzato i corpi dei ricci morti, con l’obiettivo di capire quali fossero i fattori di rischio rintracciabili negli ambienti urbani, per noi umani ed abitanti delle città. “L’analisi dei ricci fornisce una sorta di impronta digitale ambientale dell’ecosistema di un’area. È molto difficile accedere a queste conoscenze, ma i ricci ci hanno permesso di ottenere una visione unica del tipo di inquinamento ambientale urbano che ci circonda”, spiega Maria Hansson, una delle ricercatrici. Il team dell’università di Lund ha coinvolto i cittadini nelle aree limitrofe della regione meridionale di Scania, chiedendo loro di segnalare la presenza di eventuali ricci morti. Il risultato del loro studio è piuttosto allarmante: hanno misurato la presenza di 11 elementi diversi, tra cui diversi metalli pesanti, e 48 inquinanti ambientali organici nei ricci morti. Un vero e proprio allarme. Ecco allora che lo studio è andato oltre e più in profondità, esaminando aculei e denti degli animali morti per verificare l’esposizione a lungo termine ai metalli pesanti, mentre per l’esposizione più breve a una serie di sostanze chimiche organiche ambientali, è stato esaminato il tessuto epatico. Dai risultati è emerso che i ricci presentavano alte concentrazioni di metallo pesante, come il piombo e contenevano diverse sostanze chimiche, come gli ftalati. Si tratta di composti chimici, usati principalmente come plasticizzanti, sostanze che rendono le materie plastiche più flessibili, morbide e lavorabili. I ftalati si possono trovare nella plastica PVC, cosmetici e prodotti per la cura personale, imballaggi alimentari, ma sono considerati elementi piuttosto controversi, perché perché alcuni di essi sono interferenti endocrini, cioè possono disturbare il sistema ormonale. Secondo la letteratura scientifica, infatti, potrebbero influenzare la fertilità, avere effetti negativi sullo sviluppo del feto e legami con l’asma e reazioni allergiche.

    Questi effetti nocivi sulla saluta umana, hanno portato in Europa e in molte altre parti del mondo, ad un uso limitato o addirittura vietato, soprattutto nei giocattoli e nei prodotti per bambini, e comunque ad essere oggetto di regolamentazione a livello Ue. E non è ancora tutto. I ricercatori hanno trovato anche pesticidi, ritardanti di fiamma bromurati, livelli elevati di altri metalli pesanti e idrocarburi policiclici aromatici . “Questo dimostra che gli ambienti urbani, dove oggi vive la maggior parte delle persone, potrebbero contenere una grande quantità di sostanze critiche che si sono dimostrate dannose per la salute. Queste sostanze problematiche provengono da materiali da costruzione, plastica, pesticidi, inquinamento atmosferico, rifiuti, traffico, veicoli e persino suolo contaminato”, spiega ancora la scienziata Maria Hansson. Lo studio dunque, pone l’accento sulla necessità di un maggiore monitoraggio ambientale del suolo nelle aree urbane, compresi giardini e parchi. E questo perché, i ricci come noi, sono mammiferi ed è preoccupante secondo gli autori dello studio “trovare sostanze che sono interferenti endocrini, cancerogene o che interferiscono con la riproduzione umana”. Ora il dilemma da risolvere è capire come i ricci siano stati influenzati, fino a morirne, da sostanze inquinanti. Infatti, ancora si sa molto poco su come le diverse specie animali, in particolare i mammiferi, siano colpite da sostanze pericolose. Anche perché, evidenziano i ricercatori “oggi vogliamo la natura nelle nostre città, quindi dobbiamo anche ridurre il rischio che gli organismi siano esposti alle sostanze chimiche contenute nei materiali e nei prodotti che scegliamo di utilizzare” LEGGI TUTTO

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    Data center e IA raddoppieranno il consumo di energia in appena 5 anni. E le emissioni inquinanti?

    Sempre più al centro della nostra vita, online e offline, ma anche sempre più energivora. E’ l’intelligenza artificiale. Secondo l’autorevole rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia – il primo dedicato agli impatti energetici dell’IA – entro i prossimi 5 anni, il 2030, raddoppierà la domanda energetica dei data center. Questi enormi centri di calcolo e storage di big data, infatti, sono alimentati a pane ed IA, motivo per cui i consumi energetici sono destinati a salire in modo importante. Il rapporto speciale dal titolo “Energy and AI” dell’AIE (da 302 pagine) offre un’analisi globale completa, basata sui dati finora disponibili sulle crescenti connessioni tra energia e IA. Il rapporto, infatti, è stato realizzato basandosi su nuove serie di dati e su un’ampia consultazione con i responsabili politici, il settore tecnologico, l’industria energetica ed esperti internazionali. Numeri alla mano, solo lo scorso anno, i data center rappresentavano l’1,5% del consumo mondiale di elettricità, circa 415 terawattora, ma calcolando che negli ultimi cinque anni l’aumento è stato del 12%, è lecito supporre che l’intelligenza artificiale spingerà il motore ai massimi regimi. Infatti le stime sono più del doppio: 945 terawattora entro il 2030, poco più dell’intero consumo di energia elettrica di un paese come il Giappone.

    Lo studio

    L’intelligenza artificiale è assetata di acqua. Per ogni conversazione se ne consuma una bottiglietta

    Gabriella Rocco

    22 Marzo 2024

    A guidare la spinta energivora saranno gli Stati Uniti, in cui il consumo dei data center è destinato a rappresentare quasi la metà della crescita della domanda di elettricità da qui ai prossimi 5 anni. Il 2030 è ritenuto l’anno in cui l’economia statunitense consumerà più elettricità per l’elaborazione dei dati, che per la produzione di tutti i beni ad alta intensità energetica messi insieme: compresi alluminio, acciaio, cemento e prodotti chimici. E questo ha dell’incredibile, considerando che stiamo parlando di consumi da industria pesante, ben più parca nel consumare energia, rispetto al mondo immateriale dell’IA. Per capire il livello di consumo di un centro di elaborazione dati, è bene sapere, che un data center da 100 megawatt può consumare la stessa quantità di elettricità che serve a 100.000 famiglie in un anno intero. Ma più saranno grandi, e lo saranno, e più consumeranno. Di più. In questa impennata del consumo energetico, si stima che all’interno delle economie avanzate, i centri di elaborazione dati determineranno oltre il 20% della crescita della domanda di elettricità nel prossimo quinquennio. Per soddisfare queste sete interminabile di energia, senza aumentare le emissioni inquinanti, si dovrà fare sempre più ricorso a energie pulite, rinnovabili principalmente, ma è inevitabile che anche il gas naturale giochi un ruolo importante per la sua facile disponibilità nei mercati chiave. Ma non si farà a meno del carbone, secondo l’AIE, che attualmente soddisfa il 30% del fabbisogno dei data center.

    L’intelligenza artificiale “divora” energia con un impatto ambientale insostenibile

    a cura della redazione di Green&Blue

    21 Marzo 2025

    Intanto alcune big del tech, una su tutte, Google, ha stretto accordi per alimentare parte delle proprie infrastrutture con energia proveniente da piccoli reattori nucleari, così come sta pensando di fare anche Microsoft e Amazon, che si muovono sulla stessa direttrice per sostenere l’alimentazione dei loro data center. Stiamo parlando del cuore della tecnologia del mondo. Purtroppo, (o per fortuna, lo dirà la storia) l’intelligenza artificiale generativa che crea contenuti incredibili avendo imparato da miliardi di dati a disposizione, è gratuita per gran parte degli utenti, ma consuma. E tanto, perché la capacità di calcolo è alimentata da big data ed energia. Ogni nostra richiesta sui motori di ricerca o su ChatGPT o Gemini, solo per citare i più noti, richiede energia continuamente. La rapida crescita dei data center potrebbe portare a un aumento del 67% delle emissioni legate all’elettricità entro il 2035, passando dagli attuali 180 milioni di tonnellate di CO2 a 300 milioni di tonnellate, comunque una quota minima rispetto ai 41,6 miliardi di tonnellate di CO2 delle emissioni globali stimate nel 2024. Ma l’incremento potrebbe essere “potenzialmente compensato dalle riduzioni di emissioni consentite dall’IA stessa se l’adozione della tecnologia sarà diffusa”. Come? Questa tecnologia consente di accelerare la ricerca scientifica, per cui potrebbe portare innovazione rapidamente nello sviluppo di batterie e di fotovoltaico. “L’intelligenza artificiale è oggi una delle storie più importanti del mondo dell’energia, ma finora i responsabili politici e i mercati non avevano gli strumenti per comprenderne appieno l’ampio impatto”, ha dichiarato il direttore esecutivo dell’AIE, Fatih Birol. Ora gli strumenti ci sono. LEGGI TUTTO

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    Umberto Pasti, il botanico e i suoi giardini paradiso

    Due giardini dominano una vallata che si affaccia sull’Oceano Atlantico in Marocco, una sessantina di chilometri a sud di Tangeri. Trent’anni fa c’erano solo pietre e fiori, non c’era acqua né luce elettrica, solo una mulattiera; una terra isolata e assolata dove si poteva arrivare solamente a piedi o a cavallo. Ma oggi, grazie al lavoro paziente di Umberto Pasti, scrittore e botanico milanese, in quei luoghi sta scorrendo nuova linfa vitale. Il primo sito è il Giardino della consolazione, che Pasti definisce così perché le piante si accontentano di poca acqua per vivere (quella che proviene dal pozzo del villaggio è sufficiente), è un’oasi rigogliosa tra case in pietra, una raccolta di specie siccitose provenienti dal Centro e dal Sud America, dal Sudafrica, dall’Asia e dall’Australia. Il secondo è un vasto territorio di colline e pianori (7-8 ettari) con un’antica ficaia e olivastri, dove sono state messe a dimora solo specie autoctone (gladioli, corbezzoli, viburni, orchidee, scille, euforbie), la più grande collezione di specie marocchine al mondo. Bulbi e piante provengono spesso dai cantieri edili e stradali, dove Pasti e un gruppo di ragazzi marocchini li sottraggono letteralmente dalle colate di cemento e asfalto. I due giardini sono gestiti da un’associazione (G.O.R. – Garden of Rohuna) che, con i proventi del turismo e le donazioni, dà lavoro agli abitanti del piccolo villaggio di Rohuna (450 abitanti), ha aperto una strada per le ambulanze, restaurato una scuola, piantato un parco per i bambini e un frutteto attorno alla moschea.

    Il giardino di Rohuna (Foto di Ngoc Minh Ngo)  LEGGI TUTTO

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    In Europa ci stiamo adattando più velocemente al freddo estremo che al caldo

    Estati torride, ondate di freddo invernale. Le temperature europee sono destinate a cambiare sempre più rapidamente nei prossimi decenni, e la capacità di adattarsi agli estremi climatici sarà, di conseguenza, sempre più essenziale. Come ce la stiamo cavando? La risposta arriva da una ricerca guidata dall’Istituto per la Salute Globale di Barcellona, che sulle pagine di Lancet Planetary Health ha analizzato l’andamento degli eccessi di mortalità in Europa nell’arco degli ultimi 20 anni, rivelando una riduzione sia nel corso delle ondate di caldo che nei picchi di freddo, più significativa però nel caso delle basse temperature. Lo studio ha analizzato i dati di mortalità di 800 aree di 35 paesi europei raccolti tra il 2003 e il 2020, ed è stata realizzata utilizzando la potenza di calcolo del Barcelona Supercomputing Centre. L’analisi è stata effettuata utilizzando un nuovo metodo, basato su quello che i suoi autori hanno battezzato Extreme-Risk Temperature, o temperature di rischio estremo, un sistema di soglie mobili che determina i picchi di temperatura pericolosi per ogni regione in base ai dati epidemiologici degli ultimi decenni.

    I dati

    Marzo il mese più caldo d’Europa e ghiaccio marino artico più basso d’inverno

    a cura della redazione di Green&Blue

    08 Aprile 2025

    In questo modo, la ricerca ha potuto comparare la situazione in paesi e aree diverse del continente, impresa impossibile da raggiungere utilizzando soglie di temperatura fisse (zero gradi, d’altronde, sono cosa ben diversa in Norvegia o in Sicilia). In assoluto, nel periodo studiato l’Europa ha sperimentato 2,07 giorni di basse temperature di rischio estremo in meno ogni anno, mentre quelli di alte temperature a rischio sono aumentati di 0,28 giorni l’anno. Nelle zone sudorientali del continente, però, la situazione è risultata ben diversa, con un aumento sia dei giorni a rischio sia per il freddo, che per il caldo. L’analisi comunque conclude che in Europa nel ventennio studiato la mortalità in eccesso causata dalle ondate di freddo è diminuita del 2% ogni anno, mentre quella legata al caldo è calata, sì, ma solo dell’1% annuo. “I nostri risultati mostrano che, sebbene l’Europa abbia compiuto notevoli progressi nell’adattamento al freddo, le strategie per affrontare la mortalità correlata al caldo sono state meno efficaci”, commenta Zhao-Yue Chen, ricercatore dell’Istituto per la Salute Globale di Barcellona che ha guidato lo studio. “Il nostro studio evidenzia la necessità di maggiori progressi nelle attuali misure di adattamento al caldo e nei piani d’azione per la salute e il caldo. Allo stesso tempo, le disparità spaziali osservate sottolineano la necessità di strategie specifiche per regione al fine di proteggere le popolazioni vulnerabili”.

    Lo studio ha inoltre analizzato la frequenza con cui le temperature a rischio si sono verificate in giorni in cui i livelli di inquinamento superavano i limiti raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In media, è avvenuto nel 60% dei giorni di caldo estremo e nel 65% di quelli di freddo estremo. Nel corso del tempo la co-occorrenza di estremi di temperatura e picchi di inquinamento è diminuita, ad eccezione di quella tra giorni pericolosamente caldi e alti livelli di ozono (O3), aumentata invece a un ritmo di 0,26 giorni all’anno. “Con l’intensificarsi del riscaldamento globale, gli episodi combinati di caldo e ozono stanno diventando una preoccupazione inevitabile e urgente per l’Europa”, conclude Zhao-Yue Chen. Dobbiamo tenerlo in considerazione, e sviluppare strategie specifiche per affrontare gli inquinanti secondari come l’ozono, perché temperature estreme e inquinamento atmosferico non sono completamente indipendenti per quanto riguarda il loro impatto sulla salute, anzi, possono interagire tra loro amplificando i reciproci effetti nocivi”. LEGGI TUTTO

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    “Meno protezioni per il lupo”, il via libera della Ue

    Via libera da parte dei Rappresentanti Permanenti dei 27 (Coreper II) alla modifica dello status di protezione del lupo, allineando la legislazione dell’Ue alla Convenzione di Berna aggiornata. Il mandato comprende una modifica mirata della direttiva sugli habitat – la legge dell’Ue che attua la Convenzione di Berna – per riflettere il livello di protezione […] LEGGI TUTTO