consigliato per te

  • in

    La liana che odora di marzapane o la palma fantasma: nel 2024 scoperte quasi 150 nuove piante

    Ogni anno si scoprono oltre duemila nuove specie di piante ma secondo i botanici ce ne sarebbero altre centomila ancora del tutto sconosciute. Nel 2024 ricercatori e partner scientifici dei Kew Gardens di Londra, una delle maggiori istituzioni di ricerca nel campo, ne hanno descritte 149. Alcune sono evanescenti come la palma fantasma del Borneo o un’enigmatica famiglia di piante che rinunciano alla fotosintesi, e a colorarsi di verde, per affidare la crescita solo a simbiosi con funghi sotterranei. Altre si erano nascoste bene come diverse orchidee indonesiane e liane. “In genere i due terzi delle nuove specie che vengono descritte sono già a rischio estinzione – spiega Martin Cheek, Senior Research Leader nell’Africa team dei Kew – quando è possibile queste piante vengono protette nei loro habitat naturali. Ma non si è sempre così fortunati. Per sicurezza, se le condizioni di sopravvivenza della specie lo richiedono, ne raccogliamo i semi o altro materiale vegetale per poi propagarlo nei nostri giardini o per conservarli nella Millennium Seed Bank”.

    Tra le nuove specie vegetali scoperte quest’anno ci sono piante che di verde non hanno niente. Le hanno chiamate Afrothismiaceae. Sono originarie dell’Africa occidentale, fioriscono come tutte le altre ma in modo molto diverso. Al posto della fotosintesi clorofilliana, alla base della produzione di zuccheri per la crescita della pianta, si nutrono grazie a una serie di microscopici funghi sotterranei con i quali entrano in simbiosi generando una sorta di super-radice in grado di rispondere a tutte le esigenze della loro dieta. Si tratta di specie sono molto rare o addirittura estinte. La maggior parte di quelle descritte è stata vista una volta sola, la maggior parte in Camerun. Piante con questo comportamento, che hanno abbandonato la fotosintesi, ce ne sono diverse come la famosa orchidea fantasma endemica dei Caraibi (Dendrophylax lindenii), la Rafflesia arnoldi, il fiore più grande del mondo in Indonesia, o le diverse Voyria, erbacee perenni endemiche del Centro e Sud America che hanno perso la pigmentazione verde.

    Biodiversità

    Nel mondo ci sono almeno ancora 100mila piante da scoprire: ecco dove potrebbero essere

    di  Giacomo Talignani

    07 Ottobre 2024

    Ed è una questione di apparenza anche per una palma rampicante che cresce solo in tre località sull’isola del Borneo in Malesia. Malgrado fosse già conosciuta dalle popolazioni indigene, che ne raccoglievano i germogli e ne utilizzavano il legno, è rimasta finora in un cono d’ombra per gli studiosi. I locali la chiamano palma fantasma. Plectocomiopsis hantu, questo il nome scientifico, ha un’estetica elusiva, quasi trasparente, ed è difficile da riconoscere nella foresta pluviale: la pagina inferiore della foglia è del tutto bianca mentre gli steli sono grigi. Sul massiccio montuoso del Fouta-Djalon in Guinea, sempre in Africa occidentale, è stata scoperta un’erba che infrange molte regole della biologia vegetale. Le foglie di questa pianta, nominata Virectaria stellata, sono protette da peli a forma di stella mai visti prima in questa famiglia di piante ma comuni in un gruppo di specie nel genere Barleria che crescono nello stesso ambiente ma con cui non esiste nessun grado di parentela.

    L’ipotesi dei botanici è una forma di scambismo genetico: sembra che i geni per la produzione di peli stellati abbiano fatto uno spillover, un salto di specie, tramite insetti che si nutrono della linfa. Molte delle nuove specie scoperte quest’anno dai Kew sono liane delle foreste tropicali. A partire da Chlorohiptage vietnamensis, unica del suo genere ed endemica della giungla tropicale del Vietnam, di cui non si conosce ancora l’insetto impollinatore dei fiori di colore verde. Mentre il polline di Cheniella longistaminea, una nuova liana endemica della Cina meridionale a rischio estinzione, è trasportato dalle falene perché questa liana fiorisce solo di notte. Keita deniseae, una liana della foresta pluviale africana, attira gli insetti con il profumo delle cui foglie che emanano un forte aroma di marzapane. Tra le nuove specie descritte nel 2024 dai Kew Gardens e dai suoi partner internazionali ci sono anche 23 nuovi funghi. Rispetto al mondo vegetale il numero di specie ancora da scoprire è di gran lunga superiore: sarebbero tra i due e i tre milioni quelli ancora da descrivere. LEGGI TUTTO

  • in

    Feijoa, l’arbusto sempreverde che resiste alle temperature estreme

    L’arbusto sempreverde della feijoa o acca sellowiana ha origini brasiliane ed è appartenente alla famiglia delle Myrtaceae. La pianta è nota in Brasile anche con il nome di guayabo. Questo arbusto sempreverde può raggiungere un’altezza di 3 metri nel suo habitat naturale. In Italia conosciamo questa pianta poiché si presenta con una meravigliosa fioritura. È un arbusto ideale per la coltivazione in vaso, ma anche all’aperto perché in grado di resistere anche alle temperature più rigide e più calde.

    Le foglie della feijoa sono di colore grigio-verde, mentre i numerosi fiori di dimensioni medie si presentano in colore tra il bianco e il rosa e si possono osservare in giugno. In seguito alla fioritura, compaiono i frutti: questi sono caratterizzati da una scorza verde scura, mentre la polpa è bianca-gialla e con una consistenza gelatinosa. Al suo interno sono presenti anche tanti semi duri, grandi quanto quelli delle prugne. Si tratta di un prodotto commestibile, contraddistinto dal sapore che ricorda un ananas e una fragola. I frutti maturi si staccano dalla pianta tra il mese di ottobre e di novembre.

    Per prendersi cura correttamente della feijoa sellowiana è necessario selezionare in giardino o in terrazza un’area luminosa. È possibile utilizzare questa sempreverde come pianta ornamentale oppure come siepe, giacché resiste bene alla siccità e freddo rigido. La pianta può vivere bene grazie a una temperatura compresa tra i -7°C e i 40°C.

    La scelta del terreno
    Per quanto riguarda il miglior terreno per la coltivazione della feijoa o acca sellowiana è ideale selezionare un tipo di terriccio morbido, ricco e organico se sistemata in giardino. Se si decide di coltivare la pianta in vaso, si può sfruttare quello universale che riesce ad offrire tutto il necessario per una sana crescita della feijoa.

    Le annaffiature della pianta
    La feijoa o acca sellowiana, proprio come tante altre piante, non ama i terreni particolarmente bagnati. È fondamentale evitare i ristagni idrici poiché possono compromettere in maniera importante la salute della pianta. In generale, è comunque importante bagnare con regolarità il terreno, soprattutto durante la primavera poiché è il periodo della fioritura.

    La concimazione
    La concimazione della feijoa o acca sellowiana si può effettuare con il sopraggiungere della bella stagione: si può utilizzare del concime granulare tra la primavera-estate, così da contribuire attivamente ad una splendida fioritura. In alternativa, si può usare il concime liquido da mescolare all’acqua e da somministrare ogni 30-40 giorni.

    Come funziona la potatura
    Questo albero necessita, anche se di poco, di essere potato con l’arrivo dell’autunno. Il consiglio è di eliminare i rami morti o danneggiati solo dopo la raccolta dei frutti, così da favorire il rinnovo dei rami per l’anno successivo. È importante procedere con la potatura dei rami, germogli e polloni dal terzo inferiore del tronco della feijoa. In questo modo, si ottiene un buon lavoro!

    La propagazione tramite talea
    Ebbene sì, se si desidera avere più piante di feijoa è possibile ottenerle attraverso propagazione per talea. Naturalmente, è fondamentale avere pazienza poiché la difficoltà nell’ottenere una nuova pianta è moderata.

    Le malattie e i parassiti più comuni
    I parassiti sono il più grande pericolo per questa pianta: infatti, è soggetta all’invasione che comporta la comparsa di malattie. La pianta può incorrere in cocciniglia oppure nella comparsa della mosca della frutta che intacca proprio le bacche causando danni gravi. Le foglie possono essere attaccate anche dal fungo che le ricopre, proprio come gli steli e i ramoscelli. La muffa fuligginosa ricopre queste parti della pianta con una sostanza nera e appiccicosa. È importante non dimenticare che i ristagni idrici possono compromettere la salute della pianta e portare anche a un danneggiamento importante dell’apparato radicale della feijoa. LEGGI TUTTO

  • in

    Le giraffe non sanno andare in salita. “Grazie a questa scoperta ora possiamo proteggerle”

    Non amate le salite? Allora siete un po’… giraffe. Uno studio non ancora pubblicato ma presentato in anteprima al meeting annuale della British Ecological Society (BES) racconta infatti come l’iconico animale africano non sia in grado di tollerare, e dunque superare, determinate pendenze. Che le giraffe prediligessero territori estremamente piatti lo avevano già intuito gli stessi autori dell’analisi nel 2021 ma i risultati della nuova ricerca ci offrono uno sguardo più approfondito sulle difficoltà di questi mammiferi nel percorrere determinati terreni, una scoperta che può essere determinante nel campo della conservazione animale.

    Bisogna tenere conto che la popolazione delle giraffe, secondo la IUCN, Unione internazionale per la Conservazione della natura, in trent’anni è crollata di quasi il 40% e oggi al mondo ne restano appena 100mila esemplari. Aiutare questi animali a muoversi in habitat con caratteristiche ideali, e dunque non troppo collinari o influenzati da infrastrutture dell’uomo, è un dettaglio non da poco per permettere conservazione e ripopolamento. Quello che hanno scoperto la dottoranda dell’Università di Manchester Jessica Granweiler e alcuni colleghi dell’Università sudafricana di Free State è che le giraffe hanno una tolleranza massima a pendenze non superiori ai 20°: oltre, non riescono a spostarsi. Grazie ai radiocollari GPS circa 33 giraffe presenti in Sudafrica sono state monitorate durante i loro movimenti per mesi: tendono sempre ad evitare terreni ripidi e non sono in grado di attraversare pendii con pendenze superiori ai venti gradi, probabilmente – credono gli esperti – perché non hanno l’energia sufficiente per riuscirci senza il rischio di cadere.

    In media, le giraffe esaminate hanno dimostrato di avere una tolleranza intorno a salite di 12°, quelle che riescono a percorrere ma solo se spinti dal fattore chiave di trovare poi una vegetazione favorevole per alimentarsi. Pendenze ulteriori, come quelle dettate dalle opere dell’uomo, dalle colline o dai profondi letti dei fiumi che si possono trovare in aree della Savana, diventano un ostacolo per le giraffe, un limite da non valicare che frena i loro spostamenti o la ricerca di cibo. “Il nostro studio dimostra che le giraffe preferiscono di gran lunga le zone pianeggianti. Tollerano una certa pendenza per raggiungere il cibo, ma semplicemente non riescono ad accedere ad aree con pendenza superiore ai 20°. E questo è piuttosto scioccante quando si guardano le mappe di distribuzione delle giraffe” sostiene Granweiler, ricordando che “le giraffe sono animali tolleranti e resilienti a molti fattori, come la disponibilità di cibo e le pressioni umane, ma in questo caso potrebbero semplicemente non essere in grado di adattarsi a causa di limiti fisiologici”.

    Se si osservano le zone dove oggi vivono le giraffe, comprese parchi e aree di conservazione, emerge una grande discrepanza fra quelli che potrebbero essere gli habitat pianeggianti ideali per la specie e il reale territorio in cui vivono, un territorio spesso modificato dalle azioni dell’uomo. Se si parte dal limite dei 20° appare per esempio evidente come “in Namibia e Tanzania ci sono circa 8.000 chilometri quadrati di territorio che potrebbero essere inutilizzabili per le giraffe, ovvero quasi la metà della superficie del Galles”, oppure in “Kenya e Sudafrica aree di 4000 chilometri quadrati che risultano non ideali”. Il problema, spiegano gli esperti, è che dei Paesi mappati ed esaminati partendo da questa soglia di pendenza praticamente “uno su tre aveva più aree inutilizzabili nelle aree protette che al di fuori delle aree protette”. Quando le riserve protette sono recintate, oltretutto, le giraffe – già ostacolate dalle pendenze – non possono spostarsi ulteriormente alla ricerca di cibo. “Se una riserva è di 200 ettari, ma ha una grande montagna al centro, dal punto di vista di una giraffa questa riserva non è più di 200 ettari. Dobbiamo iniziare a includere la topografia nella pianificazione della conservazione delle giraffe e nelle valutazioni dell’habitat, specialmente per le piccole riserve recintate” ha spiegato Jessica Granweiler. Tenendo conto che le giraffe – presenti in 21 Paesi africani – sono già oggi minacciate a causa di perdita di habitat, bracconaggio, crisi del clima o conflitti con l’uomo, appare quindi evidente come i risultati dello studio possano essere decisivi per progettare meglio i territori in cui vivranno.

    Come spiega a Green&Blue l’etologa Chiara Grasso, l’informazione contenuta nel nuovo studio “è fondamentale per la conservazione. Parlando di giraffe pochi sanno che si tratta di una specie a rischio, che sta vivendo una estinzione silenziosa. Il primo rischio per loro è proprio legato alla perdita dell’habitat a causa dell’urbanizzazione dell’uomo: sapere come e dove conservare la specie è dunque estremamente importante”. Grasso, che lavora in Mozambico nella conservazione animale, spiega inoltre come “qui per esempio dopo guerre civili e conflitti, dopo periodi in cui si sono mangiati o venduti tutti gli animali, oggi finalmente si stanno implementando importanti progetti di ripopolamento e reintroduzione delle specie. Molti parchi ci stanno provando anche con le giraffe: avere l’informazione su che topografia è necessaria nei parchi di conseguenza è importantissimo, altrimenti perderemmo tempo, sforzi e soldi. Partendo dalla conoscenza sulle difficoltà nell’affrontare salite per le giraffe, si può migliorare e limitare l’impatto dell’urbanizzazione, per esempio quando si costruiscono infrastrutture, lodge, oppure strade. Devo realizzare un complesso? Meglio farlo in una collina anziché in zone pianeggianti in cui le giraffe si muovono senza problemi”.

    Inoltre, fa notare l’etologa, la questione pendenze potrebbe essere determinante anche in chiave “sociale” e “riproduttiva”. “Le giraffe – dice Grasso – sono una specie che ha una struttura sociale che si raggruppa e si separa a seconda della disponibilità delle risorse e dell’ampiezza dello spazio, non è estremamente territoriale, è una specie che si muove: quando si spostano dunque probabilmente anche l’inclinazione del terreno può essere un fattore che viene valutato dalle giraffe per decidere se frequentare o meno un’area e dunque se aggregarsi o meno in un determinato territorio e tutto ciò può incidere direttamente su fattori come socialità e opportunità di riproduzione”. LEGGI TUTTO

  • in

    Sigarette elettroniche, il governo britannico mette al bando i vapes monouso

    Ogni secondo nel Regno Unito tredici fumatori di sigarette elettroniche gettano via il proprio vaporizzatore. Più di un milione al giorno. Dove finiscono? Il più delle volte nel contenitore dell’indifferenziata dove se schiacciati causano anche incendi. Non bastavano quindi i mozziconi che ogni anno vengono lasciati sulle spiagge e le strade di tutto il mondo, […] LEGGI TUTTO

  • in

    Rischio tsunami in crescita nel Mediterraneo a causa della crisi climatica

    A causa del cambiamento climatico nei prossimi 50 anni la probabilità di tsunami nel Mediterraneo potrebbe registrare un incremento compreso tra il 10% e il30%. Con potenziali criticità per le coste più basse del Mare Nostrum, tra le più popolate al mondo. L’ultimo allarme arriva da due studi appena pubblicati sulla rivista internazionale Scientific Reports dal titolo “Including sea-levelrise and vertical land movements in probabilistic tsunami hazard assessment for the Mediterranean Sea” e nel volume edito dalla Elsevier intitolato “Probabilistic Tsunami Hazard and Risk Analysis”, a cui hanno collaborato i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.

    I riflettori dei ricercatori sono stati puntati sul previsto aumento del mare causato dal riscaldamento globale, combinato con i movimenti geologici costieri: un fenomeno in grado di accrescere il rischio e le conseguenze dei maremoti per le oltre 150 milioni di persone che vivono nelle aree costiere del Mediterraneo, un’area che sarà sempre più vulnerabile agli effetti del climate change. Per sviluppare modelli efficaci in grado di prevedere il rischio legato agli tsunami, i progetti europei Savemedcoasts2 e TSUMAPS-NEAM – entrambi coordinati dall’Ingv – sono così partiti dal calcolo dell’impatto dell’innalzamento del livello del mare, che attualmente è quantificabile sui circa 4 millimetri all’anno ma che è in accelerazione, come certificano le proiezioni fino al 2150 fornite dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), utilizzate per lo studio.

    “Il Mediterraneo è tra le aree più sismiche del pianeta”
    “Alla fine di questo secolo, il livello medio globale del mare potrebbe salire fino a circa 1,1 metri rispetto a oggi, a causa dello scioglimento dei ghiacciai dell’Antartide, Groenlandia e di quelli montani interni come Himalaya e Alpi e dell’espansione termica degli oceani che assorbono gran parte del calore che arriva sulla Terra”, spiega Marco Anzidei, ricercatore dell’Ingv, coautore dello studio e coordinatore del progetto Savemedcoasts2. “Abbiamo misurato i rischi crescenti per le popolazioni costiere – aggiunge – certificando un rischio maggiore per alcune aree, dalla Sicilia orientale alle coste del Nord Africa, fino al delta del Po, dove un’onda di maremoto in futuro potrebbe generare danni ben più consistenti rispetto a oggi”.

    Il riscaldamento globale non è causa diretta degli tsunami, dunque, ma ne può amplificare fatalmente le conseguenze. “I maremoti non sono fenomeni climatici estremi, ma si generano per l’improvviso spostamento di una grande massa d’acqua a causa di terremoti, eruzioni vulcaniche o frane. – aggiunge Anzidei – Il Mediterraneo è tra le aree a più alta sismicità del Pianeta e sapere che gli effetti di questa sismicità potranno essere, in un futuro prossimo, ancor più consistenti può aiutare i decisori politici”. Del resto, la storia di quest’area racconta di maremoti significativi, non ultimo quello che nel 1908 si riversò su Messina e Reggio Calabria, con vittime e danni ingenti.

    “Opere costiere di contrasto non sono la soluzione”
    “Nello studio abbiamo considerato anche come i movimenti geologici possano sommarsi all’innalzamento marino, aggravando il rischio nelle zone dove il suolo tende ad abbassarsi”, commenta Anita Grezio, ricercatrice dell’Ingv e prima autrice dello studio: sono dunque state integrate le analisi sui movimenti verticali delle coste, come la subsidenza, che amplificano gli effetti locali dell’innalzamento del livello del mare. “La nostra ricerca – conclude – fornisce nuovi strumenti per valutare il pericolo tsunami, integrando scenari futuri che tengono conto sia dei cambiamenti climatici che dei fenomeni geologici”, aggiunge. I ricercatori non forniscono soluzioni, se non – indirettamente – attraverso l’auspicio di un più efficace contrasto al cambiamento climatico. “Opere costiere che attutiscano l’effetto di possibili terremoti sarebbero soltanto palliativi – conclude Anzidei – tanto più perché il fenomeno dell’innalzamento dei mari è globale e non territorialmente limitato”. LEGGI TUTTO

  • in

    Juventus, le nuove sfide fuori dal campo per la sostenibilità

    TORINO. Si chiama Black, White & More ed è il nome dell’ambizioso piano ESG – ambientale, sociale e di governance – presentato ieri dalla Juventus. In una sala dell’Allianz Stadium di Torino la dirigenza, insieme specialisti e associazioni, ha svelato quello che è stato definito come “un passo significativo verso un futuro più sostenibile” nel rispetto dei valori dell’innovazione e dell’inclusione. Il presidente del cda Gianluca Ferrero ha confermato a Green&Blue l’obiettivo “di fare le cose per bene”, con uno spirito quasi da Vecchia Signora. Non a caso il Ceo Maurizio Scanavino ha ricordato che una delle sfide più importanti è proprio quella fuori dal campo: “Mettere a disposizione il marchio, la capacità di comunicazione per dare visibilità al tema della responsabilità sociale”.

    ESG è diventato un po’ un mantra in ogni settore, compreso il mondo del calcio, da quando è stata approvata la Corporate sustainability reporting directive (Csrd). Ovvero la direttiva europea (2022/2464) che a partire dal prossimo anno imporrà a ai club (e imprese) più importanti una rendicontazione più puntuale sulla sostenibilità. Da rilevare che la società bianconera redige una reportistica Esg dal 2013, ma quest’anno si è spinta oltre creando anche una struttura ad hoc. “La strategia Black, White & More, significa fare di più, azioni concrete. E il sociale è uno degli ambiti in cui possiamo avere più impatto. Perché abbiamo la capacità di comunicare direttamente con 180 milioni di persone, i nostri follower”, ha sottolineato Greta Bodino, Chief People, Culture & Sustainability Officer della Juventus.

    Un dato chiave è quello indicato da una recente ricerca di Deloitte che ha rivelato come il 75% dei tifosi di età compresa tra i 15 e i 24 anni sia disposto ad allontanarsi dal proprio club se questo non si dovesse impegnare nell’ambiente, il sociale e una corretta governance. “Se penso alla campagna sul razzismo oppure la salute mentale, i nostri stessi giocatori, che sono coetanei di quei ragazzi che domandano responsabilità, si sono fatti coinvolgere senza alcuna pressione. Sono loro che ci domandano di far parte di questo”, ha assicurato Bodino.

    E un esempio calzante di questa attività si è colto dalle testimonianze di Stefania Urso e Carla Chiarla della fondazione Magazzini OZ. Da anni si impegnano in percorsi di formazione e inserimento lavorativo per persone con disabilità, nonché il sostegno a famiglie in difficoltà. La collaborazione con la Juventus ha consentito di inaugurare nuovi sbocchi lavorativi e negli ultimi due anni due giovani hanno già trovato un valido inserimento.

    Felice Fabrizio, People & Sustainability Manager della Juventus, invece ha raccontato di come il miglioramento dell’esperienza di accessibilità rappresenti probabilmente una delle modalità di inclusione più immediate. Settori dedicati, percorsi agevolati per i disabili, biglietti gratuiti, postazioni per i cani guida, servizi audio-descrittivi sono solo alcune delle iniziative già adottate e tante altre arriveranno, perché l’obiettivo è “creare connessioni autentiche a prescindere dalla disabilità”.

    Black, White & More in dettaglio
    La Juventus ha declinato il suo progetto su sei pilastri: due dedicati all’ambiente, tre di carattere sociale e uno relativo all’organizzazione. Quest’ultimo è già stato avviato ad esempio con l’introduzione di un meccanismo di remunerazione, per i dipendenti e per il management, basato sulla riduzione dei consumi energetici. Fra le aspirazioni vi è anche quello di ottenere la certificazione di gender equality, soprattutto considerando il fatto che nell’indice del World Economic Forum l’Italia risulta all’87° posto su 146. “Negli USA ho notato un’attenzione particolare all’inclusione e maggiore rispetto a quella che abbiamo in Italia”, ha dichiarato in collegamento l’ex calciatore Giorgio Chiellini, oggi Head of Football Institutional Relations Juventus. “Sono orgoglioso che Juventus sia in prima linea, mi auguro non sia l’unica”.

    Sport e ambiente

    Europei 2024, Uefa: “Quella strategia ambientale è un modello da replicare”

    di  Fiammetta Cupellaro

    01 Novembre 2024

    Per quanto riguarda invece l’ambiente il partner di riferimento è la Scuola Superiore Sant’Anna e nello specifico il professor Tiberio Daddi, che negli anni grazie a diversi progetti europei ha potuto indagare sulla casistica internazionale legata al calcio. Per la Juventus in tal senso è il momento delle rilevazioni dei dati di impatto ambientale, l’implementazione di una strategia di intervento e soprattutto la costruzione di una seria progettualità. “Un match in media, stando ai dati internazionali, ha un impatto ambientale di circa 182 tonnellate di carbonio, se consideriamo tutto: dalla mobilità dei tifosi, ai consumi energetici degli impianti. Ogni squadra e stadio ha le sue specificità. Per prima cosa dobbiamo analizzarle. Ecco quale sarà il primo passo con la Juventus”, ha spiegato Daddi.

    Marco Tealdo, responsabile del progetto paralimpico Juventus One, invece ha raccontato di come l’idea di utilizzare il calcio come strumento di inclusione sociale sia diventato dal 2017, grazie alla Juventus, qualcosa di molto più serio e strutturato. La società fornisce risorse e mezzi tecnici. “Danno testa, cuore e gambe ai nostri atleti. Oggi sono quasi 150 e collaborano con noi 40 persone di vario titolo. Juventus One è diventato un riferimento imprescindibile per tutto il nostro territorio e tutte le nostre istituzioni. La nostra è comunque una proposta agonistica. Juventus One vuole insegnare che la disabilità non classifica come persone di serie b ma è una delle tante condizioni della vita, e non chiude le porte alla felicità. Juventus One dimostra che l’inclusione non è utopia ma una realtà in azione”, ha concluso Tealdo.

    I pilastri del progetto

    Emissions in the Corner – Proseguire e consolidare il proprio piano di decarbonizzazione riducendo le emissioni mediante: (a) l’autoproduzione di energia rinnovabile; (b) l’efficientamento energetico; (c) la promozione della mobilità sostenibile delle tifoserie;
    Assist to Circularity – Favorire il lancio di misure a supporto dell’economia circolare: (a) riducendo il consumo di acqua; (b) recuperando e riutilizzando beni e prodotti distribuiti agli eventi e nelle sedi del club;
    People First – Integrare i temi ESG nella cultura e nelle attività del club, garantendo sviluppo, engagement e benessere ai dipendenti;
    Sustainable Glocal Club – Diffondere i valori fondanti dello sport di equità e lavoro di squadra sia a livello globale che locale, mediante selezionate iniziative con alto impatto sociale sulle comunità locali e sui territori presidiati da Juventus attraverso vari progetti (ad esempio l’Academy);
    Fan Centrality – Creare un network coeso dove diversità, equità e inclusione uniscono tifosi, sportivi e partner. Il Club si impegna a: (a) potenziare il coinvolgimento dei fan club e, più in generale, di tutti i propri tifosi; (b) garantire ai fan piena accessibilità alle strutture sportive;
    Sustainable Leadership – Rinforzare la leadership del Club in ambito Integrated Governance: (a) presidiando il quadro normativo; (b) manutenendo il piano strategico ESG; (c) assicurando una (ri)generazione del valore economico sostenibile LEGGI TUTTO

  • in

    Batterie al sodio, l’alternativa al litio: pro e contro

    Era il 1980 quando il chimico statunitense John Goodenough inventò le batterie agli ioni di litio, vincendo il premio Nobel, insieme con Michael Stanley Whittingham e Akira Yoshino. Da allora questi accumulatori hanno iniziato a diffondersi in tutto il mondo e sono ancora oggi ampiamente utilizzati, per esempio, negli smartphone, nei computer, nei veicoli elettrici.
    Il litio tra pro e contro
    Il loro successo è motivato soprattutto dal fatto che il litio, un metallo duttile e malleabile, di colore bianco-argenteo, vanta un’alta densità di carica: in pratica, una batteria realizzata con questo elemento può contenere più energia rispetto a una dello stesso peso creata con un altro metallo. Nonostante ciò, i problemi non mancano, soprattutto per l’ambiente. La produzione di litio, la cui disponibilità è limitata, avviene principalmente nelle miniere in Australia e nelle saline ai confini tra Cile, Bolivia, Argentina. Come spiega New Scientist, in Sud America l’evaporazione delle salamoie comporta una perdita di circa 1,9 milioni di litri di acqua per tonnellata di metallo ottenuto, una quantità enorme che rischia di lasciare le comunità locali sprovviste di risorse idriche. Senza contare che al litio, nelle batterie, è poi associato il cobalto, un metallo estratto in Congo da minatori costretti a lavorare in condizioni disumane per pochi dollari al giorno.

    Mobilità

    L’auto elettrica non tira più, in crisi la startup delle batterie

    di  Gabriella Rocco

    02 Ottobre 2024

    Il sodio come sostituto
    Per questi motivi, gli esperti stanno cercando alternative al litio. Un valido sostituto parrebbe il sodio, un metallo alcalino abbondante nella crosta terrestre, che costituisce il componente principale del sale da cucina. Data la maggiore facilità di reperimento della materia prima, le batterie agli ioni di sodio hanno un costo inferiore a quello degli accumulatori al litio. Vantano, inoltre, una minore combustibilità, il che limita il rischio di incendi, e la capacità di funzionare anche a temperature più fredde (fino a -40 gradi) rispetto alle batterie tradizionali.

    Innovazione

    La batteria green che nasce dagli alberi. L’idea di un giovane colombiano

    di  Paolo Travisi

    22 Ottobre 2024

    Problemi irrisolti
    Tuttavia, sebbene siano migliorate, le nuove batterie non hanno ancora prestazioni equivalenti a quelle abitualmente in uso. In particolare, possiedono una minore densità energetica, cioè immagazzinano meno energia per unità di peso: una caratteristica che potrebbe renderle meno efficienti, limitandone l’impiego. Inoltre, alcuni prototipi utilizzano, oltre al sodio, altri metalli che necessitano di estrazione e fusione, come nichel e rame, mantenendo così alcune delle criticità degli accumulatori a base di litio. Ma la ricerca, in corso da anni, non si ferma, cercando di mettere a punto soluzioni sempre più valide.
    I passi avanti delle aziende
    Molte le imprese che si stanno cimentando nella sfida. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (International energy agency, Iea), la maggior parte si trova in Cina. Tra queste, una delle più importanti è Contemporary amperex technology (Catl), con sede a Ningde. C’è poi Byd che all’inizio del 2024 ha iniziato a costruire a Xuzhou, città a metà strada tra Pechino e Shanghai, il suo primo impianto di batterie di questo tipo, destinandole a e-bike e a veicoli a due o tre ruote.

    Energia

    Le batterie dei veicoli elettrici invecchiano meglio del previsto: 200mila km non fanno paura

    di  Dario D’Elia

    25 Novembre 2024

    In India, l’azienda Reliance Industries sta allestendo una gigafactory per produrre, entro la seconda metà del 2026, la nuova tecnologia, mentre, in Svezia, Altris sta avviando la produzione di un materiale agli ioni di sodio per le celle delle batterie. Nel frattempo, Natron Energy ha annunciato che costruirà un’enorme fabbrica di accumulatori al sodio nella Carolina del Nord, aumentando la sua attuale capacità produttiva di quaranta volte. Come dichiarato dall’azienda stessa, le batterie realizzate verranno utilizzate per l’accumulo di energia nei settori dei data center e delle telecomunicazioni. LEGGI TUTTO

  • in

    Lupo non più specie protetta, ambientalisti contro l’Ue

    Dopo “l’attenti al lupo” lanciato dall’Europa all’inizio di dicembre che ha revisionato il suo status di protezione passandolo da “specie strettamente protetta” a “specie protetta” scendono in campo cinque organizzazioni ambientaliste e per la protezione degli animali. Tra cui Green Impact (Italia), Earth (Italia), One Voice (Francia), LNDC Animal Protection (Italia) e Great Lakes and […] LEGGI TUTTO