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    Impatto ambientale e distruzione dei ghiacciai, anche il turismo deve essere sostenibile

    Il 2024 ha registrato in Italia 458,4 milioni di presenze turistiche negli esercizi ricettivi e per l’anno in corso questa cifra è destinata ancora salire. Un popolo di vacanzieri nostrani e stranieri arrivato in ogni angolo della Penisola dove ha mangiato, bevuto e dormito sfruttando al massimo quello che gli stava intorno, generando una spesa stimata in 62 miliardi di euro. Secondo Eurispes gli arrivi internazionali aumenteranno, nel mondo, di 43 milioni in media all’anno e raggiungeranno 1,8 miliardi entro il 2030. Di fronte a questa invasione il tema dei dibattiti nei Consigli comunali, nelle assemblee piccole e grandi di residenti e degli addetti ai lavori è come convivere e non essere fagocitati dalla gentrificazione delle città che cambiano sotto la spinta irrefrenabile del turismo che diventa “overturism”.

    Il programma

    G&B Festival 2025, dal 5 al 7 giugno a Milano: il programma

    20 Maggio 2025

    “Quello che sta accadendo con questo tipo di turismo non programmato, perché la linea viene dettata solo dagli imprenditori, è la trasformazione in luoghi inabitabili. Innanzitutto, perché i residenti schiacciati dai prezzi e dalle politiche degli affitti brevi non possono stare più in quei luoghi” sottolinea Cristina Nadotti, autrice di Il turismo che non paga (Edizioni Ambiente). Nel suo libro Nadotti racconta come questa importante voce dell’economia non abita ma consuma, generando “una ricaduta terribile sulle comunità dal punto di vista del consumo vorace di suolo, risorse e capitale naturale e tutto il valore aggiunto si concentra nella mani di pochi grandi gruppi”. Perché dei proventi delle attività economiche ai residenti arriva sempre una minima parte e alle amministrazioni ancor meno. E anche i servizi pubblici come assistenza sanitaria, raccolta rifiuti e controllo del territorio vanno in tilt. Perché con la sanità in ritirata e i tagli ai bilanci degli enti locali l’eredità di arrivi fuori controllo è un’enorme bolletta pubblica per garantire servizi essenziali a residenti e non.

    “Il turismo che non paga” (Edizioni Ambiente, 2025)  LEGGI TUTTO

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    Amianto: come riconoscerlo e come smaltirlo

    Materiale di origine naturale, anche noto come asbesto, l’amianto presenta una struttura cristallina, composta da fasci di fibre molto fini. Appartenente alla classe dei silicati, questo minerale si distingue per la sua notevole durata e la resistenza al calore e al fuoco, peculiarità che lo hanno reso ampiamente diffuso. Tuttavia, negli anni è stato scoperto come rappresenti una minaccia per la salute dell’uomo a causa del possibile rilascio di fibre microscopiche nell’ambiente che, se inalate, portano all’insorgere di gravi patologie, in particolare a carico degli organi respiratori. Da oltre 30 anni vietato, vista la sua pericolosità, è molto importante saper riconoscere l’amianto e come smaltirlo correttamente.

    Amianto: le caratteristiche e gli effetti dannosi
    L’amianto è un silicato dall’aspetto fibroso composto da fasci di fibre finissime. Il suo nome deriva dal greco “asbestos”, che significa “indistruttibile” o “che non si spegne mai”, riferendosi alla sua capacità di resistere al fuoco. Minerale naturale dalla struttura microcristallina, si può trovare sotto forma di eternit, composto di cemento-amianto.
    L’amianto si distingue per la notevole flessibilità: non infiammabile, è praticamente indistruttibile, resistendo a calore, fuoco, abrasione, usura e agenti biologici e chimici. Inoltre, è facilmente friabile, si lega con diversi materiali da costruzione e polimeri e racchiude proprietà termoisolanti e fonoassorbenti.

    In passato largamente diffuso, questo materiale ha trovato applicazione in diversi ambiti, come industrie, trasporti, tessuti, prodotti di consumo ed edilizia, per poi essere vietato dopo la scoperta della sua pericolosità. La fibrosità dell’amianto fa sì che rilasci le sue fibre sottilissime nell’ambiente: queste, se inalate, minano la salute, penetrando nei tessuti respiratori e generando patologie come mesotelioma, ispessimenti pleurici diffusi, placche pleuriche, asbestosi e cancro ai polmoni, alla laringe e alle ovaie.

    L’amianto è ritenuto cancerogeno e la sua produzione, commercializzazione, importazione ed esportazione sono state vietate. In Italia è la Legge 257/92 che stabilisce il divieto del suo uso e dei prodotti in cui è contenuto e norme relative alla sua dismissione: emanata il 27 marzo del 1992, questa ha anticipato di 13 anni il divieto introdotto successivamente dall’Unione Europea.

    Come riconoscere l’amianto
    Per tutelare la salute è fondamentale rimuovere e smaltire l’amianto tempestivamente: vista la sua pericolosità è cruciale saperlo riconoscere e intervenire subito. Ancora oggi nascosto in numerosi vecchi edifici e impianti, per determinare la sua presenza bisogna tenere conto di una serie di aspetti che vengono in aiuto nella sua identificazione.

    In particolare, per ispezionare in modo ottimale un materiale sospetto bisogna tenere conto della forma in cui l’amianto si mostra. L’asbesto può trovarsi in una matrice friabile, che si riduce facilmente in polvere, rilasciando le sue fibre nell’ambiente, impiegata in passato per esempio in pannelli isolanti e rivestimenti per pavimenti. Il minerale può avere anche una matrice compatta, diffusa in facciate, tubature e lastre ondulate di tettoie e rivestimenti, tipologia che richiede attrezzi meccanici per essere ridotta in polvere. Inoltre, l’asbesto può essere anche allo stato puro, sotto forma di corde, tessuto oppure materiale di riempimento.

    L’amianto è composto da fibre, più sottili di un capello, che appaiono sotto forma di ciuffi: un elemento che può essere di aiuto nella sua individuazione è la colorazione del materiale esaminato. Per esempio può sollevare sospetti il bianco, tipico del crisotilo, amianto in passato usato spesso in pavimenti, impianti, soffitti e pareti. Anche il blu può generare dubbi, essendo distintivo della crocidolite, uno degli amianti più pericolosi, come anche il marrone, tipico dell’amosite, che si trova in lastre di cemento e dei tubi. L’amianto può essere anche grigio, associato alla tremolite e usato in materiali isolanti e rivestimenti a spruzzo, e verde, quando è sotto forma di actinolite. Bisogna sottolineare, tuttavia, come la colorazione possa non essere un elemento affidabile in quanto le fibre dell’amianto in molti casi sono mescolate con materiali diversi, che possono alterarne le tonalità.

    Un fattore da non sottovalutare poi è l’anno di costruzione dell’edificio o del materiale preso in esame, dovendo consultare la documentazione relativa se disponibile. Se risale a prima della Legge 257/1992 è possibile che sia stato impiegato l’amianto per la sua realizzazione e che ne siano presenti ancora oggi tracce.

    Amianto e il suo smaltimento: cosa sapere
    Capire se si è in presenza o meno di amianto può non essere semplice ed è necessario affidarsi a esperti del settore per farlo. Quando l’amianto è compatto si deve attuare un’ispezione, seguita da una valutazione del rischio. Si procede poi con un intervento di bonifica, grazie al quale smaltire in sicurezza il materiale affidandosi a professionisti esperti: questa operazione è molto complessa, richiede il rispetto delle norme vigenti (facendo riferimento alla Legge 257/1992) e prevede diverse tipologie di intervento. Tra queste rientrano l’incapsulamento, attuato ricorrendo a prodotti specifici per sigillare le fibre, evitando così che si disperdano nell’ambiente, e il confinamento, isolando il materiale tramite controsoffittature e sovracoperte. Altra possibilità è la rimozione, con cui eliminare del tutto il materiale, opzione che comporta l’invio di una notifica all’organo di vigilanza territorialmente competente. Questa procedura è obbligatoria nel caso in cui il materiale sia gravemente danneggiato. L’attuazione di una strada piuttosto che un’altra dipende da diversi fattori, come ad esempio lo stato in cui verte l’amianto e le sue peculiarità.

    In presenza di amianto friabile è necessario darne subito comunicazione alla propria Asl di riferimento per avviare il processo di smaltimento, rivolgendosi a una ditta autorizzata che si occuperà della sua gestione, nel rispetto della normativa vigente, trasportandolo in discariche autorizzate, disposte per trattare materiali pericolosi, in cui viene smaltito seguendo rigorosi protocolli di sicurezza, evitando contaminazioni e tutelando la salute pubblica.
    Durante le operazioni di rimozione dell’amianto dovranno essere messe in atto tutte le misure di sicurezza del caso, isolando l’area per evitare la dispersione delle fibre del materiale, e i lavoratori che si occupano di questo intervento dovranno munirsi di dispositivi di protezione. I materiali che contengono amianto vengono sigillati in contenitori ad hoc ed è necessario tracciarli, etichettandoli correttamente.

    Amianto, dove si trova
    Nonostante sia vietato da oltre 30 anni, l’amianto resta ancora oggi un problema per via delle esposizioni passate e delle sue tracce residue presenti in abitazioni e industrie, rappresentando una minaccia per la salute dei cittadini. Se negli ultimi anni è stato messo in atto un massiccio lavoro di smaltimento del materiale, c’è ancora molto da fare.

    In passato utilizzato come rivestimento e isolante, l’amianto può trovarsi in costruzioni risalenti a prima del 1992. Nelle abitazioni può nascondersi ad esempio in stufe, impianti idraulici, elettrici e di riscaldamento, soffitti, solai, coperture, condotte, canalizzazioni, serbatoi, cisterne d’acqua, canne fumarie, intonaci e tubazioni. Inoltre, può essere presente in recinzioni, garage, box e coperture. Nelle industrie può trovarsi in diverse componenti, macchinari e attrezzi e le sue tracce possono celarsi anche in imballaggi, materiali plastici e tessuti. LEGGI TUTTO

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    Permacultura: cos’è, come si pratica e quali sono i vantaggi

    Un sistema di progettazione agricola che si ispira ai principi della natura: questo è la permacultura, il cui obiettivo ultimo è creare ambienti sostenibili, produttivi e resilienti, che richiedono poca manutenzione e impattano positivamente sull’ambiente. Ma come si mette in pratica esattamente? Cosa si deve fare? E perché? Quali sono i vantaggi?

    Cos’è la permacultura
    Come detto, la permacultura è un approccio all’agricoltura e alla progettazione degli spazi verdi che cerca di imitare i principi e i modelli presenti in natura. Il termine “permacultura” deriva infatti dalla fusione delle parole “permanente” e “agricoltura”, ma il concetto va oltre l’agricoltura e si applica anche all’edilizia, all’organizzazione sociale e alla gestione delle risorse.

    I principi fondamentali della permacultura sono tre: la cura della Terra (proteggere e rigenerare l’ambiente naturale), la cura delle persone (per promuovere il benessere umano e la comunità) e la condivisione dei benefici (per distribuire in modo equo le risorse e garantire così un equilibrio).

    Come si pratica la permacultura
    Attenzione però: la permacultura non è soltanto una tecnica agricola, ma un vero e proprio approccio olistico alla vita. In questa pratica risulta fondamentale infatti la progettazione del territorio: prima di coltivare si parte sempre dall’osservazione del terreno e del territorio. Prima di piantare, è importante capire dove: come si comportano il clima, il terreno e le risorse naturali come l’acqua e il sole. Questo permette di progettare giardini e orti che sfruttano al meglio le caratteristiche naturali del luogo.

    Diversità e policoltura sono altri principi cardini della permacultura, che vive della diversità di piante e animali. Invece di coltivare una sola specie (monocoltura), si deve cercare sempre di mescolare varie colture, creando piccoli eco-sistemi complessi che si auto-sostengano. Questo aumenta la resilienza del sistema, riducendo il rischio di malattie e parassiti.

    Molto importante, dunque, un uso efficiente delle risorse: le tecniche di irrigazione della permacultura sono progettate per ridurre al minimo gli sprechi, utilizzando anche materiali locali e naturali per costruire strutture come serre o compostiere. Inoltre l’energia viene utilizzata in modo razionale, spesso ricorrendo a fonti rinnovabili come il solare o il vento.
    Tutto ciò favorisce il ciclo dei nutrienti nel sistema di permacultura. Le piante vengono scelte in modo che possano scambiare risorse tra loro: i rifiuti organici, come gli scarti di cucina, vengono utilizzati per creare compost, che a sua volta nutre il terreno.
    I vantaggi della permacultura
    Numerosi, come potrete immaginare, i vantaggi della permacultura: primo fra tutti la sostenibilità ambientale, promossa attraverso l’uso di risorse rinnovabili e la riduzione l’impatto negativo sull’ambiente. Evitando l’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici, tale approccio all’agricoltura contribuisce a mantenere la biodiversità e a proteggere il suolo e le falde acquifere.

    Una delle caratteristiche più attraenti della permacultura, poi, è l’autoproduzione: la possibilità, cioè, di prodursi da soli e in autonomia il cibo in modo sostenibile. Con una corretta progettazione anche in spazi ridotti come balconi o giardini urbani possono essere utili: in tali luoghi è possibile coltivare frutta, verdura e piante aromatiche, riducendo la dipendenza dai prodotti industriali.

    Un ambiente dedicato alla permacultura è anche molto forte e resistente alle avversità climatiche. Ad esempio, i giardini di permacultura sono progettati per trattenere l’acqua e migliorare la qualità del suolo, rendendo le piante più resilienti alla siccità, alle piogge abbondanti e a tutti i cambiamenti climatici.

    Un sistema simile, inoltre, anche se inizialmente può sembrare un approccio impegnativo, permette di ridurre i costi nel lungo periodo. La necessità di acquistare meno fertilizzanti, pesticidi e acqua è notevole e si riflette in meno soldi spesi. Inoltre, l’autoproduzione di cibo già citata aiuta a risparmiare sulle spese alimentari.

    Il tutto si traduce, insomma, in un globale miglioramento della qualità della vita:
    come già detto praticare la permacultura non riguarda solo l’ambiente, ma anche le persone. L’approccio olistico promuove stili di vita più sani, sostenibili e in armonia con la natura. Le persone che praticano la permacultura tendono a sviluppare un senso di comunità e di collaborazione migliorando il loro benessere sociale.

    La permacultura, in conclusione, rappresenta una pratica che offre numerosi vantaggi a livello ambientale, personale ed economico. Se sei interessato a un’agricoltura sostenibile e a uno stile di vita più ecologico, tale approccio può essere la soluzione giusta per te. E non importa se vivi in città o in campagna: con le giuste tecniche, è possibile applicare i principi della permacultura anche in piccoli spazi. La chiave del successo è l’osservazione, la progettazione e la gestione consapevole delle risorse. Se ti stai avvicinando a questa filosofia, ricorda che ogni piccolo passo verso la sostenibilità è importante. La permacultura è un viaggio che porta beneficio a te, alla tua comunità e al nostro pianeta. LEGGI TUTTO

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    Il guano di pinguino aiuta a contrastare la crisi del clima in Antartide

    L’ammoniaca rilasciata dal guano dei pinguini potrebbe contribuire a ridurre gli effetti del cambiamento climatico in Antartide, contribuendo ad aumentare la formazione di nubi. Questo curioso risultato emerge da uno studio, pubblicato sulla rivista Communications Earth & Environment, condotto dagli scienziati dell’Università di Helsinki.

    Il team, guidato da Matthew Boyer e Mikko Sipila, ha analizzato una colonia di pinguini di Adelia, scientificamente noti come Pygoscelis adeliae. Gli ecosistemi antartici, spiegano gli esperti, stanno subendo pressioni significative a causa dei cambiamenti climatici di origine antropica. Tra questi, una recente tendenza alla riduzione dell’area coperta dal ghiaccio marino.

    I pinguini, aggiungono gli autori, sono specie chiave nell’ecosistema antartico, il cui habitat è minacciato da questa continua perdita di ghiaccio. Questi teneri animali sono inoltre anche i principali emettitori di ammoniaca nella regione. Tale sostanza può favorire la formazione di nubi, reagendo con i gas contenenti zolfo e aumentando la creazione di aerosol, particelle che forniscono al vapore acqueo una superficie su cui condensare, portando alla formazione di nubi.

    Crisi climatica

    Copernicus: mai così poco ghiaccio ai poli

    a cura della redazione di Green&Blue

    06 Marzo 2025

    Le nubi risultanti possono agire come strati isolanti nell’atmosfera, contribuendo spesso a ridurre le temperature superficiali e di conseguenza influenzando l’estensione della copertura di ghiaccio marino. Nell’ambito dell’indagine, i ricercatori hanno misurato la concentrazione di ammoniaca nell’aria in un sito vicino alla Base Marambio, in Antartide, tra il 10 gennaio e il 20 marzo 2023.

    I risultati hanno mostrato che quando il vento soffiava dalla direzione di una colonia di pinguini formata da circa 60mila esemplari a circa otto chilometri di distanza, la concentrazione di ammoniaca aumentava fino a 13,5 parti per miliardo, oltre 1.000 volte superiore al valore di base. Anche dopo la migrazione dei pinguini dalla zona verso la fine di febbraio, la concentrazione di ammoniaca era ancora oltre 100 volte superiore al valore di base, dato che il guano dei pinguini continuava a emettere gas. Per confermare che l’aumento della concentrazione di ammoniaca influisse sulla concentrazione di particelle di aerosol, gli autori hanno registrato diverse misurazioni atmosferiche aggiuntive in un unico giorno. Quando il vento soffiava dalla colonia di pinguini, il numero e le dimensioni delle particelle di aerosol registrate nel sito aumentavano drasticamente.

    I risultati, commentano gli esperti, suggeriscono che il guano di pinguino potrebbe contribuire a ridurre gli effetti del cambiamento climatico sugli ecosistemi antartici. Il lavoro, concludono gli scienziati, evidenzia l’importanza e i benefici della protezione degli uccelli marini e dei loro habitat dagli effetti del cambiamento climatico. LEGGI TUTTO

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    SOS orchidee: in Italia 240 specie ma non le proteggiamo abbastanza

    Dalle Alpi agli Appennini l’Italia è uno dei paesi europei più ricchi di orchidee e proprio per la sua elevata biodiversità orchidologica risulta essere un centro unico nel panorama mediterraneo. Nella Penisola se ne contano ben 240 e di queste circa un quarto di esse è costituito da specie endemiche. Oggi, però, le orchidee selvatiche sono sempre più rischio a causa della crisi climatica, delle attività antropiche, delle trasformazioni del paesaggio e dal commercio illegale. Tra quelle più minacciate, si va ad esempio dalla Scarpetta di Venere (Cypripedium calceolus) quasi scomparsa dalle Alpi occidentali al Barbone adriatico (himantoglossum adriaticum) alla splendida e rara Ofride specchio (Ophrys speculum), all’orchidea Orchis patens. Estinta in Sardegna, nel 2025, l’orchidea palustre Dactylorhiza elata subsp. Sesquipedalis, era presente in provincia di Nuoro. Negli anni ’80 se ne contavano una trentina, nel 2010 si è passati a 10 esemplari, a 3 nel 2020, per scomparire del tutto nel 2025.

    (foto: Maria Rosaria Cesarone/Legambiente)  LEGGI TUTTO

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    Decreto CER: le novità sui contributi per le Comunità energetiche rinnovabili

    Contributi PNNR per le Comunità energetiche cumulabili per intero con le detrazioni fiscali, anche per le Comunità che hanno già fatto domanda per ottenere i fondi. Accesso ai contributi non più limitato ai piccoli ma esteso a quelli di medie dimensioni. Possibilità di ottenere un anticipo fino al 30% per realizzare gli impianti, e più tempo per la loro entrata in funzione. Le novità grazie al decreto del Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica firmato il 16 maggio scorso che modifica le norme sulle Cer.

    Più ampia la platea dei beneficiari
    Il decreto Cer prevede l’erogazione di un contributo a fondo perduto per la realizzazione degli impianti fotovoltaici al servizio delle Comunità energetiche. I contributi coprono fino al 40% dei costi sostenuti e sono erogati dal Gse. Fino ad ora la possibilità di accedere al finanziamento a fondo perduto è stata limitata ai piccoli Comuni, ossia alle Cer costituite in quelle fino ai 5.000 abitanti. Con le nuove norme, invece, possono accedere alla misura anche le Comunità energetiche costituite nei Comuni con una popolazione fino ai 50.000 abitanti.

    Anticipo più alto e più tempo per avviare gli impianti
    Con le modifiche introdotte diventa anche più facile anche ottenere i fondi per avviare il progetto. Sale infatti dal 10% al 30% l’ammontare dell’anticipo che potrà essere richiesto al Gse per finanziare la realizzazione del nuovo impianto, e ci sarà più tempo per completarlo. In base alle nuove regole, infatti, gli impianti devono entrare in esercizio entro 24 mesi dalla data di completamento dei lavori e per questo ci sarà tempo fino al il 31 dicembre 2027. Finora invece il termine era fissato al 30 giugno 2026. Resta confermata al momento la data del 30 novembre 2025 per la presentazione delle domande sul sito del Gse.

    Stop retroattivo al taglio delle detrazioni
    Altra novità di rilievo destinata a rendere più vantaggiosa la costituzione della Cer riguarda il cumulo delle agevolazioni. Con il nuovo decreto è stato infatti eliminato il vincolo che prevedeva la riduzione del 50% dell’importo delle detrazioni fiscali per i soggetti, comprese le persone fisiche, beneficiari del contributo a fondo perduto. Questo veniva considerato solo parzialmente cumulabile con la detrazione Irpef del 50% riconosciuta in generale per la realizzazione degli impianti a fonti rinnovabili, che veniva quindi proporzionalmente ridotta in funzione dell’ammontare del contributo incassato. L’eliminazione del divieto parziale di cumulo, per espressa indicazione del decreto, si applica in maniera retroattiva, vale a dire anche alle domande di contributo già presentate. Potranno quindi contare sulle detrazioni senza tagli anche i partecipanti alle Cer che hanno già avviato i lavori. Il decreto, comunque, è stato trasmesso alla Corte dei Conti per i controlli di competenza ed entrerà in vigore il giorno successivo alla pubblicazione sul sito istituzionale del Ministero.

    Più facile costituire una Comunità energetica rinnovabile
    La riforma del decreto Cer si aggiunge alle novità introdotte dal decreto Bollette, destinate a rendere più facile la costituzione delle Comunità energetiche. È stata prevista infatti l’estensione della platea dei soci o membri delle comunità, che ora comprende persone fisiche, PMI, anche partecipate da enti territoriali, associazioni, aziende territoriali per l’edilizia residenziale, istituti pubblici di assistenza e beneficenza, aziende pubbliche per i servizi alle persone, consorzi di bonifica, enti e organismi di ricerca e formazione, enti religiosi, enti del Terzo settore, associazioni di protezione ambientale e le amministrazioni locali. LEGGI TUTTO

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    Gli effetti della desertificazione sul PIL: fino al 10% in meno nelle aree più colpite

    Intere aree del mondo si stanno desertificando. L’ambiente come abbiamo imparato a conoscerlo, negli ultimi anni sta cambiando, in modo rapido e visibile non solo agli occhi degli scienziati. Spesso anche agli occhi di ognuno di noi. Non è solo la Sicilia, una delle regioni più calde d’Europa, ad essere esposta ai cambiamenti climatici con effetti facilmente visibili. Solo un esempio. A giugno dello scorso anno, il fiume italiano per eccellenza, il Po, è tornato ai livelli record di magra del 2022. La desertificazione è ovunque. E minaccia la crescita economica di molti paesi del mondo, oltre che rappresentare una minaccia per l’ambiente.

    Uno studio italiano condotto da Marco Percoco dell’Università Bocconi, insieme a Maurizio Malpede dell’ateneo di Pavia, dal titolo Desertification, crop yield and economic development: a disaggregated analysis, ha svolto un lavoro enorme, analizzando i dati climatici e socioeconomici su scala planetaria, con l’obiettivo di misurare la crescente aridità del suolo ed il suo impatto sull’economia reale. Ovvero, il legame tra PIL pro capite – in oltre 60.000 aree geografiche – e desertificazione.

    “La desertificazione non dobbiamo pensarla come il deserto che avanza, ma è la capacità del terreno di trattenere l’acqua, i nutrienti, per cui di fatto stiamo parlando di una sorta di sterilità dei terreni che diventano meno produttivi per l’agricoltura, soprattutto per quelle colture che hanno bisogno di più acqua” spiega Percoco, professore associato del Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università Bocconi. D’altronde, solo per citare un esempio numerico, i raccolti di grano in Spagna sono crollati del 60% rispetto alla media, mentre in Marocco intere aree rurali sono state abbandonate per la mancanza d’acqua. Da paesi lontani dai nostri orizzonti, come la Mongolia fino alla nostra Sicilia, la terra continua a produrre fratture del suolo. Possiamo vedere le cicatrici di quello che sta accadendo, anno dopo anno.

    “Nelle scienze sociali si studia il cambiamento climatico soprattutto in termini di fenomeni estremi, maremoti, alluvioni, che ci danno la dimensione catastrofica del cambiamento climatico. Molto spesso però ci perdiamo quel cambiamento climatico che avviene tutti i giorni, un fenomeno inesorabile che ci porterà verso l’aumento di 2°C entro 2040. Ma la desertificazione è diversa rispetto alla siccità, non necessariamente i due fenomeni sono correlati. L’Italia è molto più esposta alla desertificazione che non a fenomeni estremi, come la siccità, benché in Sicilia sia evidente, seppur meno grave rispetto a quella che si registra nell’Africa subsahariana o nell’Asia centrale”, aggiunge Percoro.

    La progressiva desertificazione avrà un impatto negativo certo sulla produttività agricola meridionale, e a livello di reddito, il Sud potrebbe allontanarsi ancora di più dal PIL del Nord Italia. “Stiamo vedendo su scala micro, in Italia, un fenomeno che è presente a livello globale. Il cambiamento climatico ha un impatto maggiore sull’economia più povera rispetto a quelle più ricche, anche perché quelle più ricche sono in una zona climatica diversa, quindi si avvantaggiano di produttività più alta e capacità di risposta migliore e clima più mite”.

    Lo studio dei due italiani si basa su un dataset disaggregato a livello mondiale, che ha raccolto oltre 1,6 milioni di osservazioni nel periodo 1990–2015. Incrociando dati climatici, come precipitazioni, temperature e livelli di evapotranspirazione, con indicatori economici e agricoli, Percoco e Malpede hanno sviluppato l’Aridity Index, l’indice di aridità, una misura composita della desertificazione. “Il nostro programma di ricerca è durato diversi anni, grazie al finanziamento della Fondazione Invernizzi, con cui abbiamo messo insieme una banca dati molto grande e dettagliata su scala globale a livello di cella, con variabili di dettaglio fino a 1 km per 1 km, cioè dei piccoli quadrati di aree del mondo” sottolinea Percoco, “dopodiché abbiamo studiato i dati con tecniche econometriche, che ci hanno consentito di mettere in relazione delle variabili, tra cui il PIL pro capite piuttosto che la produttività dell’agricoltura in quella cella specifica”. Il legame tra desertificazione ed economia passa dunque, in larga parte attraverso l’agricoltura. In Africa, ad esempio, un aumento della produttività agricola di un solo punto percentuale si associa a un incremento medio dello 0,07% del PIL locale. È stato verificato che il calo della resa agricola è uno dei principali canali attraverso cui l’aridità danneggia la crescita. Ma questo fenomeno non riguarda più solo le economie fragili.

    “Abbiamo riscontrato effetti rilevanti anche in alcune regioni europee, come la Spagna e la Grecia, oltre al nostro Meridione, che mostrano segnali crescenti di desertificazione”, sottolinea Percoco. Ma non è ancora tutto. Lo studio prevede che l’indice di aridità medio globale continuerà a scendere fino al 2040 e che il numero di celle terrestri classificate come aride o iperaride aumenterà del 16%, toccando 21.000 aree su scala globale. Gli impatti più forti in Arica occidentale, nel Sud-est asiatico, in particolare Vietnam, Cambogia ed India centrale, America centrale e settentrionale, ed anche l’area mediterranea europea, di cui l’Italia fa parte. Nell’Africa sub-sahariana si stima che il reddito pro capite possa diminuire fino al 10%, senza adeguate politiche di migrazione.

    Infatti, oltre il fattore economico, lo studio per la prima volta al mondo ha evidenziato il collegamento tra desertificazione e migrazioni locali, non solo sulle lunghe distanze. “Sono soprattutto gli uomini che emigrano dalle campagne verso le città meno interessate della desertificazione. E questo potrebbe avere un effetto ancora più avverso sul cambiamento climatico, perché se la popolazione si riversa dalle campagne verso le città non è detto che le emissioni di CO? si riducano”.

    È opinione di una certa corrente scientifica che densificare la popolazione nelle città, produca maggiore efficienza energetica, quindi riduca l’impatto delle persone, ma “non ne siamo convinti, perché quando ci si sposta in ambienti urbani cambiano le abitudini di consumo, e quindi in realtà consumando molto di più rispetto a quando si è nelle campagne emettiamo molto di più in termini di carbonio e quindi incidiamo molto di più sul cambiamento climatico”, sostiene il docente della Bocconi. Ci troviamo davanti ad un paradosso: il cambiamento climatico provoca la desertificazione, quindi la migrazione dalle campagne alle città, che non fa che aumentare ancora il cambiamento climatico.

    Ma aridità significa anche meno acqua per uso domestico e industriale, maggiore insicurezza alimentare, ed un impatto possibile anche su altri settori che sono legati all’agricoltura. “La contrazione del PIL non è dovuta solo alla minore produzione agricola, ma ai salari che vengono pagati ai lavoratori della terra che consumeranno meno, con effetti intersettoriali su tutta l’economia” conclude Percoco, che auspica un cambio di paradigma, in cui misurare e mitigare l’impatto della desertificazione deve diventare una priorità per la politica economica e climatica. LEGGI TUTTO

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    Bertrand Piccard, un esploratore al servizio della lotta per l’ambiente

    Di sfide estreme appassionato da sempre e ne ha affrontate, e vinte, tante. Forse per questo che Bertrand Piccard ha deciso di cimentarsi in un’altra battaglia che molti ritengono impossibile ma che va necessariamente vinta: la difesa di un pianeta sempre pi minacciato dalle attività degli umani. Piccard la chiama “esplorazione al servizio della sostenibilità” ed convinto che possa essere un tassello importante per spingere il mondo verso la transizione ecologica. “Grandi sfide attendono l’umanità — dice — sfide che apriranno la scienza a nuovi orizzonti: ma l’obiettivo non sarà tanto la conquista di territori sconosciuti, quanto riuscire a preservare il Pianeta di fronte alle minacce che incombono, per poterci vivere meglio”.

    L’esplorazione il filo rosso che lo collega al nonno Auguste e al padre Jacques, il primo a scendere con un batiscafo nella Fossa delle Marianne a 11 mila metri di profondità, peraltro scoprendo un pesce laddove si credeva ci fosse il deserto e che con questo bloccò lo sversamento di rifiuti tossici e radioattivi negli oceani. Bertrand all’esplorazione classica del XX secolo aggiunge l’impronta ecologica e così il 27 luglio 2016, a poco pi di un anno dalla partenza, atterra ad Abu Dabi con Solar Impulse, un aereo a propulsione solare “senza nemmeno una goccia di carburante”, smentendo tutte le previsioni. “Quando presentai questo progetto al mondo dellaviazione – racconta – impiegarono 6 minuti per dirmi che era impossibile”.

    Oggi commenta:

    Il pubblico pronto a entusiasmarsi per grandi avventure. Un aereo a propulsione solare che vola fino a completare il giro del mondo senza carburante era un simbolo potente. Se era possibile fare a meno dei combustibili fossili in cielo, nessuno avrebbe pi potuto sostenere che fosse impossibile farlo a terra, nella nostra società, per le nostre macchine, le nostre case.

    Ma da buon esploratore Piccard non si fermato qui. Ha deciso di fare un ulteriore passo in avanti con Climate Impulse, una nuova sfida tecnologica e umana: il giro del mondo, senza scali e senza emissioni, a bordo di un aereo alimentato a idrogeno. “Il Climate Impulse non è solamente un aereo, una prova di futuro – spiega – l’obiettivo è stimolare entusiasmo in favore di tecnologie pulite, che consentano di risparmiare energia, e generare emozioni positive intorno alle rinnovabili. Bisogna attirare l’attenzione sui cambiamenti indispensabili per assicurare il futuro energetico ed ecologico del nostro pianeta, dare un’immagine positiva e stimolante della difesa dell’ambiente, dimostrare che fonti di energie alternative, alleate a nuove tecnologie, possono consentire risultati che sembrano impensabili in partenza”.

    Ottimismo e consapevolezza. “Questi voli – continua l’esploratore – sono dei simboli: improbabile che un giorno un aereo a propulsione solare possa trasportare 300 passeggeri o che ci sia bisogno di fare il giro del mondo senza scali. Ma sono simboli che riguardano tutti. Perché in fondo non siamo tutti, qui sulla Terra, nella situazione del pilota del Solar Impulse o del Climate? Se questi apparecchi non hanno le tecnologie giuste, o sperperano la loro energia, non saranno in grado di realizzare la loro missione. E se noi non investiremo nei mezzi scientifici che consentono di sviluppare nuove fonti di energia, se i nostri politici e i nostri industriali continueranno a non avere capacità di visione, ci ritroveremo in una crisi gravissima, che ci impedir di trasmettere il pianeta alla prossima generazione”.

    Utopie? Non per Piccard che di smentire abitudini stratificate ha fatto uno stile di vita: “Non più dell’idea di lanciare un programma spaziale per mandare uomini sulla Luna all’inizio degli anni 60. Ma per intravedere una possibilità di successo bisogna trasformare in un’avventura grande ed entusiasmante quello che tanti vedono come un fastidioso obbligo di rinunciare alle loro certezze e alle loro abitudini”.

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