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    Il polline protegge le api da miele dalle malattie e da virus mortali

    Pesticidi, cambiamenti climatici, perdita del proprio habitat. Sono alcuni dei pericoli che corrono le api da miele, Apis mellifera. Un mix di fattori, di cui il responsabile – neanche a dirlo – è proprio l’uomo. Questi insetti, indispensabili per l’ecosistema e per quel prodotto “miracoloso” che è il miele, rischiano di venire decimati e di colpire duramente l’economia agricola. Negli Stati Uniti, infatti, dove è stato condotto lo studio di cui stiamo per raccontarvi, il processo di impollinazione contribuisce per circa 30 miliardi di dollari all’anno al settore agricolo. Ma tornando ai pericoli, ancora una volta è la natura ad aver trovato in se stessa le armi per difendersi. Una delle ultime ricerche, infatti, avrebbe scoperto che il segreto per salvare le api, si nasconde nel cibo: il polline.

    Gli scienziati, infatti, hanno scoperto che il polline contiene una sorta di medicina naturale, batteri simbiotici chiamati Streptomyces che producono composti antimicrobici in grado di combattere e neutralizzare i patogeni mortali delle api e delle piante. Le api raccolgono i batteri insieme al polline, e li immagazzinano negli alveari, creando un sistema di difesa naturale. Grazie al polline, creano uno schermo protettivo che consente loro di difendersi da pericolose infezioni.

    Fino ad oggi gli specialisti di api contano più di 30 parassiti che possono aggredire le api da miele: protisti, organismi unicellulari come la Nosema, che causa gravi infezioni intestinali; virus come quello veicolato dall’acaro Varroa; batteri che possono causare malattie come la Peste americana o europea; funghi e artropodi, principalmente gli acari, come il famigerato Varroa destructor il parassita più dannoso per l’apicoltura mondiale. Ed il numero è destinato a crescere sia per effetto della globalizzazione, che facilita la diffusione di patogeni esotici, sia per effetto dello stress ambientale.

    Ma la recente scoperta ha ipotizzato che i cosiddetti endofiti, ovvero batteri e funghi simbiontici che vivono all’interno dei tessuti delle piante, a differenza dei parassiti, non causano danni al loro ospite, ma stabiliscono una relazione di simbiosi, spesso vantaggiosa per entrambi. Gli endofiti traggono beneficio quando chi li ospite viene impollinato, poiché il successo riproduttivo della pianta, assicurato dall’impollinazione, è indirettamente vantaggioso anche per i microbi che vivono al suo interno. La pianta, infatti, ha bisogno dell’impollinatore, cioè l’ape, e i microbi hanno bisogno che la pianta si riproduca. Ne consegue che i microbi potrebbero evolvere un meccanismo per proteggere il “veicolo”.

    Secondo l’ipotesi degli scienziati, gli endofiti possono sviluppare e rilasciare composti bioattivi che riescono a mantenere sani gli impollinatori che visitano la pianta. Questi composti potrebbero agire come antibiotici naturali, antivirali o potenziatori immunitari che, una volta ingeriti dalle api (attraverso nettare o polline), le aiutano a combattere i loro numerosi parassiti. Si creerebbe, in sostanza, una complessa alleanza ecologica tra pianta, microbo e impollinatore.

    “Abbiamo scoperto che gli stessi batteri benefici si trovano nelle scorte di polline delle colonie di api da miele e sul polline delle piante vicine”, ha evidenziato Daniel May, membro della facoltà presso il Washington College nel Maryland, che ha aggiunto: “Abbiamo dimostrato anche che questi batteri hanno prodotto composti antimicrobici simili che uccidono i patogeni delle api e delle piante, rendendoli un ottimo punto di partenza per nuovi trattamenti per i raccolti e gli alveari.”

    Ma come si è arrivati a queste importanti conclusioni? Il dottor May ed i suoi colleghi si sono concentrati sui batteri del phylum actinobacteria, la fonte di circa i due terzi degli antibiotici attualmente in uso clinico. Hanno raccolto il polline da 10 specie vegetali native nella Lakeshore Nature Preserve presso l’Università del Wisconsin e il polline dalle scorte di un vicino alveare di api da miele. Dopodiché hanno isolato 16 ceppi di actinobacteria dalle piante e 18 ceppi dalle scorte di polline all’interno dell’alveare.

    Il sequenziamento del genoma ha rivelato che le stesse specie o comunque strettamente correlate si trovavano in entrambi i tipi di campioni. Insomma i ceppi batterici isolati dal polline dei fiori nativi e quelli recuperati dalle scorte di polline delle arnie mostravano una straordinaria somiglianza. La maggioranza, circa il 72%, apparteneva al genere Streptomyces, la fonte di molti composti usati in medicina e agricoltura, ad esempio come antibiotici o come farmaci antitumorali e antiparassitari. Questa grande somiglianza genetica supporta l’idea che le api, durante la foraggiatura – come abbiamo detto – raccolgano involontariamente gli endofiti, che vivono all’interno dei tessuti vegetali e li portano velocemente nell’alveare, dove i batteri agiscono come un vero e proprio farmaco naturale.

    La scoperta dimostra che questi Streptomyces forniscono una difesa bifunzionale, proteggendo sia la pianta che l’impollinatore. L’approccio futuro potrebbe concentrarsi sull’introduzione dei giusti ceppi benefici negli alveari per rafforzarne il sistema immunitario, riducendo la dipendenza da antibiotici di sintesi. LEGGI TUTTO

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    Paolo Nespoli: “Dallo Spazio capisci che le azioni di ognuno di noi hanno un impatto su tutti”

    “Andare nello Spazio mi ha reso un terrestre migliore. Ora ho molta più consapevolezza dell’ambiente in cui mi muovo e so che devo conviverci, non solamente sfruttarlo“. Paolo Nespoli, 68 anni, in orbita intorno al Pianeta non solo ci è stato: ci ha trascorso complessivamente quasi un anno, 313 giorni, 2 ore e 36 minuti per la precisione, in tre missioni sulla Stazione spaziale internazionale (Iss), nel 2007, 2010, 2017. Esperienze straordinarie che lo hanno trasformato dal punto di vista umano e professionale.

    Da “ragazzo scapestrato” degli anni Settanta, in cerca di identità, a paracadutista e incursore dell’esercito con tanto di missione in Libano con il contingente italiano nel 1982 a laureato in ingegneria, per poi riuscire a coronare un sogno che aveva da bambino: diventare astronauta. Nespoli entra nell’Agenzia spaziale europea nel 1991 e nove anni dopo lascia la Terra per la prima volta a bordo dello Space Shuttle. Nelle tre missioni, sarà ingegnere di bordo, gestirà esperimenti sulla crescita delle piante nello Spazio e test sul corpo umano in assenza di gravità. Un bagaglio di competenze che ora condivide con gli studenti del Politecnico di Milano, ma anche in incontri con scolaresche e aziende.

    Paolo Nespoli, cosa si impara a guardare la Terra da 400 chilometri di altezza?
    “Che è bellissima. Dalla Iss si gode di una visuale eccezionale“.

    E perché andare nello Spazio è importante per il nostro Pianeta?
    “Le tecnologie spaziali ci danno la possibilità di guardare la Terra e di misurarla attentamente. Uno dei problemi è proprio quello di avere dati precisi che confermino quello che stiamo percependo con i nostri sensi. Possiamo dire: fa caldo, fa freddo, piove troppo… ma di fatto queste osservazioni vanno sostanziate con dati tecnici precisi. E negli ultimi decenni siamo riusciti a costruire satelliti in grado di fare misure rigorose della temperatura, dell’umidità, dello stato di salute delle foreste, delle superfici dei ghiacciai… Dallo Spazio tutte queste cose si possono verificare in modo molto accurato“.

    Lei si è occupato anche di questo tipo di ricerche nelle sue missioni in orbita?
    “Noi astronauti guardiamo il pianeta dalla Stazione spaziale, ma le nostre sono osservazioni ‘personali’. Vediamo cose straordinarie, nel bene e nel male, ma non riusciamo a misurarle. Ed è anche difficile percepire i cambiamenti, perché ciascuno di noi ha una permanenza in orbita di alcuni mesi: un periodo troppo breve per poter percepire variazioni apprezzabili. Però c’è una cosa che lassù si capisce benissimo“.

    Quale?
    “Dallo Spazio non si vedono i confini politici tra nazioni: in pochi minuti passi dall’Europa all’Asia e dall’Asia all’Australia. Qui sulla Terra, invece, come specie umana controlliamo ossessivamente le frontiere, senza renderci conto che sopra le nostre teste c’è un confine unico, uguale per tutti che si chiama atmosfera: un muro che ci separa dallo spazio e che non è diviso per Stati. Quello che faccio nel mio giardino di casa può avere un impatto su tutti. Mentre noi pensiamo di agire solo sull’area che ci sta attorno, stando in orbita si capisce che il nostro agire influenza tutto il sistema planetario».Diceva della visuale eccezionale che di gode dalla Iss… Solo perché è in orbita intorno alla Terra? O ci sono motivi specifici?«La Stazione viaggia a una velocità di 28 mila chilometri orari, circa 8 chilometri al secondo. Questo comporta che i suoi abitanti vedano l’alba e poi il tramonto dopo un’ora e mezza: 16 albe e 16 tramonti nelle 24 ore. Di notte la Terra è molto bella, perché tutti i posti dove ci sono gli esseri umani si illuminano: è come un albero di Natale su cui si accendono le lucine, di notte si vedono solo le lucine e non l’albero. Ed è allora che capisci come la specie umana sia dappertutto sul Pianeta“.

    Affacciati all’oblò della Iss, si percepisce il nostro impatto sulla Terra?
    “Si vedono ammassi incredibili di persone. Ricordo che mi colpì Tokyo: 37 milioni di persone in un’area relativamente piccola. Dalle sue luci viste dallo Spazio si può immaginare come stiano usando le risorse in modo massiccio: energia elettrica, acqua, riscaldamento, raffreddamento, rifiuti, strade… Tutte queste cose si vedono benissimo dallo Spazio e si capisce come noi umani questo Pianeta l’abbiamo preso tutto. È nella logica delle cose, ma dovremmo fare in modo che la Terra riesca a riciclare quello che noi produciamo come scorie. Finché eravamo in pochi, la Natura ce la faceva, ma oggi inquiniamo tutti i fiumi, i mari, l’aria, e produciamo tanta di quella energia che poi va a scaldare i ghiacciai e la temperatura della Terra».Nelle sue missioni ha fatto bellissime foto…«Il bello del sorvolo a 28 mila chilometri orari è che vedi tutti gli oceani, i continenti. ? molto poetico: ti permette di spaziare dai deserti all’Everest in pochissimo tempo. Dall’altro lato hai poco tempo per assimilare quello che stai vedendo. È per questo che cercavo di fotografare le cose belle che vedevo, per poterci riflettere con attenzione poi più avanti“.

    Quali scatti ricorda tra i migliori?
    “Quelli dei deserti, che sono bellissimi: distese di sabbia con colori incredibili, E poi i laghi salati, le piramidi, i Caraibi: l’acqua è relativamente bassa e si vede la sabbia dei fondali con colori sgargianti. Ho cercato la Muraglia cinese ma non sono riuscito a trovarla, così come dallo Spazio non si vedono i disegni di Nazca…“

    E l’Italia?
    “Veramente bella. Si vedono le città, le isole, sulla nostra Penisola tutto è facilmente riconoscibile. Volevo fare una foto del centro astronauti Esa a Colonia, in Germania: non riuscivo a trovarlo, ci ho messo quattro mesi. Ma se volevo fotografare Pisa, La Spezia, Roma… era facilissimo individuarle. Milano già è un po’ più difficile“.

    E però ricordiamo proprio una sua foto della Pianura Padana: invasa da una nube scura. Lei la pubblicò dallo Spazio su un social network il 18 ottobre 2017 con la didascalia “Nebbia o smog?”
    “La settimana dopo il sindaco di Milano bloccò la circolazione delle auto in città. Credo di essermi beccato le maledizioni di molti milanesi“.

    Quali altri danni umani si colgono “a vista” dallo Spazio?
    “In Amazzonia si vedono i segni di una deforestazione brutale: come delle smagliature sul tappeto verde di alberi. Altra cosa, il fumo generato dagli incendi. Sono cose che ti fanno riflettere su quello che dovremmo fare perché questo Pianeta possa continuare a sostenerci“.

    È preoccupato per il futuro della Terra?
    “Per quello dell’umanità. Pensiamo di dover stare attenti per non distruggere la Terra, ma non abbiamo questo potere: possiamo distruggere invece la nostra presenza qui. Il Pianeta non sparirebbe con noi: la Terra ha cicli di milioni di anni. Se anche si sciogliessero tutti i ghiacci noi ci troveremmo in grande difficoltà, forse spariremmo. Ma la Natura nel giro di qualche era rifarebbe tutto quello che abbiamo distrutto. E forse noi non saremmo più previsti…“.

    Ha senso cercare un “pianeta B” su cui far migrare l’umanità nel caso la Terra divenga per noi inospitale?
    “Siamo quasi alla fantascienza. Ma come possiamo immaginare di cosa saremo capaci tra 100, 500 o mille anni? Sono però convinto nel breve termine dobbiamo continuare a esplorare quello che ci sta attorno. Questo desiderio di conoscenza è una delle caratteristiche umane: ci ha fatto fare cose straordinarie e apparentemente prive di senso. Tra la Luna e Marte sceglierei Marte, perché sulla Luna ci siamo già stati e dobbiamo continuare l’esplorazione del Sistema Solare, anche se sappiamo che non ci sono pianeti in grado di ospitarci. Quelli vanno cercati più lontano intorno alle stelle simili al Sole“.

    Le grandi agenzie spaziali pubbliche, come Nasa ed Esa, sembrano essere in difficoltà, ora che lo Spazio sta diventando terreno di conquista di aziende private. È una cosa che la preoccupa??
    “È un passaggio obbligato, che va vissuto come uno sviluppo interessante e non come un problema. Per esempio, finora le agenzie pubbliche hanno mandato in orbita noi astronauti professionisti, tecnici super specializzati nel fare esperimenti. Ma nello Spazio si sente la mancanza di giornalisti scrittori, poeti, artisti. E d’altra parte gli Stati non possono mica fare le agenzie di viaggio, quindi è giusto che siano i privati, per fare introiti, a portare in orbita persone con competenze diverse da quelle scientifiche“.

    Non c’è il rischio di un disinvestimento sulla ricerca scientifica nello Spazio, anche quella che si occupa di monitorare lo stato di salute della Terra?
    “Non vedo questo pericolo. Ma certo i governi devono continuare a investire in attività che non hanno un ritorno economico e però sono utili alla società. Per esempio, una volta dismessa la Iss andrebbe certamente costruita una nuova stazione spaziale“. LEGGI TUTTO

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    Quali sono le piante resistenti al gelo

    Contare su un giardino lussureggiante o su un terrazzo rigoglioso anche se la bella stagione è terminata può sembrare un miraggio, ma in realtà scegliendo le piante giuste è possibile. Quando l’autunno e l’inverno entrano nel vivo e le temperature scendono non bisogna per forza rinunciare a uno spazio verde: anche se in questi periodi dell’anno molte specie vanno in letargo e altre soffrono il freddo, non mancano piante che tollerano bene le temperature basse e continuano a fiorire a lungo. Si tratta di varietà estremamente resistenti, capaci di adattarsi alle condizioni climatiche rigide, perfette per abbellire giardini e balconi anche nei mesi freddi. Scopriamo alcune delle piante resistenti al gelo più belle, vere e proprie alleate per rendere il proprio angolo di natura splendido tutto l’anno.

    Piante resistenti al gelo: le caratteristiche
    Non temono il freddo, sono robuste, di una bellezza magnifica e splendono vivaci, illuminando giardini, aiuole, balconi e terrazzi anche nelle giornate più grigie. Le piante resistenti al gelo non si fanno smuovere dalle temperature più rigide e continuano imperterrite a incantare con il loro fascino.
    Fondamentali nelle aree dagli inverni rigidi, sopravvivono al gelo e alle condizioni più difficili grazie alle loro caratteristiche particolari. Per esempio nei mesi freddi riducono il loro consumo energetico, entrando in uno stato di quiescenza, producono zuccheri e proteine antigelo, che evitano la formazione di cristalli di ghiaccio nelle loro cellule e, in alcuni casi, sviluppano una cuticola cerosa e peli protettivi che limitano la perdita d’acqua.

    Per mantenere vigorose le piante resistenti anche nel caso di temperature estremamente rigide è importante adottare alcuni accorgimenti. In primo luogo, il terreno deve essere sempre ben drenato per evitare i ristagni d’acqua e scongiurare gli stress idrici, riducendo al minimo le irrigazioni nel corso dei mesi freddi. È inoltre necessario nutrire le piante con dei concimi specifici, contenenti azoto nitrico e potassio, potenziare le loro difese, ricorrendo a prodotti a base di propoli, ed effettuare trattamenti preventivi, contro parassiti e malattie fungine.

    Quali sono le piante resistenti al gelo

    Agrifoglio
    Grande protagonista nei giardini invernali, l’agrifoglio presenta foglie lucide e spinose e bacche rosse caratteristiche, che si sviluppano in autunno e rimangono visibili anche durante l’inverno. Appartenente alla famiglia delle Aquifoliaceae, questo suggestivo arbusto sempreverde è molto resistente al freddo ed è ritenuto un simbolo delle feste natalizie. L’agrifoglio predilige un luogo soleggiato, sopportando anche la mezz’ombra, e un terreno drenato e acido. Coltivabile sia in piena terra, che in vaso (in questo caso è necessario un recipiente di grandi dimensioni), non ama i ristagni idrici e non richiede annaffiature frequenti, se non nei periodi di siccità. Quanto alla potatura, occorre eliminare le foglie e i rami secchi o danneggiati, sfoltire la pianta per garantire la corretta circolazione dell’aria e intervenire sulla chioma per contenerla se coltivato in vaso o come siepe.

    Viola invernale
    Per donare un tocco di colore ai giardini e terrazzi nei mesi freddi, la viola invernale è una scelta perfetta. Appartenente alla famiglia delle Violaceae, è conosciuta anche come viola del pensiero e viola cornuta e si distingue con i suoi fiori dai colori variegati, che spaziano dal viola al giallo. Originaria dell’Europa, va trapiantata tra settembre e ottobre e fiorisce in autunno e inverno. Resiste al freddo, alla pioggia e alla neve, ma non ama il caldo secco. La pianta predilige un luogo fresco e in leggera ombra e, malgrado resista al freddo, in inverno va protetta con un tessuto traspirante o spostata in un luogo riparato. Il substrato deve essere ben drenato, fertile e mantenuto sempre umido, evitando i ristagni d’acqua, causa del marciume radicale. La viola invernale può essere concimata ogni 15 giorni anche d’inverno, se in presenza di clima mite, e non richiede una potatura drastica, dovendo solo rimuovere i fiori appassiti e le foglie danneggiate o ingiallite.

    Helleborus
    Conosciuto anche come rosa di Natale, l’helleborus si distingue con il suo fascino suggestivo e la notevole resistenza. Appartenente alla famiglia delle Ranuncolacee, presenta fiori dalle sfumature del bianco, verde, rosa e viola. Questa pianta perenne fiorisce nel periodo natalizio e non richiede cure impegnative. Può essere coltivata sia in vaso, che in piena terra, ponendola in un luogo spazioso e luminoso, protetto dalle correnti d’aria e in un terreno drenato, acido e ricco di nutrienti. La pianta sopporta bene il caldo e il freddo, resistendo fino a -20 gradi. Quanto alle irrigazioni, queste devono essere regolari in primavera ed estate, riducendole durante l’autunno e l’inverno, ed evitando sempre i ristagni idrici.

    Betulla
    Associata ai paesaggi nordici, la betulla è la regina dell’inverno, visto che resiste a temperature estremamente rigide, fino a -40 gradi. Contraddistinta da una sottile corteccia bianca, che riflette la luce del sole, appartiene alla famiglia della Betulaceae. La pianta è molto robusta e predilige terreni ben drenati, sabbiosi e leggeri e una posizione luminosa, anche se tollera la mezz’ombra. Per quanto riguarda la sua cura, va irrigata in modo moderato e le potature devono limitarsi alla rimozione di rami danneggiati o secchi. In giardino richiede spazio, visto che cresce fino a 15-25 metri di altezza, e può essere coltivata anche in vaso, soluzione più adatta per le specie nane, dovendo ricorrere a un contenitore capiente e profondo.

    Rododendro
    Tra le piante più resistenti al freddo spicca il rododendro, capace di sopportare temperature rigide, fino a -35 gradi. Questo arbusto straordinario si distingue per le sue foglie sempreverdi coriacee e fiorisce in primavera con fiori che vanno dal rosa al viola. Appartenente alla famiglia delle Ericaceae, deve essere collocato in luogo semiombreggiato, riparato dal sole diretto e dai venti, e in un terreno drenato, acido, privo di calcio e umido. Questo arbusto molto ornamentale si accontenta dell’acqua delle precipitazioni, mentre in estate o in caso di siccità protratta richiede annaffiature regolari, ma moderate, evitando i ristagni. La potatura non deve essere drastica, limitandosi a rimuovere foglie e fiori secchi e se necessario a mantenere la sua forma.

    Erica invernale
    Una meravigliosa pianta che fiorisce durante i mesi freddi è l’erica invernale, una varietà di erica che si distingue per le foglie aghiformi verde intenso e i piccoli fiori campanulati, bianchi o rosa. Resistente e rustica, decora giardini e bordure, ma può essere coltivata anche in vaso, portando colore in balconi e terrazzi durante la stagione invernale. Per crescere rigogliosa, l’erica invernale richiede una posizione soleggiata, pur tollerando la mezz’ombra. Estremamente resistente al gelo, va piantata in primavera e irrigata regolarmente, riducendo però le annaffiature in inverno. Tra aprile e settembre è necessario procedere con la concimazione con fertilizzante ad alto contenuto di potassio. Per favorire una crescita compatta, la potatura va eseguita dopo la fioritura.

    Berberis
    Fascino e resistenza si incontrano nel berberis, piccolo arbusto contraddistinto da fiori gialli, bacche decorative e foglie che cambiano colore a seconda della stagione, passando dal verde al rosso scarlatto. Appartenente alla famiglia delle Berberidaceae, può essere coltivato in giardino, per creare siepi difensive e cespugli, ma anche in vaso. La pianta si adatta ai diversi tipi di terreno, prediligendo quelli ben drenati, e richiede un’esposizione soleggiata o una mezz’ombra. Estremamente resistente, tollera sia il caldo che il freddo, sopportando temperature fino a -5 gradi. Il berberis va irrigato regolarmente in estate, riducendo la frequenza in inverno ed evitando sempre i ristagni d’acqua. Da autunno a marzo va concimato con un fertilizzante a lenta cessione, mentre tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera si procede con la potatura per mantenere la sua forma compatta. LEGGI TUTTO

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    Ridere per non piangere: la stand-up di Fill Pill, il “divulgatore coatto della sostenibilità”

    Ha girato l’Italia in Flixbus per raccontare barzellette sulle province inquinate, “forte della sua appartenenza alla prima fascia Isee”. E ha anche conseguito un master in Gestione delle risorse energetiche, lavorato con i pescatori e nel settore delle rinnovabili, toccando con mano la complessità della transizione ecologica. Si chiama Fill Pill, al secolo Filippo Piluso: comico tra i più affilati della nuova scena italiana, ha trasformato il palco in una cattedra e la risata in un’arma per la “Divulgazione coatta ambientale”, come recita il titolo del suo nuovo tour prodotto da The Comedy Club e Future Proof Society, che partirà il 13 ottobre a Roma per portare dati scientifici e riflessioni scomode nelle piazze e nei teatri di tutta Italia.

    Fill Pill, partiamo dalle tue vacanze. Di recente sei stato in viaggio come guida turistica negli slum di Nairobi. Lo scorso anno hai visitato i ghiacciai andini, cercando di evitare l’effetto “usa e getta”. Pensi che esista un turismo sostenibile?
    “Un turismo completamente sostenibile non è possibile, dato che per i viaggi a media-lunga tratta resta comunque necessario salire su un aereo, che vuol dire contribuire in certa misura alle emissioni. Ma è comunque possibile ridurre il proprio “impatto” sul pianeta modificando alcuni comportamenti. Si possono scegliere destinazioni non gentrificate, o unire l’utile al dilettevole partecipando a progetti di sostenibilità, evitare di contribuire alle speculazioni. Insomma, c’è sempre il modo di essere più responsabili”.

    Viaggi, show, musica, social media, eventi dal vivo, il nuovo tour che sta per cominciare: la tua vita, invece, è sostenibile?
    “Anche in questo caso, sono io a provare a renderla più sostenibile. Cerco di trovare un equilibrio tra la parte “esteriore”, tutto quello con cui ho a che fare per lavoro, e la parte più intima, bilanciando carriera e vita privata. Quest’estate sono partito per la Sicilia e ho lasciato a casa lo smartphone, portando con me solo un telefono con chiamate ed sms, per “staccare” completamente. Di sicuro non baratterei mai la mia vita di oggi con quella di qualche anno fa, quando lavoravo in un contesto aziendale. Pur essendo più “esposto”, oggi ho la possibilità di gestire molto meglio il mio tempo e i miei spazi”.

    Prima ancora di essere un comico, sei un musicista. Che differenze ci sono tra i due mondi e, onestamente, cosa ti diverte fare di più?
    “Sono due mezzi espressivi molto diversi. La stand-up è più catartica per me, e credo di saperla fare meglio: non c’è una “quarta parete”, ho una risposta diretta da parte del pubblico, la vivo quasi come una liberazione. Come canale comunicativo, rispetto alla mia inclinazione, trovo la stand-up più diretta. Ma non saprei dire cosa mi piace di più: se dovessi scegliere con il cuore, risponderei la musica. Nella musica ho un’indole “da nerd” che coltivo da bambino. A differenza di quello che accade con la stand-up, nelle esibizioni musicali riesco a stare anche dietro le quinte, ad avere un ruolo quasi da “vassallo”. Cosa che non mi dispiace affatto”.

    Sia sui social che dal palco interagisci molto con il tuo pubblico. Come gestisci questo rapporto, a volte anche spinoso?
    “Esiste una certa dose di paura di affrontare e gestire interazioni complesse, soprattutto per il taglio da ‘attivista’ che caratterizza i miei spettacoli. Sento il rischio di ‘deludere’, di diventare una figura più politica che artistica. Con il tempo ho imparato con il tempo, soprattutto accettando che talvolta è il caso di ‘lasciar perdere’. Dal palco, poi, è tutto più facile, perché quando sono sul palco indosso una specie di maschera: nella vita ‘reale’ le cose sono naturalmente molto più complesse. C’è da dire che finora non sono mai incappato in interazioni particolarmente complicate, anche perché il mio pubblico è per la gran parte composto di persone che, più o meno, non hanno posizioni e sensibilità molto distanti dalle mie”.

    Appunto: come si fa a “sfondare” la bolla per parlare anche a chi la pensa diversamente, come per esempio i negazionisti climatici?
    “È possibile, ma è molto difficile. È un tema di cui si è occupata molto anche la comunità scientifica, studiando i condizionamenti e i bias che guidano certe inclinazioni, tra cui quelle del negazionismo. Io cerco di usare la logica, la razionalità e la forza dei dati, e li combino con l’umorismo e con l’ironia. Bisogna però essere predisposti a questo tipo di messaggi”.

    A proposito del ruolo dell’ironia. Nel 1990 David Foster Wallace metteva in guardia contro i pericoli dell’ironia e del cinismo: in un’epoca in cui tutto è performance, l’ironia e il cinismo rischiano di diventare fini a sé stessi, di annullare le differenze, di far perdere lo spirito critico. Insomma, di “depotenziare” i problemi. Come la vedi?
    “È un pericolo che esiste. Bisogna tener conto che le chiavi sono tante e diverse tra loro: l’umorismo è una cosa, la comicità un’altra, la satira un’altra ancora. Il ‘depotenziamento’ dei problemi seri a opera dell’ironia può aiutare, per l’appunto, a veicolare un messaggio o a rompere una bolla, ma può anche appiattire tutto a mero intrattenimento. Credo bisogni utilizzare gli strumenti dell’umorismo in maniera consapevole e cosciente. È uno dei possibili approcci, e non sempre è quello giusto”.

    In realtà i tuoi spettacoli sono un misto di ironia, cinismo, dati ed evidenze scientifiche. Quanto conta essere evidence-based per avere la fiducia del pubblico?
    “È fondamentale. E mi impone di non usare uno dei meccanismi base della comicità, il cherry picking (la fallacia logica in cui si “scelgono” solo le prove favorevoli alla propria tesi e si ignorano quelle contrarie, proprio come si sceglierebbero solo le ciliegie migliori da un paniere, ndr). Trattando temi scientifici, non posso permetterlo. Ma partendo dai dati è sempre possibile arrivare a paradossi e situazioni surreali: in questo modo riesco a preservare la solidità scientifica dei contenuti e allo stesso tempo a innescare l’effetto comico che cerco”.

    Quali sono i tuoi principali riferimenti e ispirazioni tra gli stand-up comedian di lunga data?
    “Tra i mostri sacri internazionali, direi George Carlin, Bill Burr, Dave Chappelle, Trevor Noah. Ma anche gli italiani: Giorgio Montanini, Filippo Giardina, Francesco De Carlo. E uscendo dagli stand-up comedian in senso stretto, Giorgio Gaber, Luciano De Crescenzo e Giobbe Covatta, che da tempo si occupa di temi simili ai miei”. LEGGI TUTTO

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    Dalla doccia alla lavastoviglie, i 10 consigli per non sprecare acqua

    Rabboccare di continuo l’acquario, sciacquare frutta e verdura dimenticando il rubinetto aperto, lavare l’auto con un getto ininterrotto. È così che, goccia dopo goccia, si disperdono enormi volumi di acqua. In Italia ogni cittadino utilizza in media 215 litri al giorno, più del doppio rispetto alla quantità raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Basta un piccolo esperimento per rendersene conto: se una bacinella da 10 litri si riempie in meno di due minuti, significa che il flusso supera i sei litri al minuto, ben oltre la soglia ottimale. A ciò si somma una perdita strutturale: oltre il 42% del flusso immesso nella rete non arriva nelle nostre case. Ma c’è un dato ancora più sorprendente: solo l’1% dell’acqua potabile, resa tale grazie a trattamenti che comportano costi economici ed energetici, viene effettivamente bevuto, mentre il resto è destinato a usi quotidiani che non necessitano di un simile livello di purezza.

    In questo contesto, Altroconsumo propone, attraverso la piattaforma Impegnati a cambiare, dieci consigli per ridurre i consumi e contribuire a un uso più equo e sostenibile delle risorse.

    1. Usare la lavastoviglie
    La lavastoviglie è molto efficiente, a patto di adoperarla nel modo corretto. Con il programma eco, il consumo medio è di 9 litri per ciclo, che possono aumentare a 13 con l’impostazione automatica. A confronto, l’analogo lavaggio manuale richiede oltre 60 litri. Ciò significa che una famiglia può risparmiare circa 15mila litri d’acqua all’anno, usando questo elettrodomestico. In ogni caso, meglio farlo funzionare sempre a pieno carico e utilizzare le temperature più basse, che riducono l’energia elettrica necessaria.

    2. Tenere in ammollo i piatti da lavare a mano
    Quando non si è in condizioni di adoperare la lavastoviglie, occorre per forza fare il lavaggio a mano. Attenzione al metodo usato: risciacquare i piatti sotto un getto d’acqua continuo comporta un consumo di circa 60-70 litri, che si riduce drasticamente impiegando una bacinella con acqua calda e sapone.

    Anche la sequenza con cui si lavano le stoviglie è importante: iniziare dalle meno sporche e lasciare in ammollo le più incrostate consente di mantenere l’acqua pulita più a lungo. Perfino l’acqua di cottura della pasta, spesso gettata via, può essere utile: grazie all’amido, facilita il distacco dello sporco e riduce, quindi, la necessità di detersivi.

    3. Ottimizzare la lavatrice
    La lavatrice è un’altra fonte di consumi domestici. Un ciclo con il programma cotone tradizionale assorbe 80-90 litri, mentre con quello eco il fabbisogno si ferma a circa 55 litri.

    Anche i detergenti hanno un ruolo: dosi eccessive creano più schiuma, richiedono risciacqui aggiuntivi e aumentano così gli sprechi. Oggi, grazie a detersivi sempre più concentrati, basta poco prodotto per ottenere un buon risultato.

    4. Fare una doccia breve
    L’igiene personale rappresenta ben il 39% dei consumi. Il soffione standard della doccia eroga circa 12 litri al minuto, quindi dieci minuti equivalgono a 120 litri. Con i soffioni a risparmio idrico (che erogano 7-9 litri al minuto), il consumo cala in modo considerevole. Una doccia breve richiede circa 50 litri, mentre un bagno nella vasca supera facilmente i 150.

    5. Modificare lo scarico del wc
    Il wc è responsabile di circa il 20% dei consumi. I tradizionali scarichi a pulsante unico rilasciano circa 12 litri di acqua a ogni utilizzo. I sistemi a doppio pulsante consentono, invece, di scegliere tra 3 e 6 litri: una differenza che, moltiplicata per più scarichi al giorno, diventa consistente.

    6. Proteggere lo scaldabagno dal calcare
    Attenzione al calcare nello scaldabagno, perché ha un impatto sugli impianti. Quando l’acqua dura viene riscaldata, i minerali si depositano sulle resistenze e lungo le tubature, riducendo le prestazioni del sistema. Con dispositivi di addolcimento o con controlli periodici, l’apparecchio mantiene un buon rendimento e dura più a lungo.

    7. Controllare eventuali perdite
    Un rubinetto che gocciola disperde 1.500 litri in un anno, l’equivalente di dieci vasche da bagno. Se il problema riguarda il wc, lo spreco può raggiungere decine di metri cubi, incidendo anche sulla bolletta. Per controllare, è sufficiente guardare il contatore quando nessuno usa l’acqua: se continua a girare, è probabile che ci siano perdite occulte.

    8. Installare frangi-getto ai rubinetti
    Un frangi-getto è un piccolo dispositivo che mescola aria al getto del rubinetto, riducendo i consumi idrici del 30-50%. L’efficacia, però, dipende dalla manutenzione: se l’acqua è molto calcarea, i fori dell’apparecchio possono otturarsi vanificando il risparmio. Una pulizia periodica con acido citrico mantiene il sistema in condizioni ottimali.

    9. Chiudere l’acqua nelle pause
    Lasciare il rubinetto aperto mentre si spazzolano i denti è una pessima abitudine, che comporta uno spreco di acqua di circa 12 litri al giorno per persona, cioè oltre 4mila litri in un anno. Lo stesso vale quando ci si rade la barba, si lavano i capelli o ci si insapona le mani.

    10. Annaffiare le piante a inizio o fine giornata
    Meglio dare da bere alle piante al mattino o alla sera, quando il sole è meno intenso rispetto alle ore centrali della giornata: così l’evaporazione si riduce e serve meno acqua. Anche raccogliere l’acqua piovana, come facevano le nostre nonne, può essere una buona idea per irrigare risparmiando. LEGGI TUTTO

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    Risparmio energetico, cosa ci spinge a migliorare?

    Consumare responsabilmente. Dovrebbe essere un mantra di tutti, in tutte le case, in tutto il mondo. Noi italiani ed europei, poi, avremmo anche un motivo in più, da quando sono saltati gli accordi commerciali con la Russia, a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Eppure il risparmio energetico domestico non è sempre una priorità in molte abitazioni. Come fare perché lo diventi? Per trovare una risposta un team del Northern New Mexico College (Usa) ha condotto un’ampia metanalisi della letteratura scientifica esistente, pubblicata su Cell Reports Sustainability, al fine di identificare i fattori che guidano i comportamenti virtuosi: su quelli – dicono gli autori – dovremmo puntare.

    L’analisi

    Le emissioni di gas serra legate agli stili di vita sono 7 volte superiori gli obiettivi climatici

    di Luca Fraioli

    07 Ottobre 2025

    Psicologia o economia?
    I ricercatori statunitensi hanno analizzato 100 studi esistenti che, con diversi approcci (da quello psicologico a quello sociologico, da quello economico a quello ingegneristico), cercavano di capire cosa determini i comportamenti di risparmio energetico. In totale queste indagini includevano il punto di vista di oltre 430mila persone in 42 Paesi. Gli autori della metanalisi hanno preso in considerazione 26 tra fattori psicologici e sociodemografici per valutarne l’impatto sui comportamenti delle persone.

    Ne è emerso che sono proprio i fattori psicologici profondi a trainare le buone abitudini di risparmio, molto più della consapevolezza del problema energetico o persino dell’evidenza del risparmio in bolletta.

    Ambiente

    Come aiutare i genitori a compiere scelte low-carbon

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    03 Ottobre 2025

    Cosa guida i comportamenti virtuosi?
    Il fattore più rilevante, secondo gli autori della metanalisi, è l’autoefficacia (self-efficacy), intesa come riconoscere di essere capaci di fare la differenza, di fare la cosa giusta per l’ambiente. Ne consegue un atteggiamento positivo nei confronti del risparmio energetico.

    Anche le aspettative degli altri sulle proprie abitudini sembrano incidere. In altre parole, se diamo importanza al fatto che gli altri ci percepiscano come virtuosi in fatto di risparmio energetico, siamo più propensi a esserlo effettivamente.

    I comportamenti green, inoltre, sembrano potenziarsi a vicenda, ossia chi fa la raccolta differenziata e utilizza di più i mezzi pubblici per spostarsi tende anche a risparmiare energia in casa.

    Gli effetti più deboli
    A sorpresa, invece, la visione ecologista del mondo è un fattore meno significativo. La consapevolezza dell’impatto ambientale dei consumi energetici individuali, così come diversi altri indici socioeconomici, come il livello di istruzione e il reddito, non influiscono in modo particolare sull’adozione di buone abitudini.

    Puntare sui sentimenti
    “Sapere cosa fare spesso non è sufficiente per indurre qualcuno a cambiare effettivamente il proprio comportamento – ha commentato Steph Zawadzki, che ha condotto la metanalisi – Bisogna anche attingere ad atteggiamenti, preferenze e desideri più profondi per motivare davvero le persone a portare a termine le proprie azioni”.

    Secondo gli autori, dunque, una possibile chiave per coinvolgere il maggior numero possibile di persone nel risparmio energetico è sfruttare proprio questi fattori psicologici profondi. “La stragrande maggioranza delle persone, indipendentemente dal loro background, desidera generalmente fare la cosa giusta – ha aggiunto Zawadzki – Non stiamo cercando di cambiare i cuori e le menti, ma di attivare sentimenti che le persone già provano”. Di questo i governi e le campagne di sensibilizzazione dovrebbero tenere conto. LEGGI TUTTO

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    Canapa: la fibra green che unisce sport, tessuti sartoriali e bioedilizia

    La canapa sta diventando un materiale centrale in diversi settori grazie alle sue caratteristiche naturali, sostenibili e performanti. Dal mondo dell’abbigliamento tecnico per lo sport outdoor alle applicazioni tessili per l’hôtellerie di fascia medio-alta fino all’edilizia, questa fibra antica è oggi protagonista di una vera e propria rivoluzione green, capace di coniugare qualità, durabilità e rispetto per l’ambiente. Sfide tecniche, culturali e di mercato rimangono, ma l’impegno delle aziende che investono sulla canapa disegna un futuro sostenibile in diversi ambiti produttivi.

    La rivoluzione tessile di Steva Hemp
    Nel settore tessile alberghiero medio-alto, la canapa acquisisce nuovo valore grazie a Steva Hemp, azienda altoatesina che propone prodotti artigianali realizzati con filiera corta e metodi manuali. “Molti dei tessuti che utilizziamo e che indossiamo non sono sostenibili, vengono prodotti lontano dall’Europa e trattati con sostanze chimiche,” racconta Gordana Stevancevic, giovane imprenditrice alla guida del marchio. “Per questo abbiamo iniziato a concentrarci sulla canapa come alternativa ecologica, quando ancora la domanda di questa fibra era bassa”. La canapa impiegata per la biancheria e per i tessuti hôtellerie offre grande resistenza ai lavaggi industriali e morbidezza al tatto, rispondendo a una crescente domanda di qualità e sostenibilità.

    Contrariamente a molti dei tessuti presenti in commercio, legati a territori ristretti, la canapa cresce facilmente in molti Paesi; tuttavia, in Europa si stanno ancora recuperando competenze tecniche perse nel tempo che invece i leader asiatici conservano. Nonostante il costo iniziale superiore rispetto al cotone, il risparmio a lungo termine e la durabilità rendono questa fibra competitiva. Il materiale è coltivato senza pesticidi e lavorato senza agenti chimici, con una produzione che punta a ridurre l’impatto ambientale. “L’80% del lino mondiale proviene dalla Francia e poi viene filato in tutto il mondo, ma rimane comunque limitato a un territorio predefinito. – specifica Stevancevic – Noi vogliamo mantenere una filiera corta e lavorare il più possibile a livello regionale”. Steva Hemp sta ampliando la propria offerta anche ai privati attraverso un concept store a Merano e uno shop online. La sfida più grande resta superare i pregiudizi, come quelli legati alle ‘lenzuola alla cannabis’. “La canapa è ancora troppo spesso associata ad effetti psicotropi,” ammette Stevancevic, “ma noi ci impegniamo a educare i consumatori, evidenziando l’assenza di THC nei tessuti e promuovendo un approccio più consapevole.” Gli scarti di canapa trovano infatti impiego nella produzione di carta, alimentando così una filiera circolare. “È importante continuare a spiegare le origini di questa fibra naturale, perché si combatte solo parlando”.

    La sfida di Salewa
    Nel panorama delle aziende che fanno della sostenibilità una missione non si può non citare Salewa. Marchio leader nell’abbigliamento tecnico per sport di montagna, ha scelto di inserire la canapa nelle proprie collezioni con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale, mantenendo alta la funzionalità tecnica. Questa fibra naturale vanta prestazioni eccellenti: è più durevole e isolante, traspirante, resistente al calore e ai raggi UV, e ha proprietà antibatteriche. Inoltre, assorbe fino al 30% dell’umidità mantenendo una sensazione di asciutto, qualità fondamentali per chi pratica attività sportive intense. “Ci sono diversi modi di intendere la sostenibilità: si può ridurre l’uso di sostanze chimiche, impiegare materiali riciclati, utilizzare componenti naturali come lana o piuma certificate, che rispettano la natura e l’animale stesso,” spiega Roberta Lazzarotto, senior product manager di Salewa. “Oppure usare fibre naturali che non sono frutto di processi chimici dannosi per il nostro pianeta”.

    Per compensare il rallentamento dell’asciugatura dovuto alla natura della canapa, Salewa la miscela con fibre come il poliestere riciclato ‘Sorona’ derivato dal mais, migliorando traspirabilità e performance tecniche. Un ulteriore passo sostenibile riguarda la riciclabilità: essendo biodegradabile, si presta naturalmente a un ciclo di vita sostenibile, sebbene la combinazione con materiali sintetici imponga processi di separazione complessi, oggi affrontati con tecniche meccaniche e chimiche da aziende specializzate. La sfida di Salewa? Il suo aspetto, più grezzo rispetto ai tessuti convenzionali. Per questo la inserisce principalmente in linee specifiche come la collezione climbing ‘Lavaredo’, dove la community è più consapevole dell’impatto ambientale. L’azienda continua a investire in nuove collezioni, mirando ad ampliare l’uso anche nel segmento lifestyle, bilanciando sostenibilità, estetica e performance. “La nostra sfida – conclude Lazzarotto – è trovare la combinazione perfetta che risponda anche a esigenze estetiche e di performance, oggi prioritarie per chi acquista capi tecnici”.

    Il paradigma di Schönthaler
    In edilizia, Schönthaler ha scelto di puntare sulla canapa come materiale base per costruzioni durature e rispettose dell’ambiente. L’azienda produce blocchi in canapa, calce e minerali, pannelli fonoassorbenti e intonaci naturali, prodotti con forte valore ecologico e salutare. La svolta è arrivata circa quindici anni fa, quando il fondatore Werner Schönthaler, dopo un grave incidente in montagna, ha preso coscienza dell’importanza dei bisogni primari dell’uomo: alimentazione, abbigliamento e ambiente in cui si vive. “Ho iniziato a riflettere su quanto gli spazi influenzino il benessere e la salute, da lì è nata l’idea di adottare materiali naturali che siano una ‘terza pelle’ in grado di proteggere e migliorare la vita quotidiana” racconta l’imprenditore Werner Schönthaler.

    I blocchi in canapa e calce si distinguono per la durabilità, che può arrivare ai cento anni, e per l’efficace assorbimento di CO2, contribuendo a contenere l’impatto climatico degli edifici. Dal punto di vista tecnico, il materiale garantisce un ottimo controllo dell’umidità grazie alla sua porosità e capacità capillare, permettendo un ricambio naturale dell’aria. Inoltre, aumenta il pH delle pareti, rendendole sterili e migliorando così la qualità dell’aria interna. L’isolamento termico è efficiente in tutte le stagioni, riducendo di conseguenza i consumi energetici. “L’edilizia tradizionale produce il 50% dei rifiuti globali, mentre l’uso della canapa permette di ridurre drasticamente gli scarti. Questo prodotto elimina la necessità di isolanti sintetici, difficili da riciclare,” conclude. Il costo è circa il 20% in più rispetto a quello convenzionale, inferiore invece rispetto al legno. Attualmente il 90-95% della produzione di Schönthaler è destinata all’esportazione verso Svizzera, Austria e Germania, mercati più aperti alle tecnologie edili naturali. In Italia, invece, soprattutto nelle grandi città, la diffusione è più lenta, anche se stanno crescendo interesse e consapevolezza tra architetti e clienti, spinti da normative ecologiche più stringenti. LEGGI TUTTO

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    Il principe William parteciperà a COP30 sulle orme di re Carlo

    Una nuova vetrina regale. Quest’anno, per la prima volta nella storia delle Conferenza delle parti sul clima, il principe William parteciperà alla COP30 in Brasile a Belem. Il vertice, dieci anni dopo l’Accordo di Parigi, è una sorta di ultimo appello sia per le decisioni politiche da prendere di fronte alla crisi del clima che avanza sia per dimostrare che il multilateralismo dei grandi meeting dell’Onu, in cui ogni Paese teoricamente ha lo stesso peso, funziona ancora. Nonostante la delicatezza di questo incontro che si svolgerà nel cuore dell’Amazzonia (si inizia il 6 novembre con il summit dei leader e poi il 10 ci sarà l’avvio della Conferenza) le premesse per la riuscita e la valorizzazione della COP30 quest’anno sono decisamente scoraggianti.

    Anche se l’ex segretario Onu Ban Ki-moon ha ricordato più volte che “il mondo sta guardando e la storia ricorderà chi si è presentato” l’inizio della COP30 potrebbe infatti risultare in sordina: ovviamente non ci saranno gli Stati Uniti di Donald Trump che ha trascinato gli Usa fuori dall’Accordo di Parigi, così come sono probabili le assenze di molti leader mondiali, dal premier britannico Keir Starmer ancora indeciso sulla partecipazione sino a Giorgia Meloni che dovrebbe saltare la Conferenza. Anche Papa Leone XIV, nonostante le speranze di partecipazione, quasi sicuramente non sarà in Brasile. Per contro però un bel messaggio ha deciso di portarlo proprio il Principe di Galles che, come ha fatto a più riprese il padre Carlo (soprattutto alla COP26 di Glasgow) con la sua presenza aiuterà a tenere gli “occhi del mondo puntati sulla COP”, per dirla alla Ban Ki-moon.

    La conferenza

    Fra problemi logistici e assenze Cop30 rischia il fallimento

    di Luca Fraioli

    10 Ottobre 2025

    Il principe William sta da tempo portando avanti impegni e battaglie sul fronte dell’ambientalismo e della questione climatica ma è soprattutto con il premio Earthshot, un riconoscimento ambientale mondiale che viene conferito a chi si impegna in soluzioni e cambiamenti positivi per l’ambiente, che la casa reale sta appoggiando chi si sta battendo in prima linea nella lotta alla crisi climatica.I finalisti del premio Earthshot 2025 sono già stati annunciati – da chi ha progettato un innovativo filtro per le microplastiche a chi ha realizzato il primo grattacielo al mondo completamente riciclato o progetti di riforestazione e protezione degli oceani – ma i cinque vincitori si conosceranno e verranno premiati a Rio de Janeiro, alla presenza di William, il 5 novembre. Poi il Principe di Galles volerà a Belem per presenziare alla COP30 e dovrebbe prendere parte all’incontro dei leader mondiali di 190 governi che si terrà poco prima dell’inizio ufficiale della Conferenza. La sua partecipazione, per gli addetti ai lavori, è molto importante, anche banalmente per una questione di immagine, per tenere in sostanza i fari dei media puntati sui negoziati. Solitaire Townsend, co-fondatrice della società di consulenza Futerra crede per esempio che “Sua Altezza Reale sappia benissimo che, con la sua presenza, attirerà milioni di sguardi sull’evento. In un’epoca in cui gli impatti climatici sono in aumento, ma la copertura mediatica è in calo, qualsiasi cosa attiri l’attenzione dovrebbe essere celebrata”. Il punto è proprio questo: COP30 ha bisogno di più visibilità in questa fase drammatica.

    Nonostante le ondate di calore continuino ad uccidere migliaia di persone ogni anno e nonostante eventi estremi sempre più intensi stiamo modificando la vita di milioni di abitanti della Terra, la questione climatica negli ultimi anni sembra essere scivolata in secondo piano. Le politiche negazioniste di Donald Trump, che punta ad un ritorno dei combustibili fossili e sta affossando ogni fondo per le soluzioni rinnovabili e sostenibili, ha di fatto contribuito a far traballare pesantemente la transizione energetica ed ecologica necessaria per tentare di frenare le emissioni climalteranti. Con lui altri Paesi – come l’Argentina di Javier Milei – si sono smarcati dalla questione climatica e anche l’Europa, con l’Ue che continua a rivedere a ribasso il Green Deal ed è in ritardo nel presentare i suoi NDC (i piani per i contributi determinanti di taglio alle emissioni), mostra obiettivi climatici incerti nella loro realizzazione. Se a tutto ciò si uniscono guerre e tensioni geopolitiche, oltre a COP che negli ultimi anni si sono svolte nei petrol-stati o in territori di gas e combustibili fossili, è facile immaginarsi come le Conferenze delle Parti abbiano perso attenzione e, talvolta, anche credibilità.

    Per questo nell’ambiente dell’UNFCCC che organizza la Conferenza la presenza del principe, annunciata ufficialmente da Kensington Palace, è stata molto apprezzata. William dovrebbe inoltre partecipare da solo: Carlo – che alla COP28 di Dubai aveva tenuto il discorso di apertura ricordando a tutti che “la Terra non ci appartiene, noi apparteniamo alla Terra” – molto probabilmente non andrà in Brasile e il figlio avrà dunque il compito di raccogliere il suo testimone. Nel farlo, soprattutto quando è la politica a latitare, cercherà di svolgere un ruolo nuovo anche nella “diplomazia climatica” che ha bisogno di nuovi impulsi. Impulsi che per ora, al di là della presenza lodevole di William, sembrano non ottenere consensi: il presidente Luiz Inacio Lula ha mandato una lettera a Trump, Milei e anche il leader cinese Xi Jinping per invitarli ad esserci ma pare non abbia ottenuto risposta. LEGGI TUTTO