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    Nell’Artico trovata una pianta che normalmente cresce in ambienti più caldi

    L’Artico sta diventando sempre più verde. La tundra, la tipica vegetazione delle zone polari artiche è in rapida espansione, non da oggi ma a partire dall’inizio dello scorso secolo. Non solo. Si espande a una velocità senza precedenti. Il fenomeno si chiama “greening” e a svelarlo è una nuova ricerca basata per la prima volta sull’uso dei marcatori vegetali. Un approccio considerato dai ricercatori innovativo e che ha permesso di svelare la storia del “greening artico”, fornendo una risposta sul modo in cui la tundra sta mutando in base ai cambiamenti climatici e sulle possibili evoluzioni future degli ecosistemi polari.
    Quella sottile linea verde
    Dunque lo studio si è basato sull’analisi dei sedimenti marini delle Isole Svalbard, in Norvegia grazie ai quali è stata ricostruita la storia dei ghiacciai e dello sviluppo della tundra negli ultimi 6 secoli. Il team di scienziati è stato coordinato dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), in collaborazione con Alfred Wegener Institute, Helmholtz Center for Polar and Marine Research e Joint Research Center Eni Cnr. Lo studio rientra nell’ambito dei progetti PAIGE (Chronologies for Polar Paleoclimate Archives – Italian-German Partnership).

    Biodiversità

    Ecco perché la pelliccia degli orsi polari non si ghiaccia mai

    di Simone Valesini

    31 Gennaio 2025

    Secondo la ricerca, che ha ricevuto per le foto la copertina della rivista Nature Communication Earth & Environment, il fenomeno dell’inverdimento dell’Artico sarebbe strettamente legato al ritiro dei ghiacciai. “Ed è la prima volta che viene ricostruito il collegamento tra la riduzione del ghiaccio marino, il ritiro dei ghiacciai con l’incremento dell’areale della vegetazione delle Svalbard”, ha spiegato Tommaso Tesi ricercatore del Cnr-Isp e coordinatore dello studio. Le risposte sono state chiare.

    Un declino partito dai primi decenni del Novecento
    “Il drastico declino dell’estensione del ghiaccio marino registrato a partire dai primi decenni del ‘900 – ha spiegato ancora Tommaso Tesi – è coinciso con un incremento della vegetazione terrestre, suggerendo una forte espansione della tundra nelle aree precedentemente occupate dai ghiacci”. Inoltre, “i risultati dimostrano come la rapida espansione della tundra abbia avuto un picco massimo intorno agli anni ’90 del secolo scorso, in concomitanza con l’accelerazione del riscaldamento globale”.

    Le dinamiche del greening
    Lo studio ha anche permesso di ricostruire le dinamiche dell’inverdimento che ha determinato anche un cambiamento nella composizione delle comunità vegetali. “Attraverso l’analisi di firme chimiche da un archivio sedimentario marino prelevato alle latitudini estreme delle Isole Svalbard, in Norvegia, abbiamo individuato segnali riconducibili a un importante cambiamento nella copertura della tundra durante la transizione climatica registrata tra la Piccola Età del Ghiaccio (1400-1900 d.c.) e gli ultimi 100 anni in concomitanza con l’attuale riscaldamento di origine antropica”, spiega Tommaso Tesi.

    Crisi climatica

    La Groenlandia si scioglie sempre di più

    di Fiammetta Cupellaro

    03 Febbraio 2025

    Nella tundra vive una pianta “anomala”
    “Inizialmente le superfici terrestri emerse dall’arretramento dei ghiacci sono state colonizzate da muschi e licheni, tipici della tundra. Successivamente, con il progressivo accumulo di materia organica e il miglioramento delle condizioni del suolo, hanno iniziato a insediarsi anche le piante vascolari (piante con radici, fusto e foglie)”, ha detto Gianmarco Ingrosso, ricercatore dell’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del Cnr e primo autore dello studio “Tra le specie vegetali che sembrano beneficiare maggiormente del nuovo assetto climatico, un ruolo di primo piano è svolto da Salix polaris, una piccola specie arbustiva adattata a condizioni più miti, che sta gradualmente aumentando il suo areale di distribuzione”.
    L’equilibrio ecologico dell’Artico
    Un quadro complesso che solleva nella comunità scientifica di riferimento importanti interrogativi sull’equilibrio ecologico dell’Artico. “Se da un lato l’aumento della copertura vegetale potrebbe favorire il sequestro di carbonio atmosferico, dall’altro un cambiamento così drastico delle aree precedentemente occupate dai ghiacciai potrebbe portare a conseguenze significative sui cicli biogeochimici e sull’areale di distribuzione della fauna autoctona”, concludono i ricercatori del Cnr. “Inoltre, la fusione del permafrost, accelerata dall’aumento della temperatura, potrebbe rilasciare nell’atmosfera grandi quantità di gas serra, vanificando i benefici derivanti dall’incremento della biomassa vegetale. In questo caso, la crescita della vegetazione in Artico e un ambiente sempre più ‘verde’ rappresentano un serio campanello di allarme per i fragili ecosistemi polari”. LEGGI TUTTO

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    Imballaggi superflui, una startup crea scatole su misura

    “Il rifiuto migliore? È quello che non si produce”. Questo è il mantra di Voidless, startup milanese fondata nel 2022 da tre ingegneri under30: Carlo Villani, Mattia Bertolani, e Daniel Kaidanovic. L’azienda, partita da un garage accanto al Politecnico di Milano, oggi progetta e costruisce macchinari industriali di nuova generazione che creano imballaggi su misura direttamente nei magazzini. L’obiettivo è quello di ridurre il consumo di cartone, materiali di riempimento e di ottimizzare i trasporti. Abbattendo il fenomeno dell’overpackaging connesso all’espansione dell’e-commerce: “Ricevere pacchi grandi è un’esperienza sempre più comune e frustrante per il consumatore, che crea danni reputazionali al venditore e ambientali in termini di produzione di rifiuti e CO2 evitabili. Siamo convinti che una gestione più intelligente del packaging non solo riduca l’impatto ambientale, ma crei anche valore per le aziende, rendendo i loro processi più snelli ed efficaci”, ci racconta il co-fondatore e Ceo di Voidless, Carlo Villani.

    Nel dettaglio, i sistemi innovativi proposti da Voidless rappresentano una soluzione all’avanguardia per ogni tipo di magazzino, offrendo la possibilità di creare, in tempo reale, scatole della dimensione perfetta per qualsiasi oggetto da spedire. “L’integrazione di questa tecnologia permette agli operatori logistici di produrre internamente le scatole, eliminando la necessità di acquistarle da fornitori esterni. Questo processo riduce l’impatto ambientale, aumenta la flessibilità e semplifica il processo di approvvigionamento, ma offre anche la possibilità di personalizzare ogni singola scatola con messaggi o loghi specifici, una leva strategica fondamentale per il marketing moderno”.

    Scatole su misura. Come funziona il sistema
    Scatole su misura. E’ questo l’obiettivo di Voidless, nata per migliorare e rendere più efficiente il packaging nei magazzini, dove la gestione delle scatole standard è attualmente costosa e complessa, richiedendo l’ordine, lo stoccaggio e il coordinamento di diversi formati. L’idea, nasce dell’inventiva di tre ingegneri, si tratta di un sistema di packaging on-demand all’avanguardia (con sei brevetti), gestito da un algoritmo proprietario che consente la produzione in tempo reale di scatole (just in time) su misura per ogni ordine. Non solo, queste ultime possono essere arricchite in maniera totalmente automatica da un branding personalizzato, da eventuali grafiche o QR code. La missione di Voidless è risolvere il problema dell’over-packaging, un fattore che incide pesantemente sull’ambiente e sui costi operativi delle aziende.

    L’impianto Voidless per creare scatole su misura  LEGGI TUTTO

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    Un parco fotovoltaico lungo la pista di atterraggio, così l’autoconsumo decolla a Fiumicino

    Lunga vita alle batterie. È il caso di dirlo, ma soprattutto di metterlo in pratica, visto che nel mondo della transizione energetica, le batterie per accumulare l’energia prodotta da fonti rinnovabili, saranno un bene indispensabile. Infatti, i sistemi di accumulo sono strumenti strategici già oggi, e lo diventeranno sempre più negli anni futuri. Virtuoso, in questo caso, è l’esempio dell’aeroporto internazionale di Fiumicino, il più importante d’Italia, uno dei principali scali europei, dove ADR, l’azienda che lo gestisce ed uno dei big player globali dell’energia, Enel, hanno messo insieme forze e competenze per promuovere la decarbonizzazione seguendo i principi di economia circolare, con due progetti innovativi: Solar Farm e Pioneer.

    Il primo è il più grande impianto fotovoltaico in autoconsumo realizzato in uno scalo europeo, posizionato lungo il lato orientale della Pista 3, è stato progettato da Aeroporti di Roma e realizzato da Enel in collaborazione con Circet, e si compone di 55mila pannelli fotovoltaici per quasi 2.5 km, che sviluppano una potenza di 22 MWp e consentiranno di produrre ogni anno più di 30 milioni di kWh di energia elettrica.

    Fisco verde

    Fotovoltaico gratis in base all’ISEE: come funziona il reddito energetico

    di Antonella Donati

    18 Febbraio 2025

    Ma se Solar Farm costituisce un importante passo in avanti nella sostenibilità energetica, il secondo progetto, Pioneer, è complementare e per certi aspetti rivoluzionario, perché utilizza le batterie usate delle auto elettriche, dismesse dall’industria dell’automotive ma ancora molto efficienti. Una seconda vita dunque. “È un’esperienza di innovazione quella che stiamo facendo a Fiumicino, e virtuosa perché si riutilizzano materiali e componenti che sono ancora buoni per lo stoccaggio di energia”, ci spiega Nicola Rossi, Responsabile Innovation di Enel, perché “un’auto per poter essere performante ha bisogno di batterie che siano in grado di rilasciare molto velocemente l’energia che contengono, quindi deve avere prestazioni molto alte. Invece per lo stoccaggio dell’energia in applicazioni stazionarie, anche una batteria usata in un’auto, che viene dichiarata finita, può avere ancora una seconda vita”.

    Infatti una batteria con una capacità residua intorno all’85% andrebbe sprecata, invece, questo adattamento con l’impianto fotovoltaico dell’aeroporto, rappresenta un modello virtuoso di riutilizzo per l’elettrificazione che potrebbe essere replicato su larga scala.Soprattutto perché quando i numeri dei veicoli elettrici saranno molto elevati, altrettanto elevata sarà la presenza di batterie da riutilizzare. Nello specifico di Pioneer, l’accordo prevede di realizzare e avviare entro l’anno in corso, uno tra i più grandi sistemi di stoccaggio energetico con batterie second life ibride a livello europeo, utilizzando circa 700 pacchi batteria grazie alla collaborazione di tre differenti case automobilistiche, che hanno ceduto le batterie delle loro auto, consentendo di realizzare un Battery Energy Storage System in grado di aggiungere una capacità complessiva di 10 MWh per gestire l’energia rinnovabile prodotta dai pannelli installati a bordo pista.

    “Abbiamo integrato pacchi di batterie usate, prelevati dai pianali delle auto di diversi brand, modelli e con diverse caratteristiche di invecchiamento per realizzare un sistema di stoccaggio di dimensioni industriali con l’obiettivo di stoccare l’energia nei picchi di produzione e rilasciarla quando si ha necessità di consumo, ad esempio nelle ore serali quando il fotovoltaico non è in funzione. L’innovazione sta proprio in questa integrazione, perché a differenza di batterie nuove che sono sostanzialmente simili, in questo caso stiamo parlando pacchi di batterie che hanno tutti avuto storie diverse nella loro vita passata”, spiega ancora il manager di Enel.

    Ma il sistema messo a punto per l’aeroporto di Fiumicino non servirà solo ad accumulare energia e rilasciarla allo scalo per coprire gli eventuali picchi serali, ma potrà fornire anche servizi alla rete. Il progetto si è aggiudicato un finanziamento da oltre 3 milioni di euro dall’Innovation Fund della Commissione Europea, con l’obiettivo di ridurre le emissioni del più grande hub aeroportuale italiano, migliorando la sostenibilità della filiera delle batterie. Tra l’altro, un sistema di machine learning sviluppato da Enel analizza i fabbisogni energetici dell’aeroporto e stima i prezzi dell’energia così come la produzione dell’impianto fotovoltaico, in modo da massimizzare il ritorno finanziario del sistema di accumulo.

    Energia

    Il vetro che cattura la luce: dalla Corea del Sud la svolta per il fotovoltaico trasparente

    di Paolo Travisi

    03 Febbraio 2025

    Il modello romano – che nei prossimi 5 anni vedrà aumentare la potenza installata di 60 MWp, utile per soddisfare il fabbisogno energetico di 30.000 famiglie italiane per un anno intero – potrebbe essere esportabile anche ad altri aeroporti del paese.

    “Nel momento in cui la mobilità elettrica crescerà, le batterie di seconda vita saranno più disponibili, ed è chiaro che questa sarebbe un’applicazione interessante e scalabile, ma è altrettanto evidente che oggi siamo ancora agli inizi, perché le macchine elettriche sono giovani, quindi il tutto va visto in prospettiva, anche se non troppo lontana” spiega ancora Nicola Rossi di Enel. D’altronde portare ad esaurimento le batterie, costituite da materie prime preziose, significa anche avviare un lungo percorso virtuoso che può, anzi deve, concludersi con un corretto smaltimento che passi dal recupero e riciclo del materiale tecnologico. LEGGI TUTTO

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    L’Africa supererà la soglia di +1,5 gradi di temperatura entro il 2040

    Nonostante emetta meno del 4% delle emissioni globali di gas serra, l’Africa supererà la soglia di 1,5°C di riscaldamento – il limite stabilito dall’Accordo di Parigi – entro il 2040, anche in uno scenario di basse emissioni. Lo rivela un nuovo studio condotto dagli scienziati dell’Università dello Zimbabwe e dell’International Livestock Research Institute (ILRI), in Kenya, pubblicato sulla rivista CABI Reviews.

    I cambiamenti climatici rappresentano una seria minaccia per gli esseri umani e i sistemi ecologici, aggravando le disuguaglianze sociali, le disparità di genere e riducendo le opportunità di lavoro. “I sistemi di sussistenza basati sull’agricoltura africana saranno inevitabilmente i più colpiti a causa della loro dipendenza da un’agricoltura sensibile al clima e della limitata capacità di adattamento dovuta al basso sviluppo economico legato principalmente a contingenze storiche”, ha commentato il professor Paul Mapfumo, vice rettore dell’Università dello Zimbabwe e autore principale del documento. “Hanno subito perdite e danni considerevoli a causa dei cambiamenti climatici e questo peggiorerà con l’aumentare dell’intensità dei rischi climatici. Né i meccanismi di adattamento incrementali esistenti o pianificati, né i benefici previsti delle misure migratorie sono sufficientemente completi per far fronte alle nuove condizioni climatiche imminenti”.

    Biodiversità

    “Biodiversity leak”, quando la conservazione dell’ecosistema crea squilibri altrove

    di Sara Carmignani

    14 Febbraio 2025

    Secondo gli autori, sono necessari percorsi di transizione equa per l’agricoltura, al fine di ottenere sistemi di produzione sostenibili che migliorino la sicurezza alimentare e riducano la povertà. Le strategie proposte includono finanziamenti destinati al progresso scientifico, tecnologico e all’innovazione, il ripristino di colture trascurate o sottoutilizzate e del patrimonio genetico del bestiame, il miglioramento della fertilità e della salute del suolo, il risanamento dei terreni degradati, la protezione degli ecosistemi naturali e della biodiversità, l’accesso a un’educazione di qualità, lo sviluppo dei mercati e la creazione di nuove opportunità di distribuzione e di commercio.

    “Tali sforzi dovrebbero anche concentrarsi sulla meccanizzazione e sull’ecologizzazione dell’agricoltura africana, guidati da una deliberata ‘rivoluzione industriale verde’ per la nuova normalità indotta dal cambiamento climatico”, ha aggiunto Mapfumo. “La sostenibilità della risposta al cambiamento climatico e un quadro di riferimento per un percorso di transizione equa per l’Africa si basano anche sulla corrispondente trasformazione dei sistemi educativi e delle capacità di ricerca, adattati per guidare lo sviluppo economico dell’Africa”.

    Una transizione giusta offrirebbe, pertanto, opportunità di inclusione sociale, equità, sviluppo di auto-mobilitazione e auto-organizzazione delle comunità, nonché investimenti per costruire un’agricoltura resiliente al clima, che riduca la povertà e contribuisca all’azzeramento delle emissioni di carbonio. LEGGI TUTTO

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    Coltivare le verdure nello spazio: sarà possibile anche in assenza di luce

    L’insalata potrà crescere nello spazio anche senza la luce. Lo sostiene uno studio pubblicato sulla rivista Plant Communications e coordinato dai ricercatori Raffaele Dello Ioio e Paola Vittorioso del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie della Sapienza, in collaborazione con l’Institute of Experimental Botany, l’Agenzia Spaziale Italiana e il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, che […] LEGGI TUTTO

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    Biodiversità e genetica: cos’è il “Cali Fund” e perché è uno strumento per la giustizia ambientale

    Nel fondo dei mari caraibici nel 1969 fu scoperto che da un piccolo animale, l’ascidia, era possibile ricavare la trabectedina, un farmaco antitumorale che interagisce con il DNA. Da alcuni fagioli coltivati in Colombia si ottengono invece sistemi per la resistenza alle malattie di colture agricole presenti in tutto il mondo e da piante come la Azadirachta indica, conosciuta anche come “neem”, si ricavano oli e medicine naturali così diffuse che in India vengono chiamate le “farmacie del villaggio”. Il bello della biodiversità è anche questo: offre una infinità di dati e sequenze genetiche che l’uomo può usare nella farmaceutica, nelle biotecnologie, nella cosmesi e in tanti altri campi. Quando però i grandi gruppi e le società multinazionali sfruttano quelle sequenze, per esempio basandosi su piante o animali di cui si sono presi cura per secoli le comunità indigene, e ne ottengono ricavi enormi, non dovrebbero condividere parte dei loro guadagni? E se una minuscola percentuale del loro fatturato finisse in un fondo dedicato proprio a proteggere la stessa biodiversità?. Questa è la domanda alla base del fondo chiamato “Cali Fund”, nato durante la Cop16 che si è svolta in Colombia a novembre e diventato operativo oggi a Roma- con annuncio ufficiale – alla Cop16 bis, i tempi supplementari per trovare un accordo per la protezione della biodiversità planetaria in nella sede della Fao.

    Cos’è il Cali Fund e perché è una misura di giustizia ambientale

    Il Cali Fund, come ha detto l’Unep, l’organismo ambientale dell’Onu, è qualcosa che promette di cambiare le carte in tavola: in teoria dovrebbe infatti garantire una condivisione “giusta ed equa” dei benefici derivanti da quelle che vengono chiamate le DSI, le Digital Sequence Information sulle risorse genetiche che usano le aziende e che vanno dalla farmaceutica sino alla cosmesi.

    Focus

    Cop16 e la natura dimenticata, nemmeno un politico italiano al grande vertice sulla biodiversità

    di Giacomo Talignani

    25 Febbraio 2025

    Il nuovo fondo annunciato a Roma prevede tre passaggi davvero potenzialmente rivoluzionari perché coinvolgono direttamente il settore privato nella lotta alla perdita della biodiversità. Per esempio indica il fatto che le aziende che sfruttano commercialmente i dati provenienti da risorse genetiche presenti in natura per usarle in una serie di settori e prodotti redditizi contribuiscano con parte dei loro ricavi (a partire dallo 0.1%) al Fondo. Quei contributi saranno destinati tramite la gestione CBD, la Convenzione sulla biodiversità, all’attuazione delle tante e importanti decisioni per conservare e proteggere la natura inserite nel quadro sulla biodiversità di Kunming-Montreal (KMGBF) e, fattore decisivo, almeno il 50% delle risorse del fondo sarà destinato ai popoli indigeni, i veri custodi della natura.

    Presentando l’operatività del Fondo, la presidente della Cop16, la colombiana Susana Muhamad, ha parlato di svolta storica e di un duro lavoro per poterlo rendere efficace appena quattro mesi dopo l’adozione della decisione presa a Cali. L’idea del Fondo è anche interessante perché si basa sulla stretta attualità, ovvero la continua corsa all’accesso dei dati genetici, una miniera d’oro per sviluppi commerciali in tantissimi settori, compresi intelligenza artificiale ed energia.

    Il suo funzionamento però è incerto, soprattutto perché è privo di obblighi: tutto si basa sulla volontarietà delle aziende e del settore privato, che sì avranno uno strumento “equo” per compensare in qualche modo i loro ricavi e permettere nuova protezione di biodiversità, ma dall’altra parte non hanno vincoli nel farlo, cosa che secondo alcuni potrebbe trasformare il Cali Fund in un flop o, addirittura, in una scusa per sfruttare ulteriormente la biodiversità.

    Le idee

    Cop16, gli aiuti al Sud del mondo per salvare la biodiversità

    di Greenpeace

    19 Febbraio 2025

    Nelle stesse aule della Cop16, nonostante il Fondo fosse già stato pensato in passato (e ora è operativo), non è stato fatto per esempio nessun nome di società o aziende pronte ad aderirvi e a finanziarlo. Di sicuro il nuovo Fondo, più che una opzione di contrasto a quella che viene chiamata “biopirateria”, così come è pensato offre una chance di redenzione, un sistema per aiutare sia i popoli sia la biodiversità di quelle aree del mondo dove la diversità genetica viene sfruttata, ma non essendoci nessun obbligo nel farlo tutto dipenderà dalle scelte del settore privato. Il mercato globale del sequenziamento del DNA che si affida in gran parte sulle DSI si stima raggiungerà i 21,3 miliardi di dollari entro il 2031, enormi profitti di cui anche solo piccolissime percentuali potrebbero finire nel Fondo diventando però davvero significative per la conservazione della natura.

    Per funzionare, alcuni delegati presenti alla Cop romana sottolineano che i Paesi partecipanti dovrebbero ragionare su quadri giuridici per garantire che le aziende che usano i DSI versino poi realmente i soldi, in modo che poi possano essere distribuiti davvero alle comunità locali. Stime preliminari indicano che potrebbe generare tra gli 1 e i 9 miliardi di dollari l’anno, ma tutto dipenderà appunto da come si comporteranno i privati. Insomma, nonostante sia stato accolto molto positivamente durante il lancio di Roma, il Cali Fund per ora resta un “potenziale” strumento davvero innovativo, ma è chiaro che serve un ulteriore impegno per implementarlo. Come commenta il WWF international, “pur essendoci alcuni elementi da chiarire e rafforzare, accogliamo con favore l’istituzione di questo meccanismo innovativo, che rafforzerà il raggiungimento degli obiettivi volti a fermare e invertire la perdita di natura entro il 2030, assicurando al contempo benefici diretti a coloro che hanno salvaguardato gli ecosistemi per secoli”. LEGGI TUTTO

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    In arrivo il Conto termico 3.0: le novità sull’incentivo per riscaldamento e climatizzatori

    In dirittura d’arrivo il Conto termico 3.0. Entrano tra i prodotti incentivati anche i climatizzatori da utilizzare abbinati al sistema di riscaldamento senza la necessità di sostituire la vecchia caldaia. Si dovrà trattare però di un intervento tecnico e non di un semplice acquisto con installazione fai da te. L’incentivo potrà coprire fino ad un […] LEGGI TUTTO