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    Scoperte piante con le foglie di plastica

    Sembra la trama di un futuro distopico ma purtroppo è realtà: piante con foglie di plastica, non quelle finte che compriamo per arredare le nostre case, ma direttamente degli alberi che troviamo in natura. Sappiamo bene che dalle profondità della Fossa delle Marianne sino alle nuvole sopra il monte Fuji, le microplastiche prodotte dalle attività antropiche sono ormai ovunque, con conseguenze difficili da comprendere. E sappiamo anche che tramite più processi ormai sono dentro di noi: si trovano in qualunque organo, dal cervello fino ai polmoni, e i danni potenziali che questi polimeri potrebbero arrecare nel tempo alla nostra salute sono oggetto di studio e ricerca in tutto il mondo.

    Inquinamento

    Se aumentano le temperature le piante assorbono più nanoplastiche

    di redazione Green&Blue

    10 Febbraio 2025

    Dalle radici alle foglie
    Ora però una nuova analisi pubblicata su Nature dai ricercatori cinesi dell’Università di Nankai racconta una scoperta sorprendente e per molti aspetti tragica: le foglie delle piante possono assorbire direttamente le microplastiche e integrarle. Lo hanno scoperto studiando la vegetazione di alcune aree intorno a fabbriche e zone industriali particolarmente inquinate. Finora si sapeva che una determinata quantità di assorbimento da parte delle piante poteva avvenire per esempio tramite le radici con una traslocazione ai germogli verso l’alto molto lenta. Ma in un contesto in cui le microplastiche derivate dalle nostre attività sono sempre più presenti in atmosfera i ricercatori asiatici volevano comprendere e trovare prove concrete dell’assorbimento diretto da parte delle piante nelle parti esposte, quelle esterne al suolo.

    Inquinamento

    Le microplastiche trasformano le nuvole e il clima

    di redazione Green&Blue

    12 Novembre 2024

    Le sostanze
    Grazie alle loro analisi che utilizzano la spettrometria di massa i ricercatori mostrano “la presenza diffusa di polimeri e oligomeri di polietilene tereftalato (Pet) e polistirene (Ps) nelle foglie delle piante e identificano che i loro livelli aumentano con le concentrazioni atmosferiche e la durata della crescita fogliare” scrivono nella ricerca. Si parla di microplastiche che si infiltrano nel tessuto fogliare e diventano parte delle foglie stesse, come in quelle trovate su alcune piante di mais ma in questo caso, specificano gli esperti, non c’è un processo di assorbimento dalle radici ma direttamente dall’atmosfera portando così a una “presenza diffusa di polimeri plastici nella vegetazione”.
    Particelle anche nella lattuga in Portogallo
    I test e le rilevazioni sono stati fatti sia in aree urbane che in siti agricoli e i ricercatori, dopo le analisi in laboratorio, confermano che l’assorbimento fogliare è una via significativa per l’accumulo di plastica nelle piante con traslocazione nel tessuto vascolare e ritenzione in strutture specializzate come i tricomi.
    Mentre precedenti studi avevano già dimostrato come i micro frammenti di plastica tendono a depositarsi sulle superfici vegetali, di recente nuove ricerche condotte in Australia avevano segnalato la presenza di particelle acriliche nelle foglie per esempio di una pianta come la Chirita sinensis, ma non erano riuscite a quantificare e collegare i risultati direttamente ai livelli atmosferici, così come indagini condotte in Portogallo avevano rilevato particelle nella lattuga coltivata in ambienti urbani.

    Inquinamento

    Sostanze tossiche nei parchi urbani? Ce lo dicono i ricci

    di Paolo Travisi

    17 Aprile 2025

    Sulle foglie di mais
    La nuova ricerca cinese però va oltre. Dopo i campionamenti effettuati a Tianjin, che comprendono aree come i siti di produzione di Dacron, un parco pubblico, una discarica e un campus universitario, mostra una chiaro assorbimento delle concentrazioni di microplastiche nelle foglie del mais. In particolare i livelli di plastica in quelli rilevati presso le fabbriche e le discariche erano di due ordini di grandezza superiori a quelle per esempio studiate nel campus. Gli scienziati scrivono anche che nei luoghi più inquinati “le concentrazioni di PET hanno raggiunto decine di migliaia di nanogrammi per grammo di peso fogliare secco”. Tra l’altro, fanno notare gli esperti, in generale le foglie più vecchie e le foglie esterne per esempio di alcune verdure hanno accumulato più plastica rispetto a quelle appena cresciute o a quelle più interne, fatto che suggerisce un possibile accumulo nel tempo.
    I rischi per la salute
    La dinamica descritta è quella che indica come le particelle di plastica aerodisperse siano entrate nelle foglie attraverso gli stomi e si siano poi spostate lungo le vie interne fino ai tessuti vascolari e ai tricomi: così sono “nate” praticamente le foglie di plastica. “I nostri risultati dimostrano che l’assorbimento e l’accumulo di microplastiche atmosferiche da parte delle foglie delle piante si verificano ampiamente nell’ambiente e questo non dovrebbe essere trascurato quando si valuta l’esposizione degli esseri umani e di altri organismi a microplastiche ambientali” concludono gli scienziati. LEGGI TUTTO

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    Oscar europeo del clima 2025: la svedese Tele2 l’azienda più green

    L’Oscar europeo del clima 2025 va alla Tele2 di Stoccolma. La società svedese specializzata in telecomunicazioni ha infatti accumulato il punteggio più alto nell’ultima edizione di Europe’s Climate Leaders, classifica delle aziende più green del Vecchio Continente redatta dal Financial Times in collaborazione con Statista. A dominare la parte alta della graduatoria sono soprattutto le imprese del Nordeuropa: Regno Unito, Paesi Bassi, Svezia, Danimarca, Germania. Ma nei primi posti, su un elenco di centinaia di aziende, compaiono anche alcune italiane. C’è addirittura sul podio la Erg della famiglia Garrone. Ma il suo terzo posto sorprende fino a un certo punto: dal 2008 l’azienda ha disinvestito dal settore petrolifero (core business fin dalla fondazione nel 1938) per concentrarsi sulle energie rinnovabili. E oggi nell’eolico è tra i primi dieci operatori a livello europeo.

    L’intervista

    “La transizione energetica oggi è tecnicamente possibile ed economicamente vantaggiosa”

    di Paolo Travisi

    10 Aprile 2025

    Le aziende italiane
    Al 18esimo posto compare l’Enav, Ente nazionale per l’assistenza al volo. Come si legge nel suo bilancio 2024 “è riuscita a diminuire ancora la propria impronta carbonica arrivando ad un -87,4% di emissioni al 2019”. Poco più, in 21esima posizione, figura il Gruppo Irce, che “opera nel settore dei conduttori per avvolgimento e cavi elettrici”. Con base a Imola, ha quattro stabilimenti in Italia e cinque all’estero. Attento alle emissioni della propria filiera, il gruppo lo scorso anno ha inaugurato proprio Imola un impianto fotovoltaico da 60 megawatt per soddisfare parte dei suoi fabbisogni energetici. Più lontani dal vertice il gruppo Safilo (42esimo posto), Enel (67esimo), Maire (78esimo).

    Riduzione gas serra, trasparenza, collaborazione
    L’analisi del Financial Times si concentra principalmente sulle aziende che hanno ottenuto la maggiore riduzione, in un periodo di cinque anni (2018-23 per questa edizione), dell’intensità delle emissioni di gas serra di Scopo 1 e 2, quelle che provengono rispettivamente dalle attività operative dell’azienda e dall’energia che utilizza. Tra i criteri utilizzati per stilare la classifica c’è anche la trasparenza sulle emissioni di Scopo 3, quelle che derivano dalla catena di fornitura di un’azienda e che in genere costituiscono la maggior parte delle emissioni di carbonio aziendali. Vengono inoltre presi in considerazione i progressi delle aziende nella riduzione delle emissioni assolute e la loro collaborazione con enti di valutazione della sostenibilità.

    Europa

    La lotta alla crisi climatica ha bisogno dell’Unione europea

    di Jacopo Bencini*

    07 Aprile 2025

    Gap green tra Nord e del Sud Europa
    “La quinta edizione di Europe’s Climate Leaders”, spiegano dal quotidiano finanziario della City, “mira a evidenziare le aziende europee che stanno compiendo progressi nella riduzione delle emissioni di gas serra”. Ma non vuole essere una lista dei buoni e dei cattivi, anche nello scorrerla non si può fare a meno di notare il gap green tra le realtà produttive del Nord e del Sud Europa.
    Più in generale però il rapporto, pur riferendosi al quinquennio 2018-2023, sembra confermare quello che sostengono in molti: il cammino delle imprese europee verso una economia decarbonizzata è ormai avviato e sta dando risultati, grazie anche alle politiche di Bruxelles. Si tratta ora di capire se il ciclone Trump provocherà ripensamenti. In Italia e altrove. LEGGI TUTTO

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    Bonus tende 2025: le novità, come richiederlo, i requisiti

    L’estate è alle porte e anche per il 2025 c’è la possibilità di approfittare del Bonus tende. Si tratta di una detrazione Irpef del 50% per la prima casa e del 36% per gli altri immobili in dieci rate annuali con un massimo di 60.000 euro, nell’ambito dell’ecobonus. Tende e schermature solari, infatti, fanno parte degli interventi di risparmio energetico in quanto consentono di limitare i consumi dei climatizzatori grazie al fatto di ridurre l’insolazione, e quindi il calore calore che entra in casa, in maniera del tutto naturale. Per l’agevolazione fiscale, però, il risparmio energetico deve essere certificato.
    Solo strutture tecniche e “niente fai da te”. Sono ammessi al Bonus tende:
    tende da sole a telo avvolgibile
    a rullo
    a lamelle orientabili (veneziane)
    frangisole;
    coperture tessili per pergole;
    zanzariere tecniche

    Fisco verde

    Bonus per i Gruppi di autoconsumo e le Comunità energetiche rinnovabili: costi e benefici

    di Antonella Donati

    02 Aprile 2025

    La certificazione
    Il rispetto delle norme tecniche deve essere attestato dal produttore per tutte le tipologie di schermature solari. Anche l’installazione deve essere certificata in quanto occorre attestare la riduzione del consumo energetico che si ottiene applicando i sistemi di protezione alle vetrate. Per questo motivo il Bonus è escluso per le tende d’arredo liberamente montabili e smontabili, in quanto prive di documentazione del produttore, e anche per le installazioni fai da te e non da parte del tecnico specializzato.
    Le regole per l’installazione e spese detraibili
    Per assicurare gli obbiettivi di risparmio energetico richiesti ai fini dell’agevolazione, tende e schermature solari debbono essere installate esclusivamente a protezione di superfici vetrate esposte a Sud, Est o Ovest. Ai fini della riduzione dell’insolazione devono essere essere regolabili in base alla luce solare, in modo che con la loro installazione sia possibile garantire un valore di trasmittanza solare (gtot), calcolato secondo la norma UNI EN 14501, inferiore a 0,35. Questo valore deve essere certificato. Per questo motivo tra le spese detraibili, oltre a fornitura e posa in opera e a tutte le opere accessorie legate all’installazione, rientrano anche le prestazioni professionali quali asseverazione e redazione della documentazione tecnica da presentare all’Enea. L’agevolazione è ammessa anche per la sostituzione delle vecchie tende a patto che le nuove consentano di ottenere un ulteriore risparmio energetico. In questo caso sono detraibili anche le spese di smontaggio e smaltimento delle precedenti strutture oscuranti.

    Fisco verde

    Bonus elettrodomestici 2025, salta lo sconto in fattura

    di Antonella Donati

    26 Marzo 2025

    Le pergole bioclimatiche e le zanzariere
    Oltre alle tende è possibile richiedere il bonus anche per l’installazione delle pergole bioclimatiche, vale a dire delle strutture tecniche leggere installate su una parete o autoportanti caratterizzate da un tetto formato da lamelle orientabili automatiche. Rientrano nell’ambito delle strutture oscuranti. Si possono installare senza permessi edilizi, purché siano strutture aperte da tutti i lati.
    Anche le zanzariere sono ammesse (ma non tutte). Anche le zanzariere, peraltro, possono rientrare nell’ecobonus. Per questo però debbono avere le stesse caratteristiche delle altre strutture oscuranti e rispettare i requisiti di trasmittanza solare richiesti per le schermature tecniche. Occorre anche in questo caso la specifica certificazione tecnica da parte del produttore e dell’installatore.

    Fisco verde

    Bonus mobili e risparmio energetico, lo sconto fiscale vale per l’acquisto di elettrodomestici

    di Antonella Donati

    19 Marzo 2025

    Obblighi Enea e modalità di pagamento
    Per usufruire della detrazione è necessario effettuare il pagamento tramite bonifico parlante per l’ecobonus.Si deve poi caricare sul portale ENEA, entro 90 giorni dalla fine dei lavori, tutta la documentazione (fatture, asseverazioni, schede tecniche). La ricevuta dell’invio è sempre necessaria ai fini della detrazione. LEGGI TUTTO

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    Anche le gomme da masticare rilasciano microplastiche

    Si trovano appiccicate alle panchine, attaccate sotto i banchi di scuola, abbandonate sui marciapiedi. Le gomme da masticare sono un grande business, con un valore stimato di 42,85 miliardi di euro nel 2025. Una valutazione globale indica che ne vengono prodotte 1.740 miliardi all’anno, con un peso medio per singolo pezzo di 1,4 grammi, il che significa che la quantità totale ammonta a ben 2,436 milioni di tonnellate annue.
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    Gomme a base di petrolio
    La maggior parte delle chewing gum è realizzata con gomme sintetiche a base di petrolio. Di fatto, ci si ritrova a masticare un pezzo di plastica malleabile.
    “Il marchio Wrigley Extra collabora con dentisti di tutto il mondo per promuovere l’uso di gomme senza zucchero per migliorare la salute orale”, spiega David Jones, docente alla Facoltà di Scienze dell’ambiente e della vita dell’Università di Portsmouth, nel Regno Unito. “Ma le analisi dimostrano che il prodotto contiene stirene-butadiene, sostanza chimica resistente utilizzata per realizzare pneumatici per auto; polietilene, cioè la plastica usata per produrre sacchetti e bottiglie; acetato di polivinile, ovvero colla per legno. E poi dolcificanti e aromi”.

    Dai contenitori dedicati alla segnaletica
    Dopo aver sputato la gomma, molti consumatori la buttano, purtroppo, per terra. Nel Regno Unito, uno studio ha stimato che 250mila chewing gum fossero rimaste appiccicate in Oxford Street a Londra, mentre una ricerca del 2015 ha evidenziato che il costo della rimozione dalle strade della capitale ammontava a 56 milioni di sterline. Per ovviare a un problema che, a quanto pare, è molto diffuso, sono stati avviati vari progetti. Alcuni Paesi hanno, per esempio, installato contenitori dedicati alla raccolta delle gomme usate, come è avvenuto a Hong Kong dal 2018. Altri hanno incoraggiato, tramite un’apposita segnaletica, lo smaltimento responsabile. Singapore ha addirittura vietato l’importazione e la vendita di chewing gum dal 1992. Insomma, tutti si sono concentrati sulla questione dei rifiuti, con provvedimenti più o meno drastici. Il che va bene, però non basta.
    Un inquinamento da contrastare
    “L’adeguato smaltimento delle gomme non può essere considerato una soluzione a questa forma di inquinamento da plastica”, stigmatizza Jones. “Il chewing gum, al pari di altre materie plastiche, non è biodegradabile. Si indurisce e si decompone in microplastiche, un processo che può richiedere decenni”. In proposito, un gruppo di ricercatori dell’Università della California, negli Stati Uniti, ha evidenziato che un grammo di gomma da masticare rilascia una media di 100 microplastiche, mentre alcune ne rilasciano addirittura fino a 600 per grammo.
    “Chiarire ciò significa affrontare la causa principale della questione, spostando la focalizzazione dalla negligenza individuale al sistema aziendale. E questo pone la responsabilità non solo sui consumatori, ma anche sui produttori”, prosegue l’esperto.

    Benessere a tavola

    Microplastiche, quei pericolosi “intrusi” che frutta e verdura possono aiutare a contrastare

    di Giorgio e Caterina Calabrese

    11 Aprile 2025

    In attesa di alternative sostenibili
    “Anzitutto bisognerebbe apporre un’etichettatura più esauriente e completa sulle confezioni, in modo che gli acquirenti possano fare scelte consapevoli”, propone il docente. “Poi ci vorrebbero normative più severe e rigorose, per obbligare i fabbricanti a rendere conto delle proprie azioni. Infine, servirebbe una tassa sulle gomme sintetiche, mirata anche a incentivare gli investimenti in gomme a base vegetale o a creare altre alternative sostenibili. L’inquinamento da chewing gum è solo un’ulteriore forma di inquinamento da plastica. È ora di iniziare a trattarlo come tale”. LEGGI TUTTO

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    Batterie all’uranio impoverito per stabilizzare l’energia accumulata grazie alle rinnovabili

    Uranio impoverito. Due parole tradizionalmente funeste, che fanno pensare ad armi terribili, radioattività pericolosa, inquinamento inestinguibile. Ma forse c’è anche dell’altro. Un gruppo di scienziati giapponesi, della Japan Atomic Energy Agency (Jaea) ha recentemente messo a punto una batteria ricaricabile a base di uranio impoverito, per l’appunto, che – dicono – potrebbe coadiuvare gli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, in particolare vento e sole, a “stabilizzare” la produzione, sostituendo le tradizionali batterie agli ioni di litio. In questo modo, proseguono gli inventori del dispositivo, si otterrebbe anche il beneficio di trasformare delle pericolose scorie nucleari in preziose risorse per l’industria.

    Come dovrebbe funzionare
    Effettivamente di uranio impoverito in giro per il mondo ce n’è parecchio. Le centrali nucleari giapponesi, per esempio, hanno lasciato in “eredità” 16mila tonnellate del materiale, e gli Stati Uniti ne conterrebbero addirittura 750mila tonnellate. Si tratta di un “sottoprodotto” delle reazioni di fissione, debolmente radioattivo ma molto tossico, in particolare per i reni: in virtù della sua alta densità, viene utilizzato sia dall’industria nucleare che in campo bellico, dove se ne fanno proiettili perforanti, che medico, dove serve alla realizzazione di schermature antiradiazioni. E forse, tra non molto, finirà anche nelle batterie.

    Il rapporto

    Italia rimandata in materia di transizione: bene le rinnovabili male la decarbonizzazione

    di Luca Fraioli

    22 Aprile 2025

    Il prototipo
    Al momento, la Jaea non ha pubblicato alcun documento dettagliato sul dispositivo messo a punto dai suoi scienziati, ma ne ha annunciato lo sviluppo il mese scorso e ha fornito una panoramica generale del suo funzionamento. Secondo la ricostruzione di Ieee Spectrum, si tratterebbe di una cosiddetta batteria di flusso, che immagazzina l’energia in due serbatoi di soluzioni elettrolitiche liquide, uno caricato positivamente e l’altro negativamente. Le soluzioni vengono poi “pompate” verso degli elettrodi, generando così elettricità. Nel prototipo è stato usato uranio per l’elettrodo negativo e ferro per l’elettrodo positivo; la soluzione elettrolitica è una miscela di solventi organici e un sale contenente sia ioni positivi e negativi, che è liquida a temperature inferiori a 100 °C.
    Uranio multicolore
    L’idea di usare uranio per costruire batterie non è nuova. Già circa 25 anni fa, Yoshinobu Shiokawa, della Tohoku University, Hajimu Yamana e Hirotake Moriyama, della Kyoto University, avevano proposto un’idea simile: la novità, nel prototipo appena realizzato, sta nell’utilizzo di ioni di ferro con differenti stati di ossidazione, che si sono rivelati cruciali per favorire la stabilizzazione della soluzione elettrolitica. In questo modo, combinando un elettrolita di ferro con un elettrolita di uranio, gli autori del lavoro sono riusciti a raggiungere una tensione di 1,5 volt nel loro prototipo, sufficiente ad accendere una piccola luce led. La batteria, inoltre, è stata caricata e scaricata per dieci volte e le sue prestazioni sono rimaste sempre le stesse, il che indica un ciclo di carica relativamente stabile: durante i cicli di carica e scarica, il colore dell’uranio è cambiato da verde a viola e poi è tornato verde, coerentemente con i suoi diversi stati di ossidazione.
    La sicurezza prima di tutto
    “La radioattività dell’uranio nel prototipo non ha costituito un problema per la sicurezza”, ha spiegato Kazuchi Ouchi, uno dei ricercatori coinvolti nel progetto, “perché il prototipo – e dunque la soluzione elettrolitica – era molto piccolo: appena 3 millilitri”. Naturalmente, scalare il dispositivo a dimensioni maggiori richiederà l’adozione di accorgimenti per la sua schermatura. Gli scienziati stanno lavorando proprio a questo, con l’obiettivo ambizioso di realizzare un giorno una batteria con 650 tonnellate di uranio, dalla capacità di 30mila chilowattora, sufficiente a soddisfare il fabbisogno giornaliero di circa 3mila famiglie. Ma c’è molto da aspettare. LEGGI TUTTO

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    Più arsenico nel riso a causa del cambiamento climatico

    La crisi climatica, oltre che con ondate di calore, eventi estremi e ridistribuzione di piante e animali, rischia di produrre effetti meno visibili, ma pericolosi. Secondo una recente analisi pubblicata sulle pagine di Lancet Planetary Health l’aumento delle temperature e dell’anidride carbonica potrebbe infatti portare ad un preoccupante aumento di tumori, malattie cardiovascolari e metaboliche dovuto all’innalzamento dei livelli di arsenico nel riso. Alimento in cima alla lista dei cibi più consumati al mondo.

    Biodiversità

    Il giallo della moria delle api, negli Usa a rischio agricoltura e miele

    03 Aprile 2025

    L’arsenico, è noto, è tossico, soprattutto nella sua forma inorganica, ricordano dall’Istituto superiore di sanità. Oltre che dalle esposizioni professionali e dal consumo di tabacco, possiamo assumerlo attraverso acqua e cibi, e quelli più a rischio sono i cereali, come il riso appunto. Con rischi per la salute che vanno da patologie metaboliche, a un aumentato rischio di alcuni tumori (soprattutto pelle, polmone e vescica) e malattie cardiovascolari, aborti spontanei e diminuzione del peso alla nascita, malattie respiratorie e renali, spiegano dall’Efsa. E c’è ragione di credere che in futuro questi effetti possano manifestarsi con più forza.

    La legge

    In arrivo un decreto per limitare l’inquinamento da Pfas dell’acqua potabile

    28 Marzo 2025

    La ricerca in Cina
    Il motivo, scrivono Lewis Ziska della Columbia University e colleghi, è che fattori come l’aumento delle temperature e delle emissioni possono aumentare le concentrazioni di arsenico nel riso. Alcuni ricercatori in passato avevano già evidenziato delle possibili criticità, ma gli scienziati hanno deciso di approfondire, conducendo esperimenti sul campo. Lo hanno fatto in Cina, nella regione del delta del fiume Azzurro, dove sono state allestite piattaforme per questo studio (note come Free-Air Carbon dioxide Enrichment). Grazie all’utilizzo di tubature e sistemi di riscaldamento a infrarossi i ricercatori sono riusciti a simulare gli effetti derivanti dall’aumento sia di anidride carbonica che delle temperature, valutando diverse condizioni. Gli esperimenti sono durati una decina di anni e hanno riguardato diverse varietà di riso.

    Le microplastiche mettono a rischio la fertilità femminile

    28 Febbraio 2025

    I risultati
    I dati sono poco rincuoranti, soprattutto quando combinati con i livelli di consumo di riso per i principali paesi asiatici, usati per stimare eventuali effetti sulla salute delle persone. Come riportano nel loro studio, infatti, un aumento di anidride carbonica di 220 ppm (parti per milione) e delle temperatura di 2°C contemporaneamente, causerebbe un aumento dei livelli di arsenico inorganico nel riso in diverse varietà. Le potenziali conseguenze sono state stimate in milioni di casi di tumori in più entro il 2050, cui si aggiungerebbero quelli derivanti dagli aumentati rischi per tutte le altre patologie non oncologiche, quali diabete, infarti, disordini neurocognitivi e problemi in gravidanza e alla nascita.

    L’adattamento climatico
    “Documentando questo impatto e identificando contemporaneamente i meccanismi dell’aumento dell’accumulo di arsenico nel riso – si legge nel paper – la nostra ricerca apre la strada all’individuazione di interventi di adattamento climatico volti a migliorare la sicurezza del riso quale alimento di base”. Questi interventi, suggeriscono, dovrebbero essere indirizzati a impedire l’accumulo di arsenico nel riso, agendo sul terreno stesso. La temperatura e l’anidride carbonica infatti, spiegano gli autori, favoriscono una serie di alterazioni nel suolo, nelle piante e nella comunità microbica locale che aumentano la concentrazione di arsenico nel riso da ultimo. Le ipotesi per affrontare il problema sono diverse, e vanno da tecniche di miglioramento delle piante di riso a una modifica nelle pratiche di gestione dei terreni usati per le risaie. Ha concluso il professor Ziska: ”Queste misure, insieme a iniziative di sanità pubblica incentrate sull’educazione dei consumatori e sul monitoraggio dell’esposizione, potrebbero svolgere un ruolo fondamentale nel mitigare l’impatto sulla salute dei cambiamenti climatici legati al consumo di riso”. Il cibo più popolare al mondo. LEGGI TUTTO

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    “Per vincere la sfida climatica dobbiamo cambiare mentalità. Il momento è adesso”

    “È un momento brutto, ma è anche quello giusto per tentare davvero di cambiare mentalità”. La lotta alla crisi climatica che sta portando a temperature sempre più elevate ed eventi meteo sempre più estremi sta vivendo un momento di forte difficoltà: le politiche di oscurantismo e negazione climatica di Donald Trump, il ritorno dei combustibili fossili, il multilateralismo internazionale che scricchiola. Nonostante il Pianeta e la natura chiedano risposte immediate, l’umanità frena nell’affrontare il problema. Eppure, come racconta il fisico dell’atmosfera del Cnr Antonello Pasini nel suo nuovo libro in uscita il 24 aprile intitolato “La sfida climatica. Dalla scienza alla politica: ragioni per il cambiamento” (Codice Edizioni, 192 pp), siamo ancora in tempo per uscire dalle tendenze attuali, a patto però che per affrontare la sfida decidiamo tutti di “cambiare mentalità”.

    Perché, per vincere la sfida del clima, dobbiamo “cambiare mentalità” come racconta nel suo nuovo libro?
    “Perché il clima è un sistema complesso, con caratteristiche a cui non siamo abituati. Di solito quando abbiamo un problema noi umani cerchiamo una rapida soluzione per risolverlo ma con il clima non è così: la sua inerzia, le temperature e l’innalzamento degli oceani, l’accumulo di CO2, sono tutti problemi che chiedono un cambio di mentalità, di visione. Dobbiamo cambiare il nostro istinto di voler trovare una soluzione con effetti immediati: dobbiamo risolvere emergenze temporanee ma con la visione del lungo periodo. E negli ultimi anni in più occasioni potevamo farlo, eppure abbiamo perso un treno dietro l’altro”.

    Quali treni abbiamo perso?
    “Abbiamo perso il treno del dopo Covid per esempio, che poteva essere l’impulso verso un rapporto più armonico con la natura. Abbiamo perso anche il treno dettato dall’invasione russa in Ucraina che poteva essere una spinta verso le rinnovabili invece noi corriamo ancora dietro ai sostituti del gas russo e ora stiamo perdendo anche l’ occasione dei dazi, perché rischiamo di contrattare di comprare petrolio americano, che come tutti i fossili influisce sul clima, in cambio di riduzione dei dazi su nostri prodotti”.

    Nello specifico nel libro parla di una quadrupla sfida che definisce scientifica, filosofica, di comunicazione ma anche politica.
    “Per prima affronto la sfida scientifica, di come cerchiamo, come scienziati, di approcciare questo grande cambiamento. Poi, essendo tutti nel nodo di una rete fatto di relazioni con la natura e altri uomini, parlo di quella filosofica: non possiamo più pensarla alla Cartesio con uomo padrone del mondo che trascende la natura solo perché essere intelligente ma dobbiamo agire per armonizzare la nostra dinamica con quella della natura. Poi narro la sfida comunicativa: il messaggio scientifico passa trasversalmente? La risposta è no, perché tra bolle, polarizzazione e manipolazioni oggi non funziona, quindi dobbiamo trovare soluzioni. Infine analizzo la sfida politica, in cui racconto anche la mia esperienza come coordinatore di Scienza al voto”.

    Già, quanto è distante oggi il rapporto scienza-politica?
    “C’è un grosso problema: la comunicazione a una via non funziona, intendo quella dove scienziati parlano e politici ascoltano o non ascoltano. Manca un dialogo efficace, a più vie, strutturato e magari istituzionalizzato: per esempio con un consiglio scientifico clima ambiente che porti a un rapporto paritario fra scienza e politica. Noi scienziati non vogliamo fare i politici, ma al contrario vogliamo tentare di fare un passo indietro nel tentativo di fornire alla politica misure e ventagli di strumenti davvero efficaci per frenare la crisi del clima che poi i politici possono e devono scegliere. Forse così la politica si accorgerà che il problema climatico non è ideologico, è reale. Che tu sia di sinistra o di destra la crisi del clima non cambia, negli scenari peggiori porterà comunque ad aumentare disuguaglianze sociali e crollo del Pil. Per cui abbandoniamo le ideologie e agiamo tutti insieme”.

    E per riuscirci come dovremmo fare?
    “Ripeto, cambiare mentalità. Non possiamo continuare a credere alla crescita infinita in un Pianeta finito, o pensare che la tecnologia risolva tutto o a trovare soluzioni additive. Nel nostro modello di sviluppo noi pensiamo sempre di aggiungere le cose, di aumentare le risorse. Spesso invece si potrebbe far bastare le risorse che ancora abbiamo andando a curare, a sistemare e proteggere”.

    Delle emergenze climatiche in atto quale la spaventa di più?
    “La perdita dei ghiacci è drammatica e da lì dipende l’inerzia del clima. I nostri ghiacciai alpini per esempio non sono in equilibrio con la temperatura che fa oggi sulle Alpi, ma rispondono ancora lentamente alla crescita di temperatura degli ultimi decenni. I nostri modelli mostrano come se anche la temperatura rimanesse quella che è ora loro al 2100 perderebbero un 30% di superficie. Adesso possiamo adattarci e proteggere parte delle risorse, ma con le tendenze in atto la temperatura non rimarrà tale e aumenterà: significa che perderemo il 90% di superficie a fine secolo. A quel punto non riusciremo più ad adattarci: dove finiranno tutte le risorse idriche della Pianura Padana? Questo ci fa capire come l’inerzia del clima è fondamentale e perciò come scienziati diciamo di fare in fretta: ma non c’è mai la sensazione che arrivino risposte”.

    Risposte che tarderanno ulteriormente viste le politiche oscurantiste di Donald Trump.
    “Oggi con l’ aumento degli eventi estremi visibili a tutti c’è più consapevolezza sulla sfida climatica, ma rimane la difficoltà di affrontare seriamente il problema perché interi stati fanno fake news e cresce il potere delle lobby industriali: è un momento brutto, complicato. Per noi che facciamo questo lavoro come scienziati è un momento di lotta proprio contro l’oscurantismo, la cancellazione dei dati o il negazionismo attuale come negli Usa. E poi il ritorno a nazionalismi e sovranismi è tragico per la questione climatica perché la si risolve solo con il multilateralismo. I ricchi del mondo pensano di poter vincere comunque da soli questa sfida e che a perdere saranno solo i poveri: ma non è così, siamo tutti sulla stessa barca e se non troviamo soluzioni affonderemo comunque tutti”.

    Infine, dovesse sbilanciarsi ora, la vinceremo o la perderemo la sfida climatica?
    “Non posso sbilanciarmi, è impossibile dirlo. Sa perché? Perché noi scienziati del clima facciamo scenari e per farli abbiamo le leggi della dinamica naturale, ma le leggi della dinamica umana sono al di fuori dei nostri modelli, non sono certe o prevedibili. Chi poteva per esempio prevedere le attuali politiche di Trump? Per questo non ho una risposta sicura, ma ho comunque una certezza: questa sfida riguarda tutti noi, nessuno escluso”. LEGGI TUTTO