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    Cosa piantare nell’orto d’inverno, dall’aglio ai piselli

    È vero, dicembre e gennaio potrebbero sembrare mesi di totale riposo per l’orto, ma in realtà non è totalmente così. Infatti, sebbene il clima diventi più rigido e il rischio gelate si fa sentire, ci sono comunque alcune piante che, se piantate in questo periodo dell’anno, possono ancora attecchire con discreto successo. Affinché questo avvenga, però, è necessario preparare il terreno e sapere che cosa fare passo dopo passo. Tra qualche semina e qualche lavoro, l’orto di dicembre non andrà in letargo.

    Orto d’inverno: che cosa piantare
    Data la stagione fredda, le semine nell’orto di dicembre sono nettamente limitate. Non azzerate, solo limitate. Infatti, ci sono ancora alcuni ortaggi che possono resistere ai freddi dell’inverno, ma laddove il terreno è già stato colpito da gelate si dovrà comunque attendere la primavera. Le uniche verdure in grado di sopportare l’inverno sono: piselli, fave, valerianella e spinaci, ma solo se la semina avviene in zone in cui il clima è abbastanza mite (minime di almeno 8°). Questi ortaggi si possono piantare all’aperto nell’orto, ma sempre e solamente se le temperature non sono troppo basse. Tuttavia, per quanto riguarda la valeriana, la lattuga e il radicchio da taglio, sarebbe meglio puntare su una serra protetta. In questo modo si offrirà loro maggiore protezione dal freddo e la semina andrà a buon fine. Infine, ma non per importanza, l’orto del mese di dicembre e gennaio si potrebbe arricchire anche di ravanelli, pronti per essere seminati.

    Piantare i piselli: consigli
    I piselli restano una delle colture migliori da seminare a dicembre e gennaio nell’orto. In particolare, questa semina è gettonatissima nelle zone del Sud Italia, dove nonostante la stagione invernale le temperature riescono a mantenersi piuttosto miti. Sapevate che una volta attecchita la coltura resiste anche a -10°? Questo è uno dei motivi per cui i piselli sono perfetti per l’orto invernale.

    Cosa trapiantare nell’orto d’inverno
    Per quanto riguarda invece i trapianti, nei mesi invernali l’orto offre alcune possibilità interessanti. Intanto, nel mese delle vacanze di Natale sarà possibile trapiantare tutte le cipolle invernali in piantina o bulbillo, ma anche il tanto amato scalogno, l’aglio e gli asparagi. Dicembre e gennaio possono essere un valido momento anche per i carciofi, il cui trapianto è possibile in presenza di cassoni o di aiuole adeguatamente riparate.

    Orto d’inverno: l’aglio è il migliore alleato
    Tra tutte quelle citate, l’aglio è sicuramente la coltura più adatta da piantare in questo periodo con temperature più rigide. Intanto, la sua crescita è molto rapida e riesce ad adattarsi molto bene anche ai climi più freddi. Poi, e non è poco, l’aglio richiede poco spazio nell’orto: basta piantare uno spicchio soltanto che formerà un nuovo bulbo. Per coltivarlo al meglio è bene ricordarsi di non piantarlo in una zona dell’orto dove in precedenza è già stato coltivato altro aglio.

    Che cosa raccogliere nell’orto d’inverno
    Se nel mese di novembre i raccolti nell’orto sono ancora abbastanza ricchi, quelli del mese di dicembre e gennaio lo sono decisamente meno. Tuttavia, in caso di serre protette, anche dicembre può diventare fruttifero: all’interno di questi spazi, infatti, sarà possibile continuare a raccogliere lattughe da taglio, cicoria catalogna, ravanelli e valeriana. Resistono al freddo anche il cavolo nero toscano e la verza, da raccogliere solitamente immediatamente dopo la prima gelata. Sì, anche ai raccolti di bietole, broccoli, cavolfiori, cavoli, cavolini di Bruxelles, carote, finocchi e scarola.

    Quali lavori fare nell’orto d’inverno
    Molte persone pensano che l’orto invernale abbia bisogno di meno attenzioni a causa delle temperature rigide: non è esattamente così. Infatti, nonostante il freddo pungente, l’orto a dicembre ha comunque bisogno di essere curato. I lavori da svolgere in questo periodo dell’anno sono diversi e tra questi la concimazione detiene il primo posto. È fondamentale preparare il terreno alla nuova stagione e per farlo è necessario che questo non sia troppo gelato (se lo sarà bisognerà attendere qualche mese).

    Concimare il terreno: come fare
    Per concimare il terreno in vista della nuova stagione i passaggi da seguire sono pochi ma essenziali. Intanto, bisognerà procurarsi una vanga per potere lavorare la terra e renderla sia più impermeabile, sia più ariosa. Una volta fatto questo, si passerà alla concimazione vera e propria: a dicembre si prediligono fertilizzanti organici come il compost e il letame maturo, da interrare leggermente.

    Gli altri lavori da fare nell’orto d’inverno: la pacciamatura
    Tra gli altri lavori da svolgere nell’orto nel mese di dicembre e gennaio c’è anche la pacciamatura. Si tratta di un’operazione tipica del mondo del giardinaggio che consiste nella copertura del terreno con uno strato leggero di materiale (paglia, foglie, erba o pezzi di corteccia). In inverno è utile per proteggere la terra dell’orto dalle piogge, dal freddo e dalla neve, capaci sia di dare vita ai tanto temuti ristagni idrici, sia di rendere il terriccio troppo duro o troppo poco fertile. Il materiale che si utilizzerà, infatti, col tempo tenderà a decomporsi e fungerà a sua volta da fertilizzante: una strategia utile e sana in un colpo solo.

    Dicembre segna la fine dell’autunno e l’inizio dell’inverno, con le settimane a seguire, e le semine sono limitate rispetto al resto dell’anno. Eppure, nonostante le quantità ridotte di ortaggi da piantare, l’orto non si riposa neppure d’inverno, ma al contrario ha bisogno di attenzioni. Chiarite le modalità di semina (piena terra all’aperto, semenzaio protetto) e chiariti i lavori da svolgere a dicembre, ora non vi resta che iniziare: un buon raccolto è frutto di una buona gestione, dove amore e dedizione regalano sempre una soddisfazione in più. LEGGI TUTTO

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    Un nuovo tessuto elettronico indossabile e biodegradabile che impatta meno sull’ambiente

    I tessuti elettronici indossabili, in inglese e-textiles (electronic-textiles), hanno una vasta gamma di applicazioni: possono essere utilizzati per monitorare parametri come la temperatura corporea e il battito cardiaco, possono aiutare gli atleti ad analizzare le loro performance e sono quelli che ci consentono per esempio di avere sedili riscaldabili nelle auto. La sfida odierna è rendere questa promettente tecnologia più ecologica, dato che la presenza di componenti elettronici rende i tessuti più difficili da riciclare. Proprio con questo obiettivo, un gruppo di ricercatori e ricercatrici coordinato da Shaila Afroj e Nazmul Karim della University of the West of England di Bristol (Regno Unito) ha messo a punto un tipo di e-textile in grado di decomporsi ad una velocità relativamente elevata. Secondo i risultati dello studio, pubblicato su Energy and Environmental Materials, il nuovo tessuto avrebbe anche un impatto ambientale circa 40 volte inferiore in termini di emissioni di CO2 per la sua produzione rispetto ai tessuti elettronici indossabili “classici”.

    Com’è fatto il nuovo e-textile
    Uno dei problemi del riciclo di questo tipo di tessuti è legato alla presenza di metalli che servono per il funzionamento della componente elettronica, come per esempio l’argento, e che non sono facilmente biodegradabili, spiega Karim. La parte elettronica del tessuto ideato dal gruppo di ricerca è invece costituita da grafene, una molecola composta da anelli di atomi di carbonio, e da un polimero noto come PEDOT:PSS, che non contiene metalli ma solo atomi di ossigeno, zolfo, carbonio e idrogeno. La base del nuovo tessuto è invece fatta di un materiale ricavato dal legno, chiamato Tencel.

    Ricerca

    Un nuovo tessuto con polimero e lana ci salverà dal caldo riflettendo le radiazioni

    di Sara Carmignani

    19 Ottobre 2024

    Gli autori dello studio hanno testato questo design su cinque volontari, inserendo dei campioni di tessuto all’interno di guanti che sono poi stati collegati a dispositivi di monitoraggio e indossati dai partecipanti. Dalle analisi è emerso che il nuovo e-textile consente di monitorare il ritmo cardiaco e la temperatura corporea in modo paragonabile ai tessuti elettronici indossabili già presenti in commercio.

    “Il raggiungimento di un monitoraggio affidabile e conforme agli standard industriali con materiali ecologici è una pietra miliare significativa – commenta Afroj – Dimostra che la sostenibilità non deve necessariamente andare a scapito della funzionalità, soprattutto in applicazioni critiche come quelle sanitarie”.

    Biodegradabile e meno impattante sull’ambiente
    Come anticipato, il gruppo di ricerca ha inoltre testato la capacità del materiale di biodegradarsi. In particolare, gli autori hanno sotterrato dei campioni di tessuto all’interno di vasi contenenti terriccio e hanno osservato che dopo quattro mesi la loro massa si era ridotta di circa il 48%, ad indicare che la comunità microbica presente nel terreno riesce a decomporli.

    (foto: Marzia Dulal/University of Southampton)  LEGGI TUTTO

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    Caldo record 2024, i medici: “Gravissimi gli effetti sulla salute”

    L’aumento delle temperature sta diventando un problema non solo per la tenuta del pianeta e il riscaldamento globale ma anche per le ricadute dirette sulla salute umana e l’ambiente. La crisi climatica sta infatti incrementando il rischio di malattie trasmesse tramite il cibo, gli insetti e i parassiti. Non solo. Alterando l’ecosistema e provocando alluvioni, siccità e caldo estremo minaccia gli elementi essenziali della vita umana con ripercussioni su tutta la catena alimentare. Il nuovo allarme è arrivato dagli esperti della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima), commentando l’ultimo dossier di Copernicus, l’agenzia dell’Unione europea, che ha confermato i dati che aveva anticipato a dicembre: il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato ed è anche stato il primo anno in cui la temperatura media globale ha sforato il limite di 1,5 gradi sopra i livelli pre-industriali previsto dall’Accordo di Parigi.

    Scienza

    Dal clima alle pandemie, cosa ci aspetta nel 2025 secondo “Science”

    di  Giacomo Talignani

    04 Gennaio 2025

    Secondo Copernicus la temperatura media globale nel 2024 sulla superficie terrestre è stata di 15,10 gradi Celsius, 0,12 gradi sopra la media del 2023, considerato in precedenza l’anno più caldo della storia.

    I medici: “L’ambiente ideale per gli agenti patogeni”
    Spiega Sima: “L’aumento delle temperature medie crea le condizioni ideali per la trasmissione di molteplici agenti patogeni: grazie alla maggiore umidità proliferano ad esempio zecche, zanzare e parassiti che diffondono malattie anche gravi come il virus Zika, la febbre dengue e la malaria. Ma a crescere è anche il rischio di malattie idrotrasmesse: piogge intense e alluvioni, eventi direttamente connessi al cambiamento climatico, fanno straripare corsi d’acqua e mandano in tilt le reti fognarie, diffondendo tra la popolazione agenti virali quali virus delle epatiti A ed E, Enterovirus, Adenovirus, Norovirus, Rotavirus, contaminando anche la catena alimentare.

    E proprio sul fronte alimentare, le temperature più alte danneggiano le coltivazioni in determinate aree del mondo, provocando un taglio alle produzioni di materie prime indispensabili e un fortissimo aumento dei prezzi al dettaglio, come sta avvenendo a livello globale ad esempio per il caffè e il cacao.

    Salute e ambiente

    Virus dell’aviaria, il salto di specie che fa paura. “Rischio basso ma attenzione alta sui bovini”

    di  Giacomo Talignani

    10 Gennaio 2025

    L’impatto della crisi climatica sulla salute mentale
    ” A tali fenomeni si associa quello psicologico, che non deve essere sottovalutato – afferma il presidente Sima, Alessandro Miani – di recente è stato coniato il termine ‘solastalgia’ per indicare proprio l’angoscia provocata dal drastico cambiamento del clima: gli eventi climatici estremi provocano uno stato di stress e ansia tra i cittadini più vulnerabili che può sfociare in disturbi post-traumatici e addirittura in suicidi”. LEGGI TUTTO

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    Virus dell’aviaria, il salto di specie che fa paura. “Rischio basso ma attenzione alta sui bovini”

    Un virus che da anni “prova a fare il salto e arrivare a noi, al contagio uomo-uomo, ma per fortuna non c’è ancora riuscito. Però dobbiamo tenere alta la guardia perché quello che è successo negli Stati Uniti con i bovini è preoccupante”. Così il professor Nicola Decaro, direttore del Dipartimento di medicina veterinaria dell’Università di Bari, presidente dell’European College of Veterinary Microbiology (ECVM) e membro della task force del Ministero della Salute sull’aviaria, sintetizza a Green&Blue la grande sfida che abbiamo davanti in questo 2025 appena iniziato nell’affrontare il virus H5N1, l’influenza aviaria. La prestigiosa rivista scientifica Science ha inserito la lotta al virus dell’aviaria come tema centrale, quest’anno, dopo i recenti fatti che hanno messo in allarme gli Stati Uniti e il mondo.

    Scienza

    Dal clima alle pandemie, cosa ci aspetta nel 2025 secondo “Science”

    di  Giacomo Talignani

    04 Gennaio 2025

    Negli States, dove in Louisiana pochi giorni fa è deceduto un paziente contagiato, ma che aveva malattie pregresse, dopo anni di stragi di pollame legate alla diffusione del virus oggi l’allarme è concentrato soprattutto sui bovini e sul latte. Si contano oltre 700 allevamenti in diversi Stati dove è presente il virus e l’amministrazione Biden ha già previsto 1 miliardo di investimenti per fronteggiare l’emergenza.In Italia, come altrove, per ora sono da escludere rischi di passaggio del virus fra gli esseri umani ma, essendo stati registrati dalla Lombardia al Veneto casi di influenza aviaria tra gli uccelli, l’attenzione “deve restare alta” dice Decaro, sia per evitare contagi fra animali sia per i possibili impatti e danni economici al mondo dell’agroalimentare.

    Come si sta evolvendo il virus H5N1?
    “In maniera sorprendente e mi riferisco al caso dei bovini. Per ora l’epidemia dei bovini riguarda solo gli Stati Uniti, ma dobbiamo tenere gli occhi ben aperti. Questo perché parliamo di un virus che da parecchi anni sta tentando di passare anche all’uomo: finora, se non in casi limitati, non c’è riuscito e ricordiamo che non si è ancora mai verificato un passaggio da uomo a uomo. Questo perché rimane un virus degli uccelli, anche se ultimamente ha dimostrato di adattarsi e sapere conquistare nuove nicchie ecologiche: in questo il caso dei bovini è stato eclatante. Nessuno si aspettava che H5N1 potesse fare un salto di specie così importante. È stata una sorpresa per tutti”.

    C’è correlazione fra la morte del cittadino statunitense contagiato e il passaggio di H5N1 ai bovini?
    “No. Attualmente ci sono tanti virus H5N1 ad alta patogenicità in circolazione, ma quello dei bovini è un genotipo diverso da quello che ha causato la morte dell’uomo negli Usa o di altri uccelli selvatici. Non c’è correlazione fra la morte della persona e i bovini. Nel 2024 negli Stati Uniti, anche se si tratta di casi assolutamente non letali, ci sono stati 64 contagi umani legati ai bovini”.

    Chi è a rischio contagio?
    “Sia con i bovini che con il pollame anche se basso il rischio contagio esiste ma è quasi sempre legato a professioni, a malattie professionali, per esempio a allevatori, macellatori, cacciatori, veterinari o comunque a una esposizione diretta a animali infetti dato che non c’ è mai stato nessun rischio agroalimentare, intendo legato all’assunzione di cibi, e come detto mai nessun caso da uomo a uomo. Per i bovini oggi l’elemento di maggior preoccupazione è il latte, quello non pastorizzato, crudo, che veicola alte quantità di virus. Da noi questo latte non c’è e non ci poniamo il problema, ma bisogna essere informati. In generale l’importante è tenere alta l’attenzione a livello di sorveglianza”.

    In Italia il livello di sorveglianza è alto?
    “Sì. Proprio nelle ultime ore è arrivata una nota del Ministero della Sanità che invita tutte le Regioni e i sistemi sanitari veterinari a rafforzare la sorveglianza negli uccelli selvatici, nel pollame e nei carnivori selvatici che sono recettivi a H5N1. Il sistema veterinario italiano negli ultimi anni è stato molto potenziato e rappresenta una garanzia per un monitoraggio elevato. Sono sicuro che qualora il virus dell’influenza aviaria dovesse interessare i nostri allevamenti di bovini in Italia ci sarebbe un sistema di allerta molto precoce grazie alla rete nazionale, che funziona”.

    Ci sono casi di influenza aviaria in Italia fra gli uccelli? Come arriva il virus?
    “Sì, molti casi. E ce ne saranno sicuramente ancora altri. Il virus arriva nel pollame soprattutto a causa degli uccelli migratori che arrivano infetti in Italia seguendo le rotte migratorie. Avendo ormai preso piede negli avicoli selvatici, dalle anatre fino ai gabbiani che sono vettori di infezione, ci aspettiamo ulteriori coinvolgimenti di allevamenti di polli. Se entra negli allevamenti si ha una mortalità notevole e bisogna intervenire prontamente con l’abbattimento di tutti gli animali”.

    I rischi attuali sono legati soprattutto al comparto alimentare?
    “Esatto, il rischio principale è quello, soprattutto per il pollame domestico, così come c’è un rischio minimo anche per i cacciatori che possono entrare in contatto con animali selvatici infetti. Attenzione però: per contrarre il virus le persone devono venire a contatto con alti carichi virali dato che questo virus, anche se sta facendo ripetuti tentativi di passare all’uomo e in qualche caso ci riesce, non è adattato bene alla specie umana. Si parla di un virus che riconosce recettori che sono aviari, ma non si è adattato a quelli umani. L’uomo ha recettori simili a quelli aviari solo nelle vie respiratorie profonde: il virus sta nei polmoni, ma non riesce ad andare nei sistemi respiratori delle alte vie. Dunque per infettarsi bisogna davvero essere ‘bombardati’ da cariche virali molto elevate”.

    Negli allevamenti intensivi c’è una possibilità di maggiore di contagi?
    “Diciamo che la questione allevamenti intensivi è a doppia faccia. Nell’allevamento intensivo in caso di contagi la diffusione è esponenziale e dunque questo tipo di strutture possono rappresentare un problema, ma l’aviaria è più tipica di allevamenti familiari, piccoli, dove la biosicurezza – a differenza degli impianti intensivi – solitamente è minore. Dunque per l’affollamento in quelli intensivi il rischio è grande, però c’è anche maggiore sicurezza rispetto ad allevamenti famigliari all’aperto dove c’è uno scambio più facile per esempio con uccelli selvatici. I bovini contagiati negli Usa molto probabilmente erano in strutture all’aperto e sono stati contagiati da uccelli migratori”.

    Nel malaugurato caso che il virus riesca ad adattarsi all’uomo, siamo pronti a contrastarlo?
    “Abbastanza pronti direi, dato che ci sono addirittura tre vaccini prepandemici messi a punto per H5N1 proprio nel caso dovesse adattarsi all’uomo, cosa che ovviamente non ci auguriamo. Per ora non c’è bisogno di vaccini, ma è bene averli conservati e pronti perché potrebbero servire”.

    Infine, come giudica l’attuale livello di rischio legato all’aviaria nel nostro Paese?
    “Se parliamo di contagi umani per ora ancora decisamente basso, lo abbiamo sintetizzato anche nei documenti della task force ministeriale pubblicati a luglio. Ma, ripeto, teniamo comunque gli occhi ben aperti”. LEGGI TUTTO

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    Antartide, raggiunto il ghiaccio più antico: risale a 1,2 milioni di anni fa

    I ricercatori di dodici istituzioni scientifiche europee hanno raggiunto il punto esatto dove la terra conserva un archivio straordinario sulla storia climatica della Terra. Un luogo che contiene informazioni dirette sulle temperature atmosferiche e le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’arco di 1,2 milioni di anni. Probabilmente anche più remote. È accaduto nell’altipiano centrale Little Dome C, in Antartide, dove un team di scienziati di dieci Paesi, impegnati nella campagna di perforazione del progetto europeo Beyond EPICA-Oldest Ice sono arrivati ad una profondità di 2.800 metri, dove la calotta glaciale antartica incontra la roccia. Una scoperta arrivata dopo oltre 200 giorni di perforazioni e analisi delle carote di ghiaccio, lavorando con una temperatura medi di meno 35° C.

    Crisi climatica

    La fusione dello strato di ghiaccio sull’Artico potrebbe influenzare le correnti oceaniche

    di Sara Carmignani

    01 Novembre 2024

    “In ogni metro informazioni su 13 mila anni di storia climatica”
    “Dalle analisi preliminari condotte sul sito, abbiamo forti indicazioni che in un solo metro di ghiaccio si trovano compresse informazioni su ben 13mila anni di storia climatica”, afferma Julien Westhoff, responsabile scientifico sul campo e ricercatore all’Università di Copenaghen. Secondo gli scienziati le carote di ghiaccio del progetto Beyond EPICA offriranno informazioni senza precedenti sulla Transizione del Medio-Pleistocene, un periodo compreso tra 900.000 e 1,2 milioni di anni fa, quando i cicli glaciali rallentarono da intervalli di 41.000 anni a 100.000 anni. Le ragioni di questo cambiamento rimangono uno dei misteri più complessi delle scienze climatiche.

    Il lavoro dei ricercatori impegnati nel progetto in Antartide  LEGGI TUTTO

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    Un quarto degli animali d’acqua dolce a rischio estinzione

    Inquinamento, dighe, agricoltura intensiva, specie invasive. E così rischiamo di perdere la bellezza di 23mila specie che vivono negli ecosistemi d’acqua dolce, quasi un quarto del totale. Sarebbe un duro colpo alla biodiversità: a lanciare l’allarme è un gruppo di scienziati della International Union for Conservation of Nature (Iucn), un’organizzazione non governativa internazionale con sede in Svizzera, in uno studio appena pubblicato sulle pagine della rivista Nature. Gli autori auspicano che i risultati del loro lavoro spronino e aiutino i decisori a intraprendere al più presto tutte le azioni necessarie a preservare la biodiversità delle acque dolci e scongiurare il pericolo di estinzione delle specie a rischio.

    Biodiversità

    Le specie aliene “emigrano” per evitare l’estinzione

    di  Pasquale Raicaldo

    12 Dicembre 2024

    “Gli ecosistemi di acqua dolce”, scrivono i ricercatori nello studio, “sono ricchissimi di biodiversità e rappresentano un mezzo di sussistenza e di sviluppo economico per molte popolazioni umane, e sono attualmente sottoposti a uno stress molto elevato”. La maggior parte delle valutazioni finora compiute sulle specie a rischio di estinzione, però, non si erano concentrate su quelle che vivevano nelle acque dolci, e ciò ha parzialmente condizionato le politiche di conservazione.“Finora, le politiche ambientali e le definizioni delle priorità di conservazione sono state stabilite soprattutto sulla base dei dati relativi ai tetrapodi terrestri. Abbiamo le prove che questi dati non sono sufficienti a rappresentare le esigenze delle specie di acqua dolce né a raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati in fatto di biodiversità”. Tutelare questa biodiversità è particolarmente importante: le acque dolci ospitano, infatti, oltre il 10% di tutte le specie viventi conosciute, e molte di esse svolgono un ruolo fondamentale per il ciclo dei nutrienti, per il controllo delle inondazioni e per la mitigazione dei cambiamenti climatici.

    Le idee

    Per prevenire i disastri climatici ridiamo spazio ai fiumi

    di WWF ITALIA

    21 Ottobre 2024

    Nel loro studio, gli scienziati, coordinati da Catherine Sayer, si sono quindi concentrati sulle specie di acqua dolce inserite nella Red List of Threatened Species (Lista rossa delle specie a rischio) del Iucn: si tratta, in particolare, di 23.496 specie che comprendono pesci, crostacei decapodi (come granchi, gamberi e gamberetti) e odonati (insetti acquatici come libellule e damigelle). In questo modo, hanno evidenziato che quasi un quarto di queste specie è a rischio estinzione; a correre il pericolo maggiore sono i decapodi, per i quali quasi una specie su tre è a rischio estinzione, rispetto al 26% dei pesci d’acqua dolce e al 16% degli odonati. Tra le minacce principali spicca, al primo posto, l’inquinamento (che mette a rischio il 54% delle specie considerate), seguito dalla presenza di dighe e dall’estrazione idrica (39%), dal cambiamento di uso del suolo per scopi agricoli (37%) e da specie invasive e malattie (28%). Tutti fattori riconducibili prevalentemente all’attività umana, insomma. “I nostri risultati”, concludono gli autori, “evidenziano la necessità urgente di affrontare queste minacce per prevenire un ulteriore declino e la perdita di specie”. LEGGI TUTTO

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    Greenpeace: in Italia mancano dati sulla pericolosa contaminazione da TFA

    Nuova denuncia di Greenpeace Italia sulla contaminazione TFA, l’acido trifluoroacetico, la molecola che appartiene al gruppo più ampio di sostanze conosciute come “inquinanti eterni” del gruppo PFAS (di origine industriale altamente tossici). Si tratta di una molecola in uso da decenni e ben nota alla comunità scientifica internazionale, ma solo negli ultimi anni è emerso che il TFA sia di gran lunga il PFAS presente in maggiori quantità ovunque venga cercato: nelle acque minerali e potabili, nella polvere domestica perfino nel sangue umano.

    Ambiente

    Pfas nei cinturini degli smartwatch in fluoroelastomero: meglio sceglierli in silicone

    di  Simone Cosimi

    05 Gennaio 2025

    Eppure, denunciano ora gli esperti di Greenpeace nel nostro Paese, al contrario che in altri stati europei, non esistono dati pubblici e mappe sulla possibile contaminazione da TFA nelle acque sia superficiali che di falda, sia negli alimenti che nel corpo umano. “Improbabile ipotizzare che a differenza di gran parte delle nazioni europee, dove viene misurato, il nostro Paese sia immune da questa contaminazione”, scrive Greenpeace. E forse non è un caso, spiegano che “gli unici dati pubblici disponibili sull’inquinamento da TFA nel nostro Paese sono quelli ufficiali di ARPA Veneto riguardo i monitoraggi sulla presenza di PFAS ultracorti nelle falde sottostanti l’industria farmaceutica FIS di Montecchio Maggiore (VI), dove furono registrate concentrazioni superiori ai 100 mila nanogrammi per litro”.

    Acque senza veleni

    Questa molecola – costituita da due atomi di carbonio che può essere sintetizzata artificialmente o derivare dalla degradazione di circa duemila PFAS – è presente in molti settori: in alcuni gas refrigeranti, nei polimeri fluorurati (le sostanze plastiche altamente resistenti utilizzate dall’industria automobilista fino alla produzione di utensili da cucina); nei pesticidi, perfino nei farmaci e nelle schiume antincendio. Per stilare la prima mappa della contaminazione da PFAS – TFA incluso – nelle acque potabili di tutte le regioni italiane, lo scorso ottobre Greenpeace Italia, nell’ambito della sua campagna Acque senza veleni, ha raccolto campioni in oltre 240 città su tutto il territorio nazionale. Il prossimo 22 gennaio l’organizzazione ambientalista pubblicherà gli esiti delle analisi indipendenti realizzate.

    Salute

    Pfas, dalla carta da forno all’acqua: indistruttibili e (quasi) inevitabili

    di  Pasquale Raicaldo

    07 Novembre 2024

    “Gli scienziati trovano il TFA ovunque lo cerchino”

    “Così, mentre gli scienziati trovano il TFA ovunque lo cerchino, parallelamente, emergono prove inconfutabili circa la contaminazione irreversibile che origina e la continua esposizione degli esseri umani. Nonostante ciò, in Italia non sappiamo quanto sia ampia la diffusione di questa pericolosa sostanza”, dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. Non solo. Nel settembre dello scorso anno, l’Unione europea ha aggiornato il Regolamento delle sostanze chimiche introducendo una nuova restrizione all’uso del PFAS e dei suoi derivati soprattutto nel settore delle calzature, dei tessuti, cosmetici, nella carta e cartone utilizzati a contatto con gli alimenti, nelle schiume antincendio. Restrizione dovuta proprio al fatto che queste sostanze sono state valutate come “molto persistenti”, mobili nell’acqua e “associate a potenziali effetti nocivi sull’ambiente e la salute umana”. Anche se, secondo la tabella di marcia decisa a livello europeo, alle aziende che ne fanno uso è stato concesso un periodo di transizione tra i 18 mesi e i 5 anni a seconda dei settori coinvolti. Tempo che servirà per trovare alternative chimiche più pulite e sostenibili. E comunque partiranno solo dal 2026.

    “Nei succhi di frutta”
    L’associazione chiede dunque “interventi urgenti per limitare le emissioni in natura prima che gli impatti sugli esseri umani e sull’ambiente diventino ancora più evidenti e irreversibili”. “Negli ultimi anni, numerose ricerche hanno evidenziato il TFA non solo nelle acque potabili, ma anche in dieci marchi di acqua minerale e di sorgente venduti in Europa. Pure in succhi di frutta, puree di frutta e verdura, nella birra, nel tè, in numerose specie vegetali tra cui il mais, con concentrazioni simili a quelle delle sostanze bioaccumulabili. Questo perché è persistente e indistruttibile: per le sue stesse caratteristiche, non può essere rimossa dai più comuni trattamenti delle acque potabili”.

    Attenzione ai Pfas: che cosa sono e perché sono pericolosi per la salute

    di  Paola Arosio

    17 Dicembre 2024

    “Una storia che si ripete”
    Pur non avendo un quadro chiaro circa gli impatti sanitari, sempre secondo Greenpeace: “Potremmo essere all’inizio di una storia che si ripete: come già accaduto per i PFAS oggi noti per essere cancerogeni, fino a pochi anni fa non avevamo informazioni esaustive. Oggi sappiamo che il TFA è sicuramente una molecola a cui siamo continuamente esposti (e potremmo esserlo per l’intera nostra esistenza), può essere incorporato in molecole biologiche come le proteine, causare danni al fegato, essere trasmesso facilmente dalla madre al feto attraverso la placenta, e, infine, alcune prove indicano che sia tossico per lo sviluppo embrionale nei mammiferi. In base a queste evidenze, la Germania ha già chiesto all’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) di verificare se possa essere classificato come tossico per la riproduzione umana”. Chiede l’associazione ambientalista: “A causa della contaminazione da PFAS e delle insufficienti risposte della politica, le persone che nel nostro Paese vivono nelle zone più esposte al rischio stanno già pagando un prezzo elevato. Quando il governo e i ministeri competenti intenderanno attivare controlli e misure urgenti per tutelare l’ambiente e la nostra salute?”. LEGGI TUTTO

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    L’appello di Papa Francesco: “Non abbiamo diritto di restare indifferenti all’emergenza climatica”

    “Non possiamo rimanere indifferenti a tutto ciò! Non ne abbiamo il diritto! Piuttosto, abbiamo il dovere di esercitare il massimo sforzo per la cura della nostra casa comune e di coloro che la abitano e la abiteranno”. Lo ha detto papa Francesco nel discorso di inizio anno al corpo diplomatico, letto da monsignor Filippo Ciampanelli a causa di un raffreddore, sottolineando che “siamo di fronte a società sempre più polarizzate, nelle quali cova un generale senso di paura e di sfiducia verso il prossimo e verso il futuro”.

    In un ampio passaggio del discorso, dedicato anche ai rischi di guerre mondiali, fake news e conflitti polarizzati che affliggono l’umanità, Borgoglio è tornato sul tema dell’emergenza climatica a lui caro. “Siamo tutti prigionieri, perché siamo tutti debitori: lo siamo verso Dio, verso gli altri e anche verso la nostra amata Terra, dalla quale traiamo l’alimento quotidiano”.

    “Sempre più la natura sembra ribellarsi all’azione dell’uomo, mediante manifestazioni estreme della sua potenza”, osserva papa Francesco, pensando alle alluvioni che si sono verificate in Europa centrale e in Spagna, come pure ai cicloni che hanno colpito in primavera il Madagascar e, poco prima di Natale, il Dipartimento francese di Mayotte e il Mozambico.

    Il debito ecologico tra il Nord e il Sud del mondo
    Poi, il riferimento all’importanza dei finanziamenti ai Paesi vulnerabili e ai necessari investimenti contro per affrontare la crisi del clima. “Nel corso della Cop29 a Baku – scrive il Papa – sono state adottate decisioni per garantire maggiori risorse finanziarie per l’azione climatica. Mi auguro che esse consentano la condivisione delle risorse a favore dei molti Paesi vulnerabili alla crisi climatica e sui quali grava il fardello di un debito economico opprimente. In quest’ottica, mi rivolgo alle nazioni più benestanti perché condonino i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Non si tratta solo di un atto di solidarietà o magnanimità, ma soprattutto di giustizia, gravata anche da una nuova forma di iniquità di cui oggi siamo sempre più consapevoli: il ‘debito ecologico’, in particolare tra il Nord e il Sud. Anche in funzione del debito ecologico, è importante individuare modalità efficaci per convertire il debito estero dei Paesi poveri in politiche e programmi efficaci, creativi e responsabili di sviluppo umano integrale. La Santa Sede è pronta ad accompagnare questo processo nella consapevolezza che non ci sono frontiere o barriere, politiche o sociali, dietro le quali ci si possa nascondere”.

    Giù in occasione della Cop29 di Baku il Papa aveva lanciato un appello per la riuscita della conferenza Onu sul clima, ricordando i tre anni della piattaforma Laudato si’, nata dalla sua enciclica del 2015 e volta alla diffusione di una cultura della salvaguardia della “casa comune” e della ecologia integrale che metta al centro le persone. LEGGI TUTTO