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    Lazio, 30 milioni per progetti di economia circolare

    Regione Lazio in pista con un nuovo bando per supportare le piccole imprese che decidono di puntare sull’economia circolare. Sarà riconosciuto un bonus alle aziende che introducono innovazioni nei processi e nei prodotti che tenendo conto del loro intero ciclo di vita ne allungano la durata, e consentono manutenzione e riparazioni, evitando così di generare rifiuti non riciclabili o residui non riutilizzabili al termine del ciclo di vita. A disposizione un fondo di 30 milioni di euro. Le domande per il contributo a fondo perduto si potranno presentare da ottobre.

    Stop rifiuti e più prodotti riparabili
    Il bando punta a ridurre le quantità di scarti e rifiuti industriali. In particolare sostiene gli investimenti per la riduzione del consumo di risorse, la sostituzione dell’uso di materie prime primarie con materie prime secondarie, la prevenzione e riduzione della produzione di rifiuti, il riutilizzo e il riciclo degli scarti. Tra gli obiettivi c’è anche l’innovazione nei prodotti, con particolare attenzione all’intero ciclo di vita, allungandone la durata e consentendo la riparabilità e la manutenzione, permettendone la smontabilità delle diverse componenti in relazione alle tipologie di materiali impiegati e al loro riutilizzo. I progetti dovranno anche assicurare una riduzione delle risorse consumate, inclusa l’energia, sia nella fase produttiva sia durante l’utilizzo da parte dei consumatori rispetto a prodotti analoghi presenti sul mercato. Ogni progetto presentato deve essere di importo non inferiore a 150 mila euro e il contributo massimo erogabile non può superare 2 milioni di euro. Il finanziamento varia in funzione della grandezza dell’impresa e della zona produttiva. Per le piccole imprese si va da un minimo dal 45% ad un massimo del 65% dell’importo del progetto.

    Riciclo e riuso
    I progetti per l’uso efficiente delle risorse che possono essere finanziati devono avere almeno uno dei seguenti obiettivi:
    • riduzione netta delle risorse consumate;
    • sostituzione dell’uso di materie prime primarie con materie prime secondarie, ossia riutilizzate, recuperate, o riciclate;
    • prevenzione eriduzione della produzione di rifiuti;
    • riutilizzo, decontaminazione ericiclaggio dei rifiuti prodotti;
    • raccolta e trattamento di altri prodotti, materiali o sostanze che sarebbero altrimenti inutilizzati o utilizzati secondo una modalità meno efficiente sotto il profilo delle risorse;
    • raccolta differenziata dei rifiuti speciali in vista della preparazione per il riutilizzo o il riciclaggio.

    Sono escluse in ogni caso le operazioni di smaltimento e di recupero dei rifiuti per la produzione di energia e gli investimenti che comportano un aumento nella produzione di rifiuti o un maggiore uso di risorse.

    Prodotti riparabili e a risparmio energetico
    Nel caso dei progetti di innovazione di prodotto i finanziamenti andranno a quelli chetenendo conto del loro intero ciclo di vita (Life Cycle Thinking), conseguono almeno uno dei seguenti obiettivi:
    • ne allungano la durata, anche consentendo la riparabilità e la manutenzione;
    • evitano di generare rifiuti non riciclabili o residui non riutilizzabili al termine del ciclo di vita, permettendone la smontabilità delle diverse componenti in relazione alle tipologie di materiali impiegati e al loro riutilizzo;
    • riducono le risorse consumate inclusa l’energia, durante l’utilizzo da parte dei consumatori, rispetto a
    • prodotti analoghi presenti sul mercato.
    E’ possibile presentare anche un progetto unitario che tenga conto di entrambi gli obbiettivi.

    Domande da ottobre
    Il bando prevede l’erogazione dei contributi a sportello, vale a dire nel rispetto dell’ordine cronologico di presentazione delle domande. La valutazione terrà conto della valenza ambientale complessiva. Lo sportello on line sarà aperto nella seconda metà del mese di ottobre. LEGGI TUTTO

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    Teresa Ribera, chi è la nuova responsabile dell’ambiente della Commissione Ue

    Se c’erano dubbi sulla reale intenzione di Ursula von Der Leyen di proseguire sulla strada del Green Deal, la candidatura della ministra spagnola Teresa Ribera Rodriguez a vicepresidente esecutiva della Commissione, responsabile per la transizione giusta, pulita e competitiva, sembra fugare ogni dubbio. Anche al netto della nuova formulazione: il suo predecessore, l’olandese Frans Timmermans, era assai più esplicitamente “commissario al Clima e al Green Deal Europeo”. Ma se la denominazione dell’incarico può essere frutto di trattative volte a tranquillizzare chi ritiene le politiche ambientali europea “pericolose” per la tenuta delle industrie del vecchio continente, la biografia della Ribera la colloca in una posizione ancora più dura rispetto a Timmermans.

    La ministra dell’Ambiente spagnola si prese letteralmente la scena internazionale, rubandola al malcapitato Wopke Hoekstra (subentrato a Timmermans che nel frattempo si era candidato alle politiche olandesi) lo scorso dicembre alla Cop29 di Dubai. Ribera rappresentava l’Unione in virtù del semestre europeo in quei mesi a guida spagnola. E fu la protagonista di un braccio di ferro con Abdulaziz bin Salman, il “signore del petrolio”, ministro dell’Energia dell’Arabia Saudita, figlio del re Salman, nonché fratellastro del principe ereditario Mohammed bin Salman. Da una parte la paladina dell’uscita dai combustibili fossili, dall’altra i leader indiscusso dell’Opec. Nelle concitate fasi finali della Conferenza sul clima di Dubai, fu lei a lapidare come “disgustosa” la lettera con cui l’Opec aveva cercato di serrare i ranghi dei Paesi produttori di petrolio. Ed fu lei a sedere alla destra del segretario generale Onu Guterres, nell’incontro avviava l’ultima giornata di trattative di Cop28.

    Il bilancio

    Cop28, vertice storico ma non basta per fermare la corsa della crisi climatica

    di Luca Fraioli

    16 Dicembre 2023

    L’obiettivo della Ribera era anche ritagliare per l’Europa un ruolo non marginale nella diplomazia climatica. Anche se poi, a onor del vero, l’accordo finale di Cop28 con la prima citazione esplicita di addio a carbone, petrolio e gas (pur nella ambigua formula “transition away”), va ascritto al potere di convincimento che esercitarono Usa e Cina, più che l’Europa, sui Paesi produttori di combustibili fossili. Teresa Ribera Rodriguez ha una formazione giuridica, seguita da una carriera da alta funzionaria nella pubblica amministrazione spagnola, e diversi incarichi presso le Nazioni Unite nel campo dello sviluppo sostenibile e dei cambiamenti climatici.

    Nel 2018 il premier spagnolo Pedro Sanchez la sceglie per il ministero della Transizione ecologica. Due anni dopo diventa anche uno dei quatto vice del primo ministro. Nel suo tentativo di rendere green la Spagna, dichiara guerra al carbone, chiude le miniere nel nord del Paese e stanzia 250 milioni di euro per sostenere i lavoratori del comparto costretti alla riconversione. Nel luglio scorso si presenta in bici a una conferenza sul clima a Valladolid, ma pochi metri dietro di lei ci sono le due auto della scorta. Il fatto che fossero elettriche non le risparmia critiche e ironie.

    I personaggi

    Il principe e l’eco-ministra: a Dubai le due facce del mondo sono Abdulaziz e Teresa

    di Luca Fraioli

    13 Dicembre 2023

    Ora, se il Parlamento europeo le voterà la fiducia, dovrà completare la transizione ecologica, “gemella” di quella digitale, come ha detto Von Der Leyen nella presentazione della sua squadra. E dovrà affrontare il suo primo ostacolo proprio sulle auto elettriche, con Paesi, l’Italia prima tra tutti, che chiedono alla Ue di fare dietrofront sullo stop ai motori a combustione a partire dal 2035. Difficile che Ribera possa cedere su questo punto. E allora sarà curioso vedere se, non solo i partiti della maggioranza europea come Verdi e Socialisti voteranno la fiducia al candidato vicepresidente esecutivo Raffaele Fitto, ma anche se i rappresentanti di Fratelli d’Italia e Forza Italia, diranno sì a Teresa Ribera. LEGGI TUTTO

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    Con Retake le città ripartono dal basso

    “Sostenere i cittadini intenzionati a svolgere un ruolo attivo nei luoghi in cui vivono quotidianamente”. Così Francesca Leonelli, presidente di Retake, sintetizza il ruolo della Fondazione attiva nella tutela dell’ambiente e la cura dei beni comuni. Per la vivibilità e la rigenerazione urbana Un ente non profit di cittadini per il bene comune . “Il […] LEGGI TUTTO

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    Il salice piangente: caratteristiche, tipi e cura

    Il salice piangente è una pianta originaria della Cina e generalmente la si trova in prossimità di aree dove è presente un corso d’acqua oppure un laghetto, giacché la pianta ha bisogno di molta acqua.

    La coltivazione e la messa a dimora del salice piangente
    Il salice piangente o salix babylonica è una pianta davvero molto elegante che non possiamo fare a meno di immaginare nei grandi parchi con i laghetti. Questa pianta è stata esportata dalla Cina nel nostro continente nel 1692 ed è legata alla simbologia della immortalità. La coltivazione del salice piangente nel nostro Paese è ormai comune, tanto che è possibile sempre individuare la pianta nei pressi di laghi, fiumi o torrenti. Questo perché il salice piangente richiede proprio un tipo di terreno umido. Con la corretta coltivazione di questo albero è possibile ottenere una pianta sana che arriva addirittura a 15 metri; solo in casi eccezionali si possono individuare anche esemplari da 25 metri. Per la corretta messa a dimora è necessario selezionare un angolo del giardino fisso: infatti, una volta a terra lo sviluppo dell’albero sarà incredibilmente veloce. Sono assolutamente da escludere aree rivolte verso i muri, giacché la pianta non si sviluppa correttamente. È importante tenere a mente che il salice piangente ha bisogno di spazio per crescere bene e dovrà trovarsi a circa 2 metri di distanza da altre piante. Se non si ha a disposizione una pianta già sviluppata, è possibile attraverso una talea legnosa riprodurre il salice piangente.

    La fioritura del salice piangente
    Il salice piangente è una pianta dioica e, di conseguenza, i fiori che si possono ammirare sugli esemplari maschi e femmine sono differenti. Gli amenti, nome con il quale sono indicati i fiorellini del salice piangente, sono a grappolo: negli esemplari maschili sono gialli e più lunghi, mentre in quelli femminili abbiamo fiori piccoli e di colore verde chiaro. Il periodo in cui è possibile ammirare la fioritura del salice piangente è circa in primavera, tra aprile e maggio. Successivamente compaiono anche i frutti, con capsule che contengono semi con ciuffi di peli bianchi e setosi.

    L’annaffiatura del salice piangente
    A differenza di molte altre piante, il salice piangente non teme assolutamente i ristagni d’acqua. Infatti, è una di quelle piante che ha bisogno costantemente di essere irrigata e, proprio per questo, si selezionano terreni umidi, meglio se in prossimità d’acqua. In caso di siccità estiva, è necessario incrementare ulteriormente l’irrigazione e un segno evidente della necessità d’acqua è la presenza di foglie secche.

    L’esposizione migliore per il salice piangente
    Per quanto riguarda l’esposizione consigliata per questo albero, il salice piangente ama aree esposte al sole o mezzombra. In questo modo, ha la possibilità di svilupparsi correttamente, sempre a patto però di ottenere una giusta irrigazione.

    La concimazione del salice piangente
    Per la concimazione del salice piangente si può ricorrere a quello di tipo organico: con l’arrivo della stagione autunnale basterà diluire in acqua il concime in polvere. In alternativa, è possibile dare maggiore spinta alla crescita della pianta in primavera: in tal caso, sarà importante selezionare una soluzione che contenga solfato di ferro, utile per l’appunto per dare maggiore energia all’albero durante la fase di crescita.

    La potatura del salice piangente
    Generalmente si ricorre alla potatura del salice piangente per donare un aspetto piacevole alla pianta. Infatti, questo albero non ha bisogno di essere potato, poiché i suoi rami assumono una forma a cascata molto ornamentale.

    Le malattie e i parassiti del salice piangente
    Questo è un albero che vive a lungo e riesce addirittura a raggiungere i 30 anni, ma durante il suo ciclo di vita può incontrare alcune difficoltà, come le malattie. Fra i peggiori problemi che si possono manifestare vi sono quelli dovuti alla presenza di parassiti come pidocchi, afidi e bruchi. L’attacco di questi parassiti può addirittura portare alla morte della pianta, poiché i rami si indeboliscono e diventano più sottili. Un’altra problematica in cui può incorrere il salice piangente è la malattia fungina della ruggine. Infine, non dimentichiamo anche il cancro rameale che è un’altra grave malattia del salice da trattare con estrema velocità per evitare la diffusione. LEGGI TUTTO

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    Smart city, crescono gli investimenti a livello globale

    Le città sono responsabili del 75% dei consumi energetici e dei rifiuti prodotti a livello globale, nonché dell’80% delle emissioni di gas serra. I numeri, che arrivano da una ricerca della Banca Mondiale, hanno spinto a incrementare gli investimenti per rendere le città più efficienti e meno inquinanti. E il tema promette di acquisire un’importanza crescente nei prossimi anni, considerato che, secondo alcune previsioni, entro il 2050 circa il 68% della popolazione mondiale vivrà nelle città, a fronte del 56% attuale. Non a caso, secondo dati elaborati dal portale Statista.com, il mercato globale delle smart city dovrebbe arrivare a valere quest’anno 104,80 miliardi di dollari e si prevede che salirà a 165,80 miliardi di dollari entro il 2028, grazie a un tasso annuo di crescita del 12,15%. Gli analisti attribuiscono la crescita del mercato a un mix di fattori. Dalle favorevoli iniziative governative a innovazioni come l’intelligenza artificiale, l’analisi dei big data e l’Internet of Things, sempre più diffuse.
    Focus sulla sicurezza
    Uno studio elaborato da Grand View Research evidenzia che i maggiori investimenti a livello globale si rilevano nella sicurezza intelligente, nel monitoraggio smart dei servizi pubblici, nei sistemi integrati di gestione del traffico e nella mobilità intelligente.
    In base a uno studio di ResearchGate, la Cina ha ottenuto lo scorso anno il primato a livello globale per numero di città intelligenti in costruzione (con una quota del 48%). A seguire ci sono l’India (11%), gli Stati Uniti (7%), il Giappone, la Corea del Sud e il Canada (2%). Negli Stati Uniti, New York ha fatto molti passi in avanti da questo punto di vista, grazie all’investimento in infrastrutture smart, tra cui misuratori e sensori della qualità dell’acqua, e all’implementazione di tecnologie Lpwan (Low-Power Wide Area Network) che consentono di ridurre i costi e il consumo energetico. Anche in Giappone il tema è molto sentito: nel paese asiatico si punta sulla costruzione di edifici a basso impatto energetico e sull’uso di software di gestione avanzata del traffico che consentiranno di ridurre dell’80% le emissioni di gas serra nel paese entro il 2050.
    Da Berlino alle città britanniche
    In Europa, in Germania spicca invece il caso di Berlino che raggiungerà la neutralità carbonica entro il 2050. Anche il Regno Unito sta puntando sulle smart city attraverso torri 5G, infrastrutture intelligenti e stazioni di ricarica per veicoli elettrici, insieme a ingenti investimenti in tecnologie come Internet of things e intelligenza artificiale. Un trend che interessa anche il nostro Paese, tanto che lo scorso anno, secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio Smart City della School of Management del Politecnico di Milano, sono aumentati i comuni che hanno avviato progetti legati alla smart city (12% contro il 10% del 2022). Le principali iniziative hanno riguardato l’illuminazione pubblica e la smart mobility.
    La spinta dell’intelligenza artificiale
    Guardando al futuro, le tecnologie più utilizzate avranno come protagonista l’intelligenza artificiale, verso la quale verranno dirottati 326 miliardi di dollari entro il 2028. Già allo stato attuale, le applicazioni dell’IA nelle città intelligenti sono molteplici e in costante crescita. A Singapore, per esempio, sensori e telecamere intelligenti guidano il traffico e monitorano la qualità dell’aria. Mentre a Barcellona l’IA è impiegata per ottimizzare l’illuminazione pubblica e la gestione dei rifiuti. Infine, in Cina la municipalità di Hangzhou ha utilizzato l’intelligenza artificiale per sviluppare un “cervello cittadino” che consente di ottimizzare la gestione dei semafori, migliorando così l’efficienza del traffico e riducendo le emissioni nocive. LEGGI TUTTO

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    Useremo sempre più aria condizionata e questo aumenterà le disuguaglianze sociali

    Un piccolo tasto, quello con il simbolo del “gelo” sopra, capace di creare grandi divisioni nel mondo. Quest’estate il tema della disuguaglianza termica è diventato improvvisamente centrale per via delle Olimpiadi: a Parigi la scelta di un villaggio olimpico senza condizionatori, dove solo le federazioni più ricche potevano pagare per dotare di impianti refrigeranti le […] LEGGI TUTTO

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    Il Mediterraneo senza acqua? Una catastrofe quasi irreparabile

    Quasi un secolo fa, nel 1927, il signor Herman Sörgel, architetto e filosofo del Reich, partorì il progetto Atlantropa: la sua bislacca idea era di costruire una diga sullo stretto di Gibilterra e far abbassare di circa 120 metri il livello del mar Mediterraneo, per poi colonizzare la terra emersa a seguito dell’operazione. Una follia cui fortunatamente non fu dato seguito, anche perché (posto che la cosa si fosse effettivamente potuta realizzare in qualche modo, il che è tutt’altro che scontato) le conseguenze per l’ecosistema sarebbero state imprevedibili e probabilmente molto drammatiche. Quel che Sörgel probabilmente non sapeva è che c’è stato un momento, circa cinque milioni e mezzo di anni fa, verso la fine del Miocene, in cui il Mediterraneo si è effettivamente prosciugato a opera delle forze della natura. Oggi un’équipe di scienziati di diversi istituti di ricerca europei, tra cui anche molti centri italiani, ha approfondito il fenomeno per comprendere cosa successe alla vita marina dell’epoca, e cosa potrebbe succedere se malauguratamente il Mediterraneo dovesse prosciugarsi di nuovo. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science.

    Un enorme bacino vuoto
    L’evento studiato dai ricercatori è noto come “crisi di salinità del Messiniano” ed è stato scoperto negli anni Sessanta, quando una campagna di rilevamento sismico sul fondo del mar Mediterraneo ha rivelato la presenza, dove il bacino è più profondo, di uno strato di sedimenti salati il cui spessore arriva a quasi tre chilometri: in totale si tratta di un milione di chilometri cubi di sale. Quando e come si è depositato, e cosa ci fa là in fondo? L’analisi dei campioni prelevati ha mostrato che poco più di cinque milioni e mezzo di anni fa lo stretto di Gibilterra si chiuse per cause naturali – probabilmente fenomeni di origine tettonica – e di conseguenza l’acqua del Mediterraneo evaporò, trasformando il bacino in una conca asciutta e profonda fino a cinque chilometri sotto il livello del mare. Si stima che il fenomeno durò circa duecentomila anni e rappresentò una vera e propria apocalisse per la flora e la fauna marine, il più grande evento di estinzione dai tempi del meteorite che 60 milioni di anni fa spazzò via i dinosauri (e innumerevoli altre specie) e pose fine all’era mesozoica.

    Il caso

    Pesci morti, alghe e pericolo batteri: la difficile estate italiana con il mare bollente

    di Giacomo Talignani

    29 Luglio 2024

    L’analisi dei fossili

    Gli autori del lavoro appena pubblicato, in particolare, hanno esaminato i fossili raccolti nel Mediterraneo e risalenti a un periodo compreso tra 12 e 3,6 milioni di anni fa: i risultati della loro analisi suggeriscono, per l’appunto, che la vita marina autoctona si estinse quasi del tutto quando il Mediterraneo si prosciugò, e che è stata la ricolonizzazione successiva, avvenuta dopo la riapertura dello stretto di Gibilterra e il nuovo riempimento del bacino, a dare alla fauna un aspetto più simile a quello che osserviamo oggi.

    Gli scienziati hanno messo insieme le informazioni estratte da oltre 750 articoli pubblicati su questo tema, documentando quasi 23mila esemplari per un totale di 4897 specie viventi nel Mediterraneo. 779 specie, vissute prima della grande crisi del Messiniano, potevano essere considerate endemiche (cioè “residenti” solo nel Mediterraneo): di tutte queste, solo 86 erano presenti dopo il prosciugamento. Tra le specie scomparse figurano anche molti coralli tropicali, che abbondavano prima della crisi della salinità; tra quelle sopravvissute, invece, alcune specie di sardine e i sirenii, un ordine di mammiferi che comprende anche i lamantini e i dugonghi.

    Oceani

    Barriere coralline, come (e perché) stiamo perdendo un patrimonio di biodiversità

    di Pasquale Raicaldo

    03 Settembre 2024

    Un recupero lento e faticoso
    Lo studio, purtroppo, non è riuscito a far luce su come e perché alcune specie siano riuscite a sopravvivere a altre no, ma ha chiarito il fatto che l’impatto dell’isolamento del Mediterraneo sulla sua biodiversità è stato catastrofico e soprattutto che la ripresa è stata molto lenta: secondo le stime degli scienziati, ci sono voluti oltre 1,7 milioni di anni perché il numero delle specie tornasse comparabile a quello precedente alla crisi. Fortuna, insomma, che Sörgel sia stato fermato in tempo. LEGGI TUTTO

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    Gli allevamenti di animali da pelliccia sono un possibile veicolo di pandemie: lo studio

    Se si vuole evitare il rischio di nuove pandemie, di nuovi salti di specie da parte di patogeni pericolosi, bisogna lasciare in pace la fauna ed evitare assembramenti tra esseri umani e animali selvatici. Un nuovo studio, recentemente pubblicato sulla rivista Nature, torna a invitare a tenere alta la guardia, puntando i riflettori sugli allevamenti di animali da pellicce, definiti senza mezzi termini delle vere e proprie “autostrade virali” che potrebbero condurre alla prossima pandemia, e chiedendo nuove misure di biosicurezza per contenere i rischi. “È proprio così che nascono le pandemie”, ha spiegato Eddie Holmes, virologo alla University of Sydney, in Australia, e co-autore dello studio. “Gli allevamenti di pellicce possono diventare un ponte tra gli esseri umani e i virus che circolano tra la fauna selvatica”.

    Sebbene il commercio di pellicce sia diffuso in tutto il mondo, la maggior parte degli allevamenti si trovano in Europa e in Cina: nel 2016 gli allevamenti europei hanno prodotto poco più di 39 milioni di pelle di visone, e quelli cinesi circa 26 milioni. Ed effettivamente i visoni, sia europei che cinesi, sono stati tra i primi animali ad ammalarsi a ridosso dello scoppio della pandemia di Covid-19. Non solo: si sospetta che i visoni abbiano avuto (e stiano avendo) un ruolo importante anche nella diffusione di H5N1, il virus dell’influenza aviaria. Discorso analogo per il cane procione (Nyctereutes procyonoides), un altro comune animale da pelliccia, che potrebbe aver avuto un ruolo nel salto di specie compiuto dal virus che causa la Sars.

    Aviaria: dobbiamo preoccuparci? Come avviene il contagio, quali sono i sintomi e le precauzioni da prendere

    di Irma D’Aria

    06 Giugno 2024

    Gli autori dello studio appena pubblicato, in particolare, hanno cercato di identificare i virus circolanti negli allevamenti di pellicce in Cina. Per farlo, hanno prelevato e analizzato campioni di tessuto polmonare e intestinale da 461 animali morti per malattie infettive tra il 2021 e il 2024: di questi, 164 provenivano da quattro specie allevate esclusivamente per la loro pelliccia (i già citati visone e cane procione, Neogale vison e Nyctereutes procyonoides, la volpe rossa, Vulpes vulpes, e la volpe artica, Vulpes lagopus) prevalentemente in allevamenti intensivi della Cina nord-orientale. Gli altri provenivano da specie allevate sia per la pelliccia che per l’alimentazione e la medicina tradizionale, prevalentemente nella Cina orientale: tra queste, porcellini d’India, cervi e conigli. Sequenziando il DNA e l’RNA prelevati dai campioni di tessuto, i ricercatori hanno identificato 125 diversi virus, tra cui molti virus influenzali e coronavirus: 36 di essi non erano mai stati osservati fino a ora e molti di essi sono stati trovati in specie che non si sapeva potessero ospitarli: il virus dell’encefalite giapponese e un coronavirus simile a HKU5 (il patogeno dei pipistrelli responsabile della Mers), per esempio, sono stati individuati nei visoni; il virus H6N2 è stato individuato in un topo muschiato, il primo mammifero in cui si è osservato questo tipo di contagio.

    Secondo i ricercatori, oltre 30 tra i virus individuati destano particolare preoccupazione a causa della loro capacità di saltare da una specie all’altra, e le specie più “pericolose” sono risultate essere i visoni e i cani procioni, portatori, nel complesso, di dieci dei patogeni più preoccupanti.

    Giornata mondiale della salute

    È il cambio climatico la minaccia principale per la salute umana

    di Wwf Italia

    07 Aprile 2024

    “La nostra analisi”, ha concluso Alice Hughes, biologa conservazionista alla University of Hong Kong, “evidenzia che le preoccupazioni sugli allevamenti di pellicce sono valide, e che la gamma di virus potenzialmente pericolosi per gli esseri umani è più ampia di quel che si pensasse. Bisognerebbe imporre una transizione alla produzione di pellicce esclusivamente artificiali, oppure rendere più rigida la regolamentazione e la supervisione della produzione di pellicce naturali, per esempio garantendo l’attuazione di misure come quarantena per gli animali, riduzione del sovraffollamento, igiene delle gabbie, approvvigionamento del mangime e smaltimento dei rifiuti”. LEGGI TUTTO