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    Clima, il permafrost sulle montagne europee si sta scaldando velocemente

    L’aumento delle temperature del permafrost nelle regioni montuose d’Europa è altrettanto grande che nell’Artico, sul quale si notano già da tempo profonde trasformazioni a causa del cambiamento climatico. Un aumento costante, (di oltre 1°C negli ultimi dieci anni) con un tasso di riscaldamento che supera le stime precedenti e si allinea a quelli osservati appunto […] LEGGI TUTTO

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    In Italia la fiducia in scienza e scienziati è più bassa della media globale

    Viviamo in un mondo dove nonostante migliaia di studi, dati e osservazioni satellitari, temperature percepite e ghiacciai che si sciolgono davanti ai nostri occhi, c’è chi nega ancora la crisi del clima in atto, come il neo presidente degli Stati Uniti Donald Trump, solo per fare un solo nome. Lo stesso vale per i vaccini che durante la pandemia hanno salvato milioni di vite ma sono stati osteggiati e respinti, oppure per una lunghissima serie di fenomeni, difficili da comprendere ma sempre ben spiegati da chi li studia da anni, che tavolta vengono giustificati con le più strane teorie negazioniste o complottiste. Eppure, in questo mondo che oggi ci confonde tra fake news, bufale e alterazioni create dall’intelligenza artificiale, l’umanità ha ancora grande fiducia nella scienza. Non tutti però “crediamo” nella scienza e negli scienziati in egual modo: se chiedi a un egiziano o a un indiano quanto confidano nel metodo scientifico, ti risponderanno “totalmente”, se invece poni la stessa domanda a un italiano, un albanese o un russo, permarrà ancora un po’ di scetticismo.

    Su Nature Human Beahviour è stata pubblicata infatti una interessante ricerca, guidata da 241 esperti di Harvard, dell’università di Zurigo e con la collaborazione anche dell’Università di Genova e altri atenei europei, in cui viene esaminata la “fiducia nella scienza” e negli scienziati in 68 Paesi del mondo. I valori ottenuti dall’analisi, in un punteggio che va da 1 (il massimo dello scetticismo) e 5 (la totale fiducia), la media ottenuta è un valore di 3,62. Sul podio di questa curiosa classifica ci sono Egitto (media di 4,30), India (4,26) e Nigeria (3,98). Al contrario, i meno fiduciosi appaiono l’Albania (3.05), il Kazakistan (3.13) e la Bolivia (3.22), seguita subito dopo dalla Russia. L’Italia è nella parte bassa della classifica: al 57° posto su sessantotto Paesi, con una media di 3.38 (al pari dell’Ucraina), dunque siamo decisamente sotto media. Sopra di noi ci sono per esempio gli Usa (3,84) o come primo paese europeo la Spagna (3,90), o ancora la Cina (3,67) oppure l’Argentina di Milei (3,87).

    Da noi invece la fiducia è tutto sommato bassa, tanto che siamo fra i tre Paesi europei che appaiono meno “confidenti” (insieme a Slovacchia e Albania). La ricerca è stata svolta dopo la pandemia e ha coinvolto circa 72mila persone. Rispetto alle domande poste agli intervistati è emerso che il 78% delle persone ritiene che gli scienziati siano persone qualificate, il 57% le indica come oneste e il 56% che “hanno a cura il benessere delle persone”. Inoltre l’83% ritiene che i ricercatori dovrebbero impegnarsi nella comunicazione della scienza al pubblico e ritiene che dovrebbero essere maggiormente coinvolti nei processi decisionali e politici (il 52%). Dalla ricerca emerge inoltre una generale maggiore fiducia negli scienziati da parte delle donne, ma anche dagli anziani, da chi vive in aree urbane (rispetto a quelle rurali) o di chi ha un livello di istruzione o un reddito maggiore. In Nord America e alcune zone europee chi ha un orientamento politico conservatore ha invece espresso minore fiducia.

    “Nella maggior parte dei Paesi l’orientamento politico e la fiducia negli scienziati non erano correlati. Tuttavia, abbiamo scoperto che nei Paesi occidentali le persone con idee politiche conservatrici (in generale di destra) hanno meno fiducia negli scienziati rispetto a quelle con idee più liberali (o di sinistra)” fanno sapere gli autori. Ci sono poi alcune considerazioni importanti che possono interessare gli stessi scienziati, magari per comunicare meglio con il pubblico: tante persone, quasi il 58%, non credono che i ricercatori considerino davvero i punti di vista altrui, per esempio affermano che le priorità della scienza non sempre coincidono con quelle dei cittadini nei campi del miglioramento della salute pubblica, dei problemi energetici o la riduzione della povertà. Informazioni, quelle emerse della studio, che indicano infine come i ricercatori potrebbero migliorare il feedback con la popolazione, soprattutto negli Usa e in alcuni Paesi occidentali dove forse, attraverso il dialogo, aiuterebbero i gruppi più conservatori a recuperare fiducia nella scienza. LEGGI TUTTO

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    Inquinamento e crisi climatica, in Galizia “spariscono” i molluschi

    Che fine hanno fatto i molluschi della Galizia? Tra i più grandi produttori di cozze, seconda solo alla Cina, la regione nord-occidentale della Spagna che affaccia sull’Atlantico lancia un campanello d’allarme. Perché il calo di vongole, lupini e cozze – fino al 90% in pochi anni, con un trend di vongole in decremento dell’80% nel 2024 rispetto all’anno precedente – è, qui, sotto gli occhi di tutti. La produzione di cozze, allevate sulle cosiddette bateas, corde tese da zattere in legno, è stata – nel 2024 – la più bassa degli ultimi anni: appena 178 mila tonnellate, nel 2021 erano 250 mila.

    Al Guardian, che in queste ore ha denunciato il caso, María del Carmen Besada Meis, che dirige l’associazione dei pescatori di San Martiño nella Ría de Arousa, un tempo pescosissimo, ha spiegato che l’indiziato numero uno potrebbe essere il cambiamento climatico. “Già, perché le recenti piogge torrenziali hanno ridotto la salinità delle rías (le insenature profonde, dalle coste ripide, tipiche dell’intera area, ndr). Negli ultimi due anni – aggiunge – le precipitazioni sono state ben al di sopra della media. Ma non abbiamo prove sufficienti e ci piacerebbe se qualcuno venisse a fare delle ricerche adeguate”. Sul piede di guerra tutti i “marisqueros”, i pescatori di conchiglie. Da un lato puntano l’indice contro le politiche Ue, che favorirebbero le grandi multizionali. Dall’altro, chiedono risposte: perché stanno scomparendo i molluschi? “C’entra di sicuro l’inquinamento”, spiega Marta Martín-Borregón, responsabile oceani di Greenpeace Spagna.

    Arriva il Commissario al granchio blu per salvare le vongole (e il mare)

    di Lorenzo Cresci

    05 Agosto 2024

    Sotto accusa fabbriche e imprese agricole, che riverserebbero rifiuti d’ogni tipo nell’estuario: un quantitativo che si tradurrebbe in un superamento del 10% dei limiti di tossicità consentiti dalla legge. E all’orizzonte si stagliano anche piani di riapertura della miniera di rame di Touro-Pino, e la proposta di un grande impianto di produzione di cellulosa che, denuncia Greenpeace, consumerebbe 46 mila metri cubi di acqua al giorno, l’equivalente dell’intera provincia circostante di Lugo. Inquinamento e crisi climatica, dunque. Con un focus sull’innalzamento della temperatura delle acque: “Le acque delle rías sono sempre state fredde, il loro riscaldamento dei mari ostacola il ciclo biologico delle cozze”, spiega Martín-Borregón. E favoriscono la diffusione di inattese specie aliene, come il famigerato granchio blu e fatalmente arrivato anche a queste latitudini: la loro presenza invasiva soppianta gradualmente altre specie di granchi, dal valore commerciale più consistente. Un’altra gatta da pelare, per i piccoli pescatori galiziani, sempre più disorientati.

    Non sorride neanche l’Italia
    Non sembra andare meglio, però, alle produzioni di cozze del Mediterraneo sulle coste italiane: nel corso degli ultimi anni diversi eventi di mortalità di massa di questi molluschi hanno interessato sia popolazioni selvatiche che allevamenti. L’ultimo ha avuto luogo nel corso dell’ultima stagione estiva. A settembre, lungo la Costa del Conero, nelle Marche, l’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche di Ancona (Cnr-Irbim) ha documentato una mortalità severa di questi molluschi, prossima addirittura al 100% in alcune aree. L’evento è successivo al verificarsi di prolungate ondate di calore marine, registrate dalle boe del CNR IRBIM, con picchi di temperatura del mare superiori ai 30 gradi centigradi e fenomeni estesi di mucillagine.

    Il sospetto, anche qui, è che le cozze – al pari di almeno altre specie marine – paghino dazio al cambiamento climatico. “Ogni specie ha una sua nicchia climatica, il che significa che la sua sopravvivenza è limitata da un particolare range di temperature e da altre variabili biofisiche. – spiega Ernesto Azzurro, dirigente di ricerca Cnr-Irbim e promotore di un questionario online volto a mappare la mortalità dei molluschi – Per molti anni abbiamo considerato le cozze come una risorsa inesauribile, ora questi eventi dimostrano quanto siano vulnerabili. Il riscaldamento dell’acqua provoca un generale indebolimento del bisso (l’insieme di filamenti che li tiene attaccati i mitili al substrato), aumentando il rischio per questi animali di essere trasportati via dalle correnti e dalle mareggiate. In più, periodi prolungati di siccità compromettono la capacità di questi bivalvi filtratori di nutrirsi adeguatamente”.

    La speranza della Nature Restoration Law
    “Per coltivare molluschi sani, gli agricoltori hanno bisogno di acqua pulita, ecosistemi robusti e un clima stabile. – conferma Laura Airoldi, che insegna ecologia all’Università di Padova e lavora alla Stazione Idrobiologica U. D’Ancona di Chioggia – Ma condizioni essenziali sono sempre più minacciate dall’inquinamento, dalla distruzione degli habitat e dai cambiamenti climatici.

    Il ripristino degli ecosistemi svolge un ruolo cruciale nell’invertire questi danni, garantendo che gli ambienti marini e costieri possano continuare a sostenere la biodiversità e i mezzi di sussistenza sostenibili. Per questo l’Unione Europea ha introdotto la legge sul ripristino della natura, iniziativa rivoluzionaria volta a ripristinare almeno il 20% delle terre e dei mari dell’UE entro il 2030. – aggiunge Airoldi – Proteggendo e rivitalizzando habitat come le zone umide, le praterie di fanerogame e le barriere di ostriche, la legislazione sostiene la biodiversità, migliora la qualità dell’acqua e rafforza la resilienza climatica. Investire nel ripristino degli ecosistemi non è solo una necessità ambientale, ma è un impegno per un pianeta più sano, un’economia fiorente e un futuro sostenibile per tutti”. Compresi i piccoli pescatori galiziani. LEGGI TUTTO

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    Bonus e contributi per cambiare caldaia solo se si prendono modelli ibridi

    Bonus e contributi per la sostituzione delle vecchie caldaie autonome riservati esclusivamente agli impianti ibridi. Chi deve cambiare l’impianto ora deve fare i conti con le norme introdotte dalla direttiva Case green e con il taglio alle aliquote di detrazione dell’Ecobonus, che sono ormai allineate con quelle del Bonus casa. L’opzione migliore a questo punto […] LEGGI TUTTO

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    In Finlandia trovato un giacimento geotermico che fornirà energia pulita per 20 milioni di anni

    I paesi scandinavi, culturalmente più attenti alle tematiche green, precorrono i tempi, e la Finlandia, che ha scoperto un importante giacimento geotermico, potrebbe centrare la neutralità carbonica già entro il 2030. Nella città di Vantaa, poco distante dalla capitale Helsinki, nel sud del paese, è stato realizzato un impianto di riscaldamento geotermico, il primo della Finlandia, che produce calore in modo rinnovabile e totalmente pulito ed energia che viene immessa e venduta nella rete.

    Prima di entrare nei dettagli, vediamo quali sono le caratteristiche di una centrale geotermica, che sfrutta il calore proveniente dalle profondità della Terra, trasformandola in energia. La temperatura interna del pianeta che ci ospita, in media sale di 3° ogni 100 metri di profondità, ma in presenza di particolari condizioni può raggiungere anche i 350° intorno ai 2000-4000 metri. Acque bollenti e vapore, che salgono verso la superficie terrestre attraversando gli strati rocciosi, sono intercettati dai pozzi geotermici, azionano la turbina, dove l’energia è trasformata in energia meccanica di rotazione, che è a sua volta diventa energia elettrica, grazie ad un alternatore, per poi essere trasmessa al trasformatore, infine immessa nella rete.

    Transizione ecologica

    Tutto quello che c’è da sapere sulla geotermia, l’energia pulita di cui l’Italia è ricca

    di Pietro Mecarozzi

    15 Gennaio 2022

    Quanto scoperto in Finlandia, consentirà alla nazione di contribuire al fabbisogno energetico per un lunghissimo periodo di tempo, potenzialmente infinito, più probabilmente secoli, perché oltre le caratteristiche di rinnovabilità, intrinseche dell’energia geotermica ci sono poi le variabili locali che ne influenzano la longevità, come l’equilibrio tra estrazione e iniezione di calore nel sottosuolo, insieme alla velocità con cui il calore viene estratto dal sottosuolo e la capacità che ha lo stesso giacimento a rigenerarsi. Quel che è certo, invece, è che l’impianto di Vantaa contribuirà notevolmente all’abbassamento delle emissioni di CO2, in favore della sostenibilità ambientale, visto che secondo quanto dichiara la società finlandese che gestisce la centrale geotermica, “le emissioni di carbonio sono inferiori del 95% rispetto a quelle generate dai combustibili fossili”, in quanto a differenza di centrali elettriche tradizionali, l’impianto geotermico non brucia carburante fossile. L’impianto di Vantaa consente di produrre 2.600 megawatt di energie elettrica all’anno, e produce circa 1.400 MWh di calore, che in termini di volume, corrisponde a circa 35 pozzi geotermici tradizionali; il piano originale che prevedeva una perforazione di 2 km, a causa del substrato roccioso, è stato sostituito con tre pozzi profondi 800 metri.

    Naturalmente, il progetto di riscaldamento geotermico finlandese a Vantaa è solo il primo passo, perché la tecnologia ha il potenziale per diffondersi in altre aree del paese, anche grazie alla sua flessibilità, che consente di immagazzinare calore ed energia anche durante il periodo invernale, quando i consumi sono elevatissimi e la luce del giorno è molto ridotta. Infatti, la differenza sostanziale tra il geotermico ed altre fonti energetiche più diffuse, come il solare e l’eolico, risiede nel fatto che l’energia geotermica è più stabile, consente una continuità quotidiana, non garantita invece dalla luce solare e dal vento.

    Transizione

    Facebook e Google copriranno i consumi di energia con il geotermico

    di Dario D’Elia

    29 Agosto 2024

    Insieme alla centrale geotermica, a Vantaa è in costruzione l’impianto di stoccaggio di energia termica stagionale più grande al mondo, ricavato all’interno di tre caverne larghe circa 20 metri, lunghe 300 e alte 40, mentre il fondo delle caverne sarà a 100 metri sotto il livello del suolo. Le caverne di stoccaggio hanno un volume totale di 1.100.000 metri cubi, fisicamente grande quasi quanto due volte, il celebre Madison Square Garden di New York. La capacità termica totale dell’accumulo di energia termica è di 90 gigawattora, che suddivisa in unità energetiche più piccole, equivale a 1,3 milioni di batterie per auto elettriche.

    Ma in Italia è possibile investire nella geotermia? “Il nostro paese ha un potenziale di energia geotermica estraibile e sfruttabile che si stima valga tra i 500 milioni e i 10 miliardi di tonnellate di petrolio equivalente. Vale a dire, tra i 5.800 e i 116mila terawattora di energia, a fronte di un fabbisogno annuo di poco superiore ai 300 terawattora” si legge sul sito di Enel. Da questi dati si evince che basterebbe estrarre una piccola quantità di quell’energia per soddisfare tutta la domanda interna. Eppure questa fonte energetica presente in diverse regioni, ricche di sorgenti naturali di acqua calda, ha un ruolo marginale, nonostante a Larderello, in Toscana sia stato costruito il primo impianto geotermico al mondo. L’Italia, dunque, può vantare enormi conoscenze e competenze, e ci sono una trentina di impianti sparsi sul territorio, ma solo la Toscana – ad oggi – fa la differenza in termini di bilancio energetico. LEGGI TUTTO

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    L’Italia è il Paese più dipendente dall’estero per il fabbisogno energetico

    Nell’ultimo quarto di secolo l’Europa ha fatto grandi progressi nelle rinnovabili. Eppure la Ue resta, tra le grandi economie globali, quella più dipendente dall’estero per quanto riguarda il soddisfacimento del proprio fabbisogno energetico. I Paesi dell’Unione infatti importano il 58,3% dell’energia o delle materie prime necessarie alla sua produzione, il dato scende al 20% per la Cina ed è pari a zero per gli Stati Uniti, che sono totalmente autosufficienti nella produzione rispetto al fabbisogno energetico. Anche se le rinnovabili europee dal 2000 a oggi sono passare dal 15% al 45% del totale del mix di generazione di energia elettrica. E’ questo contrasto il dato più appariscente del sesto rapporto annuale Med & Italian Energy Report, presentato oggi dal Politecnico di Torino e da Intesa Sanpaolo al Parlamento Europeo.

    L’analisi, ricostruisce le ormai note ragioni storiche della mancata autosufficienza energetica europea, e racconta l’evoluzione (lenta ma incoraggiante degli ultimi anni). “Guardando specificatamente alla produzione di energia elettrica, è in corso da oltre un ventennio un’importante modifica del mix europeo di generazione”, si legge nel rapporto. “L’uso del carbone è diminuito drasticamente dal 32% del 2000 a circa il 12% (ultimi dati disponibili) mentre è leggermente aumentata la quota del gas naturale dal 12% al 17%”. A dominare oggi sono le energie rinnovabili, passate appunto dal 15% del 2000 all’attuale 45%. “Ci si aspetta un ritmo di espansione dell’elettricità da rinnovabili più che doppio entro il 2030”. In questo percorso di diversificazione la Spagna si conferma il Paese più virtuoso: “Presenta un mix più equilibrato e con il più alto peso delle rinnovabili che arrivano al 51% del totale nel 2023”. La Germania invece “è il Paese con il più elevato utilizzo di carbone (26% del totale), anche se in forte riduzione. In Francia il mix energetico è dominato dal nucleare (64% del totale)”. E l’Italia? “E’ il Paese con il maggior grado di dipendenza energetica, pari al 74,8%, ben sopra la media europea”. Un valore però in calo di quasi tre punti percentuali rispetto al dato del 2019 (pre-Covid) quando la dipendenza era pari al 77,5%. “La Francia è il Paese con il minor grado di dipendenza pari al 44,8% grazie all’uso del nucleare”.

    Energia

    Perché in Italia l’elettricità costa più che negli altri Paesi europei

    di  Luca Fraioli

    21 Gennaio 2025

    Comunque incoraggianti i dati sulla ripartenza delle rinnovabili italiane dopo un periodo di stallo: “Molto positivo è l’andamento del fotovoltaico: +19,3% sul 2023. Un record di produzione che ha consentito di soddisfare l’11,5% della domanda del 2024. Nel complesso l’incremento di fotovoltaico ed eolico è pari ad un +8,4% sul 2023. Insieme hanno coperto il 18,6% del fabbisogno elettrico nazionale”. Da qui l’auspicio degli esperti del Politecnico di Torino: “L’aumento della produzione rinnovabile è la strada da seguire per affrancare l’Italia dalla dipendenza dalle importazioni di gas. Gli ultimi dati di Terna per il 2024 evidenziano che la quota dell’energia rinnovabile sulla produzione totale di energia elettrica è arrivata al 41,2%, il massimo di sempre. Il divario con gli obiettivi intermedi del 2025 (48%) e del 2030 (65%) previsti dal PNIEC (Piano Nazionale Integrato Energia e Clima) richiede un forte impegno”.

    Focus

    Rinnovabili da record in Gb e Germania, ma in Italia il gas naturale copre il 65% dell’elettricità

    di  Luca Fraioli

    03 Gennaio 2025

    E tuttavia lo scenario internazionale sembra spingere verso una crescita del consumo di combustibili, sia in Italia che in Europa. In attesa di vedere come evolveranno il conflitto in Ucraina e quello in Medioriente, c’è comunque la nuova Amministrazione di Washington a influire sulle politiche energetiche del Vecchio Continente. “Aumenterà con Trump la spinta a vendere più petrolio e gas degli Usa all’Europa che già nel corso degli ultimi anni ha aumentato le importazioni di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti”, si legge nel rapporto del Politecnico. “Se nel 2021 pesavano per il 27%, la quota è cresciuta al 41% l’anno successivo, arrivando al 48% sul totale del Gol importato dall’Europa nei primi mesi del 2024”. Un focus specifico è quello dedicato al Mediterraneo, le cui sponde nord e sud confermano la loro asimmetria: la prima importa combustibili fossili e parallelamente impianta rinnovabili, la seconda esporta petrolio e gas, mentre arranca su eolico e fotovoltaico. Guardando al futuro, “diverse opportunità sono legate allo sviluppo di idrogeno verde nei Paesi della sponda Sud, i cui Paesi costieri possiedono un potenziale significativo non solo per la disponibilità di acqua ed energia, ma anche per l’esistenza di infrastrutture portuali, che potrebbero produrre e stoccare idrogeno verde, da esportare verso l’Europa”. “L’Italia in prima fila nello sviluppo del nuovo modello del porto come polo di sviluppo energetico… Si configurano nuovi modelli di gestione dei porti che stanno diventando hub energetici, i cosiddetti green port”. Anche se di green, per ora, c’è ben poco, come ammette il rapporto: “Diversi porti italiani figurano nella top 10 dei principali porti energy dell’area Med, con un ruolo rilevante soprattutto per il trade di petrolio e derivati. Per il greggio: Trieste (38 milioni di tonnellate movimentate), Augusta e Sarroch (12 milioni di tonnellate movimentate ciascuna); Augusta (9,5 milioni di tonnellate) e Sarroch (7,8 milioni di tonnellate) per i prodotti petroliferi raffinati; Napoli per il gas (1 milione di tonnellate); Porto Levante-Rovigo (6,4 milioni di tonnellate) e Piombino (2,4 milioni di tonnellate) per il Gnl”. Per analizzare e comprendere gli impatti di questi fenomeni, SRM (centro studi collegato al Gruppo Intesa Sanpaolo) e ESL@energycenter Lab del Politecnico di Torino stanno implementando una piattaforma interattiva denominata ENEMED Platform che consente di eseguire analisi e ottenere informazioni aggiornate sui flussi energetici dei Paesi dell’area Euro-Mediterranea. Una prima dimostrazione di ENEMED – Plat è stata effettuata al Parlamento Europeo proprio in occasione della Conferenza di presentazione del sesto rapporto Med & Italian Energy Report, che è stato elaborato anche con l’utilizzo della piattaforma. LEGGI TUTTO

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    Clima, sicurezza alimentare messa a rischio da eventi estremi in America Centrale

    Gli eventi climatici estremi, le crisi economiche, la mancanza di accesso a cibi sani, gli ambienti alimentari malsani e la disuguaglianza sociale continuano a tenere nell’insicurezza alimentare e la malnutrizione molte parti dell’America Centrale e del Messico meridionale, aree adesso sotto i riflettori della politica mondiale.

    L’analisi

    Crisi climatica, cosa succede dopo le scelte di Trump sull’ambiente

    di  Giacomo Talignani

    21 Gennaio 2025

    A rivelare la situazione così a limite è un rapporto appena pubblicato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura. Secondo la Fao, la cui sede regionale si trova a Santiago del Cile, 14 Paesi dell’America Latina e dei Caraibi potrebbero subire limitazioni nell’accesso al cibo a causa della crisi climatica. Per la siccità soprattutto. Problema che era stato già evidenziato nell’ultimo rapporto delle Nazioni Unite dal titolo “Prospettive regionali in materia di sicurezza alimentare e nutrizione 2023” secondo cui il 6,5% della popolazione dell’America Latina e dei Caraibi soffre la fame, ossia 43,2 milioni di persone. Sebbene questo dato rappresenti un lieve miglioramento di 0,5 punti percentuali rispetto alla misurazione precedente, la prevalenza della fame nella regione è ancora superiore di 0,9 punti percentuali rispetto al 2019, prima della pandemia Covid-19”. Un problema che non colpisce solo l’America Centrale, visto che tra il 2019 e il 2023, l’insicurezza alimentare – cioè l’accesso discontinuo al cibo – è aumentata in media dell’1,5% nei Paesi vulnerabili dal punto di vista climatico.
    I Paesi lungo il Corridoio secco
    Questi Paesi “sono considerati vulnerabili perché hanno maggiori probabilità di essere colpiti dalla sottonutrizione a causa di questi fenomeni estremi”, afferma l’agenzia Onu, senza rivelare l’elenco completo dei Paesi interessati. Nel dossier intitolato “Prospettive regionali sulla sicurezza alimentare e la nutrizione 2024”, la Fao richiama l’attenzione sulla siccità prolungata. Queste regioni, infatti si estendono lungo il “Corridoio secco”, una zona arida che va dal Messico meridionale a Panama, passando per Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua e Costa Rica. Oltre alla siccità, le ondate di calore e le tempeste hanno un impatto sulla produzione agricola, interrompendo le catene di approvvigionamento e facendo salire i prezzi dei prodotti alimentari, si legge nel rapporto.

    Aviaria, nel 2024 mai così tante infezioni da dieci anni. Allerta Oms: “È una minaccia”

    a cura di redazione Salute

    17 Gennaio 2025

    Le indicazioni geografiche
    Le indicazioni geografiche, non solo dal punto di vista dei problemi aperti, ma per la tutela della biodiversità e identità dei singoli paesi, sono tenute in grande considerazione anche in vista del prossima Conferenza Internazionale proprio dal titolo “Prospettive Globali sulle Indicazioni Geografiche” a Roma dal 18 al 21 febbraio 2025. La conferenza riunirà ricercatori, responsabili politici e operatori per discutere non solo sulle ultime ricerche, ma anche le indicazioni geografiche in tutte le regioni del mondo. Tra il 2019 e il 2023, l’insicurezza alimentare – cioè l’accesso discontinuo al cibo – è aumentata in media dell’1,5% nei Paesi vulnerabili.

    La conferenza

    “Per arrestare il declino della biodiversità servono 1.000 miliardi di dollari l’anno”

    di  Luca Fraioli

    18 Dicembre 2024

    Lo stesso direttore Generale QU Dongyu ha sottolineato che le Indicazioni Geografiche sono una leva potente per lo sviluppo economico delle regioni, per la tutela del sapere tradizionale e per la conservazione dell’identità culturale e del patrimonio regionale in molti paesi.
    La Fao, ha ricordato il Direttore Generale, supporta i Paesi sulle indicazioni geografiche da quasi 20 anni, consolidando e condividendo conoscenze ed esperienze a livello globale, e fornendo formazione e assistenza tecnica in più di 30 paesi perché esse apportano un contributo chiave alla sicurezza alimentare globale. Sicurezza alimentare che il direttore generale ha definito come la garanzia di disponibilità, accessibilità e convenienza del cibo per tutti. LEGGI TUTTO

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    Lavoro in Antartide: buone paghe e si aiuta la scienza

    Se state resistendo alle temperature, volete fare un’esperienza decisamente estrema, guadagnare e aiutare la scienza allora potrebbe esserci il lavoro che fa per voi. Dove? In uno dei luoghi più remoti ed estremi al mondo, l’Antartide, un posto dove però assicurano i datori di lavoro vivrete un periodo “diverso da qualsiasi altro sul Pianeta” e avrete anche la possibilità di fare “amicizie per la vita”. Da pochi giorni due dei principali centri che operano con stazioni di ricerca in Antartide, sia il famoso BAS (British Antarctic Survey) sia l’Australian Antarctic Program hanno infatti aperto alla possibilità di un posto di lavoro, per diverse professioni e non sempre strettamente legate a un carattere scientifico, per chi volesse provare l’esperienza di lavorare in Antartide.

    Laggiù, nelle terre dei ghiacci, dove le temperature sfiorano anche i – 50 gradi, il BAS per esempio lavora all’interno di diverse basi di ricerca per studiare il clima terrestre e gli effetti della crisi climatica nei poli della Terra (ci sono stazioni anche in Artico). La prima cosa che forse vi può interessare è che, nel caso delle offerte di lavoro proposte dalla British Antarctic Survey, lo stipendio base parte da circa 35mila euro e non c’è praticamente mai spesa perchè dai vestiti all’alloggio, dal cibo ai costi classici della vita, è tutto già incluso. Le professioni ricercate variano: carpentieri, chef, elettricisti, idraulici, ufficiali di navigazione, operatori di impianti, ma anche biologi marini, consulenti per la sicurezza, ingegneri dedicati a vari settori e via dicendo. Si tratta, secondo il sito del Bas che ha lanciato le candidature il 20 gennaio, dell’ “opportunità di una vita” perché si parla di “un lavoro diverso da qualsiasi altro e un’esperienza che lascerà ricordi indelebili. I candidati selezionati lavoreranno in alcuni dei luoghi più remoti e belli della Terra, costruendo amicizie durature e contribuendo alla scienza che è importante per comprendere il nostro mondo in continua evoluzione”. Alcune professioni hanno stipendi ovviamente più alti che si aggirano intorno ai 55mila euro ma per ora sono state aperte solo le prime tre posizioni, dalla ricerca di biologi a quella di esperti meteo, ma a breve (è necessario monitorare qui https://www.bas.ac.uk/jobs/vacancies/) ne verranno lanciate altre.

    Ricerca scientifica

    Dal clima alla biodiversità: al via la 40esima spedizione scientifica italiana in Antartide

    di  Fiammetta Cupellaro

    21 Ottobre 2024

    BAS è oggi leader mondiale nella ricerca e nelle operazioni polari che gestisce attraverso stazioni di ricerca, aerei e la grande nave da ricerca Royal Research Ship Sir David Attenborough e offre contratti che iniziano generalmente tra maggio e settembre e durano da sei a 18 mesi, includendo “diversi benefit”. Inoltre, fanno notare dal centro, “non ci sono costi esterni mentre si vive in stazione, poiché tutte le spese di soggiorno sono coperte: alloggio, cibo, viaggio, abbigliamento specialistico, strumenti e formazione”. Alcuni professionisti che hanno già vissuto questa esperienza hanno raccontato cosa significa lavorare in Antartide. Eloise Saville per esempio, carpentiere alla stazione di ricerca Halley su una piattaforma di ghiaccio ha spiegato come il suo lavoro sia “diverso da qualsiasi cosa abbia mai fatto prima. Raschio il ghiaccio dal legno, guido le motoslitte e costruisco cose in uno dei posti più estremi della Terra. Se avessi saputo prima che questa era un’opzione, sarei venuto qui tutto il tempo. Non è solo freddo, è fantastico!” Ben Norrish, che si occupa dei veicoli, aggiunge che “chiunque sia anche solo un po’ curioso di sapere cosa significhi vivere sul ghiaccio deve fare il grande passo e fare domanda per il lavoro della vita: non ve ne pentirete e non sapete dove potrebbe portarvi!”.

    Olivier Hubert per esempio lavora nel catering e spiega come cucinare mentre osserva iceberg, balene e pinguini sia un’esperienza che “non stanca mai”. Ovviamente, prima di candidarsi, bisogna sapere alcune cose, come il fatto che nell’estate antartica ci sono 24 ore di luce, non sono presenti orsi polari (ma 5 milioni di pinguini sì) e che si tratta in tutti i sensi di una esperienza estrema. La stessa che propone anche l’Australian Antarctic Program che, come si legge in un annuncio del 10 gennaio, “sta reclutando centinaia di artigiani e tecnici per 37 ruoli, tra cui operatori di gru mobili, carpentieri, addetti alle forniture di stazione e responsabili di campo, per la stagione 2025/26”. Anche in questo caso bisogna tener d’occhio il sito (https://jobs.antarctica.gov.au/jobs-in-australia/) per conoscere se c’è una posizione adatta al proprio curricula all’interno delle tre stazioni di ricerca scientifica australiane in Antartide (Davis, Mawson e Casey) e sull’isola subantartica Macquarie. Come ricordano i ricercatori, anche qui “il lavoro è duro ed è un sacrificio enorme trovarsi così lontano dalla famiglia e dagli amici, ma la ricompensa è una vita di storie, amicizie e ricordi indelebili”. Alcune posizioni, nonostante l’annuncio di pochi giorni fa, sono già state affidate, per cui per chi volesse tentare è necessario affrettarsi. In alternativa, da febbraio, nuove posizioni – sempre per lavori di vario tipo – saranno disponibili anche da parte del Programma Antartico della Nuova Zelanda (https://www.antarcticanz.govt.nz/careers). LEGGI TUTTO