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    L’edilizia verde che sceglie il legno: al via le candidature per il Wood Architecture Prize 2025

    Aprono oggi le candidature per il Wood Architecture Prize 2025, il prestigioso premio istituito da Fiera Bolzano nell’ambito di Klimahouse, fiera internazionale leader nel settore dell’efficientamento energetico e dell’edilizia sostenibile.

    Giunto alla sua terza edizione, il concorso, promosso con il patrocinio e il contributo scientifico dell’Universita? Iuav di Venezia e del Politecnico di Torino in collaborazione con PEFC Italia – Associazione senza fini di lucro che promuove la gestione forestale sostenibile -, si rivolge ai i protagonisti, ai talenti e agli innovatori della filiera delle costruzioni in legno a livello nazionale per sostenere la progettazione e la costruzione di opere di architettura e di ingegneria ideate e realizzate con il legno.
    L’utilizzo del legno in architettura, infatti, e? sempre piu? al centro di una nuova visione progettuale basata sulla sostenibilita?, sia in Italia che all’estero, come evidenziato anche dal dibattito europeo che ha sottolineato le potenzialita? di cui dispone l’edilizia in legno per la trasformazione del settore edile in un modello circolare in grado di ridurre le emissioni di anidride carbonica e di contrastare il cambiamento climatico.
    Nell’edizione 2025 il Wood Architecture Prize abbandonera? la tradizionale suddivisione in categorie, offrendo ai partecipanti la possibilita? di presentare i propri progetti all’interno di un ambito di azione piu? ampio, per definire nuovi immaginari legati alle attivita? di rigenerazione degli spazi abitabili in una logica di filiera territoriale che comprenda interventi sia pubblici che privati.

    Potranno partecipare al Wood Architecture Prize nuove edificazioni, riqualificazioni e/o ampliamenti, sopraelevazioni di edifici esistenti, architetture temporanee e sperimentali e opere di differente connotazione funzionale – pubbliche o private, con spazi di uso individuale o collettivo – la cui realizzazione sia stata completata sul territorio nazionale a partire dall’anno 2021.

    Il premio si rivolge dunque non soltanto agli architetti, ma a tutti i membri della filiera delle costruzioni in legno: ingegneri civili, ambientali e paesaggistici, committenti pubblici e privati, startup, PA, imprese e ricercatori che presentano pratiche virtuose nell’uso di tecnologie all’avanguardia.
    Fra le opere partecipanti al concorso verranno selezionati 12 progetti finalisti, che verranno presentati in occasione dell’evento di lancio di Klimahouse a meta? dicembre 2024, e successivamente sottoposti a un’ulteriore selezione per identificare i 3 progetti vincitori.

    La giuria del Wood Architecture Prize 2025, presieduta dall’Arch. Manuel Benedikter – Benedikter Architekt, e? composta da sette esponenti di spicco del settore, della ricerca e dell’innovazione: Prof. Paolo Simeone – Politecnico di Torino, Prof. Guido Callegari – Politecnico di Torino, Arch. Mauro Frate – MFA architetti e Professore contrattista Iuav, Arch. Sandy Attia – MoDusArchitects, Arch. Marta Baretti – Arbau Studio, Luca Gibello – Direttore Il Giornale dell’Architettura.

    I vincitori del concorso verranno annunciati in occasione di Klimahouse 2025, in programma dal 29 gennaio al 1° febbraio 2025, e potranno partecipare in qualita? di speaker ad alcuni eventi di carattere internazionale. I progetti avranno, inoltre, visibilita? in occasione di altre manifestazioni organizzate o partecipate da Fiera Bolzano, sinergiche al mondo del legno sia a livello nazionale che all’estero.

    Infine, i vincitori godranno di ampia visibilita? anche sui canali social di Klimahouse, di Fiera Bolzano e sulle pubblicazioni dei media partner, tra i quali si segnala l’ingresso di Casabella, il noto periodico legato all’architettura nazionale e internazionale. Professione Architetto e Struttura Legno si confermano media partner dell’edizione 2025. Sara? possibile iscriversi al concorso online fino al 18 novembre 2024. LEGGI TUTTO

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    Il melo, come coltivarlo per avere frutti gustosi

    Albero da frutto più coltivato al mondo, il melo si contraddistingue per la grande resistenza e il ricco raccolto. Oltre alla coltivazione professionale, il melo è diffuso anche a livello amatoriale, trovando largo spazio nei giardini domestici, sia per sfruttare la produzione dei suoi frutti, ma anche per la sua bellezza ornamentale.

    Coltivazione del melo: come funziona
    Il melo appartiene alla medesima famiglia delle rose, la Rosacea, e al sottogruppo delle pomacee ed è originario delle zone dell’Asia centrale, in particolare di quelle del Kazakistan. Il suo nome botanico è Malus domestica: si tratta di una pianta estremamente resistente dallo sviluppo acrotono, a foglia caduca e che va in riposo vegetativo durante la stagione invernale. Germoglia tra marzo e aprile, fiorisce tra aprile e maggio mentre la raccolta dei frutti avviene da settembre a novembre.

    Per quanto riguarda la coltivazione in giardino del melo, è necessario scavare una buca nel terreno di almeno 20 centimetri di profondità e che sia larga il doppio. Tra i meli ci dovranno essere grandi distanze: bisogna piantarli a circa 2 metri tra loro per garantire tutto lo spazio necessario per una crescita ottimale. Dalla zolla vanno rimosse eventuali radici per poi procedere posizionando l’albero all’interno nella buca, inserendo al suo interno un paletto che funga da tutore, dandogli così stabilità: con una corda elastica si lega il melo al supporto. Inoltre, intorno al fusto, si può creare una sorta di vasca con il terriccio per far sì che annaffiandolo l’acqua giunga immediatamente alle radici.

    Il melo può essere coltivato anche in vaso, utilizzando un contenitore di grandi dimensioni, dalla capienza intorno ai 30 litri, e che sia dotato di fori di drenaggio per far sì che i ristagni d’acqua possano defluire. Il seme va posizionato a circa 2-3 centimetri di profondità per poi coprirlo con uno strato sottile di terreno, compattando la superficie. Il tempo di germogliazione è di circa 2 o 4 settimane mentre, per quanto riguarda la maturazione dei frutti, questa può richiedere anche anni. Inoltre, bisogna sottolineare come non tutte le tipologie di melo sono autoimpollinanti e che, quindi, necessitano della vicinanza di un albero come impollinatore per far maturare i frutti. Per ovviare a questo si possono coltivare tre tipologie di melo differenti, scegliendo quelle con il medesimo periodo di fioritura. Le varianti di melo impollinatrici sono per esempio il Golden Delicious, il Granny Smith, il Royal Gala e l’Imperatore.

    Melo, qual è l’ambiente ideale per la sua crescita?
    Il melo tende a crescere nelle zone montagnose e a prediligere un terreno profondo, ricco di sostanze organiche, fertile e ben drenato. Un clima fresco è ottimale per il suo sviluppo, che è particolarmente diffuso nelle aree sopra il livello del mare, tra i 600 e i 1000 metri. Per quanto riguarda la posizione, l’albero da frutto ne predilige una piuttosto soleggiata oppure in ombra parziale. Per una crescita rigogliosa e una produzione ottimale delle mele, è necessario che riceva i raggi solari diretti per 8 ore al giorno. L’albero tollera molto bene le temperature rigide, anche minori di 20 gradi sotto lo zero, eccetto alcune varianti, ma le gelate tardive possono danneggiarlo in modo grave. Altri nemici dell’arbusto sono i ristagni idrici e la siccità. I periodi migliori per piantare il melo sono l’autunno oppure la primavera, quando il terreno non è eccessivamente umido o freddo.

    Come prendersi cura del melo: annaffiatura e potatura
    Per quanto riguarda la cura del melo, l’irrigazione riveste un ruolo molto importante, dovendo essere costante, soprattutto durante la stagione estiva visto che la siccità è un nemico dell’albero. Malgrado questo, non bisogna mai esagerare con l’annaffiatura, interrompendola durante il periodo della raccolta dei frutti. Altro aspetto da tenere in considerazione è la potatura, step cruciale per mantenere la forma dell’arbusto e rendere migliore la produzione dei frutti. In primis, bisogna effettuare la potatura di formazione da eseguire durante il primo periodo di crescita della pianta, verso la fine dell’estate, per darle struttura. Una volta che l’albero ha prodotto le prime mele bisogna dedicarsi alla potatura di mantenimento, rimuovendo i rami secchi, vecchi e irregolari, operazione che va svolta durante il periodo invernale, per poi eseguire la potatura di fruttificazione, destinata alla produzione di rami fruttiferi nuovi. Nella coltivazione del melo bisogna anche prestare attenzione alla concimazione, ricorrendo al fertilizzante da usare in primavera e in autunno, evitando quelli a base di azoto, che possono sfavorire la fruttificazione, incentivando la crescita dal punto di vista vegetativo.

    Prendersi cura del melo significa anche gestire l’eventuale presenza di malattie, come afidi e ticchiolatura, oppure parassiti ai quali potrebbe essere soggetto. La pianta va monitorata con regolarità, ricorrendo subito a trattamenti ad hoc per dire addio in modo tempestivo a queste problematiche.

    Melo: maturazione e raccolta dei frutti
    I frutti del melo maturano tra l’inizio di agosto e novembre, in base alla varietà e al luogo in cui sono coltivati. In relazione al loro periodo di maturazione le tipologie di mele si dividono in estive, ad esempio le Gravenstein, il cui periodo di raccolta coincide con i mesi estivi, autunnali, da raccogliere tra settembre e ottobre, tra le quali rientrano le Golden Delicious, e autunno vernine, che maturano tra ottobre e l’inizio di novembre, come la varietà Pink Lady.

    Per comprendere se la mela sia pronta o meno per essere raccolta è necessario conoscere le caratteristiche delle singole varietà. Se il frutto ha raggiunto il colore tipico della fase di maturazione si può procedere con la raccolta che può essere effettuata con le mani, torcendo il pomo leggermente, lasciando il picciolo attaccato al frutto e non sul ramo. Il momento migliore per svolgere questa operazione è il mattino, in modo tale che il sole non scaldi eccessivamente le mele, assicurandosi che le foglie siano già asciutte dalla rugiada. LEGGI TUTTO

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    Costruire posate dai metalli della centrale nucleare dismessa

    Mentre in Italia si discute di ritorno del nucleare, anche se il nostro Paese aspetta da oltre trent’anni un deposito nazionale per le scorie radioattive che probabilmente non sarà attivo prima del 2039, nella Francia regina dell’atomico d’Europa pensano già ad alternative per le centrali che sono state chiuse. Una, per esempio, è quella di convertire la centrale nucleare di Fessenheim chiusa nel 2020 in un centro capace di riciclare i metalli a bassa radioattività per trasformarli in…posate. Per ora siamo solo nella fase ipotetica e progettuale, perché è dal dibattito pubblico che durerà 4 mesi e incentrato sulla riconversione della centrale che dovranno uscire certezze.

    L’impianto nucleare era stato chiuso nel giugno 2020 ed è attualmente ancora in fase di smantellamento. Dopo la chiusura si è iniziato a ragionare sul futuro di questa grande struttura: la proposta odierna, sostenuta dalla direzione della centrale, è realizzare entro il 2031 un Technocentre, vicino alla struttura, dove recuperare tutta una serie di metalli e altri elementi con basso indice di radioattività per trasformarli in forchette, cucchiai e coltelli, ma anche pentole o maniglie per le porte. Da ottobre e fino a febbraio la comunità francese di Fessenheim discuterà proprio di questo. “Ascolteremo tutti i punti di vista e le preoccupazioni su tutto l’impatto che c’è sull’ambiente, sulla biodiversità, sull’acqua. Ascolteremo anche i diretti interessati, come i residenti locali, che chiedono risposte in termini di posti di lavoro e poi decideremo insieme” ha detto Jean-Louis Laure, presidente del dibattito pubblico. Nel luglio 2025 la EDF, azienda elettrica francese, deciderà se portare avanti o meno il progetto e poi saranno necessarie le varie autorizzazioni per le “posate radioattive”.

    IL CASO

    Nucleare, Microsoft sigla un accordo per far ripartire la centrale “dormiente” Three Mile Island

    di  Luca Fraioli

    04 Ottobre 2024

    “L’apertura è prevista per il 2031, si tratta di un investimento di 450 milioni di euro e 200 posti di lavoro in gioco. Si estenderà su 15 ettari, in edifici annessi alla centrale in fase di smantellamento” ha precisato Laurent Jarry, ex direttore della centrale. Ovviamente, solo i metalli “a bassissimo livello radioattivo” saranno trasformati in oggetti di ghisa o acciaio da poter riutilizzare, precisano dalla società, mentre i materiali non idonei saranno inviati agli impianti di trattamento dei rifiuti nucleari. “Ciò consentirebbe di trattare 500.000 tonnellate di metalli a bassa radioattività nell’arco di quarant’anni” ha aggiunto Laurent Jarry. Come per l’Italia, dove nessun territorio si è realmente proposto per ospitare ad esempio il Deposito nazionale per le scorie radioattive di quelle centrali chiuse dagli anni Novanta, anche in Francia c’è incertezza se puntare realmente su strutture che dovranno trattare comunque materiale nucleare. Per la Francia impianti di questo tipo – quelli di recupero – sono una novità, ma esistono già in Svezia, Germania o Stati Uniti dove vengono utilizzate tecniche per “ripulire” i metalli, metterli in sicurezza e poi fonderli per ottenere la base con cui realizzare oggetti.

    Proprio perché non tutti sono favorevoli alla seconda vita dei prodotti radioattivi, il dibattito pubblico francese sarà determinante nello stabilire se il progetto potrà andare o meno avanti. Inoltre, serviranno anche modifiche al codice sanitario pubblico francese per poter dare il via all’operatività del nuovo impianto. Attualmente, mentre parte della comunità è favorevole all’idea di un’opera che porterà sia al riciclo del materiale sia a nuovi posti di lavoro, un’altra parte ricorda che anche nel prodotto riciclato, come hanno dimostrato studi della Commissione francese per la ricerca e l’informazione indipendente sulla radioattività (Criirad), può rimanere sempre una piccola (e variabile a seconda dei metalli) quantità di radioattività. Anche basandosi su studi dedicati al tema, fino al 2022 la legge in Francia proibiva il recupero di rifiuti a bassa radioattività, un decreto che però è stato recentemente rivisto rendendo possibile il recupero in determinate condizioni. Ora, dopo il dibattito, in Francia decideranno o meno se avallare davvero l’idea delle “posate radioattive”. LEGGI TUTTO

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    La startup dell’agrivoltaico che fa crescere microalghe e piante medicinali sotto i pannelli solari

    “Solward è nata per rispondere a un bisogno del mercato, quello dei campi fotovoltaici di piccole e medie dimensioni, spesso trascurati dai grandi player. Sin dal primo giorno, il nostro obiettivo è stato quello di colmare questa lacuna con un focus particolare su impianti che producono energia direttamente consumata nelle vicinanze, riducendo la dipendenza della rete elettrica”. A parlare per Green&Blue è Paolo Castioni giovane imprenditore seriale con una profonda conoscenza nel campo delle energie rinnovabili e, fondatore di Solward, startup bresciana nata nel 2023 per colmare il vuoto nel mercato dei campi fotovoltaici di piccole e medie taglie.

    Nel 2023 l’Italia ha raggiunto un importante traguardo nella sua transizione verso le energie rinnovabili, infatti, secondo i dati di Terna, il 43,8% della produzione netta di elettricità del nostro Paese è stata ottenuta da fonti green, come idroelettrico, eolico, solare, biomasse e geotermico indicando un impegno crescente verso un futuro energetico più sostenibile. Questa trasformazione trova conferma anche nell’opinione pubblica, come dimostra un sondaggio Ipsos, secondo cui il 79% degli italiani considera l’energia rinnovabile un elemento essenziale per il nostro domani e per la tutela dell’ambiente. Anche l’analisi di Legambiente rafforza questa tendenza, rivelando che il 61% degli intervistati ritiene urgente accelerare la transizione energetica per contrastare l’aumento dei costi dell’energia e proteggere l’ambiente.

    In questo scenario, il mercato italiano è tuttavia dominato da grandi operatori focalizzati su impianti di grande taglia, per questo motivo Solward ha scelto di operare in un settore meno esplorato, concentrandosi su impianti da 1 a 15 megawatt. Tale strategia consente all’azienda di soddisfare le esigenze di una nuova tipologia di clienti, come le imprese interessate all’autoconsumo che desiderano realizzare il proprio impianto, ma spesso non trovano soluzioni adeguate nelle offerte degli operatori. In questo modo, l’azienda diversifica la propria offerta, rendendo le tecnologie rinnovabili accessibili a una gamma più ampia di fruitori. “Solward in poco tempo si è distinta offrendo soluzioni complete e innovative in una fascia di mercato dove mancava attenzione, affermandosi rapidamente come un punto di riferimento per chi cerca qualità e innovazione nel fotovoltaico”, continua Paolo Castioni.

    Innovazione

    Encubator, le startup pronte ad accelerare la transizione ecologica

    di  Gabriella Rocco

    09 Ottobre 2024

    Fotovoltaico e agrivoltaico per piccole e medie taglie
    Il mercato delle energie rinnovabili in Italia sta attraversando un periodo di grandi sfide e cambiamenti, con l’ambizioso obiettivo, come ricorda anche una nota del Ministero dell’Ambiente e della sicurezza Energetica, di incrementare notevolmente la quota di energia rinnovabile entro il 2030. Questo scenario non solo apre nuove opportunità di lavoro e sviluppo per le imprese italiane, ma le espone anche a una crescente concorrenza internazionale.

    In tale panorama competitivo e di cambiamenti continui, la startup bresciana ha investito in soluzioni innovative tra cui l’uso di materiali di qualità come l’acciaio carbon neutral per la realizzazione di tracker standard e l’agrivoltaico con altezze maggiori. Sebbene il Tracker One, prodotto di punta dell’azienda, abbia ottenuto ottimi risultati di vendita, Solward, grazie alle numerose richieste ricevute, prevede un ulteriore incremento con il lancio del nuovo tracker agrivoltaico. Solward intende distinguersi dalla concorrenza, puntando sulla flessibilità e la capacità di adattarsi velocemente, caratteristiche rese possibili grazie alla giovane età della startup e della squadra, costituita principalmente da figure under trenta.

    L’innovazione nell’agrovoltaico
    La startup bresciana, nel prossimo anno, punta a raggiungere un volume di forniture oltre i 200 MW, grazie a nuovi accordi commerciali intrapresi, con un importante impegno verso l’espansione e l’innovazione nel settore agrivoltaico, concentrandosi su strutture progettate per ottimizzare l’utilizzo dei terreni, consentendo così la produzione simultanea di energia e prodotti agricoli.

    Il concetto di agrivoltaico, che combina la produzione di energia solare con l’uso agricolo del suolo, è più di una semplice innovazione tecnologica: è una risposta concreta alle esigenze di sostenibilità e ottimizzazione delle risorse. I benefici sono ampi, dal miglioramento della resa agricola alla riduzione dell’impatto ambientale, e rappresentano una nuova frontiera per l’efficienza e la produttività.Non solo, Solward sta investendo attivamente in ricerca e sviluppo, concentrandosi su diversi prototipi plug-and-play da integrare nelle strutture fotovoltaiche esistenti.

    Tra i progetti più promettenti spiccano sistemi avanzati per la raccolta e trasformazione della condensa, realizzati per ottimizzare la gestione delle risorse idriche in contesti agricoli.

    Parallelamente, sta sperimentando tecnologie innovative per la coltivazione di microalghe ad alto valore proteico e di piante medicinali sotto i pannelli solari, creando così un’armoniosa sinergia tra energia rinnovabile e agricoltura avanzata.“La nostra missione è dimostrare che innovazione e sostenibilità possono andare di pari passo, creando un futuro in cui la produzione di energia e l’agricoltura non solo convivono, ma si potenziano a vicenda”, conclude Castioni.

    La startup ha già registrato un’importante crescita raggiungendo 2,2 milioni di fatturato nel primo anno di vita. LEGGI TUTTO

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    Rosmarino, i consigli per potare il re delle piante aromatiche

    Re delle piante aromatiche, il rosmarino è protagonista della macchia mediterranea ed è noto per la sua bellezza, il sapore intenso e il profumo inconfondibile. Impiegato e apprezzato fin dai tempi remoti, appartiene alla famiglia delle Lamiaceae e si contraddistingue per la notevole resistenza e la facilità di coltivazione e manutenzione: tuttavia, per un suo sviluppo rigoglioso, è importante mettere in campo particolari accorgimenti per quanto riguarda la sua potatura.

    Rosmarino: la funzione della potatura
    Arbusto rustico sempreverde, il rosmarino è coltivato sia a scopo ornamentale, che come specie aromatica. Per una crescita rigogliosa richiede un terreno drenato e sabbioso, la luce solare diretta e annaffiature con un buon quantitativo di acqua, evitando però i ristagni idrici. Inoltre, nel suo sviluppo gioca un ruolo fondamentale la potatura. Il rosmarino può crescere allo stato selvatico, ma una potatura ben fatta ne consente uno sviluppo ottimale, mantenendolo in salute. La potatura necessita di tanta precisione, cura e attenzione: grazie a questa operazione si mantiene la forma della pianta, evitando una sua crescita disordinata ed eccessiva, garantendone la produttività e la salute e tenendo alla larga eventuali malattie.

    Non eseguire la potatura del rosmarino regolarmente contribuisce a rendere la pianta legnosa e meno produttiva e a un ingrandimento eccessivo, cosa che potrebbe compromettere i rami interni rendendoli privi di luce e aria. Infatti, la potatura consente una migliore circolazione dell’aria tra i rami, cosa che previene l’insorgere di malattie fungine ed è importante in quei luoghi molto umidi, dove la pianta potrebbe essere attaccata da muffe e funghi. Bisogna anche considerare come tagliando i rami la pianta generi nuovi germogli, facendo sì che diventi più rigogliosa. Anche la qualità delle foglie risente positivamente della potatura: eliminando i rami vecchi, il rosmarino è portato a produrne di nuovi che sono più profumati, aromatici e morbidi, assicurando così un migliore raccolto.

    Potatura del rosmarino: cosa sapere
    Il processo di potatura del rosmarino si divide in tre fasi: osservare la pianta, rimuovere le parti malate, deboli oppure secche e spuntare le cime. Una volta esaminato lo stato del rosmarino, capendo come intervenire, si parte rimuovendo le parti malate e secche: se si pota la pianta regolarmente serviranno solo delle spuntature, mentre, qualora l’ultima potatura sia avvenuta molto tempo prima, l’intervento dovrà essere più consistente, senza però eccedere. Si deve sempre eseguire la potatura seguendo la direzione della crescita dei rami, partendo da quelli più vecchi che si trovano alla base per poi occuparsi di quelli che si incrociano e di quelli che vanno verso l’intero.

    Rosmarino e la sua potatura: consigli utili
    Quando si pota il rosmarino i rami vicini al tronco non dovrebbero essere toccati per non arrecare danni alla corteccia. I tagli non dovranno svuotare la pianta, ma solo contenerne le dimensioni: per fare questo si devono abbassare i rami, tagliando la parte che sale verso l’alto, giovando così alla ramificazione e alla crescita.

    Per quanto riguarda il taglio, questo deve essere effettuato in modo netto, prestando attenzione che non sia sfilacciato e obliquo: se fosse così sulla ferita si potrebbero insediare dei ristagni d’acqua. Per non compromettere la formazione di nuovi germogli, i tagli devono essere eseguiti appena sopra un nodo di foglie oppure in un ramo laterale, punti in cui la pianta tende a produrre nuovi semi. Il tronco non dovrà mai essere privato totalmente delle sue parti verdi, rischiando altrimenti di ucciderlo visto che non è capace di riformarle. Bisogna anche ricordare come la lunghezza di ogni ramo non vada tagliata per più di un terzo. In generale, non deve essere rimosso più del 30% della massa della pianta: malgrado il rosmarino sia contraddistinto da una notevole resistenza, una potatura troppo consistente potrebbe danneggiarlo e indebolirlo. Eseguita la potatura, è importante prendersi cura del rosmarino dandogli subito da bere e ricorrendo a del fertilizzante organico per fornirgli il nutrimento necessario per agevolarne la crescita.

    Quando eseguire la potatura del rosmarino
    La potatura del rosmarino si esegue due volte l’anno, una in primavera dopo la sua fioritura, volta a dargli forma ed eliminare i fiori appassiti, e l’altra prima del freddo in autunno, per liberarlo dai rami secchi, morti e malati e quelli che crescono verso l’interno, preparandolo in vista della stagione invernale. Il momento in cui eseguire la potatura dipende tuttavia da alcuni fattori come per esempio l’età della pianta e il clima del luogo dove vive: se la temperatura è mite si può potare anche in inverno, agevolando così lo sviluppo di nuovi germogli durante il periodo primaverile. Tuttavia, un consiglio utile da tenere a mente, è eseguire questa operazione in modo tale da evitare che il rosmarino subisca le gelate invernali immediatamente dopo essere stato potato. Bisogna anche considerare come la fioritura del rosmarino sia piuttosto lunga, comprendendo tutta la primavera e l’estate: questo significa che se si posticipa troppo la potatura si finirà per dire addio a tanti dei suoi fiori. Qualora il rosmarino sia molto giovane le potature possono non essere frequenti e ci si può occupare solo della rimozione degli eventuali rami malati oppure secchi.

    Che attrezzi usare per la potatura del rosmarino
    Per quanto riguarda gli attrezzi per potare la pianta è necessario ricorrere a delle forbici da giardinaggio affilate. Ci si può dotare di un modello da potatura manuale per i rami giovani, mentre di una forbice elettrica per quelli di dimensioni più grandi, rendendo il processo più facile e meno faticoso, oppure di un troncarami. Tutti gli attrezzi usati nel processo devono essere puliti e disinfettati in profondità prima della potatura per non trasmettere eventuali malattie al rosmarino. LEGGI TUTTO

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    In Cina si studia una plastica che si autodistrugge in un mese

    L’inquinamento globale da plastica ha numeri impressionanti. Sono 52 milioni di tonnellate ogni anno i rifiuti di uno dei materiali più inquinanti del Pianeta che finiscono dispersi nell’ambiente. Uno studio recente dell’università di Leeds stima che circa il 13% di tutto il materiale plastico prodotto annualmente – pari a 400 milioni di tonnellate – faccia questa fine, senza essere smaltito in modo corretto. Anzi, più della metà della plastica sarebbe bruciata, rilasciando emissioni tossiche ed inquinanti dell’aria. Ed ecco che dalla ricerca scientifica proviene una nuova speranza per combattere questo fenomeno inquinante: una plastica che si autodegrada grazie a spore batteriche inserite all’interno del polimero che iniziano il processo di degradamento in determinate condizioni. Si potrebbe quasi dire, che sia la plastica a mangiare se stessa e se questo esperimento pubblicato su Nature Communications, potesse essere replicato su larga scala, l’impatto nocivo sull’ambiente sarebbe progressivamente ridotto.

    Inquinamento

    Ogni anno bruciamo 30 milioni di tonnellate di plastica

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    06 Settembre 2024

    Lo studio condotto da un’equipe di scienziati della Chinese Academy of Sciences, guidato dal biologo Chenwang Tang, ha sviluppato il prototipo di questa plastica speciale che per distruggersi impiegherebbe appena 30 giorni: sappiamo invece che la plastica non biodegradabile, quella più diffusa, può impiegare anche secoli per scomparire. E non del tutto, come vedremo più avanti. I ricercatori hanno applicato alla plastica basata su PCL – un polimero già utilizzato per le sue proprietà biodegradabili – delle spore batteriche scoperte nel 2016 in un impianto di riciclo rifiuti in Giappone. “Abbiamo progettato le spore di Bacillus subtilis che erano resistenti alle sollecitazioni durante la lavorazione del materiale, ma sono state mescolate con policaprolattone (polimero semicristallino sintetico biodegradabile ndr) per produrre plastiche viventi in vari formati. L’incorporazione delle spore non ha compromesso le proprietà fisiche dei materiali”, scrivono i ricercatori nell’abstract scientifico del loro studio innovativo, e aggiungono: “Questo studio illustra un metodo per fabbricare plastiche green che possono funzionare quando le spore sono latenti e iniziare la decomposizione quando le spore vengono attivate”.

    Queste spore, che possiamo definire dormienti, restano inattive finché la plastica non inizia a degradarsi, e solo in quel momento rilasciano gli enzimi che portano ad una rapida accelerazione nella decomposizione del materiale, che non termina il processo finché non è completata l’autodistruzione del materiale plastico. I ricercatori dell’università cinese sono riusciti a superare anche un ostacolo complesso, e cioè trovar delle spore che fossero in grado di sopravvivere alle alte temperature a cui sono sottoposti i polimeri nelle varie fasi della loro produzione, finché non è stato trovato il ceppo di batteri, che geneticamente modificato ha reagito bene, ma senza creare alcun problema all’uomo, visto che sono innocui.

    Inquinamento

    Dal fegato allo stomaco, microplastiche nel 66% delle gazze marine trovate morte nel Tirreno

    di  Pasquale Raicaldo

    02 Ottobre 2024

    Inoltre va sottolineata una differenza non da poco di questo metodo realizzato dagli scienziati cinesi, rispetto alla comune degradazione della plastica, che in realtà si trasforma in micro e nanoplastiche, invisibili alla vista umana, ma ancora più dannose per ambiente ed animali. Questo procedimento invece è di biodegradazione. Il test della plastica “autodistruttiva” è uscito fuori dai confini del laboratorio accademico, visto che gli scienziati ne hanno testato la resistenza immergendola per ben due mesi all’interno di una bibita gassata molto nota, dimostrando che può essere usata anche per gli imballaggi perché molto stabile e resistente, ideale quindi nel packaging industriale che ha si bisogno di robustezza quando è applicata a bottiglie o altri prodotti, ma che sparisce dall’ambiente dopo appena un mese. Ma se i vantaggi sono innegabili, ci sono, come è naturale per ogni nuovo prodotto da immettere sul mercato, delle perplessità; i ricercatori, infatti, temono che la plastica possa decomporsi prematuramente in determinate condizioni ambientali o che i batteri responsabili della degradazione possano “infettare” l’ecosistema, una volta diffusi su larga scala all’interno della plastica. Per rispondere servono ancora altri studi e test, ma bisogna fare in fretta perché l’inquinamento da plastica cresce, così come la produzione di plastica, raddoppiata negli ultimi 20 anni LEGGI TUTTO

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    Silvana Galassi: “L’ecofemminismo ci insegna che in tutti noi c’è empatia nella Natura, se la si coltiva”

    Silvana Galassi, ex docente, classe 1948, ha a cuore la tutela dei territori e delle donne: è stata professoressa ordinaria di ecologia, ecologia della nutrizione e di ecotossicologia all’Università degli Studi di Milano e mantiene vivo il suo impegno attraverso l’attivismo ambientale e la scrittura di saggi.

    “Sono nata a Faloppio – spiega Galassi – un paesino in provincia di Como. Non ricordo di avere avuto particolari predilezioni ma sono sempre stata una buona lettrice e una nuotatrice. Sono cresciuta a Como e passavo l’estate alla Como-nuoto. Sono laureata in biologia e sono diventata docente di ecologia. Ho insegnato sia a Biologia, sia a Scienze Ambientali, dove gli studenti erano molto orientati verso le tematiche ambientali. Da quando sono in pensione svolgo un lavoro di volontariato a tempo pieno. Aiuto ragazze straniere che hanno difficoltà scolastiche. Sono vice-presidente di un’associazione che sta realizzando una casa per le donne nei Paesi Dogon, in Mali. Sono un attivista del Comitato Milanese Acqua Pubblica e faccio lezioni e seminari su argomenti ecologici soprattutto per sensibilizzare le persone all’uso responsabile dell’acqua e ad adottare stili di vita sostenibili”.

    Nel suo nuovo libro Dalla parte di Gaia – Teorie e pratiche di ecofemminismo (Edizioni Ambiente), fa chiarezza sulle teorie dell’ecofemminismo. “È un filone – continua Galassi – del femminismo degli anni Settanta che ha sviluppato la teoria che le donne e la natura siano accomunate dallo sfruttamento da parte del sistema capitalista patriarcale. Da allora si sono sviluppate diverse correnti di pensiero grazie al contributo di filosofe, antropologhe, sociologhe, ma non mi risulta che ci sia stato un dialogo con le ecologhe. Esistono poi ecofemministe di fatto che hanno dato un grosso contributo alla difesa dell’ambiente in diversi Paesi del mondo. Come ho scritto nel mio libro, esiste una geografia dell’ecofemminismo che si esprime con modalità diverse a seconda delle radici religiose, storiche e delle tradizioni dei popoli alle quali le attiviste appartengono”.

    Secondo il pensiero ecofemminista, esiste un parallelismo costante nella storia tra l’oppressione delle donne e lo sfruttamento della natura e la scrittrice, nella sua riflessione, smantella un luogo comune. “Non c’è nessun motivo – sottolinea Galassi – di pensare che l’empatia per la Natura sia una prerogativa femminile. Probabilmente è innata in tutti noi ma si sviluppa negli adulti solo se viene coltivata, come scrive Rachel Carson in A Sense of Wonder. Storicamente alle donne è stato affidato il compito di cura e agli uomini quello di combattere. Questo deve avere avuto un certo peso nell’atteggiamento nei confronti della Natura. Ma queste divisioni di ruoli non dovrebbero sussistere nelle società moderne”.

    Galassi ripercorre le fasi storiche che hanno portato alla radicalizzazione di questa visione, tuttora difficile da divellere. “In Occidente – aggiunge Galassi – l’idea del dominio dell’uomo sulla natura ha radici giudaico-cristiane e si è consolidato con l’Illuminismo che è alla base del modello di sviluppo tecnologico e dell’organizzazione delle società capitaliste. Col colonialismo questo modello è stato esportato in altri continenti e la globalizzazione ha fatto il resto. Nel modello capitalista patriarcale è funzionale affidare il lavoro di cura alla componente femminile della società senza riconoscerne il valore economico. Analogamente, si sfrutta la Natura accumulando un enorme debito ambientale a beneficio di un modello di sviluppo che è insostenibile perché aliena le risorse e aumenta le disuguaglianze”.

    Nonostante le criticità subite dal nostro ecosistema mediante lo sfruttamento delle risorse e il confinamento, per troppi anni, delle donne al focolare domestico, la scrittrice manifesta ottimismo verso le nuove generazioni. Ho molta fiducia nei giovani. Mi sembra che nelle giovani famiglie la divisione dei ruoli sia meno rigida rispetto al passato. Negli ambienti di ricerca le donne sono molto più presenti rispetto ai miei tempi. Ma del resto del mondo non so cosa dire. Se penso all’Iran, all’Afghanistan e alle guerre in corso non riesco a essere ottimista. L’ecofemminismo è interessante dal punto di vista antropologico e storico ma i giovani ora devono lottare insieme se vogliono vincere le battaglie per il clima e per tutelare il loro territorio. LEGGI TUTTO

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    Riscaldamento globale, aumenta il pericolo di collisioni tra navi e squali balena

    Quali saranno le rotte degli squali balena nei prossimi anni? Ma soprattutto, come cambieranno a seconda di quando cambierà, ancora, il nostro pianeta? Da queste domande è partito il team di ricercatori internazionale guidato dai ricercatori della University of Southampton e del Marine Biological Association di Plymouth (Regno Unito) per capire quanto aumenterà il rischio per questo gigante dei mari di incrociarsi pericolosamente con le grandi navi. Perché gli effetti dei cambiamenti climatici non solo solo la perdita di habitat, il rischio che in nuovi ambienti gli animali fatichino a nutrirsi e riprodursi, ma anche che finiscano, sempre di più, vittime di minacce di natura umana.

    Le temperature degli oceani
    A parlare di tutto questo, mostrando mappe e snocciolando numeri che cercano di misurare questo rischio, sono gli stessi ricercatori dalle pagine di Nature Climate Change. Lo studio si inserisce nel ricco filone di ricerche che cercano di capire come cambieranno gli areali di distribuzione degli animali (ma anche delle piante) in risposta all’aumento delle temperature. La regola generale, ricordano gli autori, prevede un generale spostamento verso i poli o verso altitudini più elevate.

    Salute degli oceani: essenziale proteggere gli squali

    di Simone Valesini

    19 Agosto 2024

    “Oggi è necessario conoscere quantitativamente le interazioni tra movimento della fauna selvatica, le attività umane e i cambiamenti climatici per incorporare questi dati nelle valutazioni di conservazione”, si legge nel paper. Soprattutto per le specie considerate più a rischio, ha ricordato Freya Womersley, a capo dello studio: lo squalo balena al momento è classificato come in pericolo nella lista rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura.

    E quanto osservato in generale, vale lo stesso pare anche per questi animali (studiati anche a ricchi dati di tracciamento satellitare raccolti negli anni), che si sposteranno mediamente verso latitudini più elevate (con spostamenti anche di mille km), e più in generale, scrivono i ricercatori anche verso le aree più di confine delle loro attuali aree di distribuzione (complessivamente circumtropicale).

    Biodiversità

    Pesci e tartarughe: nei mari rifiuti e plastica continuano a uccidere gli animali

    di Pasquale Raicaldo

    12 Agosto 2024

    I pericoli sulle rotte degli squali balena
    Lo studio però ha indagato più a fondo le previsioni sugli spostamenti di questi animali marini cercando di comprendere in che modo nel prossimo futuro, in diversi scenari climatici, le rotte degli squali balena si sarebbero incrociate con quelle delle grandi navi. Il risultato è che, per tutti gli scenari considerati – quelli a più alte e basse emissioni – le probabilità di scontro degli animali con le navi aumenteranno, anche se, puntualizzano gli autori, non dovessero aumentare (come invece previsto) le flotte di navi. Per misurare questo valore i ricercatori hanno calcolato lo ship co-occurrence index, un indice che tiene conto della distribuzione degli squali balena e della densità delle navi. Per alcuni scenari più ottimistici, di cosiddetto sviluppo sostenibile a basse emissioni, la combinazione navi-squali nello stesso luogo aumenterebbe di 20 volte, ma il numero si impenna fino a 15 mila negli scenari di sviluppo ad alte emissioni entro la fine del secolo. LEGGI TUTTO