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    Dal rame ai metalli pesanti, ecco cosa c’è nell’Adriatico analizzando lo zooplancton

    Tanto minuscoli quanto importanti, l’insieme dei piccoli organismi che formano il plancton, dando vita allo zooplancton, sono alla base della vita marina. Dai copepodi alle larve di crostacei o molluschi, questi animali sono costantemente in movimento spostandosi con le correnti: sono contemporaneamente la riserva alimentare di tantissime specie e anche attori fondamentali nella loro funzione di assorbimento del carbonio, anche se tra crisi climatica e impoverimento degli oceani ultimamente le ricerche ci dicono che oggi fanno fatica ad essere efficienti pozzi di carbonio.

    Biodiversità

    Agli oceani dobbiamo la vita, ma stiamo perdendo la loro ricchezza

    di Roberto Danovaro

    08 Giugno 2024

    Proprio per queste straordinarie caratteristiche lo zooplancton può però essere anche altro: una formidabile sentinella capace, se analizzata, di restituirci informazioni sullo stato di salute dei nostri mari. Per questo il progetto M.A.R.E di Fondazione Cvc, coordinato da One Ocean Foundation punta – studiando le condizioni dei campioni di zooplancton raccolti – a realizzare negli anni una sorta di mappatura completa dello stato di salute del Mar Mediterraneo. I primi risultati, quelli che riguardano l’Adriatico e pubblicati sulla rivista Chemosphere dai ricercatori, non sono del tutto confortanti: da 46 campioni raccolti da Taranto a Venezia, e anche lungo la costa orientale fino a Corfù, gli organismi analizzati presentano infatti in molti casi diversi inquinanti. “I risultati evidenziano la presenza di diversi inquinanti, alcuni dei quali, come PCB e DDT, banditi già dagli anni ’70, e metalli pesanti quali arsenico, cadmio e mercurio, noti per la loro tossicità e capacità di accumulo negli organismi marini” si legge nella presentazione dello studio coordinato da Ginevra Boldrocchi, project scientific coordinator di One Ocean Foundation e ricercatrice presso l’Università dell’Insubria.

    Dalle analisi condotte all’interno del progetto M.A.R.E, iniziativa della Fondazione Centro Velico Caprera, viene ricordato come nel Mediterraneo – che è un mare che rappresenta meno dell’1% delle acque marine del mondo ma ospita circa il 10% della biodiversità marina globale – la forte pressione antropica ha reso questo luogo estremamente vulnerabile all’accumulo di inquinanti. “Nel Mediterraneo, studi che indagano questa problematica utilizzando lo zooplancton come bioindicatore sono rari, datati e spesso limitati a pochi contaminanti. Vogliamo fornire un quadro completo e aggiornato dello stato di salute del nostro mare”, spiega Boldrocchi specificando come l’inquinamento può essere collegato ai voluminosi apporti fluviali che trasportano contaminanti e rifiuti in mare. Lo studio ha rilevato la presenza di contaminanti organici persistenti come i PCB e il DDT, anche se con livelli bassi rispetto agli anni Ottanta, per esempio nel Golfo di Venezia (condizionato dal Po), il Golfo di Drin in Albania e le zone di Sebenico e Spalato in Croazia, aree dove “resta una forte preoccupazione” per la presenza di contaminanti.

    Biodiversità

    La decarbonizzazione in alto mare: lo stato di salute degli oceani preoccupa

    di Giacomo Talignani

    18 Novembre 2023

    Tanti, soprattutto nel Golfo di Venezia, ma anche alle Tremiti e a Corfù, i metalli pesanti individuati: si va dal piombo al cobalto sino al nickel e cromo. Tutto sommato bassi i livelli di mercurio nell’Adriatico se “comparati a quelli rilevati in regioni incontaminate come l’Antartide e l’Artico”, mentre desta preoccupazione “il rame, che al contrario ha mostrato valori eccezionalmente elevati, tra i più alti mai registrati a livello mondiale”. Gli esperti spiegano che questo fenomeno “sembra essere legato a fonti sia naturali, come la deposizione di polveri sahariane, sia antropiche, come le vernici antivegetative utilizzate in ambito marittimo e l’uso industriale e agricolo”. Dopo l’Adriatico, e precedentemente il Tirreno, la spedizione traccerà i livelli di inquinanti nello zooplancton in Francia e Spagna e poi nel 2025 tra Grecia, Cipro e Turchia. Sebbene ci siano aspetti importanti da monitorare, come l’elevata presenza di rame e di determinati metalli pesanti, Boldrocchi però ha una buona notizia: “Per molto tempo, l’ambiente marino è stato deliberatamente utilizzato come smaltimento dei nostri rifiuti, ma questo studio dimostra come la situazione sia in miglioramento. Se confrontiamo i nostri dati con il resto del mondo, vediamo che i livelli di DDT sono per esempio tra i più bassi, mentre per i PCB e i metalli ci posizioniamo a livelli intermedi”. LEGGI TUTTO

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    Hosta, la pianta perenne che ama l’ombra

    La Hosta è una pianta perenne originaria della Cina e del Giappone, molto popolare tra i giardinieri e tra le persone con pollice verde grazie alla sua coltivazione facile, la sua bellezza, la sua rigogliosità.

    Le Hosta sono adatte per la coltivazione in vaso, ma possono essere destinate anche ad aiuole e bordure. Si riconoscono a occhio nudo per la particolarità delle loro grandi foglie verdi e per la loro delicata eleganza, arricchita da fiori a campanule disposti su lunghi steli, che possono sfumarsi in colori eterogenei. I più comuni? Bianco, viola chiaro e blu.

    Hosta: le varietà più comuni
    L’Hosta è una pianta molto apprezzata e vanta un ampio ventaglio di varietà. Tra le più conosciute ci sono l’Hosta sieboldiana, l’Hosta ventricosa e l’Hosta plantaginea. L’Hosta sieboldiana è originaria del Giappone e si riconosce per le sue grandi foglie molto spesse, capaci di raggiungere anche i 45 cm di lunghezza. Il colore è verde scuro e le venature sono bianche, mentre i fiori si tingono di un viola pallido durante la stagione estiva. Questa varietà di Hosta resiste al freddo senza problemi, arrivando addirittura a -20°.

    L’Hosta ventricosa, invece, è una varietà di Hosta proveniente dalla Cina e si distingue dalla precedente per le foglie decisamente più piccole, per il colore verde chiaro con bordi ondulati e per i fiori tinti di viola scuro sempre in estate. Inoltre, questa varietà di Hosta riesce a raggiungere anche i 60 cm di altezza.

    Anche l’Hosta plantaginea arriva dalla Cina, ma rispetto alle due varietà precedenti ha grandi foglie lucide di colore verde chiaro, ma i suoi fiori sono bianchi, profumati e possono raggiungere anche i 10 cm di altezza. Si differenzia anche per la temperatura: l’Hosta plantaginea, infatti, ama il sole, ma riesce comunque a tollerare il freddo fino a -15°.

    Accanto alle varietà più popolari di Hosta, ce ne sono alcune altrettanto valide da potere essere coltivate tranquillamente in giardino. Alcune di queste, ad esempio, racchiudono: l’Hosta Blue Angel, il cui nome suggerisce il colore delle foglie (blu-verdi), mentre i fiori sono bianchi e l’Hosta Golden Tiara, particolarmente affascinante per le sue foglie variegate di verde intenso e giallo e i suoi fiori viola.

    Quando piantare la Hosta: la stagione migliore
    Qual è la stagione migliore per piantare la Hosta? La primavera. Piantandola in questo periodo dell’anno, infatti, le radici avranno tempo di diffondersi nel terreno per tutto il periodo vegetativo dell’estate.

    Come coltivare la Hosta: esposizione e cura della pianta
    Alcune varietà di Hosta fanno eccezione, ma in linea di massima questa pianta dalle foglie verdi e dai fiori colorati preferisce di gran lunga gli ambienti in ombra. Ama anche il sole, ma non deve essere né diretto, né troppo forte. Infatti, se esposta in una zona particolarmente soleggiata, le sue foglie rischieranno di bruciarsi e questo comprometterebbe la salute generica della pianta. Spesso e volentieri e proprio per evitare che questo accada, capita di piantare le piante di Hosta ai piedi di alberi più grandi: in questo modo saranno protette e ombreggiate nella giusta quantità. Affinché la pianta cresca rigogliosa e sana, è fondamentale piantarla in un terreno ben drenato e ricco di sostanze organiche. In questo modo il terreno tratterrà l’umidità utile alla pianta stessa e allo stesso tempo eviterà il ristagno d’acqua, nemico primario della salute di ogni pianta.

    Annaffiatura
    Durante il periodo vegetativo la Hosta deve essere irrigata ogni giorno, mentre nei mesi più freddi dell’anno si può diminuire la frequenza e lasciare che siano le piogge a regalarle il giusto quantitativo di acqua. Tuttavia, se la Hosta è stata piantata in vaso ed esposta quindi in balcone, l’annaffiatura sarà obbligatoria anche in inverno, ma con grande moderazione. Si consiglia sempre di tastare il terreno per capirne la percentuale di umidità.

    Prendersi cura della Hosta: concimazione e potatura
    Le Hosta non sono piante particolarmente difficili da gestire. Prendersene cura è semplice, basta solo ricordarsi di compiere alcune piccole azioni durante l’anno. Ad esempio, per questa pianta dai fiori colorati e dalle grandi foglie verdi, la concimazione è molto importante. Se coltivata in vaso, la Hosta ha bisogno di un fertilizzante a lenta cessione all’inizio della primavera, cioè il periodo in cui la pianta comincerà a crescere. Una seconda concimazione potrà essere effettuata durante il periodo estivo, così da darle le giuste sostanze nutritive necessarie per la sua fioritura. Se, dunque, vi stavate chiedendo quando fiorisce la Hosta, la risposta corretta è: in tarda primavera/estate.

    Anche la potatura è un altro aspetto importante nella cura delle Hosta. Per mantenere la pianta in salute, infatti, si consiglia di rimuovere tutte le foglie malate (o semplicemente danneggiate) in modo tale da prevenire eventuali comparse di malattie e, giustamente, anche per mantenere un degno aspetto estetico della pianta. Discorso analogo anche per i fiori: dopo che la Hosta avrà fiorito, potrebbe succedere che col passare del tempo alcuni dei suoi bei fiori colorati appassiscano. In questo caso, è consigliabile tagliarli e lasciare nuovi stimoli alla pianta: nuovi fiori arriveranno.

    Malattie e parassiti
    In realtà questa pianta orientale non teme il contagio di malattie e/o di parassiti. Se si dovesse stabilire il suo “nemico principale”, questo ricadrebbe in chiocciole e limacce, capaci di nutrirsi delle sue foglie. Per combatterle, è possibile utilizzare esche specifiche (o barriere da disporre attorno al vaso) da disporre nelle stagioni più calde. L’attenzione primaria, però, è da rivolgersi sempre all’umidità del terreno: un terreno troppo bagnato provoca marciume e questo non andrà bene per la Hosta, che soffrirà inevitabilmente. LEGGI TUTTO

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    L’Azerbaigian ospita la Conferenza sul clima, ma firma accordi per aumentare la produzione di gas

    A ogni Cop il suo paradosso. Mancano pochi giorni all’inizio della Cop29, la Conferenza delle parti sul clima che quest’anno si terrà dall’11 novembre a Baku in Azerbaigian e un po’ come accaduto nello scorso vertice, anche in questo caso le contraddizioni del Paese ospitante fanno discutere e temere per una scarsa riuscita degli accordi, soprattutto in chiave phase out delle fonti fossili. Lo scorso anno, a Dubai, la Conferenza era presieduta da un manager petroliere, Sultan Al-Jaber, mentre a questo giro a destare polemiche è la figura del nuovo presidente della Cop29, quel Mukhtar Babayev, oggi ministro dell’Ambiente e delle risorse naturali dell’Azerbaigian, che per 25 anni è stato dirigente della più grande compagnia statale di oil&gas del Paese, la Socar.

    Conferenza Onu

    Finanza climatica e taglio alle emissioni: ecco cosa chiederà l’Ue alla Cop29 a Baku

    di  Luca Fraioli

    15 Ottobre 2024

    Proprio la Socar, rivela un nuovo report firmato dalle Ong tedesche Urgewald e CEE Bankwatch, ha ora nei suoi piani una grande espansione della produzione di gas fossile nel prossimo decennio, una operazione che per gli autori del rapporto apre al solito interrogativo, come possono “coloro che hanno un interesse personale nel mantenere il mondo agganciato ai combustibili fossili presiedere una Conferenza sul clima?” si chiedono.

    L’aumento delle esportazioni verso l’Europa
    La compagnia petrolifera e del gas statale dell’Azerbaijan, che ha forti accordi con l’Europa (e in particolare con l’Italia e con Eni) intende aumentare la produzione annuale di gas del paese dagli attuali 37 miliardi di metri cubi a 49 miliardi entro il 2033. Inoltre aumenterà le esportazioni di gas verso l’Unione Europea del 17% entro il 2026. Il tutto, ovviamente, sotto la bandiera di una transizione energetica che “necessita ancora delle fonti fossili” ricordano dal Paese, nonostante dal 2023 la Socar abbia fondato “Socar Green”, costola che si basa sulle rinnovabili.

    Il personaggio

    Teresa Ribera, chi è la nuova responsabile dell’ambiente della Commissione Ue

    di  Luca Fraioli

    17 Settembre 2024

    Il punto però è sempre lo stesso
    Come si può, come chiede la scienza, arrivare a decisioni urgenti e concrete per dire addio ai combustibili fossili che alimentano il riscaldamento globale se nelle grandi conferenze sul Clima continuano a prevalere interessi economici su gas, petrolio e carbone?
    In Azerbaigian, come denunciato di recente da Amnesty International, continua la repressione verso parte della società civile, dell’attivismo climatico e del mondo della critica al potere politico, soprattutto nei confronti di chi denuncia le ingerenze del mondo del fossile e i diritti umani.
    “Le autorità azere hanno imprigionato centinaia di persone con accuse politiche per aver osato prendere la parola: giornalisti, attivisti e difensori dei diritti umani sono detenuti arbitrariamente, in violazione del diritto al giusto processo e senza alcuna garanzia di ricevere un processo equo” ricorda Amnesty.

    Il controllo sul Nagorno-Karabakh
    Parlare del rapporto fra il governo e le aziende del gas, così come ovviamente di tutto ciò che ruota intorno alla guerra del Nagorno-Karabakh del 2020, quella in cui l’Azerbaigian ha ristabilito il controllo sulla regione contesa al confine con l’Armenia, è tabù.
    Contemporaneamente però, ricorda il rapporto, con quell’Azerbaigian che basa la maggior parte del suo Pil proprio sulla vendita di prodotti derivati dalle fonti fossili, l’Ue intende continuare a voler fare tanti affari, soprattutto nel gas.
    Se la produzione petrolifera di Baku è infatti in calo, quella del gas è in costante aumento, dato che le riserve sono “un dono di Dio” come ha detto il presidente del Paese, Ilham Aliyev. Stime di Global Witness sostengono che in totale l’Azerbaigian dovrebbe produrre 411 miliardi di metri cubi di gas nei prossimi dieci anni, pari al rilascio di 781 milioni di tonnellate di CO2 (più dell’emissioni dell’intera Germania nel 2023, per dire).

    Il discorso

    Contro gli imbonitori del clima

    di Sergio Mattarella*

    07 Ottobre 2024

    Gli accordi già presi con le multinazionali
    Piani possibili anche grazie ad accordi già presi con realtà europee (da Eni a BP a Total) che porterebbero ad un aumento delle forniture di gas all’Europa di circa il 17% entro il 2026, il tutto anche grazie ai finanziamenti di diverse fra le principali banche europee.
    Eppure, a livello politico, l’Europa continua ad avere una doppia faccia. Pochi giorni fa per esempio gli eurodeputati della Commissione per l’Ambiente, la Sanità Pubblica e la Sicurezza Alimentare del Parlamento europeo hanno adottato una risoluzione in cui chiedevano agli Stati Membri, in vista della Cop29, di portare avanti alcune priorità chiave, fra cui quella di “eliminare gradualmente i combustibili fossili e i sussidi ad essi collegati”, oltre che spingere per la creazione di un sistema di tassazione globale della CO?.
    Concetto che segue le indicazioni della scienza, oppure quelle dell’Agenzia internazionale dell’Energia che chiede la fine di nuovi sfruttamenti di combustibili fossili, ma appare decisamente difficile da immaginare nell’attuale contesto.

    Le operazioni della Socar Green

    Un’altra doppia faccia, quella della Socar, viene poi contestata nel report di Urgewald: nel 2023 l’azienda, mentre ha continuato a investire pesantemente nel fossile, ha lanciato Socar Green (appena dopo che l’Azerbaigian è stato nominato Paese ospitante della Cop) promettendo investimenti in solare, eolico e cattura del carbonio, una divisione le cui operazioni sono però attualmente “insignificanti” secondo gli autori del report. Lo stesso piano d’azione per il clima del Paese per Climate Action Tracker è poi “ad oggi criticamente insufficiente”.
    Una insufficienza che potrebbe facilmente rispecchiarsi, soprattutto per i suoi tanti accordi con l’Ue (e in particolare con l’Italia), anche nelle stanze della Cop29 targata Nazioni Unite.
    L’Italia punta sul gas dell’Azerbaigian
    Solo per fare un esempio, fra i paesi europei l’Italia è quella che punta a fare sempre più affidamento sul gas dell’Azerbaigian, soprattutto in vista del 2026 quando con il gasdotto Tap aumenteranno le importazioni, consolidando così una partnership che già oggi è molto forte, come dimostrano gli accordi fra Socar e Eni “per ampliare la cooperazione nei settori dell’esplorazione e della produzione di idrocarburi”.
    La questione finale è dunque quanto questi accordi e i piani di espansione del gas azero peseranno sulla riuscita della Cop29. Come chiosa Regine Richter di Urgewald, autrice principale del rapporto, “dato il ruolo fondamentale di Socar nell’economia dell’Azerbaigian e i suoi stretti legami con l’élite politica del paese, la sua influenza sarà sicuramente avvertita durante i negoziati sul clima a Baku. Mentre ci prepariamo per Cop29, dunque non possiamo fare a meno di chiederci: abbiamo messo la volpe a capo del pollaio?”. LEGGI TUTTO

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    Le piante che attirano gli insetti invasivi. Come gestirle

    Le zanzare tigre, i micidiali punteruoli rossi che hanno decimato le palme di mezza penisola, gli argidi che minacciano le nostre rose. Sono moltissimi gli insetti invasivi che stanno cambiando gli ecosistemi, in Italia così come nel resto del mondo. Specie aliene che si spostano sulle vie della globalizzazione, sfruttando però un’altra classe di organismi che fanno da testa di ponte: le piante, che colonizzando nuovi ecosistemi in cui non sono endemiche li rendono adatti all’invasione. A rivelare questa dinamica è un nuovo studio pubblicato su BioScience da un team internazionale guidato dai ricercatori dell’Università di Losanna.

    Biodiversità

    L’autodifesa delle piante: sanno comunicare a distanza la presenza di un predatore

    di  Simone Valesini

    20 Settembre 2024

    La ricerca fornisce risultati in qualche modo inattesi, perché fino ad oggi si è pensato che fossero altre variabili a guidare gli spostamenti delle specie di insetti invasive nel mondo, come la quantità di esemplari alieni che raggiungono il nuovo ambiente, la ricchezza della biodiversità presente, la frequenza con cui la specie invasiva viene introdotta.
    Lo studio
    Nel loro studio, gli autori ripercorrono invece le prove a favore di un ruolo di primo piano giocato dalle piante aliene nel preparare il nuovo ambiente alla colonizzazione degli insetti. Innanzitutto, gli spostamenti di insetti in nuovi territori, per vie naturali o attraverso gli spostamenti di merci e persone, avviene di continuo, ma quasi mai determina un’invasione permanente. Questo perché la maggioranza degli insetti ha una relazione stretta con la flora dell’ambiente in cui abita, e senza piante che facciano da ospite in un nuovo ecosistema fatica a prendere piede.

    Biodiversità

    I coleotteri che spaventano l’Europa: 12 specie aliene dannose per le nostre foreste

    di  Fabio Marzano

    24 Settembre 2024

    Tutto considerato, le analisi dei ricercatori dimostrerebbero che la diffusione di determinate piante aliene in un nuovo ambiente è l’elemento che risulta maggiormente correlato alla probabilità di invasione da parte di nuove specie di insetti. “L’invasione da parte di nuove piante favorisce quella degli insetti in modo diretto, fornendo cioè una nicchia ecologica per gli insetti erbivori in arrivo, e indiretto per quelli carnivori e parassiti – scrivono gli autori dello studio – e questo produce una cascata di effetti che possono essere descritti come una catastrofe invasiva”.
    Come gestire le specie invasive

    Questo nuovo punto di vista, tutto da confermare, avrebbe importanti conseguenze per la biosicurezza e la gestione delle specie invasive. Attualmente infatti gli sforzi in questi campi puntano principalmente a impedire l’arrivo di nuovi esemplari di insetti alieni, mentre in futuro il fulcro potrebbe diventare la limitazione della diffusione di nuovi organismi vegetali.
    “Controllare la diffusione di specie vegetali non native indesiderate sarebbe benefico non solo per mitigare l’impatto delle piante stesse, ma anche per ridurre le probabilità di invasione da parte di insetti alieni associati a queste piante”, scrivono i ricercatori nelle conclusioni dello studio. LEGGI TUTTO

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    “Ci rubano il pesce”. Così i ministri dei Paesi scandinavi puntano a chiedere di poter cacciare foche e cormorani

    “Ci rubano il pesce”. Più o meno con questo claim, i ministri di Svezia, Finlandia, Estonia e Lettonia stanno portando avanti una battaglia contro foche e cormorani. La loro colpa? Ridurre gli stock ittici a disposizione dell’uomo. In tempi di conflitti fra uomini e animali sempre più intensi, per via di quelle risorse che scarseggiano spesso a causa degli impatti della crisi del clima, la perdita di habitat e le eccessive attività antropiche, se da noi tengono banco gli scontri con orsi, lupi o cinghiali nel nord d’Europa una delle preoccupazioni maggiori è oggi dettata da foche e cormorani.

    Animali

    La crisi climatica fa crescere conflitti tra uomo e animali

    di Giacomo Talignani

    03 Marzo 2023

    Il problema, per pescatori e responsabili di allevamenti ittici, è che gli uccelli pescatori, così come le foche, stanno divorando sempre più risorse a disposizione, a tal punto che il 21 ottobre, in una riunione Ue del consiglio “Agricoltura e pesca” diversi Stati membri hanno chiesto di poter ridurre le protezioni applicate su queste specie, in sostanza di poterli cacciare. La Commissione Ue ha rifiutato di modificare le norme vigenti, quelle che garantiscono la protezione di foche e cormorani, ma i ministri dei Paesi scandinavi insistono sulla necessità di una revisione perché come ha detto il ministro per gli Affari rurali della Svezia, Peter Kullgren, “si registra un forte aumento di queste specie nel Mar Baltico e ciò sta mettendo a repentaglio il recupero di alcuni stock ittici importanti per la pesca costiera”.

    In una nota presentata dagli stessi ministri il numero di cormorani nel Baltico viene indicato come in costante crescita, con “oltre 200mila coppie nidificanti” e la popolazione delle foche grigie, nella stessa area, si stima sia cresciuta “del 5% all’anno negli ultimi vent’anni”.

    Numeri che indicano un possibile conflitto, per il pesce, fra uomini e animali. Ai Paesi promotori dell’iniziativa – quella per richiedere di modificare lo status di protezione del cormorano ad esempio – si aggiunge il sostegno (solo per gli uccelli) anche di Danimarca, Romania e Repubblica Ceca, a favore dell’idea di cacciare i cormorani per via dell’impatto che questo animale può avere sugli allevamenti ittici.

    La Romania, per esempio, spiega come i grandi cormorani arrivano a consumare quasi 12mila tonnellate all’anno dagli stagni ittici nel Paese. Nel tentativo fatto, per ora respinto, la Svezia insieme agli altri stati membri promotori ha chiesto di spostare lo status del cormorano “nell’allegato 2B”, un sistema che in pratica ne consente la caccia ma mantiene allo stesso tempo la protezione dell’animale, una sorta di metodo per “regolarne” la presenza. Inoltre i Paesi baltici e scandinavi hanno chiesto di riformare le norme sul commercio di prodotti derivati dalla foca, come ad esempio la carne, il cui consumo fa parte di certe tradizioni degli stati del Nord. Su questo punto si attendono risposte da parte dell’Ue per il gennaio del 2025 dato che è in corso una revisione al termine della quale “potremmo essere in grado di valutare modalità per consentire vendite limitate e una caccia limitata alle foche nel Mar Baltico” hanno fatto sapere i commissari europei. Ovviamente tuonano ambientalisti e animalisti che ricordano come l’impatto negativo, ad esempio dei cormorani, sia assolutamente “sovrastimato”, dato che esistono pochi dati per una valutazione completa, così come il cattivo stato delle riserve ittiche del Baltico spesso è tale a loro dire perché legato a “decenni di pesca eccessiva”, ma anche attività antropiche di vario tipo, inquinamento e crisi del clima, sostengono dalla Ong Oceana.

    Del declino delle riserve ittiche, tra l’altro, soffrono anche le stesse foche, ha ricordato l’Università di Goteborg in uno studio, spiegando che questi animali devono già fare i conti oggi con gli effetti del riscaldamento globale innescato dall’uomo. Nonostante ciò, la Svezia insiste sulla necessità di una reintroduzione della caccia che sia però “basata sull’ecosistema”, in sostanza un metodo per “riequilibrare” il rapporto fra predatori e pesci. “Vorremmo che ci fosse la possibilità che questi stock ittici si riprendessero a livelli sostenibili” ha affermato Kullgren. La tesi svedese è infatti quella che cormorani e foche stiano mangiando troppi pesci, a tal punto da impedire ad alcuni stock ittici di riprendersi ed essere “gestiti in modo sostenibile”.

    Biodiversità

    Crisi climatica, nessun animale marino è al sicuro: una mappa per capire quali specie rischiano di più

    di  Anna Lisa Bonfranceschi

    18 Settembre 2024

    Per i singoli cormorani, ha aggiunto nella riunione il vice ministro dell’Agricoltura della Repubblica Ceca Miroslav Sk?ivánek, va poi considerato un ammontare di “danni agli allevamenti ittici di circa 9 milioni di euro. Ciò compromette in modo significativo la competitività dei produttori e la biodiversità nelle acque libere”. Al contrario, per Anouk Puymartin dell’Ong BirdLife Europe “la proposta di abbattere i cormorani per proteggere gli stock ittici è vecchia e non si basa su alcuna solida scienza, ed è una distrazione dal vero problema: la vera minaccia per gli stock ittici del Mar Baltico deriva da fattori causati dall’uomo, come la pesca eccessiva, l’inquinamento e il cambiamento climatico. Le prove scientifiche dimostrano che l’abbattimento dei cormorani non risolve il problema”.

    Per ora l’Europa, come detto, ha comunque risposto “no” alle modifiche di status, anche se dal 2025 potrebbero esserci appunto novità relative alla caccia alle foche. La nuova richiesta dei ministri scandinavi è comunque da inserire in una tendenza, sempre più ampia, che riguarda la necessità all’interno dell’Ue, per più Paesi, di rivalutare i livelli di protezione sia dei grandi predatori, come lupi e orsi, sia di quelle specie che possono impattare su economie e risorse alimentari. LEGGI TUTTO

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    Lo studio: le alluvioni devastanti di ottobre in Italia “sono legate al cambiamento climatico”

    A ogni nuovo evento meteo estremo che colpisce i nostri territori – come per l’Emilia Romagna alluvionata per ben quattro volte in nemmeno un anno e mezzo – ci si interroga se si possa parlare o meno di colpe legate al cambiamento climatico, quello innescato dall’uomo. Dare una risposta per un singolo evento – ricordano sempre scienziati e climatologi – non è semplice: ora però più fattori, anche per rispondere a scettici e imbonitori climatici, suggeriscono che ad alimentare determinate tempeste è proprio la crisi del clima.
    Quella dell’ottobre 2024, in cui sono finite sott’acqua centinaia di strade e di case, con migliaia di sfollati e danni ancora da quantificare, secondo un nuovo studio di attribuzione degli scienziati di ClimaMeter è legata infatti proprio al cambiamento climatico.

    Editoriale

    I nuovi negazionismi climatici

    di  Riccardo Luna

    07 Ottobre 2024

    Le elevate temperature del mare

    Da tempo gli scienziati ci avvertono che nel Mediterraneo – hotspot climatico – le elevate temperature del mare a causa del riscaldamento globale, soprattutto nei mesi successivi all’estate, possono portare a eventi meteo sempre più carichi di energia.
    Oltre a ciò, ci sono diversi fattori che lo studio di ClimaMeter, utilizzando un metodo peer-review basato su informazioni meteo storiche degli ultimi 40 anni, hanno preso in considerazione.

    Per esempio hanno confrontato “la somiglianza tra i sistemi di bassa pressione alla fine del XX secolo (1979-2001) e quelli attuali, negli ultimi decenni (2002-2023), quando l’effetto del cambiamento climatico è diventato più evidente e la nostra analisi valuta anche il contributo di diversi fenomeni naturali come El Niño, l’Oscillazione Decadale del Pacifico e l’Oscillazione Multidecadale Atlantica”.

    Lo scenario

    Enrico Giovannini: “Così usano dati corretti per raccontare balle sul riscaldamento globale”

    di  Luca Fraioli

    07 Ottobre 2024

    I cambiamenti climatici causati dall’uomo
    Partendo da qui gli esperti hanno dedotto che “le forti piogge che hanno devastato molte città italiane nell’ottobre 2024 mostrano segni di essere state alimentate dai cambiamenti climatici causati dall’uomo”. In particolare, scrivono in riferimento alle ultime alluvioni, “tempeste come questa portano oggi fino a 10 mm di pioggia in più al giorno (un aumento del 25%) e producono venti di intensità fino a 6 km/h in più (un aumento del 10%), rispetto all’inizio del secolo (periodo 1980-2000)”.

    Il fatto che i cambiamenti climatici possano aver aumentato l’intensità delle piogge “è coerente con le prove ben consolidate che dimostrano che un’atmosfera più calda può trattenere una maggiore quantità di umidità, portando ad acquazzoni più pesanti” e proprio l’ultima tempesta è stata decisamente intensa sia per forza sia per intensità se comparata con altre degli ultimi 40 anni.

    Dalla Francia all’Emilia Romagna
    Per questo i ricercatori di ClimaMeter – che è un progetto finanziato da Ue e Cnrs (Centro nazionale francese per la ricerca scientifica) – scrivono che relativamente alle forti tempeste tra il 18 e il 19 ottobre, quelle che dalla Francia all’Emilia Romagna hanno causato devastanti inondazioni, “le condizioni meteorologiche che hanno innescato molteplici inondazioni in Italia erano estremamente rare, in termini di forza e intensità, rispetto ai dati storici di tempeste simili. Ci sono pochi dati storici che corrispondono all’intensità della tempesta. Le depressioni mediterranee simili a quella che ha causato molteplici inondazioni in Italia nell’ottobre 2024 mostrano precipitazioni aumentate e producono venti più forti nel presente rispetto al passato. Fenomeni naturali come la Pacific Decadal Oscillation e la Atlantic Multidecadal Oscillation potrebbero aver avuto un ruolo insieme al cambiamento climatico causato dall’uomo, principalmente nel guidare la traiettoria della depressione che ha causato le inondazioni”.

    Le origini

    Mario Tozzi: com’è nato il negazionismo

    di Mario Tozzi

    07 Ottobre 2024

    Cosa dicono gli scienziati
    Come conferma Erika Coppola, scienziata dell’International Centre for Theoretical Physics, “stiamo assistendo a eventi estremi simili che si verificano in rapida successione e in più regioni contemporaneamente. Si tratta di una conseguenza diretta del riscaldamento globale indotto dall’uso di combustibili fossili, che porta a una cascata di impatti imprevedibili che aumenteranno la vulnerabilità delle regioni colpite in tutto il mondo”, mentre Tommaso Alberti dell’Istituto italiano di Geofisica e Vulcanologia aggiunge che “quelli che un tempo erano eventi stagionali tipici sono ora diventati rari, con impatti e conseguenze crescenti, a causa dei cambiamenti climatici indotti dall’uomo. Dobbiamo tutti affrontare la questione della transizione ecologica con maggiore urgenza”.

    Conferenza Onu

    Finanza climatica e taglio alle emissioni: ecco cosa chiederà l’Ue alla Cop29 a Baku

    di  Luca Fraioli

    15 Ottobre 2024

    In attesa della Cop29
    Un’urgenza che potrebbe trovare risposte a partire dall’11 novembre quando in Azerbaigian inizierà la Cop29, grande Conferenza delle parti sul Clima, dove anche l’Italia, fra i tanti Paesi (ma non ancora Usa oppure Cina ad esempio) sarà presente con i suoi leader e si è accreditata tra i relatori (da capire chi) che parleranno. Interessante sarà dunque comprendere eventuali strategie italiane per affrontare, sia in termini di mitigazione che adattamento, i sempre più evidenti, dannosi e mortali effetti della crisi climatica.

    Uno degli strumenti per provare ad adattarci al nuovo clima – che come confermano gli scienziati è in grado di colpire sulle nostre vite in maniera sempre più intensa – lo abbiamo approvato a fine 2023 (il Pnacc, Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici) ma, per le sue 361 azioni richieste per prepararci agli impatti del riscaldamento globale, ad oggi mancano ancora sia eventuali finanziamenti, sia operatività. LEGGI TUTTO

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    Gli incendi aumentano con il cambiamento climatico: lo studio

    I cambiamenti climatici si mangiano la terra, mandando in fumo la vegetazione, che sia di foreste tropicali, savane e taiga, e negli ultimi anni sempre di più rispetto al passato. Di quanto? Secondo alcune stime, i soli effetti dei cambiamenti climatici hanno aumentato le terre bruciate del 16% circa in appena 16 anni, dal 2003 al 2019. Lo sostengono gli autori di una ricerca appena pubblicata sulle pagine di Nature Climate Change, preziosa per capire quello che ci aspetta in futuro, puntualizzano gli esperti.

    Finora mancava una stima del diretto contributo al fenomeno da parte dei cambiamenti climatici, in parte per la complessità della materia di studio, che deve considerare il peso di tanti fattori, spiegano in un blog Seppe Lampe e Douglas I. Kelley, tra gli autori del paper (rispettivamente della Vrije Universiteit di Bruxelles e dell’UK Centre for Ecology and Hydrology, di Wallingford).

    Di fatto non ci sono solo i cambiamenti climatici da considerare, continuano gli esperti, ma anche tutte quelle modifiche apportate sul territorio dalle attività umane – che sia l’utilizzo del territorio a scopo agricolo, la sua urbanizzazione e la semplice crescita della popolazione – che possono contrastare il fenomeno degli incendi e il cui contributo non è chiaro.

    Incendi

    I roghi sono in diminuzione, ma cresce la superficie bruciata

    di  Giacomo Talignani

    07 Ottobre 2024

    Ed è per questo che il team di Lampe e colleghi si è impegnato nel compito di stimare l’influenza dei cambiamenti climatici sui trend degli incendi che hanno interessato diversi tipi di foreste e continenti negli ultimi anni. Per farlo hanno utilizzato dei modelli e un sistema di riferimento che permettesse loro di considerare il contributo dei diversi fattori di origine umana, mettendo a confronto in particolare il contributo dei cambiamenti climatici rispetto a una condizione in cui questi non si fossero realizzati e le emissioni di anidride carbonica fossero ferme agli inizi del Novecento.

    Il risultato è che se non avessimo avuto impennate di temperature ed emissioni avremmo avuto meno incendi, scrivono gli autori. Oltre all’aumento del 16% delle aree bruciate tra il 2003 e il 2019, gli scienziati hanno stimato l’effetto per i diversi continenti, calcolando un aumento del 22% per l’Australia settentrionale, quasi del 30% nel Sudamerica, del 17% circa in Siberia e del 15% circa nel Nord America.

    “??Queste regioni sono state spesso al centro dell’attenzione dei media negli ultimi anni a causa di terribili incendi, e i nostri modelli confermano che questa tendenza porta il segno del cambiamento climatico”, ha commentato in una nota Chantelle Burton dell’UK Met Office, prima autrice del paper. Quando i ricercatori hanno quindi analizzato il peso di fattori socio-economici, come il cambio nella destinazione di utilizzo del suolo o le variazioni di densità abitative, hanno osservato una diminuzione del 19% circa nelle aree bruciate secondo le loro simulazioni.

    I boschi arsi in Mugla, Turchia (Anadolu via Getty Images)  LEGGI TUTTO

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    La batteria green che nasce dagli alberi. L’idea di un giovane colombiano

    Il mondo ha sempre più bisogno di energia elettrica ed è noto che la produzione da fonti rinnovabili abbiano il grande vantaggio di essere ecologiche ed adatte alla transizione energetica, verso cui l’Europa ed il mondo stanno andando. Ma allo stesso tempo sono fonti energetiche intermittenti, per cui c’è necessità di conservare l’energia prodotta in batterie sempre più capienti ed efficienti. E se la risposta, ancora una volta, venisse dalla natura? Anzi dagli alberi? Questa l’idea di Samuel Bedek, un giovane colombiano di appena 20 anni, che abbiamo incontrato al GItex Global, una delle fiere di tecnologia e startup più grandi del mondo, che si è tenuta a Dubai dal 13 al 17 ottobre.

    Dalla linfa una gomma naturale
    In uno dei padiglioni dell’Expand North Star – l’evento parallelo del Gitex, esclusivamente dedicato alle startup – abbiamo scovato questa piccola grande idea, di un ventenne e minuto colombiano, con le idee molto chiare: aiutare il mondo a trovare soluzioni sostenibili, partendo proprio dalle comunità più povere del suo paese, la Colombia. “Dal mio paese sono andato a studiare negli Stati Uniti e ho avuto la possibilità di sviluppare quello che pensavo da molto tempo. Lì è nato il prototipo di Elastic Energy, una batteria che può immagazzinare l’energia prodotta da qualsiasi fonte, grazie alla linfa degli alberi”, spiega Bedek. Si, perché è dalla linfa degli alberi che viene prodotto il biopolimero elastico, una gomma naturale, usata per creare energia elastica. “Quando l’energia rinnovabile ha raggiunto un alto livello, viene attivato un motore che girando allunga un elastico di gomma da 100 fino a 1000 metri, convertendo energia elettrica in energia elastica. Dopodiché quando viene richiesta elettricità, il sistema di controllo converte il motore elettrico in generatore di corrente” ci spiega Bedek.

    Il biopolimero elastico, una gomma naturale, prodotto dalla linfa degli alberi  LEGGI TUTTO