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    Le batterie dei veicoli elettrici invecchiano meglio del previsto: 200mila km non fanno paura

    Le batterie dei veicoli elettrici (EV) conservano oltre l’80% della capacità originale anche dopo 200mila km di percorrenza. È questo uno dei dati più eclatanti emersi nell’ultima indagine realizzata dalla società di consulenza gestionale P3, specializzata in mobilità elettrica, e Aviloo, azienda austriaca di diagnostica delle batterie. Il libro bianco L’invecchiamento delle batterie nella pratica sembra ridimensionare il falso mito della poca longevità dei veicoli EV, anche in relazione al mantenimento del valore economico. P3 è partita con l’analisi dei dati relativi alla sua flotta, composta da 50 veicoli elettrici, e poi allargato il campione fino ad arrivare a 7mila mezzi grazie ai 60mila test di capacità eseguiti da Aviloo (anche su veicoli che avevano 300mila m sulle spalle).

    “Questo studio intende contribuire a dissipare i malintesi e consentire ai consumatori di prendere decisioni di acquisto informate e basate sui fatti”, scrivono gli autori. L’obiettivo fin dall’inizio è stato quello di esaminare il livello di degradazione subito dalle batterie nel tempo e con il comune uso su strada: dati reali invece che stime o misurazioni da laboratorio. Fermo restando il fatto che i fattori esterni che determinano il risultato sono numerosi: dalle condizioni ambientali, al tipo di guida e di ricarica, fino alla programmazione del sistema di gestione della batteria e le strategie di invecchiamento implementate dai produttori.

    Transizione energetica

    Come funzionano le batterie bidirezionali delle auto elettriche e perché potrebbero far risparmiare alimentando l’energia delle nostre case

    di  Giacomo Talignani

    30 Ottobre 2024

    In ogni caso la perdita di capacità è dovuta alla modifica delle strutture chimiche delle celle della batteria e questo avviene anche in assenza di un utilizzo attivo. Sebbene non esista una definizione precisa e condivisa di stato di salute della batteria (SoH), lo studio si riferisce esclusivamente alla capacità. Un dettaglio chiave soprattutto se considera che la sola unità di accumulo rappresenta circa il 20–30% del costo di un veicolo.

    La degradazione parte veloce e poi rallenta
    Lo studio ha rilevato che le batterie dei veicoli EV, inizialmente al 100% di capacità, subiscono nei primi 30mila km di percorrenza un degrado di circa il 5%. A circa 100mila lo stato di salute medio si attesta sul 90%, dopodiché tra 200mila e 300mila si arriva a circa l’87%. In sintesi si ha una fase iniziale di riduzione repentina e poi il degrado rallenta. Il motivo si deve al fatto che durante i primi cicli di carica e scarica si forma uno strato SEI (interfase elettrolitica solida) sull’anodo (terminale negativo) delle celle della batteria: una sorta di deposito dovuto alla reazione dell’elettrolita. Normalizzata la situazione, il sistema di gestione della batteria è in grado di ridurre significativamente l’invecchiamento. E a questo può contribuire positivamente anche l’azione umana, con un corretto comportamento di ricarica e di gestione del veicolo nel quotidiano.

    Mobilità

    Con l’auto elettrica si risparmia metà delle emissioni di CO2

    di Nicolas Lozito

    07 Ottobre 2024

    Si pensi ad esempio ai lunghi periodi di inutilizzo, dove le batterie dovrebbero essere tenute con uno stato di carica basso (10%) o medio (50%), e le condizioni di temperatura ambientale dovrebbero essere medio-basse ( LEGGI TUTTO

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    Trattato mondiale della plastica: ultima chance per liberarci dall’inquinamento

    Sopraffatti dall’urgenza dettata dalla crisi climatica e impauriti dai tassi velocissimi con cui perdiamo biodiversità, rischiamo di dimenticarci un gigantesco problema: la plastica. Sappiamo bene come oggi questo materiale non solo rischia di impattare sulla salute degli ecosistemi, uccidendo migliaia di specie, ma è anche sempre più presente – attraverso le microplastiche – negli organi umani, con conseguenze ancora poco chiare sul futuro della nostra salute.

    Dal 1950 ad oggi la produzione di plastica mondiale è aumentata di oltre 200 volte, arrivando quasi a 460 milioni di tonnellate all’anno. Di questo ritmo, senza un freno alla produzione di plastica vergine e a una migliore gestione di questo materiale, si teme addirittura che entro il 2040 la quantità di plastica immessa nell’ambiente ogni anno raddoppierà rispetto al 2022. A lungo termine si prevede addirittura che l’uso della plastica potrebbe triplicare a livello globale entro il 2060, con i maggiori incrementi previsti nell’Africa subsahariana e in Asia.

    Sempre nel 2060 la metà dei prodotti plastici finirà in discarica e meno di un quinto sarà davvero riciclato. Una dimensione che il mondo naturale potrebbe non essere in grado di reggere.

    Lo studio

    Entro il 2050 i rifiuti in plastica gestiti male raddoppieranno: 8 misure per evitarlo

    di Sara Carmignani

    20 Novembre 2024

    Le divisioni che ostacolano l’intesa sul trattato
    Per questo è importantissimo – dopo la Cop16 sulla Biodiversità e la Cop29 sul Clima appena terminata a Baku – discutere e trovare un accordo internazionale, che sia giuridicamente vincolante, sulla gestione della plastica. L’occasione è, dal 25 novembre al 1 dicembre, il summit di Busan in Corea del Sud dove si stanno incontrando in queste ore i delegati di 175 Paesi che prenderanno parte al quinto round di colloqui volti a trovare un’intesa per un Trattato globale sulla plastica, un sistema per ridurne l’inquinamento in maniera concreta.

    Dal precedente ciclo di colloqui svolti ad Ottawa del Comitato intergovernativo di negoziazione delle Nazioni Unite (INC-5), così si chiama il gruppo che sta portando avanti i lavori, non si era arrivati a una soluzione per limitare la produzione di plastica, perché a pesare sono le divisioni tra Paesi. Lo scopo finale delle trattative è arrivare a un trattato giuridicamente vincolante che sia in grado di prendere in considerazione l’intero ciclo di vita del materiale, dalla “nascita” sino alla sua gestione finale dopo l’uso.

    Inquinamento

    Le microplastiche trasformano le nuvole e il clima

    di redazione Green&Blue

    12 Novembre 2024

    Il problema principale nella gestione della plastica finora è legato, nonostante spesso ci sia stata venduta come una possibile soluzione sostenibile, al reale riciclo e recupero di questo prodotto: in media a livello mondiale si riesce a riciclare appena il 10%. Nel frattempo però continua la produzione, con stime che parlano per ogni anno di quasi 20 milioni di tonnellate di plastica che finiscono in ambiente naturale. Motivo per cui a Busan la speranza di trovare una intesa mondiale per porre fine a questo circolo vizioso è alta. Alcuni Paesi però si oppongono a schemi e firme per una riduzione della produzione di plastica vergine, in particolare quelli legati ai combustibili fossili, come Arabia Saudita, Iran oppure Russia, ma anche in parte la Cina. Altri invece spingono per “livelli sostenibili di produzione”, in linea con le richieste di mercato ma anche con il potenziale impatto ambientale: fra questi ci sono circa 40 nazioni tra cui quelle dell’Ue (Italia compresa), ma anche Svizzera, Fiji e altri che hanno firmato una dichiarazione d’intenti chiamata “Bridge to Busan”.

    Gli Stati Uniti, in attesa dell’insediamento di Donald Trump, nonostante siano un Paese fortemente impattante per produzione mondiale di plastica (17%) non hanno firmato la dichiarazione, ma hanno parlato apertamente della necessità di ridurre la produzione di plastica vergine. Il problema è che con le politiche annunciate da Trump, fortemente basate su petrolio e fossile, si teme che gli Usa possano veleggiare d’ora in poi in direzione contraria rispetto ad un trattato globale.

    La speranza, per molti Paesi, è dunque che la Cina cambi nel tempo posizione e si faccia avanti per trainare una nuova intesa, “dando vita a uno strumento efficace, altrimenti sarà molto difficile ottenerlo” dicono i negoziatori. Per il presidente del Comitato intergovernativo di negoziazione delle Nazioni Unite, Luis Vayas Valdivieso, c’è bisogno di fiducia e speranza per una intesa perché “senza interventi significativi, si prevede che entro il 2040 la quantità di plastica immessa nell’ambiente ogni anno raddoppierà. Si tratta dunque dell’umanità che si prepara ad affrontare una sfida esistenziale”.

    Biodiversità

    Le balene scambiano i rifiuti di plastica per calamari. Una drammatica somiglianza

    di  Paolo Travisi

    29 Ottobre 2024

    Inoltre, per la riuscita dell’intesa, Inger Andersen – direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) – ha esortato i delegati divisi sulla riduzione dei prodotti e delle sostanze chimiche nella plastica plastica a trovare un meccanismo di finanziamento per gestire i rifiuti di plastica e per “una produzione e un consumo sostenibili di plastica adottando un approccio basato sul ciclo di vita”.

    Serve una imposta sulla plastica vergine?
    Altro punto da discutere saranno poi delle possibili imposte. Alla Cop29, Francia, Kenya e Barbados per esempio hanno proposto di istituire una serie di imposte globali su determinati settori – plastica compresa – che potrebbero contribuire ad aumentare la quantità di denaro da mettere a disposizione dei Paesi in via di sviluppo per affrontare le sfide ambientali. L’idea prevede una tariffa di 60-70 dollari a tonnellata sulla produzione primaria di polimeri, con un potenziale di raccolta fondi fra 25-35 miliardi di dollari all’anno. Imposta che però è già stata respinta dalle associazioni industriali di categoria che di tasse non vogliono sentir parlare.

    Un “no” che si inserisce naturalmente nel grande blocco divisivo fra chi vuole un ragionamento forte sull’intero ciclo di vita della plastica – come circa 60 Paesi guidati da Ruanda e Norvegia e riuniti sotto il cappello “high ambition” – e chi invece non vuole limiti alla produzione, come i Paesi produttori di combustibili fossili.

    A inizio dicembre sapremo quale delle due opposte visioni riuscirà a prevalere e se, nel mezzo, ci sarà davvero spazio per un accordo. Nel frattempo, per tenere alta l’attenzione sul trattato, a Busan Greenpeace ha issato davanti alla sede dei negoziati una grande bandiera raffigurante un gigantesco occhio, un’opera artistica realizzata con ritratti di migliaia di volti di attiviste e attivisti di tutto il mondo, un modo per chiedere un “trattato ambizioso”. “Inizia la fase cruciale dei negoziati per il trattato sulla plastica e i governi devono agire per tutelare le persone e il Pianeta anziché preservare gli interessi delle aziende dei combustibili fossili e dell’industria petrolchimica – chiosa Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia -. Un trattato debole sarebbe un fallimento. Abbiamo bisogno di un accordo ambizioso e legalmente vincolante per ridurre la produzione di plastica ed eliminare la plastica monouso, per proteggere la nostra salute, le nostre comunità, il clima e il Pianeta”.

    Il WWF avverte che se i governi non riusciranno a trovare un accordo su misure specifiche e vincolanti a livello globale, difficilmente riusciranno a mantenere la promessa fatta due anni fa di creare uno strumento forte ed efficace in grado di porre fine all’inquinamento da plastica. “Per proteggere le generazioni presenti e future da un mondo sopraffatto dall’inquinamento da plastica e dal peso iniquo che questo impone alle comunità più vulnerabili, abbiamo bisogno di regole globali vincolanti. I negoziatori hanno il sostegno non solo da parte della comunità scientifica, ma anche della maggioranza dei governi, dei cittadini e delle imprese: un Trattato globale con obblighi giuridicamente vincolanti è l’unico modo per affrontare la crisi globale dell’inquinamento da plastica. Bisogna dare priorità alle misure più urgenti e dirimenti per affrontare il problema alla radice e creare un trattato forte e incisivo”, ha dichiarato Eva Alessi, Responsabile Sostenibilità del WWF Italia. LEGGI TUTTO

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    Cop29, un buco nell’acqua a Baku?

    I negoziatori avevano un solo obiettivo: trovare una cifra che evitasse il fallimento della Cop29. Il presidente della conferenza aveva anticipato che l’accordo sarebbe stato equo solo se ogni delegazione avesse lasciato Baku con la stessa insoddisfazione, ritenendo di dover pagare troppo o ricevere troppo poco. Questo sembra essere avvenuto: sono stati mobilitati 1300 miliardi di dollari dai Paesi più ricchi entro il 2035, di cui 300 miliardi all’anno destinati specificamente ai Paesi in via di sviluppo. Una cifra considerata eccessiva da chi deve contribuire, già gravato da problemi di bilancio e debiti, e ridicolmente insufficiente per coloro che subiscono gli effetti del cambiamento climatico senza averne colpa.

    Tuttavia, penso che il vero problema si trovi altrove, e sono sorpreso che così pochi ne parlino. Chi esattamente pagherà, a chi, e per quale motivo?

    I Paesi sviluppati, che hanno inquinato più a lungo, non sono necessariamente i più ricchi oggi. L’Europa, con bilanci in deficit e un debito abissale, non può permettersi grande generosità. Gli Stati Uniti, nonostante il loro deficit cronico, restano la principale potenza mondiale, ma un ritorno al potere di figure come Trump non promette aperture in termini di finanziamenti climatici. Rimangono Canada, Australia, Giappone e Nuova Zelanda, ma non bastano. Sarebbe necessario coinvolgere molti altri Paesi in questo sforzo per sostenere i più poveri.

    La questione del “chi paga” e del “chi riceve” è stata oscurata dalla grandezza della cifra complessiva, che ha catturato tutta l’attenzione. Anche i Paesi come Cina, India, Brasile e altri grandi inquinatori, pur avendo emesso gas serra per un periodo più breve rispetto ai Paesi occidentali, sono oggi tra i maggiori responsabili delle emissioni globali. E per quanto riguarda i Paesi produttori di energia fossile? Anche se è il resto del mondo a consumare i loro prodotti, sono loro a trarne profitti colossali, costruendo metropoli moderne con quei guadagni. Allora, perché tutti questi Paesi non dovrebbero contribuire anche loro? Sono diventati i più ricchi, anche se si nascondono dietro un reddito medio che permette loro di essere classificati come Paesi in via di sviluppo. Così, alcuni di loro, non contenti di evitare di pagare, cercano addirittura di figurare tra quelli che dovrebbero essere indennizzati!

    Seconda domanda, per chi paghiamo? Certo, i grandi emettitori di gas serra hanno una responsabilità nei confronti del resto del mondo. I Paesi che oggi subiscono le peggiori conseguenze devono essere aiutati: costruzione di dighe, rialzo delle isole, riparazione di infrastrutture distrutte da uragani, compensazione dei raccolti perduti a causa di siccità o inondazioni. È evidente che non può essere chi soffre a sostenere questi costi, e i risultati della COP29 lo ribadiscono. Senza il processo delle conferenze dell’ONU, spesso criticato, non saremmo nemmeno arrivati a questo punto.

    Tuttavia, quando si tratta di costruire infrastrutture per le energie rinnovabili, molto più redditizie di quelle basate sui combustibili fossili, o di installare tecnologie pulite per migliorare l’efficienza energetica, entriamo in una logica diversa: quella dell’investimento, non della compensazione. Qui, i miliardi non possono provenire dalle stesse risorse, poiché un investimento, per definizione, genera un ritorno economico, al contrario di una donazione o di un’indennità.

    Questo ragionamento vale anche per la Svizzera, dove l’adozione recente della legge sul clima e la revisione della legge sul CO? sono passi nella giusta direzione, anche se insufficienti. Senza un impegno chiaro per orientare i finanziamenti verso la transizione energetica, queste leggi rischiano di rimanere inefficaci. Il calo della Svizzera nella classifica internazionale degli sforzi climatici, rivelato durante la Cop29, lo dimostra chiaramente: legiferare non basta, servono anche risorse e azioni concrete.

    Se questi aspetti non saranno meglio definiti, continueremo a dibattere in una confusione sterile. E se abbiamo perso tempo a Baku, rischiamo di piangere l’anno prossimo alla Cop30 di Belém, in Brasile.

    (Bertrand Piccard, aviatore e psichiatra svizzero, con Solar Impulse ha compiuto il giro del mondo con il primo aereo a energia solare) LEGGI TUTTO

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    Gli eventi meteorologici estremi impoveriscono i terreni agricoli e senza fosforo aumentano i prezzi

    Gli eventi estremi, ripetono ormai da tempo gli esperti, potrebbero diventare sempre più frequenti con i cambiamenti climatici, aumentando il rischio per i territori. Tra le forme di distruzione apparentemente meno visibili (per ora) c’è la perdita di fosforo dai terreni, lavato via dalle acque torrenziali. Un fenomeno che oggi appare particolarmente preoccupante negli Usa, spiega un team che ha coordinato una ricerca internazionale e pubblicato sulla rivista scientifica Pnas. Sul suolo americano, infatti, negli ultimi anni, i terreni agricoli si sono impoveriti a causa del processo di degradazione del suolo, soprattutto per quello che riguarda il fosforo.

    Gli eventi estremi impoveriscono i suoli agricoli  LEGGI TUTTO

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    Africa, nell’ultimo mezzo secolo il 77% di elefanti in meno

    Sono gli animali terrestri più grandi al mondo, e sono anche altamente intelligenti e cooperativi. Ma purtroppo non se la passano bene. Parliamo degli elefanti africani, la cui popolazione – come attesta uno studio appena pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences da parte di un gruppo di scienziati del CEscape Consultancy Services sudafricano – ha subito uno spaventoso declino nell’ultimo mezzo secolo, con una diminuzione media del 77% in tutti i siti oggetto dell’osservazione.

    In particolare, gli autori del lavoro hanno osservato un calo demografico medio del 70% per gli elefanti di savana (Loxodonda africana) e del 90% per gli elefanti di foresta (Loxodonta cyclotis), dati non certo promettenti per il futuro delle due specie.

    Animali

    La difficile tutela degli elefanti africani: troppi in Zimbabwe e in estinzione altrove

    di Cristina Nadotti

    15 Giugno 2024

    Lo studio appena pubblicato è il più ampio mai condotto sul tema: gli scienziati hanno analizzato dati relativi a 475 diversi siti, sparsi in 37 nazioni africane, raccolti a cadenza periodica tra il 1964 e il 2016. “La maggior parte della popolazione perduta non tornerà indietro”, ha commentato a Reuters George Wittemyer, docente di conservazione della fauna selvatica alla Colorado Staete University, capo del board scientifico del gruppo Save the Elephants e co-autore del lavoro, “e molte delle popolazioni a basa densità devono affrontare ulteriori pressioni che le mettono in difficoltà. Probabilmente perderemo altre popolazioni in futuro, se non prendiamo subito dei provvedimenti”. Due i principali responsabili: il bracconaggio – molti elefanti vengono uccisi per l’avorio delle loro zanne, poi venduto ed esportato illegalmente in Asia – e le esigenze agricole, che “rubano” habitat agli elefanti.

    Crisi climatica

    La Namibia autorizza gli abbattimenti di elefanti, zebre e altri animali per affrontare fame e siccità

    di Giacomo Talignani

    29 Agosto 2024

    L’unico elemento positivo emerso dallo studio è che, nonostante il dato globale evidenzi molto chiaramente il calo demografico, nei siti in cui sono state messe in atto azioni di protezione e conservazione si è osservato un andamento opposto, il che sostiene l’idea che sforzi di questo tipo possano effettivamente cambiare le cose. Mentre nei siti dell’Africa settentrionale e centrale – principalmente in Mali, Ciad e Nigeria – si è registrata una diminuzione particolarmente significativa del numero degli elefanti, in molti siti dell’Africa meridionale le popolazioni sono aumentate fino al 42%.

    “È un vero successo, in particolare i dati osservati in Botswana, Zimbabwe e Namibia, nazioni i cui governi hanno gestito in maniera più attenta e attiva la questione”, ha concluso Whittmayer. “Gli elefanti non sono soltanto una delle specie più intelligenti sul pianeta, ma hanno anche un ruolo incredibilmente importante negli equilibri degli ecosistemi africani, soprattutto per il loro ruolo nella dispersione dei semi: alla loro sopravvivenza è legata la sopravvivenza di molte altre specie”. LEGGI TUTTO

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    Sandro Greblo: “La mia vita da rider in cargobike”

    Pedalare come scelta, anche per lavoro. È l’esperienza raccontata in Vita da cargobike (ed. Meravigli) da Sandro Greblo, corriere in bicicletta della startup di delivery sociale So.De. Un diario di bordo che fotografa la incontri con le persone, Milano vista da due ruote, con idee e riflessioni tra una pedalata e l’altra. E soprattutto una tetsimonianza che oggi delivery etico, ai tempi della Gig Economy, è possibile.

    Qual è il ruolo della sostenibilità nel suo percorso di crescita?
    “La mia infanzia è stata quella di un bambino fortunato perché, oltre ad avere una famiglia sempre molto presente, sono cresciuto nel quartiere Milano 2: è stato pensato per separare i percorsi di pedoni, ciclisti e auto e pertanto un esempio illuminato per gli anni Settanta. La sostenibilità l’ho scoperta lì forse, ma allora il tema non era ancora così presente nell’agenda pubblica, l’ho scoperto ben più tardi, dai primi anni 2000”. LEGGI TUTTO

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    Due sorelle e una startup: “Trasformiamo gli scarti tessili in idee sostenibili”

    In dialetto brianzolo “pulvera” significa “polvere”. Per questo Eleonora e Beatrice Casati l’hanno scelta per battezzare la loro startup che sfrutta la polverizzazione ottenuta dal riutilizzo delle fibre tessili e dei loro avanzi per realizzare materiali innovativi e soluzioni di design. “Siamo cresciute – spiega Eleonora Casati- in Brianza, tra Monza e Lecco, circondate dalla natura e dalla tranquillità della campagna. I nostri ricordi d’infanzia sono legati a paesaggi verdi, agli animali e alle lunghe passeggiate. Ultime di quattro fratelli, ci divertivamo spesso a immaginare il nostro negozio, ci piaceva sognare di avere un piccolo spazio tutto nostro o a pensare a come sarebbe stata la nostra casa ideale in campagna. La passione per la natura ha radici anche nella nostra famiglia: nostra madre adorava gli oli essenziali, mentre nostro padre, con il suo pollice verde, trovava sempre un momento per piantare fiori in giardino, soprattutto rose inglesi. La natura era per lui un rifugio sicuro, un modo per allontanarsi dalle preoccupazioni. L’amore e il rispetto per l’ambiente ci è stato trasmesso e oggi sentiamo forte il legame con il nostro territorio, che cerchiamo di valorizzare e proteggere ogni giorno.”

    Il riuso dei materiali tessili parte da lontano, grazie all’idea del bisnonno Celso Casati. “Erano gli anni Quaranta – continua Beatrice Casati – quando da disegnatore presso la Tessitura Perego di Renate, spinto dalla curiosità e dalla creatività, portò a casa con sé alcuni scarti della cimatura del velluto della stessa fabbrica tessile. Applicò quella polvere ai paralumi che disegnava lui stesso, per regalare loro una struttura tridimensionale e un e?etto più chic: aveva scoperto le potenzialità della polvere ottenuta dalla lavorazione di fibre di vario tipo e, insieme a suo figlio Angelo Angelo, nostro nonno, creò la Casati Flock & Fibers nel 1952.

    Pulvera, invece, si propone ai brand che non hanno tempo, strumenti o idee su come riutilizzare i propri scarti tessili e fornisce loro la soluzione. La polvere di scarto può essere utilizzata nella produzione di carta, plastica e in altri settori, non come semplice rivestimento tradizionale, ma come materiale da incorporare direttamente negli impasti per la creazione di nuovi composti, spesso riducendo la quantità di materiali vergini”.

    Il nostro obiettivo è quello di ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile fornendo soluzioni creative e concrete. Crediamo che, unendo le forze, sia possibile ripensare il sistema produttivo in chiave circolare, offrendo soluzioni concrete che rispondano alle esigenze ambientali e che contribuiscono a costruire un futuro più sostenibile per l’intero settore.

    Tra i progetti di design delle sorelle Casati c’è Cremino, un pouf sostenibile. “Nasce – racconta Eleonora Casati- dalle cover tessili dei materassi destinati alla discarica. Questi materassi, che sarebbero avviati a essere inceneriti, vengono invece riciclati per realizzare una seduta a strati che ricorda il famoso cioccolatino. La base, la parte fondamentale, è un agglomerato di scarti di cover di materassi polverizzate: sono recuperate, sanificate, sfilacciate e successivamente polverizzate. Il risultato è una polvere che assomiglia a batuffoli, il cui colore grigio-azzurro deriva dagli scarti stessi. L’idea del progetto Cremino è quella di dimostrare come da un oggetto di scarto, un materasso, si possa ottenere a qualcosa di nuovo senza dover sfruttare ulteriori risorse e materiali”.

    Eleonora e Beatrice Casati, con il pouf ottenuto da Pulvera tramite il riuso degli scarti tessili  LEGGI TUTTO