Non solo gattini e cani: per la conservazione della fauna selvatica i social network contano
Siamo invasi da gatti e gattini sul web: i felini di casa piacciono. Studiare il fenomeno può essere interessante sotto diversi punti di vista. Può essere un’occasione per comprendere un po’ le dinamiche che regolano i nostri comportamenti digitali, ma le ripercussioni possono spingersi ben oltre. Gatti e parenti felini infatti possono insegnarci anche a prenderci cura dell’ambiente. Ne sono convinte Gabriella Leighton e Laurel Serieys dell’Università di Cape Town, secondo le quali vale la pena scommettere su alcuni animali particolarmente “carismatici” online per salvarli offline, nel loro ambiente naturale. Soprattutto quando questo è sotto la minaccia dell’espansione urbanistica, scrivono dalle pagine di Environmental Communication.
Il loro è in parte il resoconto di un progetto (Urban caracal) nato dieci anni fa in Sudafrica, nella penisola del Capo, inizialmente con lo scopo di studiare l’ecologia del felino africano caracal, poi divenuto l’occasione anche per capire qualcosa di più sulla comunicazione in fatto di strategie di conservazione, spiegano le esperte. Il caracal è un grosso felino ed è un animale piuttosto elusivo, ricorda il sito del progetto, studiato in maniera indiretta per lo più grazie a radiocollari e alle analisi compiute sugli esemplari rinvenuti morti. Somiglia moltissimo al gatto e questo sarebbe il suo punto di forza a detta delle autrici.
Vale per le profondità dell’oceano, vale per le foreste del mondo: c’è ancora una marea di specie che gli esseri umani non conoscono. Se parliamo di piante vascolari – quelle con radici, fusto e foglie – gli scienziati stimano che esistano almeno 100mila specie di piante non ancora scoperte. Tenendo conto dell’attuale perdita (costante) di biodiversità, riuscire a identificare dove queste piante potrebbero essere – in modo da studiarle e proteggere – un’azione cruciale, anche per preservare la varietà genetica che la natura ci offre. Già, ma dove bisogna cercare? A dircelo è uno studio internazionale portato avanti dai ricercatori del Royal Botanic Gardens di Kew.
Attraverso l’analisi dei dati e grazie a test in grado di individuare le carenze di dettagli geografici e tassonomici, gli esperti hanno individuato 33 “darkspot”, sorte di zone oscure alla scienza che potrebbero essere ricche di diversità ma che non sono ancora state indagate. Queste aree potrebbero infatti contenere “la maggior parte delle specie non descritte e non ancora registrate”. La maggior parte di questi darkspot, scrivono i biologi, si trovano all’interno di Nuova Guinea, Colombia, Myanmar, Perù, Filippine e Turchia. In questi Paesi – con altri indicati come possibili che vanno dal Madagascar sino alla Bolivia – bisogna concentrare gli sforzi per “comprendere le carenze di conoscenza tassonomica e geografica, un atto fondamentale per dare priorità ai futuri sforzi di raccolta e conservazione”. Nel dettaglio gli esperti ricordano che molti di questi luoghi in cui cercare sono anche hotspot della biodiversità, ovvero aree del pianeta ricche di vita ma minacciate di distruzione. La maggior parte dei 33 darkspot si trova nell’Asia tropicale (in almeno 14 zone dal Vietnam fino all’Himalaya), 8 sono invece in Sud America e altre 8 nell’Asia temperata (dall’Iran al Kazakistan), 2 in Africa (Madagascar e province del Capo) e uno in Nord America (Messico sud-occidentale). Ci sono decine di specie ogni anno che vengono scoperte. Esemplari come la palma del Borneo che è in grado di fiorire sotto terra, oppure particolari orchidee, o ancora piante endemiche come quelle individuate lo scorso anno in Abruzzo o Sardegna.
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Per trovarne altre, i botanici hanno però bisogno di indicazioni, proprio come quelle contenute nello studio pubblicato sulla rivista New Phytologist. Coordinate che potrebbero aiutare a individuare specie utili per esempio nel mondo della farmaceutica e la medicina, ma anche quello dell’energia (carburanti) o della cosmesi. “Dobbiamo proteggere il 30% del Pianeta entro questo decennio secondo gli attuali obiettivi delle Nazioni Unite, ma non sappiamo quali aree proteggere se non abbiamo le giuste informazioni” ha spiegato il direttore scientifico del Kew, il botanico Alexandre Antonelli. “Precedenti ricerche – aggiunge – hanno dimostrato che i biologi non sono stati particolarmente efficienti nel documentare la biodiversità. Siamo tornati negli stessi posti più e più volte e abbiamo trascurato alcune aree che potrebbero contenere molte specie”.
Esplorazioni, quelle necessarie, che includono però una lotta contro il tempo: accelerare il tasso di scoperte delle piante è infatti necessario perchè all’attuale ritmo di identificazione molte specie, anche per gli impatti della crisi del clima e delle azioni antropiche, rischiano di estinguersi ancor prima di essere note alla scienza. Una corsa che – si spera – potrebbe essere rafforzata dalle decisioni che verranno prese prossimamente a Cali, in Colombia, dove si terrà la Cop16 sulla biodiversità. Come ricorda Samuel Pironon, docente di biologia alla Queen Mary University di Londra e autore dello studio, “tutti i Paesi hanno concordato di preservare e ripristinare la biodiversità, inclusa quella vegetale. Ma come possiamo farlo se non sappiamo di quali specie stiamo parlando o qual è la biodiversità e dove possiamo ripristinarla?”.
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Ecco perché il nuovo studio, nella sua funzione di mappa che indica i darkspot, potrebbe risultare estremamente importante, anche se servirebbe una mano in più: quella dei cittadini. Secondo i biologi infatti chiunque, appassionato di natura, senza raccogliere le specie, può però segnalarle e fotografarle: condividere dati nelle tante piattaforme di citizen science è un gesto prezioso, “una grande opportunità per rafforzare le partnership tra scienziati e cittadini. Le persone scattano foto di piante che ritengono possano essere interessanti per il resto del mondo e gli scienziati sono fondamentali perché aiutano a identificare quelle specie” dice Pironon.
Il bilancio del progetto, avviato nel 2014, a loro detta infatti sarebbe più che positivo. La popolarità del caracal infatti da allora è cresciuta, più per esempio del servàlo, un altro felino selvatico africano (91% di crescita nelle ricerche online, contro il 76%), ma anche i canali social nati a sostegno del progetto hanno avuto un discreto successo, raggiungendo milioni di persone, scrivono Leighton e Serieys, e generando interesse per approfondimenti su altri media. Degno di nota, proseguono, anche l’interesse internazionale generato dal progetto, con utenti da tutto il mondo.
Tutto questo secondo le esperte conferma, ancora una volta, le potenzialità dei social come strumento di comunicazione scientifica, ma non solo. L’aspetto più interessante sta nella capacità del progetto di generare curiosità nel pubblico, stimolando report da parte dei cittadini (per esempio di avvistamenti o ritrovamenti), utili come attività di citizen science ma in generale utili soprattutto ad aumentare la popolarità del caracal. Con ricadute positive sulla conservazione delle specie in natura, disseminando i risultati delle attività di ricerca portate avanti sul caracal. Un esempio? Studiando le carcasse degli animali deceduti, i ricercatori hanno scoperto che gli avvelenamenti accidentali (con veleno per topi) o l’esposizione ai pesticidi, dopo gli incidenti, sono una delle minacce maggiori per questo felino selvatico. Farlo sapere al pubblico, generando discussione in materia, magari attraverso i popolari canali social, potrebbe aiutare a preservare questo animale (ed altre specie).
Ma non dimentichiamo che parliamo di un felino, fondamentale per le esperte. “Il successo e l’attrattiva del progetto derivano probabilmente dal fenomeno dei ‘gatti su Internet’ – riconoscono le autrici – Utilizzare una specie che piace, come il caracal, è un modo efficace per catturare l’attenzione del pubblico e comunicare l’importanza di preservare la fauna selvatica urbana”. Soprattutto, e concludono, nelle aree in rapida urbanizzazione. LEGGI TUTTO