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    Dall’Australia il primo foie gras coltivato in laboratorio

    Dai laboratori di una start up australiana il primo foie gras prodotto con carne coltivata. Si chiama forged gras, questo prodotto alimentare sbarcato sulle tavole dei ristoranti di Singapore e Hong Kong, per mano dell’azienda Vow, direttamente dall’Australia.

    Il foie gras – pietanza da sempre controversa, che divide i palati, chi ha a cuore la salute degli animali e non è venduto da tutti i centri di distribuzione – infatti, si produce con il fegato di anatre e oche, che vengono nutrite con un’alimentazione forzata per ingrassare. Una pratica crudele. Da qui l’idea dell’azienda australiana che ha messo a tacere ogni problema etico sul metodo di allevamento, producendo foie gras partendo dalle cellule di quaglia giapponese, ma mantenendo la consistenza del fegato ingrassato.

    Il foie gras coltivato
    Ma cosa significa carne coltivata? Le cellule di quaglia giapponese sono coltivate in un bioreattore per 79 giorni, fatte sviluppare, dopodiché sono combinate con grassi vegetali, proteine di fave e aromi naturali per ricreare il sapore del vero foie gras, prodotto di lusso, che resta tale anche nella versione australiana. Questo prodotto peculiare della cucina, per ora è disponibile solo in ristoranti di alta cucina e solo nelle metropoli asiatiche di Singapore e Hong Kong, tra i pochi mercati dove si può mangiare la carne coltivata in laboratorio. L’azienda di Sydney ha puntato su mercati elitari, in cui ci sono clienti disposti a spendere cifre elevate per un piatto a base di foie gras.

    Quanto? La carne coltivata in laboratorio può costare costi tra 68 e 10.000 dollari ogni 450 grammi a seconda del metodo di produzione, che ovviamente non piò contare su un’economia di scala, oltre al fatto che il terreno di coltura per far crescere le cellule in un ambiente controllato, ha costi nell’ordine dei 400 dollari al litro, motivo che ha spinto i produttori di carne da laboratorio ad un insieme di cellule coltivate e ingredienti vegetali.

    In verità, la Vow, che non svela il costo del suo foie gras, comunque nell’ordine di centinaia di dollari al kg, non guarda al mercato di massa, ma per grandi hotel e ristoranti di lusso che per motivi etici intendono eliminare il foie gras dal menù, ma non chi ne apprezza il gusto.

    Nel frattempo se l’Australia può produrre carne coltivata, in Europa la situazione è ancora indefinita e non mette tutti gli stati d’accordo; eppure recentemente una startup francese, Gourmey, aveva presentato la prima richiesta di autorizzazione per produrre il foie gras coltivato in Europa, ma il vecchio continente ha un iter normativo piuttosto laborioso e lungo di circa 18 mesi, che prevede (giustamente) una rigorosa valutazione della sicurezza alimentare da parte dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare. Ma se l’impresa francese ricevesse il semaforo verde dalle istituzioni europee, allora il foie gras coltivato potrebbe diventare una valida alternativa a quello tradizionale e farsi strada in Europa, anche se il nostro paese (insieme ad altri 11) non approva la carne coltivata, equiparata al cibo sintetico.

    L’Europa, divisa sulla questione, ritiene di dover approfondire questa nuova tecnologia alimentare. Intanto nella vicina Svizzera, invece, è stata avviata una richiesta per fermare l’importazione di foie gras, e di tutti quei prodotti ottenuti con l’alimentazione forzata, anche se il Governo della Confederazione ha fatto sapere che questo limiterebbe la libertà di scelta e dei consumatori e non rispetterebbe gli accordi internazionali. LEGGI TUTTO

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    Solo il 13% delle compagnie aeree ha un piano green e sceglie carburanti sostenibili

    I voli aerei rischiano il bollino nero della sostenibilità. Vi sono almeno due indizi che lo lasciano intendere. Il primo è che secondo la nuova classifica di T&E – l’organizzazione europea che raccoglie le organizzazioni non-governative che operano nel settore dei trasporti e dell’ambiente – l’87% delle compagnie aeree non ha ancora un piano per la transizione verde e per l’adozione di carburanti sostenibili per l’aviazione (SAF).

    Il secondo è che a partire dal 2025 entrerà in vigore un’etichetta Ue che indicherà le prestazioni ambientali dei voli: nello specifico l’impronta di carbonio per passeggero e l’efficienza di CO2 per chilometro. Insomma, i passeggeri per la prima volta potranno confrontare le prestazioni ambientali di ogni compagnia sulle stesse rotte.

    Gli specialisti di T&E hanno stilato una classifica sulla base di tredici parametri, fra cui gli obiettivi di adozione di SAF e tipologia e volumi dei carburanti, riduzione delle emissioni conseguite, obiettivi specifici per l’uso di cherosene sintetico o l’esistenza di accordi di off-take (legale impegno di acquisto) per il cherosene sintetico. Da sottolineare che i SAF rispetto al comune combustibile fossile impiegato, il cherosene, sono a base rinnovabile, emettono meno CO2 durante il ciclo di vita e riducono altre emissioni nocive come il particolato e lo zolfo. Fra questi carburanti green, secondo le più recenti norme Ue, rientrano: alcuni sintetici come l’e-cherosene (anche riciclati prodotti dai gas di scarico e dai rifiuti di plastica); biocarburanti prodotti da residui agricoli o forestali, alghe, rifiuti organici, olio da cucina esausto o alcuni grassi animali; idrogeno rinnovabile.

    Air France-KLM, United Airlines e Norwegian sul podio
    “Appena 10 delle 77 compagnie aeree valutate stanno facendo sforzi concreti per sostituire il cherosene fossile; mentre le restanti 67 compagnie aeree prevedono di adottare il tipo sbagliato di SAF, oppure di acquistarne quantità insufficienti – o addirittura nulle – nei loro piani di decarbonizzazione”, sottolinea il documento. Sul podio ci sono Air France-KLM, United Airlines e Norwegian, che devono i loro buoni punteggi non solo a strategie di transizione ma l’adozione crescente di e-cherosene o di biocarburanti avanzati. Ad esempio Air France-KLM punta a impiegare il 2% di SAF nel 2025 e il 10% entro il 2030. Fra le tante compagnie senza piani di transizione c’è ITA Airways, e in tal senso i dati al riguardo sono un po’ disarmanti: troppi zero nelle colonne del database analitico. LEGGI TUTTO

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    Restare al chiuso non salva dall’inquinamento: lo studio

    Uno studio condotto dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo sostenibile (Enea) e dall’ Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima (Cnr–Isac) in collaborazione con gli atenei Sapienza di Roma e Milano-Bicocca rilancia il tema dell’inquinamento indoor in termini di ricadute per la salute.

    La ricerca, pubblicata su Science Direct – Environmental Pollution impone una riflessione: il particolato fine (MP 2.5) e quello ultrafine (PM 0.1), originato dal traffico urbano, si infiltrano negli ambienti chiusi e hanno un impatto su diverse malattie, tra le quali quelle cardiache e quelle tumorali.

    Gli ambienti chiusi non sono per forza di cose più sicuri di quelli all’aperto e considerando che, in media, chi vive nei centri urbani passa il 97% del proprio tempo in ambienti indoor, è ampiamente esposto ad agenti inquinanti che provengono tanto dall’esterno (soprattutto il traffico e i fumi dei riscaldamenti) quanto dall’interno come, per esempio, il fumo di tabacco, i prodotti per la pulizia e la cottura di cibi. In parole semplici, chi è convinto che rimanere in luoghi chiusi sia più salutare di rimanere all’aperto, deve ricredersi.

    Lo studio italiano che rilancia il dibattito
    L’obiettivo della ricerca è quello di comprendere quale effetto hanno le particelle fini e ultrafini sulla regolazione genica e sulla metilazione del DNA delle cellule epiteliali bronchiali. Francesca Costabile dell’Istituto di scienze dell’Atmosfera e del clima, una tra le ricercatrici che hanno collaborato all’indagine, spiega: “Lo studio ha permesso di stabilire che, nelle città Europee, l’inquinamento dell’aria indoor può avere effetti avversi sulla salute al pari dell’inquinamento outdoor. È emerso che l’aerosol atmosferico generato dal traffico veicolare urbano, infiltrandosi nelle aule, in condizioni atmosferiche avverse (quali bassa pressione, pioggia, vento), può subire modifiche importanti delle sue proprietà. Tali modifiche possono aumentarne il potenziale di generare stress ossidativo, infiammazione, danno al DNA, e metabolismo degli xenobiotici. Tutti questi sono i meccanismi alla base dello sviluppo delle cosiddette malattie non trasmissibili, fra le quali le malattie cardiovascolari, neurologiche e il cancro”.

    In sintesi, aggiunge Costabile: “non basta chiudere le finestre per limitare gli effetti avversi sulla salute associati all’esposizione ad aria inquinata dell’ambiente urbano”. Non è il caso di cedere all’allarmismo ma è il momento di agire. Infatti, conclude la scienziata: “La ricerca ha rivelato che l’aria esterna, inquinata dalle emissioni da traffico veicolare urbano, infiltrandosi dall’esterno verso l’interno, può diventare la sorgente di tossicità potenzialmente più preoccupante negli ambienti indoor delle città europee. Di conseguenza, gli strumenti di mitigazione devono guardare essenzialmente alla riduzione delle emissioni da traffico veicolare urbano”.

    Le soluzioni per ridurre le polveri sottili
    Le misure da attuare per contrastare il fenomeno sono diverse e di differente ordine. La riduzione delle particelle ultrafini è la soluzione più efficace ed è possibile soltanto con il lavoro congiunto della politica e dell’industria. Il primo pensiero va alla promozione delle energie rinnovabili e alla sostituzione progressiva dei veicoli a combustione favorendo anche il ricorso al trasporto pubblico, oltre a politiche che leniscano le missioni industriali e sulle quali l’Ue sta già lavorando.

    Occorre anche agire sul piano urbanistico e, anche in questo caso, lavorando su più fronti: l’uso di materiali che contengano l’usura dei manti stradali complici nella produzione di particelle secondarie ma anche rinvigorendo la vegetazione urbana, capace di assorbire le polveri sottili e di migliorare la composizione dell’aria rilasciando ossigeno.

    Qualità dell’aria: il monitoraggio

    I sistemi di monitoraggio ambientale vanno di pari passo con le normative. Governi e autorità tendono a concentrarsi di più su PM10 e PM2.5, è quindi opportuno che si sviluppino standard di qualità dell’aria tenendo conto anche dei PM0.1.

    I singoli individui e le imprese possono optare per sistemi di filtraggio Hepa e Ulpa i quali, in alcune versioni specifiche, sono in grado di intercettare anche i PM0.1. Queste misure si rifanno a ciò che lo studio sottolinea e sollecita, ossia la necessità di norme e regolamenti per la qualità dell’aria che respiriamo anche all’interno degli edifici. LEGGI TUTTO

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    Lanciata una petizione per il Tagliamento: “Salviamo il re dei fiumi alpini”

    È l’ultimo grande fiume d’Europa centrale che scorre liberamente. Per 178 chilometri, dalle Dolomiti al mare Adriatico, sul litorale friulano. Il Tagliamento è il re dei fiumi alpini, che non solo conserva il suo corso originario (l’intervento invasivo dell’uomo è stato quasi nullo), ma il suo ecosistema, proprio grazie a queste caratteristiche viene studiato da ricercatori di università europee e statunitensi. Come quella di Erfurt che organizza ogni anno settimane di studio le “Alpine Rivers Conferences”. Un patrimonio ambientale non solo per l’Italia, preso a modello per gli interventi di ri-naturalizzazione. Al punto che il bacino del Tagliamento è candidato a ricevere il riconoscimento di “Riserva della biosfera dell’Unesco”. LEGGI TUTTO

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    Così il lupo in Europa torna a essere un bersaglio

    Il Comitato permanente della Convenzione di Berna ha votato a favore del declassamento dello status di protezione del lupo, portando la specie da “rigorosamente protetta” a semplicemente “protetta”. Una decisione che va contro il parere degli esperti e della scienza, ci riporta indietro di mezzo secolo e apre una strada pericolosa per il futuro della […] LEGGI TUTTO

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    Bonsai quercia, il segreto è nelle radici

    Molto resistente, il bonsai quercia mantiene le caratteristiche originarie dell’arbusto, conservando il suo fascino e la sua possenza in un albero di piccole dimensioni. La sua cura può non essere affatto semplice, richiedendo particolari accorgimenti ma, con le giuste azioni anche chi è alle prime armi riuscirà a coltivare il bonsai quercia, ampiamente usato a scopo ornamentale.

    Bonsai quercia e la coltivazione: cosa sapere
    Coltivare il bonsai quercia può non essere affatto semplice, dovendo prestare la massima attenzione ad aspetti come la potatura, l’esposizione, l’annaffiatura e il substrato, che dovrà essere bilanciato in modo perfetto. Come primo passo è necessario munirsi dei semi dell’albero di quercia, raccogliendoli dalla pianta madre oppure acquistandoli, immergendoli poi nell’acqua per 24 ore, per migliorare la loro germinazione. In alternativa, si può ricorrere a una pianta giovane di quercia.

    Un aspetto cruciale è la scelta del vaso in cui si collocherà il bonsai quercia, visto che deve avere dimensioni tali da contenere le radici dell’albero, evitando di soffocarle. Inoltre, è necessario scegliere un recipiente dotato di fori di drenaggio in modo tale da consentire il defluire dell’acqua in eccesso. Dal punto di vista del terreno, il substrato deve essere in grado di favorire la crescita delle radici e garantire il drenaggio dell’acqua, scongiurando i ristagni idrici responsabili del marciume delle radici. Si può ricorrere a un mix di sabbia, materiale organico e argilla oppure, in alternativa, acquistare un terreno per il bonsai.

    Per la germinazione dei bonsai è necessario posizionare i semi in un sacchetto di plastica con del terriccio umido, per poi lasciarli in frigo per 4-6 settimane, operazione che consente di simulare le condizioni invernali richieste dai semi di quercia per la germinazione. Dopo questa fase si può procedere piantando i semi, impiegando ogni 2 settimane del fertilizzante e assicurandosi che le piantine di quercia siano protette dai venti forti e che l’ambiente sia umido, ma non sia presente dell’acqua stagnante.

    Bonsai quercia: come intervenire su rami, radici e tronco
    Un elemento centrale per la realizzazione del bonsai è il tronco, che deve essere lavorato con attenzione per dargli l’aspetto desiderato. Sono diversi i metodi con cui intervenire, come per esempio la potatura selettiva, con cui eliminare i rami laterali, in modo tale da far risaltare il tronco principale. Inoltre, si può ricorrere a un filo di alluminio oppure di rame per modellare il tronco, facendo sì che abbia una forma armoniosa: per ottenere il risultato desiderato è necessario armarsi di pazienza e lavorare il tronco più volte nel corso delle diverse stagioni. Nel tempo i fili di modellatura vanno regolati per scongiurare eventuali lesioni o danni del tronco.

    Altro aspetto da non sottovalutare sono le radici del bonsai quercia, che gli conferiscono stabilità: nel processo di formazione dovranno essere modellate e ridotte, facendo in modo che il sistema radicale sia armonioso e anche compatto. Le radici possono rappresentare una sfida nella cura del bonsai visto che crescono molto rapidamente, invadendo tutto lo spazio a disposizione nel vaso e finendo per compromettere la salute del bonsai. Le radici possono essere potate, rimuovendo delle porzioni allo scopo di ridurre la loro massa: questa operazione va eseguita con attrezzi da potatura ad hoc. Inoltre, si può usare un substrato specifico per la crescita corretta delle radici. Con lo scorrere del tempo è importante tenere monitorato il bonsai, controllando le radici, potandole quando necessario, e il tronco, pulendolo regolarmente.

    Quando il bonsai ha raggiunto una dimensione adeguata, si procede modellando anche la sua chioma, intervenendo sulle ramificazioni: stabilito il numero di rami da tenere, eliminando quelli morti oppure deboli, si ricorre ai fili di alluminio per conferirgli la direzione desiderata. Nel processo di modellazione della chioma è necessario tenere conto della crescita naturale dell’albero, equilibrando la distribuzione dei rami, in modo tale da dare al bonsai una forma armoniosa.

    Bonsai quercia e l’esposizione
    Per quanto riguarda l’esposizione, il bonsai quercia richiede un luogo soleggiato durante tutto il periodo della primavera e dell’autunno, potendo essere collocato all’esterno, essendo estremamente resistente. Tuttavia, con l’arrivo della stagione estiva è opportuno spostarlo all’ombra, in quanto le sue radici trovano conforto quando le temperature sono più fresche, mentre in inverno è necessario coprirlo nel momento in cui il clima diventa rigido.

    Altro aspetto al quale prestare attenzione è rappresentato dall’annaffiatura, visto che il terreno deve essere sempre umido, ma mai troppo bagnato. Un eccesso d’acqua favorisce la comparsa dell’oidio, fungo anche noto come mal bianco, che si presenta sulle foglie sotto forma di polvere marroncina oppure bianca. Se l’eccesso d’acqua è un nemico del bonsai quercia, lo è anche la sua assenza: in particolare, in estate le annaffiature devono essere più frequenti. Qualora toccando con un dito il terreno questo risulti asciutto è necessario dare da bere al bonsai: per mantenere il terreno umido in modo uniforme e costante si può ricorrere a un sottovaso. Per irrigare la pianta è necessario munirsi di un soffione a piccoli pori.

    Bonsai quercia: cosa c’è da sapere
    Un intervento fondamentale nella cura del bonsai è quello della potatura, operazione da eseguire durante l’inverno, tagliando i rami che si incrociano e quelli che crescono in modo verticale. Una volta eseguita, si procede medicando il bonsai con della pasta cicatrizzante. La defogliazione, da eseguire nel corso della bella stagione, riguarda invece solo le foglie e consente di ottenerne di più piccole e proporzionate.

    Nella cura del bonsai anche la pinzatura è molto importante: si tratta di un’operazione, da effettuare ogni 3 mesi, con cui arrestare lo sviluppo dei germogli e mantenere l’albero compatto. Questo intervento può essere effettuato con delle pinzette oppure direttamente con le dita, meglio se durante la primavera quando i germogli sono al loro primo stadio vegetativo.

    Ogni 2 anni si procede effettuando il rinvaso del bonsai quercia, tra novembre e marzo, per poi occuparsi della concimazione con fertilizzanti specifici, da svolgere ogni 3 settimane nel corso della stagione della primavera e tra l’estate e l’inizio dell’autunno, interrompendola durante la dormienza invernale. Nella cura del bonsai quercia ci si può trovare ad affrontare parassiti, come gli afidi, e malattie, dovendo intervenire prontamente con soluzioni ad hoc e mettendo in campo strategie per prevenire queste problematiche. Tra queste è cruciale garantire la corretta igiene del bonsai, eliminare le foglie cadute, fornire il nutrimento adeguato e verificare che siano presenti la giusta esposizione alla luce e una buona circolazione dell’aria. LEGGI TUTTO

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    Crisi climatica e aiuti ai paesi vulnerabili: un processo storico alla Corte di Giustizia dell’Aia

    Ci sono isole, come Carteret islands in Papua Nuova Guinea, dove gli abitanti si stanno già trasferendo in zone più sicure portando a bordo delle canoe – usate come un’arca di Noè – persino piante e semi. Altre, come le Maldive, dove si stanno costruendo arcipelaghi artificiali resilienti dove sopravvivere e altre ancora, come Vanuatu, dove l’innalzamento dei livelli del mare è talmente evidente da far progettare traslochi di massa. Le isole del mondo, soprattutto quelle del Pacifico, sono in estrema sofferenza per la crisi del clima: sono minacciate dai livelli del mare, dall’acidificazione degli oceani, dagli eventi meteo estremi e persino da terreni che diventano “salati” e incoltivabili. Per questo, attraverso un grido d’allarme globale, da anni tentano di avere risposte per il futuro. Una prima fondamentale risposta ai loro problemi potrebbe finalmente arrivare da quello che è definito come “il caso più importante” che dovrà esaminare la Corte internazionale di Giustizia su spinta della Corte suprema delle Nazioni Unite che porta il caso all’Aia dopo la pressione esercitata dalle isole. Oggi infatti all’Aia si aprirà la prima udienza, di un caso destinato a durare per settimane, che avrà come questione centrale la definizione su ciò che i Paesi di tutto il mondo, e in particolare quelli ricchi, sono tenuti a fare per combattere il cambiamento climatico.

    Il tribunale dell’Aia ascolterà 99 Paesi e più di una dozzina di organizzazioni intergovernative e alla fine nel corso del 2025 emetterà una sentenza non vincolante ma in grado di dettare la linea politica per molti Stati, una sentenza che potrebbe aiutare in particolare le nazioni vulnerabili e soprattutto le piccole isole a combattere l’impatto devastante del riscaldamento globale.

    Cambiamento climatico

    Meteo estremo, in Spagna introdotto il “congedo climatico”: 4 giorni di ferie retribuite

    di  Giacomo Talignani

    29 Novembre 2024

    Proprio le nazioni insulari, che rischiano di scomparire a causa dell’innalzamento del mare, lo scorso anno avevano portato l’Assemblea generale dell’Onu a chiedere alla Corte di giustizia un parere sugli “obblighi degli Stati in materia di cambiamenti climatici”. Con il livello del mare che si è innalzato fino a una media di circa 4,3 centimetri le isole del Pacifico sostenevano che non c’è più tempo da perdere: servono azioni immediate e risposte concrete e condivise, affermano stati come Vanuatu che fa parte di un gruppo di piccole isole che spingono per un intervento legale internazionale sulla crisi climatica. Quella in cui sperano, non essendo vincolante, è soprattutto una vittoria simbolica, una sentenza che possa ribadire la necessità – da parte soprattutto delle nazioni più ricche – di agire per aiutare i Paesi in difficoltà, un verdetto che servirebbe anche a rafforzare le richieste – di trilioni di dollari – da parte dei Paesi meno sviluppati durante le Cop, le conferenze delle parti sul clima.

    Mai finora all’Aia il tribunale ha affrontato una causa di tale portata, con quasi cento stati coinvolti: si tratta della più grande partecipazione nei quasi 80 anni di storia dell’istituzione. “Per la nostra generazione e per le isole del Pacifico, la crisi climatica è una minaccia esistenziale. È una questione di sopravvivenza e le maggiori economie mondiali non stanno prendendo sul serio questa crisi. Abbiamo bisogno della Corte internazionale di giustizia per proteggere i diritti delle persone in prima linea” ha spiegato Vishal Prasad, rappresentate degli Studenti delle Isole del Pacifico, una delle associazioni coinvolte nel caso. Le domande centrali a cui i giudici dell’Aia dovranno dare una risposta sono due: cosa sono obbligati a fare i Paesi secondo il diritto internazionale per proteggere clima e ambiente dalle emissioni di gas serra di origine antropica? E ancora: quali sono le conseguenze legali per i governi quando le loro azioni oppure la loro inazione danneggia in modo significativo la salute del Pianeta, soprattutto nei piccoli stati insulari in via di sviluppo? “Vogliamo che la Corte confermi che la condotta globale che finora ha rovinato il clima è illegale” ha affermato Margaretha Wewerinke-Singh del team legale che rappresenta Vanuatu.

    Una udienza, quella in corso all’Aia, che inizia poche settimane dopo la conclusione della Cop29 di Baku, in concomitanza con la Cop16 sulla lotta desertificazione di Riad e poche ore dopo la fine (purtroppo negativa) del vertice sul Trattato globale della Plastica. Anche per via di queste tempistiche, dopo negoziati globali che hanno portato a risultati insoddisfacenti, i rappresentanti delle nazioni insulari sperano che la Corte possa dare una vera “scossa” alle battaglie sul clima.

    Finanza climatica

    Cosa prevede l’accordo sui finanziamenti per il clima raggiunto alla Cop29

    25 Novembre 2024

    Alla Cop29 proprio i membri delle nazioni insulari del Pacifico erano rimaste fortemente insoddisfatte per gli accordi finali, quelli in cui si prevede che i paesi più sviluppati forniscano 300 miliardi di dollari all’anno in finanziamenti per il clima entro il 2035 per aiutare le nazioni più povere, una cifra lontana dalle migliaia di trilioni richieste. Vanuatu, Papua Nuova Guinea e altri, si appellano dunque a una risposta forte da parte della Corte internazionale di giustizia perché sarebbe significativa “dal punto di vista politico” e indicherebbe finalmente una volta per tutte un modello su come i Paesi ricchi dovrebbero proteggere l’ambiente dai gas serra dannosi e quali sono le conseguenze se non lo fanno. LEGGI TUTTO