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    Specie di uccelli in declino in Nord America: un segnale per la salute della Terra

    Molte specie di uccelli stanno andando incontro a un forte declino, e, secondo alcuni studi, in Nord America in particolare circa un quarto delle specie nidificanti sarebbe scomparso dal 1970 a oggi. Per poter rispondere all’emergenza e progettare interventi di conservazione efficaci, spiegano gli esperti, è fondamentale capire quali aree nello specifico sono soggette a un declino più marcato. Proprio con questo obiettivo, un gruppo di ricercatori e ricercatrici coordinato da Alison Johnston, del Cornell Lab of Ornithology (Stati Uniti), ha utilizzato un’ampia quantità di dati raccolti dal 2007 al 2021 per valutare le variazioni nelle popolazioni di 495 specie di uccelli che nidificano in Nord e Centro America e nei Caraibi. Dai risultati, pubblicati su Science, è emerso che gli uccelli stanno scomparendo più velocemente proprio dalle zone in cui sono più abbondanti.

    Biodiversità

    La conservazione della natura voluta dalla Ue non compromette le attività economiche

    di Luca Fraioli

    28 Aprile 2025

    I dati, la ricerca, l’analisi
    Gli autori dello studio hanno utilizzato i dati contenuti in ben 36 milioni di checklist pubblicate su eBird, una piattaforma online che raccoglie le osservazioni di volontari appassionati di bird watching. Ogni checklist, spiegano i ricercatori, è in sostanza un elenco di tutti gli uccelli identificati da un volontario in un certo luogo e in un preciso momento. Il team ha poi utilizzato un algoritmo di machine learning per distinguere le effettive variazioni nelle popolazioni degli uccelli dai possibili cambiamenti nel modo in cui sono state effettuate le osservazioni nel corso degli anni. I vari volontari potrebbero infatti aver cambiato il sito dal quale effettuano le osservazioni, o altri parametri che potrebbero aver modificato l’efficienza della loro ricerca.

    Biodiversità

    A tu per tu con una colonia di salpe, le foto nel mare di Portofino

    di Pasquale Raicaldo

    01 Maggio 2025

    L’affidabilità delle stime ottenute dall’analisi di questa grande quantità di dati è stata poi ulteriormente valutata attraverso specifiche simulazioni per ogni specie presa in esame. In questo modo, si legge nella pubblicazione, il gruppo di ricerca è riuscito a quantificare le variazioni in termini di popolazione per la maggior parte delle specie di uccelli nordamericani con una risoluzione spaziale di 27 chilometri.

    Il caso del picchio di Williamson
    È emerso che circa il 75% delle specie prese in esame è in declino, e nell’83% dei casi questo riguarda le aree in cui le specie sono più abbondanti. Un esempio è il picchio di Williamson (Sphyrapicus thyroideus), già considerato vulnerabile e la cui presenza sta diminuendo anche nelle aree in cui storicamente si riscontrava un elevato numero di esemplari. In generale, il declino sarebbe particolarmente pronunciato per gli uccelli che si riproducono nelle praterie e nelle zone aride.

    Ecosistemi a rischio

    In Islanda tra le comunità che combattono i “salmoni zombie”

    dal nostro inviato Giacomo Talignani

    29 Aprile 2025

    Nonostante il trend sia generalmente negativo, dallo studio sono emerse anche alcune aree caratterizzate da una certa stabilità nelle popolazioni di uccelli. Per esempio la catena montuosa degli Appalachi, situata nella parte orientale del Nord America, o altre montagne situate nell’area più occidentale, che potrebbero in qualche modo offrire rifugio alle specie che le abitano. In generale, concludono gli autori, oltre a mostrare il contributo che i progetti di citizen science possono dare alla ricerca, i risultati dello studio forniscono utili spunti per quanto riguarda la pianificazione degli interventi di conservazione, specialmente per la grande quantità di dati presa in esame e per l’elevato livello di dettaglio raggiunto in termini di risoluzione spaziale. LEGGI TUTTO

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    La crisi del clima trasforma la vegetazione nell’Artico

    L’Artico è un hot spot del cambiamento climatico, dove le temperature negli ultimi decenni sono salite quattro volte più velocemente della media globale. In condizioni simili, il paesaggio è destinato necessariamente a modificarsi, con il rischio che vengano compromessi i delicati equilibri sviluppati tra flora e fauna in un ambiente tra i più estremi del pianeta. E in effetti, una nuova ricerca pubblicata su Nature fotografa i profondi cambiamenti a cui è andata incontro la biodiversità vegetale dell’Artico negli ultimi 40 anni, cambiamenti destinati con ogni probabilità ad alterare in futuro il funzionamento degli ecosistemi artici e, di conseguenza, la vita di animali, piante e persone che li abitano.

    Crisi climatica

    Nell’Artico trovata una pianta che normalmente cresce in ambienti più caldi

    di Fiammetta Cupellaro

    27 Febbraio 2025

    Uno dei luoghi più colpiti dalla crisi del clima
    In tutto il mondo, d’altronde, il riscaldamento globale sta stravolgendo il modo in cui le piante crescono, il loro areale di diffusione, quali e quante se ne possono trovare. Difficilmente quindi la situazione potrebbe essere diversa nell’Artide, uno dei luoghi colpiti più duramente dai cambiamenti climatici, e in cui la cui flora è estremamente adattata al freddo intenso e all’avvicendarsi delle stagioni che caratterizzano le zone più settentrionali del nostro pianeta.

    Nonostante le ricerche a riguardo anche in passato non siano mancate, fino ad oggi nessuno aveva fornito un’immagine chiara della situazione. È quello che hanno deciso di realizzare gli autori del nuovo studio pubblicato su Nature: una ricerca che ha esaminato la ricchezza di specie vegetali presenti nell’Artico, e la composizione dei suoi ecosistemi, per verificare come stia cambiando questo territorio di frontiera in risposta ai cambiamenti climatici.

    L’aumento delle temperature e l’Artico è sempre più verde  LEGGI TUTTO

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    La “schiuma” biologica e biodegradabile che elimina i Pfas dall’acqua

    Spuma è sinonimo di schiuma, ma nel mondo dell’innovazione ha i connotati di una startup parigina che aspira a distruggere i PFAS presenti nelle acque. La missione è chiara, ma il percorso non è semplice perché si vuole raggiungere l’obiettivo impiegando esclusivamente un additivo a base biologica, biodegradabile e di grado alimentare. Prima di tutto […] LEGGI TUTTO

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    La Noaa smetterà di monitorare i costi dei disastri causati dalla crisi climatica: “Grave perdita”

    “Dal 1980 al 2024 gli Stati Uniti hanno subito 403 disastri meteorologici e climatici con danni/costi complessivi pari o superiori a 1 miliardo di dollari: il costo totale di questi 403 eventi supera i 2.915 miliardi di dollari”. È l’informazione che apre il sito del Billion-Dollar Weather and Climate Disasters, servizio messo in campo dalla […] LEGGI TUTTO

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    Perché il nuovo Papa Leone XIV potrebbe portare nuova luce nella battaglia climatica

    Riuscirà la nuova luce portata da Papa Leone XIV a far riemerge dal buio la lotta alla crisi climatica oggi oscurata da nuovi squilibri globali? È una domanda che molti ecologisti, ambientalisti e persone attente all’ambiente si stanno ponendo dopo l’elezione del nuovo pontefice Robert Francis Prevost. Ci si chiede infatti se il Papa americano sarà in grado di proporre messaggi che sfidino apertamente le politiche di un altro americano, il presidente Donald Trump, che oggi sta contribuendo ad affossare sempre di più la questione ambientale, negando la crisi del clima e cancellando ogni sforzo fatto finora nel tentativo di fermare le emissioni globali che surriscaldano il Pianeta. La risposta, stando alle posizioni tenute da Papa Leone XIV durante il suo percorso da cardinale, potrebbe essere affermativa: Prevost finora ha sempre appoggiato le politiche ambientaliste di Papa Francesco e il senso di quel Laudato Sì che, già nel 2015, diede una grande spinta positiva alle politiche ambientaliste.

    Da Laudato si’ ai messaggi sulla crisi climatica: papa Francesco paladino dell’ambiente

    21 Aprile 2025

    L’idea è che il nuovo papa continui nella stessa direzione, ma come lui stesso ha affermato nel novembre del 2024, sarà necessario passare dalle “parole ai fatti”. Un passaggio dettato dall’urgenza, anche in termini di quelle disuguaglianze sociali da ridurre che è un tema centrale per la Chiesa.

    Curiosamente, proprio il giorno prima della scelta del nuovo pontefice, su Nature Climate Change è stato pubblicato un nuovo studio di un team di ricercatori internazionali che sostiene come il 10% più ricco del mondo sia oggi responsabile di due terzi del riscaldamento globale dal 1990 ad oggi, un fatto che in passato il neo Papa ha implicitamente condannato parlando della necessità di combattere “azioni tiranniche a beneficio di pochi”.

    La nuova ricerca ci ricorda che in sostanza i ricchi, con la loro impronta di carbonio elevata, sono i principali responsabili della crisi del clima che fra aumento delle temperature e riscaldamento dei mari stanno portando ad eventi estremi e siccità che si traducono poi in fame e povertà in molte aree meno sviluppate del Pianeta. Qualcosa che Papa Leone XIV ha potuto osservare da vicino durante le sue missioni in Perù, terra a cui è molto legato e fra le più colpite dalla crisi del clima, così come in larghe parti del Sudamerica, tra cui l’Amazzonia dove a novembre si svolgerà la COP30, Conferenza delle Parti sul clima che potrebbe prevedere anche un intervento del neo Papa. La stessa ricerca parla, a causa delle emissioni dei ricchi, di disuguaglianze sociali e ingiustizie climatiche, sottolineando come i consumi e gli investimenti dei ricchi abbiano avuto un impatto sproporzionato sugli eventi meteorologici estremi e sulle comunità più povere.

    Proprio su questo tema, con parole chiare, si era espresso solo sei mesi fa l’allora cardinale Robert Francis Prevost. “Il dominio sulla natura non deve diventare tirannico” aveva detto”. Deve essere invece un “rapporto di reciprocità” con l’ambiente, sostenne Prevost.

    Stati Uniti

    La Noaa smetterà di monitorare i costi dei disastri causati dalla crisi climatica: “Grave perdita”

    di Luca Fraioli

    09 Maggio 2025

    Durante il suo discorso l’attuale pontefice aveva infatti sottolineato l’urgenza di passare “dal discorso all’azione” parlando di crisi ambientale, un’azione che richiede una risposta radicata nella Dottrina della Chiesa e spiegò come il “dominio sulla natura” delegato da Dio all’uomo non deve essere “dispotico” dato che egli è “amministratore che deve rendere conto del suo lavoro” in un rapporto di “reciprocità” con l’ambiente. “Per questo, la nostra missione è quella di trattarlo come fa il suo Creatore” aveva detto il neo Papa proprio condannando appunto “azioni tiranniche a beneficio di pochi”, una frase che sembra tuttora puntare il dito proprio contro quella parte ricca di mondo che oggi è responsabile di due terzi delle emissioni globali. Sempre Prevost ha poi sottolineato in passato le possibili conseguenze “nocive” degli sviluppi tecnologici, così come evidenziato esempi di “luce” come quelli portati avanti dalla Santa Sede in termini di sostenibilità ambientale, dall’istallazione di pannelli solari sino ai veicoli elettrici e le energie rinnovabili promosse in Vaticano, simbolo di volontà di una svolta green da parte della Chiesa.

    In questo contesto sarà inoltre interessante capire se ora, da Papa, Prevost si esporrà nuovamente contro le politiche del presidente Usa Donald Trump (in passato lo ha contestato su questioni come immigrazione ed espulsioni di cittadini) anche sul clima. Attualmente Trump, dopo l’uscita degli States dagli Accordi di Parigi, sta rilanciando ogni politica anti-clima, dai tagli alla scienza all’implementazione del fossile, del fracking e perfino del deep mining, il tutto mettendosi in contrapposizione al multilateralismo climatico, quello necessario per trovare una soluzione alla crescita delle emissioni. Un negazionismo e oscurantismo sfrenato che, secondo Gina McCarthy, ex amministratrice dell’EPA (Agenzia per la Protezione Ambientale degli Stati Uniti, farà si che quando Trump se ne andrà “lascerà dietro di sé una scia di devastazione”. Proprio nella contrapposizione a Trump e alle sue politiche negazioniste Papa Leone XIV avrà l’opportunità di mostrare il suo sostegno al Laudato Si’ e all’implemento al percorso lanciato da Papa Francesco a protezione della natura e delle persone più povere al mondo e più colpite dalla crisi del clima. Volendo, un palcoscenico internazionale per farlo, lo avrà già fra pochi mesi quando a novembre, in Brasile, i leader del mondo si riuniranno alla COP30 per tentare di affrontare con forza la questione climatica, magari appunto con il sostegno del nuovo Papa in nome di quel “fatti” e non solo parole che sono dottrina di Leone XIV. LEGGI TUTTO

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    Qual è la durata media di un impianto fotovoltaico

    Quando si decide di installare un impianto fotovoltaico, uno degli aspetti più importanti da considerare è la sua durata nel tempo. Un impianto fotovoltaico è un investimento che può offrire significativi risparmi energetici, ma è fondamentale capire quanto durerà prima di necessitare di interventi di manutenzione o sostituzione di componenti. Vediamo dunque cos’è un impianto fotovoltaico, da cosa è composto, come funziona, quanto costa, come si installa e perché conviene.

    Come (e dove) si installa un impianto fotovoltaico e quanto costa
    L’installazione di un impianto fotovoltaico è un processo che richiede attenzione a diversi fattori. Prima di tutto, è fondamentale scegliere la posizione giusta. I pannelli devono essere orientati verso il sud, con una inclinazione di circa 30-35 gradi, per massimizzare l’esposizione al sole. I tetti delle case, ma anche i terreni privati, sono i luoghi più comuni per l’installazione. L’installazione vera e propria inizia con il montaggio dei pannelli solari sulla struttura di supporto, che deve essere robusta e resistente agli agenti atmosferici. Successivamente, i pannelli vengono collegati al sistema elettrico tramite cavi e inverter, che convertono l’energia solare in elettricità utilizzabile. È importante che l’impianto sia collegato a un sistema di protezione contro i sovraccarichi e i cortocircuiti.

    Infine, l’installazione deve essere effettuata da professionisti certificati per garantire la sicurezza e il rispetto delle normative locali. Un impianto fotovoltaico ben posizionato e installato correttamente, nonostante l’investimento iniziale – il costo medio è di 8.000 euro – offre energia pulita e risparmi sui consumi a lungo termine.

    Cos’è un impianto fotovoltaico e come funziona: i componenti di un pannello
    Un impianto fotovoltaico è composto da più pannelli fotovoltaici. Ogni pannello fotovoltaico è composto da diversi elementi essenziali che lavorano insieme per produrre energia solare. Il componente principale è la cellula fotovoltaica, che converte la luce del sole in elettricità grazie all’effetto fotovoltaico. Le celle sono realizzate in silicio, un materiale semiconduttore molto efficiente. Le celle vengono poi unite in serie o in parallelo per formare un pannello. Il vetro temperato che ricopre il pannello protegge le celle solari dagli agenti atmosferici, garantendo al contempo una buona trasparenza per il passaggio della luce. Sotto le celle, c’è uno strato di film antiriflesso, che riduce le perdite di luce e migliora l’efficienza del sistema.

    Al di sotto delle celle c’è la cornice in alluminio, che rende il pannello resistente e facile da installare. Inoltre, il cavo di connessione e l’inverter (un dispositivo esterno) trasformano l’elettricità continua in corrente alternata, pronta per l’uso domestico o industriale. Ogni parte di un pannello fotovoltaico ha un ruolo preciso nel garantire una produzione di energia solare ottimale e duratura. È bene controllare con costanza tutte le componenti nel tempo per essere sicuri che il pannello continui a lavorare con efficienza e senza problemi.

    La durata dei pannelli fotovoltaici
    La durata media di un impianto fotovoltaico si aggira generalmente tra i 20 e i 30 anni. I pannelli solari, che costituiscono la parte principale del sistema, sono progettati per durare decenni. La loro efficienza diminuisce leggermente nel tempo, ma con una buona manutenzione e condizioni di utilizzo ottimali, i pannelli possono funzionare anche oltre i 30 anni. In media i pannelli fotovoltaici perdono circa 0,5% – 1% della loro efficienza ogni anno. Questo significa che dopo 20-25 anni, i pannelli potrebbero generare circa l’80% dell’energia che producevano inizialmente, mantenendo comunque un buon rendimento. Alcuni produttori offrono garanzie di 25 anni sul rendimento, assicurando che i pannelli non scendano sotto una certa soglia di efficienza.

    Durata degli inverter
    Uno degli altri componenti cruciali di un impianto fotovoltaico è l’inverter, che trasforma l’energia prodotta dai pannelli in corrente alternata utilizzabile in casa. La durata dell’inverter è più breve rispetto a quella dei pannelli fotovoltaici: generalmente è tra i 10 e i 15 anni. A causa dell’usura e della continua operatività, potrebbe essere necessario sostituirlo prima di altri componenti. La durata dell’inverter dipende da vari fattori, tra cui la qualità del modello, la manutenzione e le condizioni ambientali. Un inverter ben mantenuto e di alta qualità può durare più a lungo, ma in generale, è una parte dell’impianto che richiede attenzione periodica.

    Manutenzione e cura dell’impianto fotovoltaico
    Per prolungare la durata di un impianto fotovoltaico è fondamentale eseguire una manutenzione regolare. In genere i pannelli fotovoltaici richiedono poca manutenzione, ma è consigliabile pulirli periodicamente per rimuovere polvere, foglie o sporco che potrebbero ridurre l’efficienza. Inoltre è consigliato monitorare l’impianto tramite appositi sistemi di controllo che permettono di rilevare eventuali anomalie o cali di rendimento. L’inverter, invece, potrebbe necessitare di ispezioni più frequenti. In alcuni casi, potrebbe essere utile farlo sostituire prima che raggiunga la fine della sua vita utile, per garantire il massimo della performance dell’impianto. In generale, dunque, un impianto fotovoltaico è una soluzione a lungo termine che può durare tra i 20 e i 30 anni, con i pannelli solari che continuano a produrre energia per la maggior parte di questo periodo. Nonostante la necessità di sostituire l’inverter ogni 10-15 anni, l’investimento iniziale si ripaga nel tempo grazie ai risparmi sulla bolletta energetica. LEGGI TUTTO

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    Perché Blair è contro la transizione ecologica?

    Un “reset” alla logica delle zero emissioni. Un malcelato invito a rallentare la transizione energetica basata sulla eliminazione dei combustibili fossili a breve termine e sulla riduzione dei consumi. Perché? Perché è un approccio “destinato a fallire”, trattandosi di strategie ambientali “irrazionali”, legate a una “piattaforma climatica irrealistica e quindi impraticabile”. E soprattutto perché sarebbe sbagliato, sostiene, chiedere agli elettori dei Paesi sviluppati sacrifici finanziari e cambiamenti allo stile di vita “quando si sa che il loro impatto sulle emissioni globali è minimo”. Lui è Tony Blair, ex primo ministro britannico (lo è stato da 1997 al 2007). E dire che al suo nome sono legate le prime reali misure contro il cambiamento climatico nel Regno Unito, facendo del contrasto al global warming una priorità nel G8 del 2005. Oggi, scrive il “Guardian”, potrebbe invece diventare “una seria minaccia per una politica climatica sensata”. A far emergere nuove preoccupazioni il documento che il Tony Blair Institute for Global Change (TBI), il suo think tank, ha pubblicato nei giorni scorsi. La prefazione è proprio a firma di Blair. Pochi i giri di parole. “I leader politici – scrive – sanno che il dibattito è diventato irrazionale. Ma sono terrorizzati all’idea di ammetterlo, per paura di essere accusati di essere negazionisti del clima”.

    “Un rapporto confuso e fuorviante”
    Immediate le reazioni. Di “rapporto confuso e fuorviante” parla per esempio l’economista Nicholas Stern, la cui storica analisi del cambiamento climatico, pubblicata proprio dal governo Blair nel 2006, è diventata punto di riferimento. “Si stanno facendo molti più progressi in tutto il mondo per decarbonizzare l’economia globale di quanto si pensi. – aggiunge – E il rapporto minimizza il contributo della scienza, in quanto non percepisce il senso di urgenza né la necessità che il pianeta raggiunga l’obiettivo di zero emissioni nette il prima possibile, al fine di gestire la crescita degli impatti del cambiamento climatico che stanno già danneggiando famiglie e imprese in tutto il mondo e nel Regno Unito. Rimandare è pericoloso”. Di “analisi debole e soluzioni sbagliate” parla, invece, Bob Ward, direttore politico del Grantham Research Institute della London School of Economics: “Si trascura la certezza che più tempo ci vorrà per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette nel Regno Unito e nel mondo, più famiglie e imprese soffriranno dei crescenti impatti del cambiamento climatico”.

    Crisi climatica

    Il 2024 è il primo anno in cui si superano gli 1.5 gradi rispetto al livello preindustriale

    di redazione Green&Blue

    10 Gennaio 2025

    E il rischio insito nel dossier è che, come denuncia Shaun Spiers, direttore esecutivo del think tank “Green Alliance”, “si maturi l’idea che gli attivisti abbiano già fatto la loro parte e ora combattere il cambiamento climatico sia un compito per le élite, non per la gente comune”. Il che favorirebbe “il gioco dei populisti minando il sostegno del grande pubblico al contrasto diffuso al cambiamento climatico”. Un vero e proprio polverone, che ha spinto il Tony Blair Institute for Global Change a parlare di cattive interpretazioni, provando a sottolineare come gli autori del rapporto si siano già pronunciati a favore degli obiettivi e delle politiche per le zero emissioni nette. Un dietro front poco convincente, tanto più che il rapporto è stato intanto ben accolto di conservatori, a cominciare dalla leader Kemi Badenoch, leader del Conservative Party, che sul tema ha da tempo le idee chiare. E dal fronte progressista arrivano letture più profonde sulle posizioni di Blair in merito alla crisi climatica e, ancor di più, sulla sua vicinanza alle petrolpotenze arabe. Frequentazioni e consulenze che, a partire dalle sue dimissioni da primo sinistro, avrebbero influenzato la visione di Blair. Insomma, per dirla con una delle fonti citate dal “Guardian”, “aggirarsi in cerchie di potere espressione di nazioni autoritarie e con politiche spesso basate sui combustibili fossili avrebbe distorto la sua visione”.

    L’amicizia con Al Jaber, mister Cop 2023
    Sotto la lente d’ingrandimento anche la presunta amicizia con Sultan Ahmed Al Jaber, ceo della compagnia petrolifera nazionale degli Emirati Arabi Uniti, la Adnoc, tra le figure imprenditoriali più imponenti dell’intero mondo arabo e presidente della Cop28 del 2023, ospitata da Dubai (con buona pace degli ambientalisti, che a lungo contestarono la scelta). Il ruolo di Blair da consigliere di Al Jaber, in quella circostanza, non sarebbe in discussione, malgrado TBI abbia dichiarato al “Guardian” che l’ex primo ministro non fosse stato pagato. Nel corso della Cop, ad ogni modo, si raggiunse lo storico accordo di “abbandonare i combustibili fossili”. Eppure a quella successiva, in Azerbaigian, altro stato dalla forte vocazione petrolifera, con un ruolo diretto del think tank di Blair, i riferimenti alla transizione dai combustibili fossili sparirono, come per incanto. E chissà cosa accadrà a novembre in Brasile, dove ci sarà il vertice Cop30: il Paese, che conta di riaffermare l’impegno di eliminare gradualmente i combustibili fossili spingendo i paesi a presentare nuovi piani per la riduzione delle emissioni di gas serra, avrebbe rifiutato l’offerta di una consulenza gratuita del think tank di Blair. Che, per inciso, nel contestato rapporto della scorsa settimana ha scritto, senza troppi fronzoli: “Qualsiasi strategia basata sull’eliminazione graduale dei combustibili fossili a breve termine o sulla limitazione dei consumi è una strategia destinata a fallire”.

    Finanza climatica

    Cosa prevede l’accordo sui finanziamenti per il clima raggiunto alla Cop29

    25 Novembre 2024

    Il “Guardian” ha così provato a capire quanto le relazioni di Blair in Medio Oriente, dove ha a lungo ricoperto l’incarico di inviato per la pace, abbiano inciso sulla sua visione. E da un portavoce di TBI arriva una risposta quasi seccata: “Perché chi non è d’accordo con le argomentazioni esposte da TBI nel documento non le affronta, invece di concentrarsi sulle presunte motivazioni?”. Ribadendo come “una politica basata sull’eliminazione a breve termine dei combustibili fossili semplicemente non è credibile, me dimostrano i fatti. La domanda di combustibili fossili sta aumentando, non diminuendo. E molti paesi in via di sviluppo hanno bisogno sia dell’energia che del reddito che deriva dai combustibili fossili”. Di qui l’esigenza di “un mix di politiche differenti”, dicono le fonti vicine a Blair. “Da buon sussurratore globale, Blair non fa altro che proporsi come consigliere”, denuncia Tom Burke, co-fondatore del think tank verde E3G. “Ma quello che ha detto è nell’interesse dei gruppi sauditi che hanno donato milioni al suo istituto, non certo di tutti noi”, aggiunge Ami McCarthy, responsabile politico di Greenpeace UK. LEGGI TUTTO

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    Barbecue: quale scelta tra carbone, elettrico e gas

    Quando le temperature diventano più miti e i primi raggi di sole fanno capolino, cosa c’è di meglio di una grigliata in compagnia? Che sia in giardino, nel cortile, sulla terrazza, è sempre un’occasione per fare festa in famiglia o con gli amici, celebrando l’arrivo della bella stagione. Certo la spensieratezza potrebbe essere un po’ minore se si pensa alla sostenibilità.
    Uno studio pubblicato nel 2025 su Applied Sciences e realizzato dai ricercatori del Politecnico di Varsavia, in Polonia, indica, infatti, che la cottura alla griglia contribuisce non poco all’aumento dei livelli di PM1, ovvero le particelle inquinanti di dimensioni inferiori a 1 micron (un millesimo di millimetro), che hanno un’elevata capacità di penetrare nell’apparato respiratorio, causando irritazioni, asma, riduzione della funzionalità polmonare. Non stiamo suggerendo, ovviamente, di mettere al bando questi piacevoli momenti conviviali, ma semmai di organizzarli e gestirli con maggiore consapevolezza. Nel rispetto dell’ambiente e anche della nostra salute.
    Il tipo di carbone fa la differenza
    Importante è anzitutto la scelta del dispositivo di cottura. Dal punto di vista delle emissioni, i barbecue a carbone sono in generale quelli che rilasciano più inquinanti. Anche se il tipo di carbone impiegato può fare la differenza: da un lato c’è il carbone vegetale in pezzi di legno tostato, dall’altro le bricchette auto infiammabili imbevute di sostanze chimiche. Secondo gli esperti, il carbone vegetale, commercializzato come un prodotto più naturale, potrebbe effettivamente limitare le emissioni atmosferiche. Inoltre, avrebbe anche il potenziale per diventare carbon neutral, perché realizzato a partire dal legno, che potrebbe essere recuperato in modo sostenibile. Nella realtà, però, ciò avviene di rado. Le bricchette sono, al contrario, generalmente prodotte con scarti e rifiuti del legno, il che potrebbe evitare l’abbattimento degli alberi.

    Cibo e ambiente

    Carne coltivata si riapre lo scontro, Coldiretti in piazza ma c’è chi difende l’Efsa

    di Fiammetta Cupellaro

    18 Marzo 2025

    Tanti additivi nocivi
    In entrambi i casi, come riporta The Atlantic, la questione si riduce a come viene reperito e prodotto il carbone. Difficile, comunque, che quest’ultimo sia puro. Uno studio del 2020 ha rivelato che molti carboni, sia in pezzi sia in bricchette, contengono vari additivi, tra cui metallo, plastica, resina, biomassa. E maggiore è la quantità di contaminanti presenti, peggiori saranno le emissioni derivanti dalla combustione. Per limitare tale contaminazione, l’Europa sta imponendo alcuni standard che i produttori devono rispettare, insieme a un test di conformità.

    Dal gas naturale al grill elettrico
    Oltre ai barbecue a carbone, ci sono quelli a propano e a gas naturale. Sebbene emettano minore inquinamento rispetto alla carbonella, bruciano comunque combustibili fossili, una fonte di energia non rinnovabile. Se si sceglie questo dispositivo per grigliare, il propano è solitamente preferibile al gas naturale, perché è più efficiente e brucia più velocemente e a temperature più elevate, consumando, quindi, meno combustibile. In generale, l’opzione più ecologica in fatto di barbecue sarebbe un grill elettrico collegato a una rete di energia rinnovabile.

    Il libro

    “Noi e gli animali, ripensiamoci. Anche a tavola”

    di Marino Midena

    03 Aprile 2025

    Meglio evitare la carne
    Tuttavia, se la selezione del dispositivo non può essere lasciata al caso, lo stesso vale per il cibo da grigliare: di solito carne, spesso rossa. Una pessima scelta, che non fa bene né al nostro organismo, né agli animali, né all’ambiente: basti pensare che le mucche allevate per la produzione di bistecche e costine provocano il 14,5% delle emissioni globali di gas serra ogni anno. Per fortuna, le alternative non mancano. Si possono, per esempio, provare il tofu, le verdure di stagione, gli hamburger a base vegetale. Piatti gustosi, salutari e soprattutto etici. E per chi proprio non volesse rinunciare alle proteine animali, ecco un compromesso: rosolare pollame o maiale che, se non altro, generano minori emissioni rispetto ai bovini.

    I consumatori possono ridurre l’impatto dell’85%
    Attenzione anche allo spreco alimentare, che ha un impatto sull’ambiente non trascurabile. Per ridurre lo sperpero è importante acquistare le quantità necessarie, conservare correttamente i prodotti, riutilizzare eventuali avanzi per i pasti futuri. Inoltre, è bene ricordare che sia un ridotto ciclo di vita del barbecue sia procedure di smaltimento non idonee possono aumentare gli effetti negativi di una singola grigliata. Secondo uno studio pubblicato nel 2024 su Sustainability e condotto dai ricercatori dell’Università di Stoccarda, in Germania, i comportamenti dei consumatori possono avere un’influenza significativa sulla sostenibilità: in particolare, la combinazione di tutte le pratiche virtuose è in grado di ridurre l’impatto ecologico del barbecue fino all’85%. LEGGI TUTTO