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    Come sarà la comunicazione del futuro

    Se è possibile pianificare un piano industriale a dieci anni, perché non dovrebbe essere possibile anche per la strategia di comunicazione? Da questa domanda prende forma il progetto avviato da A2A in collaborazione con Sapienza Università di Roma: un vero e proprio laboratorio per immaginare la comunicazione del futuro e come si potrà ottenere e gestire la fiducia del pubblico, elemento fondamentale alla base delle scelte di chi deve costruire un racconto. Al centro dell’iniziativa c’è un cantiere culturale e organizzativo, affidato a uno steering committee multidisciplinare di studiosi e a un gruppo di giovani professionisti under 30. L’obiettivo? Definire una brand strategy capace di accompagnare la crescita del gruppo fino al 2035, con uno sguardo già pronto al cambiamento (future fit). A guidare il percorso Carlotta Ventura, direttore comunicazione, sostenibilità e affari regionali di A2A, e Alberto Mattiacci, docente di Economia e Gestione delle imprese alla Sapienza e presidente del comitato. Ne fanno parte anche i professori Fabio Babiloni (Fisiologia), Marino Bonaiuti (Psicologia sociale), Francesca Cuomo (Telecomunicazioni) e Paola Panarese (Sociologia dei processi culturali e comunicativi) coordinati da Stella Romagnoli, Executive Director International Advertising Association Italy. “È un lavoro con una visione di fondo ottimista – spiega Ventura – un modo per guardare oltre le difficoltà del presente e costruire una comunicazione capace di evolvere con la società, i media e la tecnologia. Immaginare il futuro è utile per elaborare gli strumenti per poterlo governare”.

    Il cuore dell’iniziativa è corale e generazionale. Nel team di lavoro 24 professionisti under 30. Insieme, tra gennaio e aprile 2025, hanno affrontato dieci key driver di ricerca: pensiero, attenzione, creatività, intelligenza artificiale, digital twin, network, demografia, rapporto io-noi, Gen Z e… Medioevo. Un mix di classico e contemporaneo, che ha impiegato metodologie della disciplina dei “future studies”, che ha permesso di riflettere sui futuri della comunicazione, partendo da due domande fondamentali: che tipo di competenze e attitudini serviranno da qui a dieci anni? E a chi parleremo? Il futuro non si prevede: si progetta con metodo, intelligenza collettiva e visione. Il progetto si articola su due linee temporali: l’orizzonte del 2035 e un “pit stop” intermedio a cinque anni, necessario per adeguarsi a uno scenario che cambia rapidamente. Con la tecnologia che evolve in modo continuo e con l’avanzare dell’intelligenza artificiale generativa molte attività che oggi le aziende affidano all’esterno potrebbero tornare a essere internalizzate. Questo impatterà anche sull’organizzazione delle funzioni impegnate nella gestione della comunicazione. Ma a cambiare, avverte Ventura, non saranno solo le competenze. “La fiducia diventerà ancora più centrale. In un contesto dove l’offerta di contenuti si moltiplica, spesso senza filtri, sarà la coerenza nel tempo tra l’agito e il dichiarato a fare la differenza nel posizionamento di un brand. Dal mio punto di vista bisogna prima cercare di raggiungere gli obiettivi e poi raccontarli”.

    Come formare, allora, team di comunicazione all’altezza della sfida? “Serve un’attitudine fatta di curiosità, flessibilità, capacità di lettura del contesto – continua Ventura –. Ma soprattutto serve saper tenere insieme attenzione e fiducia: due elementi da costruire con contenuti rilevanti e profondità culturale”. La competenza non basta. “Il mondo è pieno di ‘cretini competenti’ – provoca Ventura – iperspecializzati ma non in grado di collocarsi nello spazio e nel tempo. È il rischio che corre la generazione dei nostri giovani manager. Serve qualcosa di più: cultura, pensiero critico, visione”. Spesso non si vede l’ovvio. E se non si capisce davvero l’intelligenza artificiale – il suo linguaggio, l’impatto – si rischia di subirla. La cultura è quindi l’unica via per non avere paura del futuro. Il rapporto tra attenzione e comprensione è particolarmente delicato: “Uno dei grandi problemi di oggi è l’analfabetismo funzionale – osserva Ventura –. Le persone sanno leggere, ma non hanno la capacità di elaborare i concetti. È un limite serio, che obbliga chi comunica a rivedere linguaggi e strumenti, per evitare che la distanza diventi incolmabile”. Il rischio non è solo economico, ma cognitivo. Una polarizzazione tra pochi in grado di pensare e molti esclusi dalla comprensione. La vera sfida sarà la recessione cognitiva. E per affrontarla, la comunicazione dovrà tornare all’essenziale: emozioni, simboli, codici accessibili. Cosa resterà della comunicazione di oggi tra dieci anni? “Sotto il profilo delle tecnologie attuali forse nulla – conclude Ventura –. Ma resterà la capacità di emozionare, di ispirare.” Uno dei primi cantieri progettuali avviati da A2A, a valle della fase di ricerca condotta con La Sapienza, riguarda l’esplorazione dell’integrazione degli “utenti sintetici” nei processi di progettazione della comunicazione. Si tratta di modelli digitali evoluti, basati sulla tecnologia Digital Twin, che si affiancherebbero agli strumenti tradizionali come dei veri e propri “panel virtuali”. Questa innovazione non rappresenta solo un passo avanti nella capacità dell’azienda di comprendere in profondità i propri pubblici, ma apre anche nuove possibilità per costruire un dialogo più inclusivo, efficace e mirato con stakeholder molto diversi tra loro. L’obiettivo è rendere la comunicazione sempre più accessibile, traducendo messaggi complessi in linguaggi chiari e rilevanti, a vantaggio dell’intera rete di relazioni che ruota attorno al gruppo. LEGGI TUTTO

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    Quando il Parco diventa un museo a cielo aperto

    Nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise l’arte contemporanea trova da otto anni un rifugio ideale. Grazie ad Arteparco, un progetto che, edizione dopo edizione, ha trasformato sentieri, radure, promontori di roccia in altrettante postazioni di un museo a cielo aperto, dimostrando come la creatività possa abitare – rispettosamente, senza colonizzare – anche i luoghi più incontaminati. L’ottava edizione, inaugurata a luglio, porta la firma di Velasco Vitali, artista lombardo dalla cifra poetica e plastica ben riconoscibile, con un’opera che è già un simbolo: Stasis. Una quercia trasformata in colonna, con in cima la scultura, fusa in alluminio, di un lupo appenninico, un custode solitario che veglia sulla foresta e sui suoi misteri.

    “Making of di Stasis” di Velasco Vital (foto: Luca Parisse)  LEGGI TUTTO

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    Attenzione alle zecche, non solo in montagna: come evitarle

    Per evitare le zecche, bisogna fare attenzione non solo durante le escursioni in montagna ma anche nei parchi e prati cittadini. Un tempo la loro presenza era limitata ai boschi in montagna, mentre oggi le zecche sono presenti anche in pianura dove si trova la vegetazione a loro adatta: erba alta in zone d’ombra, quindi anche parchi e prati urbani, con clima caldo e umido. Ecco perché nei mesi estivi, quando si trascorre molto tempo nella natura, è necessario prestare attenzione e proteggersi dalle zecche perché la puntura di questi piccoli artropodi può provocare patologie anche gravi quali la malattia di Lyme e la meningoencefalite da zecca.

    La malattia di Lyme è causata da un batterio chiamato borrelia e colpisce prevalentemente la pelle, le articolazioni e nelle forme avanzate il sistema nervoso e gli organi interni. Si manifesta prevalentemente con un eritema nel punto del morso, una lesione circolare non dolorosa con il bordo rosso vivo e l’interno più chiaro che, con il passare dei giorni, si allarga e si può spostare sulla pelle. Il morbo di Lyme può provocare cefalea, febbre, artralgie, dolori muscolari e se non viene curata può diventare cronica. LEGGI TUTTO

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    Perché ora il fotovoltaico per il Gruppo di autoconsumo conviene

    Fotovoltaico più conveniente oggi grazie al contributo Pnrr del 40% che per le persone fisiche diventa cumulabile senza decurtazioni con la Tariffa incentivante. Una novità che si somma al costo dei pannelli fotovoltaici in calo, condizioni che fanno di questo il momento migliore per la costituzione di un Gruppo di autoconsumo. E considerando che per fare un gruppo basta avere due utenze distinte nello stesso edificio, ora che i climatizzatori sono diventati indispensabili, pensare di installare un pannello solare può essere davvero la soluzione economicamente più conveniente, dato che gli incentivi premiano non la produzione ma, appunto, il consumo di energia. Le domande per il contributo Pnrr si possono presentare sul sito del GSE fino al 30 novembre prossimo.

    Il costo dei pannelli
    Il crollo dei prezzi della tecnologia fotovoltaica rappresenta il primo vantaggio. Se nel 2023 un modulo fotovoltaico costava mediamente 0,39 centesimi di euro per watt, oggi i prezzi si attestano tra 0,09 e 0,12 euro per watt, con punte fino a 0,065 euro per i moduli a basso costo. Questa discesa del 40% in meno di due anni rende l’investimento fotovoltaico accessibile come mai prima d’ora.

    Le regole per i Gruppi
    A differenza delle Comunità Energetiche Rinnovabili, che richiedono la costituzione di un soggetto giuridico i Gruppi nascono semplicemente da un accordo di diritto privato. Unico requisito è quello di essere almeno in due, avere contatori di energia differenti, risiedere tutti nello stesso edificio, e, ovviamente, avere a disposizione un impianto a pannelli solari. Questo si può trovare anche su un altro edificio e può essere anche di proprietà di uno solo dei membri del Gruppo o di altri soggetti, purché sia “dedicato” alla produzione di elettricità per il Gruppo.

    L’autoconsumo virtuale
    Il sistema si basa sull’autoconsumo virtuale: non occorre che tutti siano fisicamente allacciati all’impianto e non serve cambiare gestore di energia. In sostanza l’energia viene condivisa “virtualmente” attraverso la rete esistente, senza bisogno di nuovi cavi o contatori dedicati. Più i consumi sono sincronizzati con la produzione solare, maggiori sono i benefici. I dati sul consumo vengono comunicati al GSE e su tutta l’energia consumata all’interno del Gruppo si avrà diritto alla Tariffa incentivante, anche se il produttore, ossia il proprietario del pannello è uno solo. Chiaramente in questo caso il produttore, e solo lui, avrà anche il vantaggio aggiuntivo di risparmiare sulla sua bolletta. La Tariffa incentivante riconosciuta dal GSE varia geograficamente ma si attesta intorno ai 100-120 euro per MWh per 20 anni. A questa si aggiunge il corrispettivo di valorizzazione ARERA, che nel 2024 ha superato i 10 euro per MWh, coprendo il valore di mercato dell’energia più alcune componenti tariffarie risparmiate. Con le novità introdotte di recente le persone fisiche che decidono di installare ex novo un impianto da destinare a un Gruppo di autoconsumo possono cumulare al 100% il contributo con le Tariffe.

    L’incremento del valore degli immobili
    Tra i vantaggi di costituire un Gruppo, infine c’è anche da considerare l’aumento del valore dell’immobile. Gli appartamenti che fanno parte di gruppi di autoconsumo, infatti, vedono crescere il loro valore di mercato del 5-10%, grazie alla maggiore indipendenza energetica e alla protezione dalle fluttuazioni dei prezzi dell’elettricità. E per sapere quanto creare un Gruppo è vantaggioso si può fare una simulazione sul sito del GSE. LEGGI TUTTO

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    A New York una piscina galleggiante filtra l’acqua dell’East River e la rende balneabile

    “If you can make it, you can make it everywhere”. La frase-motto di New York, vale ancora una volta. Anche oggi che la Grande Mela ha smesso di stupire, come un tempo. Ma non stavolta, con la sua piscina pubblica galleggiante. E filtrante. Si, perché +Pool, è la piscina progettata per galleggiare nell’East River di New York, e filtrare la sua acqua fino a renderla balneabile. Installata al largo del Pier 35, proprio nel centro di Manhattan, +Pool, deve il suo nome proprio alla forma: a più. La piscina newyorchese, frutto di un lavoro di 15 anni, sarà in grado di filtrare l’acqua del fiume, non proprio il posto ideale in cui pensare di bagnarsi neanche nelle afose giornate estive di NY, anche qui sempre più calde. Il progetto, sulla carta, è nato ed è stato lanciato nel 2010, dal designer Dong-Ping Wong che ha proposto ai suoi amici e colleghi designer, l’idea di una piscina galleggiante con filtro per l’acqua. Il team ha progettato il concept di piscina galleggiante, e l’ha pubblicata sui social. L’entusiasmo contagioso ha visto il supporto delle istituzioni statali e comunali degli abitanti di Big Apple, fieri – come sempre – di essere d’esempio per il mondo.

    In realtà questa piscina pubblica ha alla base un interessante sistema ingegneristico autosufficiente, che depura l’acqua del fiume che passa attraverso le sue pareti e la immette nelle vasche, pulita e senza il rischio batteriologico. L’obiettivo, infatti, è renderla balneabile senza l’uso di cloro, sostanze chimiche e tramite un sistema di filtraggio brevettato. In sostanza, si tornerebbe indietro di oltre un secolo, quando le acque di New York City erano una fonte piacevole di svago nei mesi estivi, e probabilmente anche usata con scopi igienici. Poi, all’inizio del 1900, con il rapido sviluppo industriale e la crescita demografica, è iniziato il peggioramento della qualità delle acque urbane. Fino al divieto di balneazione. Ma quando avverrà il cambiamento? Entro la primavera del 2026 si prevede il completamento dell’installazione, ma non ancora l’apertura al pubblico. D’altronde ci sono i tempi tecnici da rispettare.

    Intanto la prima settimana di luglio è arrivato il “guscio” di +Pool, direttamente dal cantiere navale Bollinger in Mississippi. La struttura di base in acciaio, come lo scafo di una nave, che ospiterà il complesso sistema di filtraggio, le quattro piscine, e i servizi sul ponte per un totale di 180 metri quadrati. Delle 4 vasche, ognuna avrà un ruolo differente: una piscina per bambini, una sportiva, una per imparare a nuotare e una piscina lounge solo per il relax. L’obiettivo è fare in modo che ogni piscina possa soddisfare le varie esigenze, che possa essere combinata per formare una piscina olimpionica o aperta completamente in una piscina di 840 metri quadrati per il gioco. Veniamo alle caratteristiche tecniche. Una pompa sommersa aspira l’acqua grezza con filtri anti pesci e detriti, a una portata di 90 litri al minuto. L’acqua prefiltrata viene immessa nelle membrane polimeriche di ultrafiltrazione, che trattano torbidità, batteri, particelle organiche e alcuni virus. La fase finale del trattamento è la disinfezione, ottenuta esponendo l’acqua filtrata ai raggi ultravioletti. Il risultato finale è l’acqua fiumana senza batteri, contaminanti e odori, al 100% sicura per la balneazione. Ovviamente +Pool dovrà essere sottoposta alla valutazione finale del Dipartimento della Salute di New York per ottenere il via libera ed arrivare all’apertura pubblica prevista per il 2027. LEGGI TUTTO

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    Dall’aloe al photos, le piante che assorbono l’umidità

    Muffe, acari, cattivi odori, macchie nelle pareti, allergie, asma e problemi respiratori. Questi sono solo alcuni degli effetti provocati dall’umidità eccessiva, criticità comune che mina la salubrità degli ambienti, incidendo negativamente sulla salute e compromettendo strutture e materiali negli immobili. A determinarla sono una serie di fattori combinati quali ad esempio ventilazione esigua, condensa, infiltrazioni esterne, difetti strutturali dell’edificio o degli impianti e vapore generato dalle attività domestiche. Per evitare che l’umidità impatti sui nostri spazi è importante mettere in atto strategie mirate: tra le soluzioni naturali più efficaci spiccano alcune piante specifiche, utili quindi non solo a scopo decorativo, ma anche per ripulire l’aria, assorbendo l’umidità.

    Quali sono le piante che assorbono più umidità
    Giglio della pace
    Tra le piante alleate per ridurre i livelli di umidità spicca il giglio della pace, contraddistinto da fiori bianchi, che in realtà sono brattee, e foglie eleganti: sono proprio queste ad assorbire l’umidità, facendo sì che la pianta sia particolarmente adatta per rendere l’ambiente più salubre. Privo di steli, chiamato a livello scientifico spathiphyllum e appartenente alla famiglia delle Araceae, il giglio della pace è semplice da coltivare e richiede poche cure. Per quanto riguarda l’esposizione, ama il sole, ma non i raggi diretti, e i suoi nemici sono i luoghi angusti, dovendo arieggiare regolarmente la stanza dove si colloca, stando però attenti alle correnti d’aria e agli sbalzi di temperatura improvvisi. In estate è consigliato spostare questa pianta sempreverde all’esterno, sistemandola all’ombra. Il substrato deve essere leggermente acido e mantenuto umido e le irrigazioni devono essere abbondanti in estate, evitando i ristagni d’acqua, e moderate in inverno. In merito alla concimazione, l’operazione va eseguita una volta al mese dalla primavera all’autunno, mentre la potatura non è richiesta, se non solo rimuovere le foglie appassite o secche, fonte di attacchi di parassiti e malattie.

    Aloe vera
    Altra pianta mangia umidità è l’aloe vera, succulenta appartenente alla famiglia delle Liliaceae, che abbellisce gli ambienti con le sue foglie carnose, contenenti una sostanza gelatinosa ricca di proprietà benefiche. La pianta predilige un terreno ben drenato, sabbioso e calcareo, un clima caldo e un luogo soleggiato, prestando però attenzione al sole diretto in estate, che se eccessivo rende le sue foglie rossastre. L’aloe vera necessita di irrigazioni esigue, evitando tassativamente i ristagni idrici. Se le foglie si seccano è la spia di annaffiature troppo esigue, dovendo aumentarle mentre, al contrario, qualora diventino gialle e morbide, bisogna ridurre le irrigazioni. In estate e primavera si deve darle da bere ogni 2 settimane, mentre in inverno circa una volta al mese. Da concimare tra la primavera e l’autunno, l’aloe vera non richiede potature particolari, dovendo limitarsi a rimuovere le foglie secche oppure danneggiate.

    Pothos
    Per combattere l’umidità un prezioso alleato è il pothos, talmente semplice da curare da essere adatto anche ai principianti del giardinaggio. Questa splendida pianta d’appartamento, dal portamento rampicante, fa parte della famiglia delle Aracee: a contraddistinguerla sono le sue suggestive foglie verdi a forma di cuore e con screziature gialle e la notevole resistenza. Per quanto riguarda la sua esposizione, il pothos richiede molta luce ma evitando i raggi solari diretti, che possono bruciare le sue foglie, pur crescendo anche in mezz’ombra o in ombra. Le correnti d’aria sono mal tollerate dalla pianta, che non deve essere quindi posta nei pressi di una finestra. Le irrigazioni vanno effettuate ogni 5 giorni d’estate e una volta alla settimana in inverno, verificando sempre prima che il terreno sia asciutto ed evitando i ristagni d’acqua. Per quanto riguarda la potatura questa non è richiesta, se non per accorciare i rami più lunghi a inizio primavera.

    Orchidea
    Per donare un tocco di eleganza agli spazi e al contempo contrastare il problema dell’umidità, l’orchidea è una scelta perfetta, visto che le sue radici la catturano dall’ambiente circostante, cosa che determina anche una sua crescita ottimale. Questa pianta tropicale ha fiori colorati, e un profumo avvolgente: appartenente alla famiglia delle Phalaenopsis, è piuttosto delicata, ma se curata con i giusti accorgimenti è molto longeva. L’orchidea predilige un substrato ben drenato e una posizione luminosa, purché non riceva i raggi solari diretti. Il substrato deve essere sempre mantenuto umido, quindi le irrigazioni sono fondamentali, ma queste devono essere moderate e mai eccessive per scongiurare il marciume radicale. In estate è consigliato annaffiare la pianta dalle 3 alle 4 volte alla settimana, mentre in inverno ridurle a una. Per mantenere le orchidee in salute è necessario potarle di solito dopo la fioritura, rimuovendo i fiori appassiti e danneggiati e le foglie malate e morte.

    Filodendro
    Resistente, vigoroso, decorativo e facile da coltivare, il filodendro assorbe l’umidità mediante le sue grandi foglie lucide dalla forma a cuore oppure ovale. Parte della famiglia delle Araceae, questa pianta d’appartamento è molto apprezzata sia per la sua bellezza, sia per la sua facilità di coltivazione. Il filodendro predilige un substrato drenato e ricco di sostanza organica, un ambiente umido e luce abbondante, ma deve evitare i raggi solari diretti: resiste comunque se l’illuminazione è scarsa, ma in questo caso cresce con fusti allungati e con foglie più piccole. In estate è consigliato spostare la pianta esternamente, per esempio sotto un porticato, premurandosi che non sia esposta a correnti d’aria. Il filodendro richiede in estate irrigazioni ravvicinate e consistenti, da diminuire durante l’inverno, va concimato ogni 4-6 settimane durante il periodo di crescita e per mantenerlo in salute deve essere potato dopo la sua stagione vegetativa, a fine inverno o inizio primavera, eseguendo inoltre al bisogno interventi per rimuovere le foglie secche e danneggiate.

    Falangio
    Per assorbire l’umidità negli ambienti domestici, il falangio è un’altra valida soluzione, con cui abbellire anche gli spazi. Molto decorativo, è chiamato nastrino e pianta ragno, appartiene alla famiglia delle Agavaceae, presenta fiorellini bianchi, fusti allungati e un fogliame variegato e arricchito da strisce bianche verdastre. Facile da curare e coltivare, il falangio preferisce un’esposizione soleggiata, tenendolo però lontano dai raggi solari diretti in estate. Per quanto riguarda la sua cura deve essere irrigato regolarmente, verificando sempre prima che il terreno sia asciutto. Se la pianta presenta le punte secche significa che bisogna aumentare le annaffiature, non tagliandole mai per non stressarla.

    Aspidistra
    Chiamata anche pianta di piombo, l’aspidistra è estremamente efficace per rimuovere l’umidità. Molto resistente, si adatta alle diverse condizioni atmosferiche e fa parte della famiglia delle Asparagaceae. La sua robustezza la rende una pianta semplice da coltivare e per questo adatta per chi è alle prime armi. Per quanto riguarda la sua manutenzione, non richiede molta acqua e predilige la luce indiretta, tollerando però anche l’ombra. Resistente ai parassiti, la pianta di piombo potrebbe soffrire in caso di esposizione solare eccessiva, che può bruciare le sue foglie, come anche per via dei ristagni d’acqua, causa del marciume radicale. Il suo terreno deve essere sempre mantenuto drenato e umido, ma mai zuppo. LEGGI TUTTO

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    Le bevande in bottiglie di vetro hanno più microplastiche di quelle in plastica

    Potrebbe sembrare paradossale, ma le bevande confezionate nelle bottiglie di vetro contengono più microplastiche di quelle nelle bottiglie di plastica. A riferirlo è stata un’indagine condotta dalla francese Anses (Agence nationale de sécurité sanitaire de l’alimentation), secondo cui ad aggiungersi al già lunghissimo elenco di fonti di contaminazione delle microplastiche ci sono ora anche le bottiglie in vetro: la colpa, secondo i ricercatori, è di una vernice a base di poliestere che riveste esternamente i tappi di metallo con cui vengono sigillate le bottiglie di vetro.

    L’indagine sulle bottiglie
    Per capire il ruolo delle diverse bottiglie nella contaminazione delle bevande, i ricercatori hanno analizzato e confrontato i livelli di microplastiche in birra, acqua, vino e bevande analcoliche, contenuti in bottiglie di vetro, plastica, lattina e cartone. Sebbene i ricercatori abbiano riscontrato la presenza di microplastiche in tutte le bottiglie esaminate, ciò che li ha sorpresi è stato che le bevande contenute in quelle di vetro hanno mostrato i livelli più elevati di microplastiche, ed esattamente di circa 50 volte superiori rispetto a quelle in plastica.

    Lo studio

    Micro e nanoplastiche: attenzione ai contenitori per il cibo

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    02 Luglio 2025

    Un risultato contrario
    “Ci aspettavamo il risultato opposto quando abbiamo confrontato il livello di microplastiche in diverse bevande vendute in Francia”, ha commentato Iseline Chaïb, tra gli autori dello studio. Nelle bottiglie di vetro di cola, limonata, tè freddo e birra, infatti, i ricercatori hanno riscontrato una media di 100 particelle di microplastiche per litro. Un valore da 5 a 50 volte inferiore nel caso delle bottiglie di plastica e lattine. L’unica eccezione, invece, è stata l’acqua, per cui il livello di microplastiche era relativamente basso indipendentemente dal contenitore, con una media di 4,5 particelle per litro nelle bottiglie di vetro e di 1,6 particelle per litro in quelle di bottiglie di plastica e cartoni. Stesso discorso per il vino, per cui sono stati riscontrati bassi livelli di microplastiche anche nelle bottiglie di vetro con il tappo di sughero.

    I tappi in metallo
    Secondo i ricercatori, gli alti livelli di microplastiche contenuti nelle bevande delle bottiglie di vetro sarebbero causati dai tappi in metallo e più precisamente da una vernice a base di poliestere che li ricopre. “Sospettavamo che i tappi fossero la principale fonte di contaminazione, poiché la maggior parte delle particelle isolate nelle bevande era identica al colore dei tappi e condivideva la composizione della vernice esterna”, hanno scritto gli autori nello studio. Durante lo stoccaggio, infatti, i tappi delle bottiglie vengono conservati insieme a migliaia di altri tappi, subendo urti e abrasioni non visibili a occhio nudo. Secondo i ricercatori, quindi, questi tappi graffiati, una volta che vengono sigillati alle bottiglie, rilasciano frammenti di plastica direttamente nelle bevande. Sebbene non sia possibile affermare se i livelli di microplastiche riscontrati rappresentino un rischio per la salute, dato che nello studio mancano i dati tossicologici, i ricercatori sottolineano che per ridurre i livelli di microplastiche nelle bevande basterebbe poco: rimuovere i frammenti dai tappi in metallo con una bomboletta d’aria compressa, e risciacquarli poi con acqua filtrata. LEGGI TUTTO

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    I funghi che trasformano i pannolini usati in terriccio

    Viviamo immersi nella plastica. Lo sappiamo. Dagli oceani fino alle nanoparticelle nel nostro organismo. Tra i prodotti usa e getta più diffusi, il rifiuto domestico di plastica numero uno al mondo sono i pannolini. Possono impiegare centinaia di anni per decomporsi, lasciandoci un’eredità di miliardi di microplastiche. Da Austin, nel Texas, una coppia con figli, Miki Agrawal e Tero Isokauppila, conosce molto bene questo problema. Ogni bambino, infatti, può utilizzare fino a 6.000 pannolini prima di raggiungere l’età in cui impara ad utilizzare il WC per le sue impellenze fisiologiche. Fino a quel momento, i pannolini sono l’unica opzione disponibile in commercio, che però contiene una combinazione di cellulosa sbiancata e plastiche a base di petrolio.

    Economia circolare

    Pannolini o assorbenti senza plastica? Dal grano e dal mais la spungna riciclabile

    26 Marzo 2024

    Si stima che solo in America vengano smaltiti circa 4 milioni di tonnellate di pannolini, senza un riciclo o compostaggio significativi, (secondo l’Environmental Protection Agency riferiti al 2018). Ebbene la coppia di genitori, era talmente convinta di voler risolvere questo problema planetario da aver impiegato ricerca e soldi per fondare la startup Hiro e sviluppare un prodotto davvero unico: i primi pannolini al mondo micodigeribili.

    Cioè? Andiamo con ordine. E prima di capire di cosa stiamo parlando, facciamo un salto indietro di pochi anni, quando nel 2011, furono scoperti per la prima volta nella foresta amazzonica in Ecuador da ricercatori dell’Università di Yale dei funghi mangia-plastica, i Pestalotiopsis microspora, in grado di sopravvivere sulla plastica in ambienti privi di ossigeno, come le discariche. Queste specie fungine sono capaci di secernere enzimi extracellulari potentissimi che agiscono come delle “forbici” molecolari, tagliando i lunghi legami polimerici della plastica in composti più semplici e biodegradabili. Una volta scomposte, queste molecole vengono assimilate dai funghi come fonte di carbonio, trasformando di fatto il rifiuto in biomassa, ovvero, in prezioso terriccio e micelio, la rete di radici dei funghi.

    Lo studio

    Micro e nanoplastiche: attenzione ai contenitori per il cibo

    02 Luglio 2025

    Dopo poco meno di 15 anni, i due texani di adozione (in realtà sono finlandesi) hanno pensato di usare quei funghi straordinari per far mangiare i pannolini usati. Il loro team, che include specialisti in micologia, scienza dei materiali e ingegneria, in oltre quattro anni di ricerca e sviluppo ha sviluppato un sistema brevettato. L’idea, del tutto innovativa, andrebbe ad intaccare gli enormi interessi di grandi multinazionali che producono pannolini e prodotti per l’igiene intimo, motivo per cui i due si sono rivolti alla rete per trovare finanziamenti su Kickstarter. Come funzionano? Ogni pannolino realizzato con un morbido strato posteriore di cotone privo di sbiancamento al cloro, progettato per essere delicato sulla pelle, è dotato di una speciale bustina di attivazione fungina. Una volta che il pannolino è stato usato, quindi contiene feci ed urine, basta inserire la bustina e gettarlo via, mentre inizia l’attivazione dei funghi. Questi iniziano a colonizzare e a digerire gli strati di plastica non tessuta del pannolino, trasformandolo in terreno e micelio nel giro di settimane. Secondo i test di laboratorio condotti dall’azienda, la formazione visibile di biomassa fungina e attività enzimatica avviene dopo 12 giorni, con una notevole scomposizione dei campioni di pannolini trattati dopo 21 giorni.

    L’ottima notizia è che i pannolini, scrivono da Hiro, contengono 8 tipi di plastiche morbide, che costituiscono circa il 70% di tutti i prodotti in plastica morbida. Questi funghi possono mangiare polietilene tereftalato (PET), polipropilene (PP) e polietilene (PE), e attaccare anche il poliuretano (PUR). Ma non è ancora tutto. L’azienda americana intende espandere questa tecnologia anche ad altri prodotti monouso, come pannoloni per adulti, prodotti per l’igiene femminile, imballaggi alimentari e materiali leggeri per la spedizione. D’altronde “molto tempo fa, i funghi si sono evoluti per scomporre gli alberi, in particolare quel composto difficile da degradare negli alberi chiamato lignina. La sua struttura a catena di carbonio è molto simile alla struttura a catena di carbonio delle plastiche perché essenzialmente sono fatte della stessa cosa”, ha spiegato l’imprenditore Isokauppila.

    Longform

    Tutto quello che sappiamo sulle microplastiche e quanto inquinano

    18 Luglio 2024

    Nel 2024, il prodotto ha ricevuto l’Hygienix Innovation Award, che ne riconosce il contributo basato sui materiali all’industria dell’igiene e dei non tessuti. Sebbene i dati dei test sul campo a lungo termine non siano ancora disponibili, i primi risultati indicano che i materiali micodigeribili possono offrire un approccio praticabile per ridurre i rifiuti in discarica associati alle fibre sintetiche. Ma l’azienda vuole avere la certezza che il loro pannolino funzioni davvero, in condizioni reali e con diversi climi. Al momento, nei loro laboratori, dopo circa 9 mesi, un pannolino è diventato simile al terriccio nero, ovvero plastica digerita dal fungo. La ricerca continua. LEGGI TUTTO