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    C’è un problema in natura: fa troppo caldo per riprodursi

    Gli effetti sono molteplici: c’è il falco grillaio che assiste a un’alta mortalità dei pulcini nelle prime settimane di vita (e quelli che sopravvivono sono sempre più piccoli). I maschi del pesce tropicale guppy (Poecilia reticulata il nome scientifico) sono, invece, sempre meno colorati: quindi, fatalmente meno attraenti per le femmine. Problema analogo per i maschi di diamante mandarino: cantano meno, e a quanto pare in modo differente. Bisognerebbe farlo capire alle femmine. “Ma soprattutto ci sono diverse specie animali che assistono alla crescita della percentuale di maschi sterili oppure al peggioramento della qualità degli spermatozoi”, sottolinea Chiara Morosinotto, ricercatrice all’Università di Padova e al National Biodiversity Future Center: “La colpa – spiega – è delle ondate di calore”.

    Biodiversità e clima

    Fa sempre più caldo, i pipistrelli salgono di quota

    di Pasquale Raicaldo

    19 Agosto 2025

    Fra le minacce più serie del cambiamento climatico per la biodiversità, le ondate di calore – brevi ma intensi eventi estremi in cui le temperature sono più alte rispetto alla media per alcuni giorni – causano non solo eventi di mortalità di massa fra gli animali, rischio che include noi umani, ma – a quanto pare – possono compromettere anche la loro capacità riproduttiva. Minacciando la biodiversità anche con effetti a cascata fra le generazioni. È una delle conclusioni dello studio “Cryptic reproductive costs of heatwaves for animal populations”, portato avanti proprio da National Biodiversity Future Center e Università di Padova, sintetizzato da una pubblicazione su Global Change Biology che analizza, esamina e commenta il boom di ricerche degli ultimi anni sulle connessioni tra climate change e riproduzione, in natura.

    I fenomeni climatici estremi, che sono in aumento per frequenza, durata e intensità su scala globale, hanno effetti sulla riproduzione che i ricercatori criptici, vale a dire non immediatamente visibili, ma possono fortemente alterare aspetti della selezione sessuale e delle dinamiche di popolazione anche a lungo termine.“Per esempio nello spinarello, piccolo pesce d’acqua dolce diffuso anche in Europa, gli effetti si protraggono fino alla crescita e impattano le generazioni future. – spiega Morosinotto – I figli di genitori esposti ad ondate di calore, una volta adulti, sopravvivono meglio ad ondate di calore ma fanno uova più piccole”. E dunque tendenzialmente meno resistenti.

    Cosa succede al pianeta

    Stiamo cambiando gli equilibri della natura

    di Elena Dusi

    11 Agosto 2025

    E non è ancora chiaro cosa accadrà in un futuro non troppo remoto alle tartarughe marine Caretta caretta, che nidificano sempre più a nord ma che risentono dell’innalzamento della temperatura della sabbia in cui vengono deposte le uova, che influenza direttamente il sesso dei nascituri. Di qui, quella che i ricercatori hanno già osservato come una eccessiva femminilizzazione delle neonate: alla lunga si rischia di avere meno maschi. E la sopravvivenza della specie potrebbe essere in bilico.

    Non bisogna dunque guardare solo ai casi estremi – quelli in cui migliaia di individui vengono uccisi nel giro di qualche giorno dalle ondate di calore (è accaduto di recente, in particolare, per le morie di massa di cozze e vongole, che non resistono a temperature superiori ai 30 gradi per alcuni giorni) – ma soprattutto alle conseguenze più subdole, ancora in larga parte inedite.

    “Il nostro studio evidenzia che se molti animali di una popolazione diventano sterili questo causerà una serie di eventi a catena. – spiega ancora la ricercatrice – Ad esempio, la diversità genetica di una popolazione colpita da ondata di calore potrebbe ridursi perché molti individui non riusciranno più a riprodursi, ma si andranno anche a modificare quei processi di selezione sessuale che favoriscono alcuni individui o sistemi di accoppiamento rispetto ad altri”.

    Le rondini sono sempre più piccole: non per evoluzione, ma per il cambiamento climatico

    di Loredana Diglio

    13 Aprile 2025

    Il meccanismo è in fondo semplice: se lo stress percepito dai genitori a causa di ondate di calore porta ad effetti che perdurano nei figli fino in età adulta, c’è un’alta probabilità che questi effetti possono trasferirsi ai loro figli, passando così di generazione in generazione. “Senza contare – annota ancora la ricercatrice – che, dato che le ondate di calore stanno aumentando sia in frequenza sia in intensità è molto probabile che i figli ormai adulti di genitori che hanno subito ondate di calore saranno a loro volta esposti ad ondate di calore. I danni si potrebbero così accumulare fra varie generazioni”. Di qui l’esigenza, rimarcata nello studio, di identificare e quantificare i “costi” delle ondate di calore sulla riproduzione animale per riuscire a stimare l’impatto che questi eventi estremi hanno sia a livello demografico sia evolutivo. LEGGI TUTTO

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    Non solo Pfas, attenzione agli ftalati nei giocattoli: allarme in Svizzera

    Plastificanti vietati usati per realizzare oggetti di uso comune. Contenitori per giocattoli, tappetini da bagno, borse dell’acqua calda. Gli ftalati sono sostanze chimiche potenzialmente dannose per la salute e l’ambiente, definiti interferenti endocrini, poiché in grado di alterare il sistema riproduttivo e ormonale umano. Derivati dall’acido ftalico, gli ftalati, sono ampiamente utilizzati nell’industria come plastificanti, perché rendono la plastica, in particolare il PVC, più flessibile, morbido e resistente.

    Infatti, gli fatati sono il componente chiave di giocattoli, soprattutto quelli per bambini piccoli, pavimenti vinilici, pellicole alimentari, cavi elettrici. Ma possono essere presenti in cosmetici, profumi, smalti per unghie e spray per capelli, dove agiscono come solventi e fissativi. Ma se sono così diffusi in commercio, per quale motivo in Svizzera è scattato una sorta di allarme? In verità, il problema principale degli ftalati è che non sono legati chimicamente in modo stabile alla plastica e possono essere rilasciati nell’ambiente o migrare nei liquidi e nei tessuti umani. Questo avviene specialmente con il riscaldamento, l’usura o il contatto prolungato, ad esempio, quando i bambini mettono in bocca i giocattoli.

    Salute e ambiente

    Il Bisfenolo A e la minaccia silenziosa della plastica nelle nostre vite

    di Eva Alessi*

    22 Ottobre 2025

    Ragioni sufficienti per sottoporre qualsiasi oggetto in plastica a controlli più rigorosi, soprattutto sulla merce proveniente dall’Asia. Infatti i laboratori cantonali hanno effettuato una vasta operazione di controllo su oggetti di uso quotidiano in plastica, come viene riportato dal sito svizzero RSI. L’operazione è stata condotta in una prima fase su diversi oggetti usando uno spettrometro a infrarossi portatile, direttamente nei negozi. Uno strumento che permette di individuare rapidamente gli oggetti contenenti ftalati. Dopodiché, i campioni positivi vengono inviati al laboratorio per un’analisi più approfondita, essenziale per distinguere tra ftalati ammessi in commercio e quelli la cui concentrazione è vietata. LEGGI TUTTO

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    Cornus, coltivazione e come prendersene cura

    Doti ornamentali, capacità di adattamento e robustezza sono solo alcuni dei punti di forza del cornus. Genere di piante appartenente alla famiglia delle Cornaceae, è anche noto comunemente come corniolo e si distingue con le sue molteplici varietà, accomunate da una notevole resistenza e una fioritura vigorosa, che può generare delle bacche. Splendido arbusto, il cornus è particolarmente apprezzato per abbellire il giardino: oltre che molto decorativo, è anche semplice da coltivare, non richiedendo cure complesse.

    Cornus, le varietà più comuni
    Resistenza, versatilità e longevità si incontrano nei cornus, arbusti robusti dal grande fascino. Capaci di sopportare anche i climi più rigidi e la siccità, per quanto riguarda la loro fioritura, generalmente avviene in modo abbondante e precoce, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Invece, in autunno le sue foglie diventano rossastre e in inverno alcune varietà presentano rami dalle sfumature arancioni, gialle e rosse. Molte specie racchiuse in questo genere si fanno notare con la bellezza ornamentale e si adattano ai diversi terreni e climi, presentando una crescita lenta.

    Il cornus si caratterizza per il portamento eretto e i piccoli fiori decorativi, di solito bianchi e talvolta con striature verdi o rosa, che infondono bellezza nei giardini già da febbraio. Inoltre, generalmente presenta una chioma conica e frutti consistenti in piccole drupe, simili alle bacche, che possono essere rosse, verdi, gialle o arancioni e maturano fino all’inverno. Le foglie sono opposte, ovate, con nervature arcuate e la pagina superiore verde brillante, mentre quella inferiore è più chiara.

    Per quanto riguarda le principali specie dei cornus, troviamo il cornus mas, o corniolo comune, originario di Asia ed Europa. Si tratta di un arbusto rustico, capace di crescere anche nei terreni poveri, noto per la fioritura gialla e precoce e i frutti color rosso vivo che maturano alla fine dell’estate.

    Altra varietà è il cornus florida, arbusto dalla bellezza ornamentale, originario del nord America: la pianta presenta in autunno un fogliame sul rosso acceso e brattee rosate o bianche che circondano i fiori.

    Spicca poi il cornus alba, tra gli arbusti più decorativi nei giardini: detto anche corniolo tartaro, è nativo dell’Asia e si distingue per i fusti eretti e ramificati, che diventano rossastri durante l’inverno. Anche le foglie si tingono di rosso in autunno, mentre di verde chiaro in estate.

    Il cornus sanguinea o sanguinello cresce spontaneamente in Italia e in buona parte dell’Europa. Si tratta di una varietà rustica che produce rami e fogliame rossi in autunno, fiori bianchi e profumati nella tarda primavera e di seguito frutti neri bluastri.

    Cornus e l’esposizione ideale
    Le varietà del cornus presentano robustezza, capacità di adattamento, una coltivazione semplice e poche cure. Per mantenere in salute l’arbusto e ottenere una fioritura ottimale, è necessario seguire alcuni semplici accorgimenti. In linea generale, il cornus preferisce un’esposizione soleggiata, assicurandosi che riceva circa 6 ore di luce solare diretta al giorno, cosa che agevola il suo sviluppo rigoglioso. In estate è bene prediligere invece un luogo ombreggiato per evitare danni alle foglie.

    Per quanto riguarda il terreno, questo deve essere ben drenato e ricco di sostanza organica, anche se l’arbusto si adatta a tutti i tipi di substrato. Il luogo dove collocarlo deve essere abbastanza spazioso, considerando che alcune varietà possono raggiungere anche 10 metri di altezza.

    Coltivazione del cornus in giardino e in vaso
    Il cornus decora giardini e terrazzi con la sua bellezza, potendo essere moltiplicato tramite seme durante la primavera. Per quanto riguarda la coltivazione in piena terra, i semi vanno posti a una profondità di un centimetro, lasciando 10 centimetri tra ciascuno, per poi diradare le piante una volta cresciute.

    Tramite seme la germinazione può essere lenta, a differenza della propagazione con talea che è più semplice e rapida. Quando si trapianta l’arbusto cresciuto in vaso, è necessario scavare nel terreno una buca larga il doppio del recipiente e profonda circa 40 centimetri.

    Per la coltivazione in vaso del cornus bisogna ricorrere a un recipiente del diametro di 50 centimetri, ponendo sul fondo uno strato di argilla espansa per migliorare il drenaggio. Si procede poi con il terriccio e i semi, da posizionare a 1-2 centimetri di profondità. Il substrato va mantenuto umido, ma non zuppo. L’operazione di rinvaso va eseguita ogni 2 o 3 anni, utilizzando un contenitore più grande.
    Come prendersi cura del cornus
    La cura del cornus passa da una serie di azioni mirate, con cui renderlo rigoglioso e mantenere il suo splendore. Tra le operazioni per la sua manutenzione è fondamentale occuparsi delle irrigazioni, da svolgere regolarmente. In particolare in estate e in caso terreni sabbiosi le annaffiature devono essere costanti, diradandole poi in inverno. È sempre importante evitare i ristagni idrici, fonte di marciume delle radici.

    Altra azione cruciale è la concimazione, da eseguire in primavera ricorrendo a del concime granulare a lenta cessione o del compost. L’intervento può essere ripetuto durante l’autunno in caso di terreni poveri. Per quanto riguarda la potatura, questo intervento aiuta a stimolare la crescita e a mantenere la forma dell’arbusto: da effettuare durante l’inverno, si procede rimuovendo le foglie secche e i rami danneggiati, in modo da evitare l’insorgere di malattie fungine e parassiti e stimolare la crescita. Inoltre, bisogna eliminare le erbacce che crescono alla sua base. Sebbene sia resistente al freddo, in caso di temperature rigide il cornus può essere protetto ricorrendo a una base con pacciamatura di foglie secche.

    Malattie e parassiti che possono colpire il cornus
    Nella manutenzione del cornus bisogna tenere conto di alcune criticità che ci si può trovare ad affrontare. L’arbusto può essere colpito dall’oidio, noto come mal bianco, che si presenta con macchie biancastre e può insorgere per la troppa umidità o al contrario per un ambiente eccessivamente asciutto. Questa malattia fungina incide principalmente sulle foglie, ma rende anche i rami deformati. In caso di sua presenza, bisogna rimuovere tempestivamente le parti danneggiate e ricorrere a prodotti a base di zolfo o fungicidi naturali.

    Il cornus è anche soggetto al marciume radicale, causato dai ristagni idrici, e alla muffa grigia, che insorge per via di ambienti umidi, colpendo fiore e foglie, caso in cui procedere eliminando le parti compromesse e migliorando l’aerazione.

    Inoltre, la pianta può essere colpita da parassiti come cocciniglia e ragnetto rosso, dovendo intervenire in modo tempestivo con trattamenti naturali, come sapone molle potassico oppure olio di neem, o insetticidi ad hoc. LEGGI TUTTO

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    Dalla buccia alla farina, la startup che degli alimenti non butta via niente

    Ogni anno l’Italia produce quasi 20 milioni tonnellate di residui colturali e scarti agroalimentari, se si considerano paglia, stocchi, potature, vinificazione, ortofrutta, oleatura e persino il settore della melassa. Eppure l’azione di recupero è scomposta; nella migliore delle ipotesi verticale e di filiera singola. Adesso però la startup Vortex di Torino dal 2020 sta riscrivendo le regole del gioco con l’obiettivo di trasformare (potenzialmente) qualsiasi sottoprodotto dell’industria agroalimentare in nuove risorse ad alto valore aggiunto. Da ricordare che la maggior parte degli scarti viene normalmente smaltito con un costo a carico delle imprese.

    “Lo sapevi che solo un finocchio su cinque finisce a scaffale, e gli altri diventano scarto? Lo so, sembra folle, ma per dimensioni, magari imperfezioni di grandine o calibro non vengono venduti. E lo stesso vale per il sedano. Quando cresce arriva a 1,5 metri, ma le cassette del supermercato da sono da 50 cm, quindi il resto viene tagliato e buttato. Il mercato funziona così”, spiega Simone Piccolo, co-fondatore e attuale Ceo di Vortex.

    Da un vecchio terreno del nonno germoglia l’idea
    Non sono segreti, ma informazioni a cui pochi danno peso. Pochi, come l’altro co-fondatore Lorenzo Picco, che fresco di studi presso l’ITS Agroalimentare si mette a fare l’imprenditore agricolo ridando vita a un terreno incolto del nonno e producendo con tecniche biologiche mirtilli, nocciole e mele (varietà antiche, presidio Slow Food). Queste ultime, o meglio le bucce di scarto, diventano poi protagoniste nel 2019 di un suo progetto circolare presso l’Environment Park di Torino, un punto di riferimento per PA e imprese per lo sviluppo di percorsi di sostenibilità. In pratica Picco individua un metodo efficiente per avviare la produzione di farina di mela gluten-free, ottenendo un semi-lavorato innovativo con forte carica antiossidante. Da lì in poi il lavoro si concentra nel business plan, strategia, ottimizzazione dei metodi di lavorazione e processi.

    “La prima applicazione è stata nel mercato cosmetico grazie anche a contatti diretti con la Reynaldi di Pianezza, in provincia di Torino. Un’azienda di cosmesi naturale che lavora soprattutto per conto terzi. L’idea era di diventare il primo brand digitale in Italia di cosmesi naturale e sostenibile, con confezioni in PET riciclato e tutto il resto. E così è nata Naste Beauty”, racconta Piccolo.

    Startup

    Cosmetici bio dagli scarti dei pistacchi

    di Gabriella Rocco

    14 Novembre 2025

    La differenza tra scarto e sottoprodotto
    La svolta però si concretizzata con il costante lavoro di ricerca e sviluppo sugli scarti. Anzi è bene sottolineare che il termine corretto secondo le linee guida nazionali è di “sottoprodotto”. “Sì, perché lo scarto è tutto quello che esce dalla filiera industriale, mentre il sottoprodotto è uno scarto che rispetta alcuni specifici requisiti”, spiega il Ceo di Vortex. Il primo requisito di un sottoprodotto è che venga realizzato per effetto di un processo produttivo e non sia l’obiettivo principale dell’azione. Non si possono lavorare le mele per ottenere le bucce. Il secondo è che venga valorizzato economicamente, quindi non può essere regalato. Il terzo è che non venga trattato ulteriormente quando esce dalla filiera, se non con tecnologie normali. “Non si possono fare depurazioni particolari per poterlo utilizzare. E poi comunque deve esserne sicuro l’utilizzo e infine l’impiego ovviamente deve essere legale”. LEGGI TUTTO

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    Il Pianeta è in pericolo e noi stiamo alla finestra

    Kitty Genovese venne uccisa nel 1964 nel quartiere di Kew Gardens, a New York, in tre attacchi distinti nell’arco di trenta minuti. Ben trentotto vicini avrebbero osservato l’aggressione dalle finestre o ascoltato le grida senza intervenire o chiamare le forze dell’ordine. Alcuni avrebbero acceso le luci o chiuso le tende, ma nessuno avrebbe agito per fermare l’assassino. L’unica chiamata alla polizia arrivò quando la donna era già morta. Il caso, descritto da John Darley e Bibb Latané nel 1968, divenne leggendario ed è oggi citato nei manuali di psicologia sociale di tutto il mondo: era una manifestazione tragica di un meccanismo psicologico che oggi conosciamo come effetto spettatore. Il resoconto originario del giornalista Martin Gansberg, apparso sulle pagine del New York Times, fu in seguito ridimensionato.

    Molti testimoni non videro chiaramente la scena, alcuni chiamarono la polizia e molti non compresero la gravità di quanto stava accadendo. Ma quello che qui ci interessa è che la vicenda stimolò le ricerche di Darley e Latané, incuriositi e forse anche increduli. Darley e Latané ricrearono in laboratorio una simile situazione di emergenza, che permise loro di verificare che, in effetti, la probabilità che una persona intervenga si riduce significativamente in presenza di altre persone. Quando il partecipante è l’unico spettatore, l’85 per cento segnala l’emergenza. Se i partecipanti sono in due si scende al 62 per cento. Se sono sei, la percentuale è del 31 per cento. Anche il tempo medio di risposta è indicativo. Aumenta con il numero di spettatori: due persone, 52 secondi; tre persone, 93 secondi; sei persone, 166 secondi. Più spettatori ci sono, più il senso di responsabilità si diluisce, perché si presume che ad agire sarà qualcun altro. Considerando che sulla Terra siamo in 8 miliardi, non è difficile capire per quale motivo di fronte al cambiamento climatico ci si comporti come testimoni indifferenti. Ad amplificare l’effetto spettatore concorrono anche altri fattori. Innanzitutto, l’anonimato: in quanto estranei gli uni agli altri, viene a mancare il pungolo all’azione dello sguardo giudicante di chi ci conosce. E poi tendiamo a pensare che solo soggetti ben più potenti di noi – governi, multinazionali, istituzioni internazionali – siano in grado di fare la differenza, e tacitamente li deleghiamo. Il risultato è che ogni individuo si colloca nel ruolo di spettatore passivo di un disastro collettivo, incapace di riconoscere il proprio potenziale per il cambiamento.

    Se la delega alimenta l’inazione, il fatalismo la consolida. Trasforma la passività in una rassegnazione totale. Di fronte all’enormità del problema ci si arrende come se il destino fosse già scritto e ogni sforzo velleitario. A differenza dell’illusione ottimistica, che genera una falsa sicurezza e smorza la percezione dell’urgenza, nel fatalismo l’iniziativa è inibita dal senso della propria inutilità. Entrambi, pur originando da premesse opposte, finiscono per avere lo stesso effetto: non fare niente, mantenere tutto com’è. Il fatalismo è strettamente legato al fenomeno sempre più diffuso delle eco-ansie. Si tratta di una condizione di preoccupazione cronica, spesso accompagnata da angoscia e impotenza, legata agli effetti del cambiamento climatico. Interessa in particolare i giovani, ai quali il futuro appare come già compromesso. Questo stato emotivo emerge quando il problema risulta tanto immenso da sembrarci insormontabile e quindi schiacciante. Per questo, l’esposizione costante a immagini catastrofiche e narrazioni cupe spesso ha effetti opposti a quelli desiderati: invece di stimolare l’azione, rischia di sopraffare le persone, inducendole a rifiutare il problema per autodifesa. L’eco-ansia, dunque, non è soltanto il riflesso di una minaccia oggettiva, ma anche il risultato di una comunicazione climatica che, pur con l’intento di sensibilizzare, rischia di generare paralisi.

    Per evitare il blocco emotivo serve riconoscere un altro meccanismo: il bias dello status quo. Tendiamo a sopravvalutare ciò che abbiamo e a preferire lo stato presente anche quando non è l’opzione migliore. Questa trappola si intreccia con l’effetto spettatore: se nessuno intorno a me interviene, la condizione abituale diventa la non-azione, e la mia inerzia mi apparirà non solo comoda, ma anche ragionevole. Il primo ci fa aspettare che agisca qualcun altro; il secondo ci fa sentire che, in fondo, non c’è nulla da cambiare. Purtroppo il nostro status quo è così basato sull’uso dei combustibili fossili da sembrarci inevitabile. E noi, che ci piaccia o no, tendiamo a percepire lo status quo come naturale, e quindi “giusto”. Quando non sappiamo come comportarci, infatti, il primo riflesso è imitare gli altri. Se tutti continuano a percorrere strade insostenibili, è più facile seguirli. Eppure è proprio questa nostra predisposizione al comportamento gregario che può rivelarsi un’opportunità se sappiamo orientarla verso buoni esempi. Le norme sociali possono essere descrittive (che cosa fanno le persone) o prescrittive (che cosa è approvato si faccia). Spesso non coincidono, e quando non coincidono prevalgono le prime: ciò che osserviamo pesa più di ciò che sarebbe desiderabile facessimo – come accade nell’educazione dei figli, che tendono a seguire l’esempio dei genitori più che a da fare ciò che viene detto loro.

    Pensiamo all’auto: la norma prescrittiva dice “usala meno”, ma il traffico quotidiano ci segnala che l’uso diffuso – anche per brevi tratte – è la norma descrittiva dominante. Per questo i contesti contano. Piccoli indizi possono rendere saliente una norma o l’altra. In una città del Colorado, i rifiuti venivano collocati in contenitori da 340 litri e il materiale riciclabile in contenitori da 130 litri. La città ha invertito questa disposizione, fornendo ai residenti contenitori da 340 litri per il riciclo e quelli più piccoli da 130 litri per i rifiuti. I residenti hanno così iniziato a riciclare di più, riempiendo i contenitori più grandi, e hanno prodotto meno rifiuti da collocare nei contenitori più piccoli. Evidentemente la grandezza del contenitore veicola una norma in modo silenzioso ma efficace. In una caffetteria del campus di Stanford, comunicare che un numero crescente di clienti sceglieva pasti con meno carne ha raddoppiato gli ordini vegetariani (dal 17% al 34%). In un altro studio, durante la siccità nelle lavanderie residenziali dello stesso campus, informare che sempre più residenti riducevano i lavaggi ha portato a un calo del 28,5% rispetto al 2,5% del gruppo di controllo. La leva è semplice: se il mondo sta cambiando, non vogliamo restare indietro. Ma il cambiamento deve apparire stabile e duraturo, non una moda passeggera.

    Un caso suggestivo è quello dei pannelli solari. Più un pannello è visibile, più diventa un messaggio esplicito: “Qui crediamo nella sostenibilità”. Studi condotti in California, Connecticut, Germania e Svizzera hanno documentato che la presenza di impianti solari ben riconoscibili sui tetti dei vicini aumenta significativamente la probabilità che altri seguano l’esempio. L’effetto si amplifica quando gli impianti vengono integrati nelle facciate o installati su tetti scoscesi, bene in mostra dalla strada. Non sono più solo fonti di energia pulita: diventano elementi estetici, simboli di status, dichiarazioni pubbliche di intenti. Tanto da trasformarsi in un vero e proprio catalizzatore sociale: stimolano conversazioni, incuriosiscono e invitano all’imitazione; diventano il segno tangibile di una scelta condivisa. La via d’uscita dal fatalismo e dall’effetto spettatore passa da qui: spostare lo sguardo dalla domanda “perché non interviene nessuno?” a “cosa posso fare io, qui e ora, insieme agli altri?”, e progettare contesti in cui la scelta sostenibile sia la più naturale, visibile e socialmente approvata. Le scelte quotidiane non risolvono tutto, ma sono tasselli essenziali di una risposta collettiva. Così si passa dallo stare passivamente alla finestra a fare attivamente il bene per il pianeta: non aspettando l’eroe, ma moltiplicando piccoli interventi coordinati che ridefiniscono in modo virtuoso – passo dopo passo – ciò che chiamiamo “normale”.
    * (L’autore è professore ordinario di Filosofia della scienza presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano) LEGGI TUTTO

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    “Per salvare il mondo dobbiamo rigenerare. Come? Ispirandoci al Medioevo”

    “Forse dovremmo ripartire dal Medioevo, è tempo di fare un passo indietro se vogliamo guardare avanti e rigenerare la Terra. E lasciatemelo dire: svegliamoci a puntare di più sull’agricoltura rigenerativa o sarà tardi per il Pianeta”. Andrea Illy, presidente della Illy Caffè, è uno dei pochi imprenditori italiani presenti alla Cop30 di Belém, in Brasile. Se ha sorvolato l’oceano per partecipare alla grande Conferenza delle parti sul clima, c’è un motivo: dice di sentire l’urgenza di agire anche perché – vedendo il mondo del caffè cambiare tra speculazione e impatti del cambiamento climatico – ha la sensazione che “l’agricoltura debba tornare centrale. Siamo ancora in tempo per dar vita a un nuovo modello di progresso, ma per farlo dobbiamo unire i concetti di clima, biodiversità e economia circolare”.

    Lei è uno dei pochi imprenditori italiani che è volato in Brasile per partecipare alla Cop30. Che impressione le ha fatto?
    “Uno dei pochi o forse addirittura l’unico. Scherzi a parte io volevo esserci e questa Cop che, nonostante le critiche, mi è sembrata organizzata in maniera adeguata e simbolica per due motivi. Il primo è che nonostante i grandi assenti, a cominciare da Trump, si va avanti lo stesso. Il secondo è che è stata realizzata in Amazzonia – simbolo dell’ambiente e madre degli ecosistemi – in modo tale da porre l’accento su un approccio più sistemico nella salvaguardia della natura, parlando, ed è la cosa che oggi mi interessa di più, anche di agricoltura rigenerativa”.

    Che cosa si aspetta dal summit?
    “Che si arrivi a fare di questa Cop, come ha detto Lula, la Cop della verità, capace di dirci le cose come stanno ma anche di indicare soluzioni. Io personalmente avevo un’agenda tutta focalizzata sul caffè, dato che ero parte della delegazione italiana della cooperazione che ha presentato la strategia italiana per il caffè, e dunque non sono riuscito a seguire altri temi, ma per quanto ho potuto respirare ho fiducia nella riuscita del vertice”.

    Lei sostiene l’idea che serva un’unica Cop sul clima e sulla biodiversità. Perché?
    “Qui siamo di fronte a un sistema complesso, dove però cerchiamo sempre di scomporre i problemi uno alla volta per affrontarli, ma questo non funziona, anzi può addirittura produrre effetti collaterali. Io invece credo che si debba affrontare le due grandi crisi globali, clima e biodiversità, non come separate ma insieme. Finalmente a questa Cop ci si è focalizzati sulla vera natura del problema, che è di natura ecologica prima ancora di climatica. Nel libro che ho scritto e pubblicato di recente (La società rigenerativa, edizione Egea, 2025, ndr) sostengo con determinazione proprio che la crisi climatica è risultante della crisi ambientale e non viceversa e che non sono due crisi separate. Dobbiamo partire dalla crisi ambientale se vogliamo risolvere quella climatica e per riuscirci dobbiamo puntare sulla rigenerazione ambientale”.

    Quello della rigenerazione è un mantra che porta avanti con la Regenerative Society Foundation, di cui è co-presidente, puntando molto sull’agricoltura rigenerativa. Di cosa si tratta?
    “Di un approccio circolare dell’agricoltura che include un business model capace di rigenerare gli ecosistemi vitali. Sappiamo tutti che abbiamo bisogno dei servizi ecosistemici: per vivere ci serve l’aria, l’acqua, il cibo. L’agricoltura rigenerativa punta a ripristinare la salute del suolo e la biodiversità invertendo il degrado causato dall’agricoltura industriale e, anziché esaurire risorse, le rimette in circolo attraverso pratiche sostenibili, migliorando la fertilità e anche la resilienza al clima. Un sistema opposto al modello estrattivo attuale che ha già “bruciato” quasi il 40% delle risorse naturali. Quello di oggi è un modello destinato a portare all’estinzione della nostra specie: è solo una questione di tempo, ma possiamo cambiarlo subito e puntare sulla rigenerazione del capitale naturale, che significa anche crescita economica”.

    Ma in un mondo che va verso i 10 miliardi di persone è applicabile su larga scala?
    “Io credo di sì. Mentre il biologico, con vincoli precisi, è più complesso su larga scala, l’agricoltura rigenerativa, che fra i suoi driver ha l’idea di nutrire il suolo con carbonio organico e migliorarne il microbiota, ha bisogno di poca agrochimica ed è espandibile in vari contesti. Ma per iniziare a spingere veramente in questa direzione serve prima ammettere, partendo dai dati, che l’agricoltura classica oggi è quasi sempre al primo posto per impatti negativi se pensiamo per esempio al consumo di acqua e suolo o la perdita di biodiversità. Se partiamo da qui, allora è logico puntare su un cambiamento necessario dell’agenda, dove mirare appunto all’agricoltura rigenerativa che dimostra produttività inalterata o addirittura migliorata e ha bisogno di molto meno suolo e acqua. Spesso però, anche a causa della pressione delle lobby, questo concetto non riesce a passare”.

    Il vostro caffè è prodotto così?
    “Dal 2019 puntiamo sull’agricoltura rigenerativa, capace di adattarsi e mitigare l’ambiente al tempo stesso, un vero miracolo. E, tracciando, sappiamo anche esattamente chi ci vende il caffè, come e dove viene fatto. Il 90% dei nostri farmer ha adottato questa pratica e il caffè è diventato il raccolto leader in assoluto nella rigenerativa. Davvero fantastico”.

    Quanto impatta la crisi del clima sul caffè?
    “Come ho detto più volte il caffè soffre per speculazione, che incide sia sulla vita dei lavoratori sia sui consumatori che vedono talvolta raddoppiare il costo di una tazzina, e soffre per una crisi del clima che, avevamo stimato dieci anni fa, nel 2050 porterà il 50% delle terre coltivabili a caffè a non esserlo più. Purtroppo dopo dieci anni oggi osserviamo che questo sta già accadendo a causa di intensità e frequenza degli eventi estremi: ondate di calore e siccità, ma anche eccesso di pioggia e successive malattie delle piante, stanno diventando letali. Però, appunto, è anche vero che per esempio l’agricoltura rigenerativa permette di resistere a due gradi superiori di temperature estreme e ha dato prova di maggiore resilienza”.

    Dunque il caffè del futuro sarà “rigenerativo”? E anche le Cop dovranno mettere al primo posto la questione agricoltura?
    “Sì credo che l’agricoltura dovrebbe diventare centrale nell’agenda del clima. Per risponderle, il punto è questo: noi abbiamo perso due miliardi e mezzo di ettari boschivi di ecosistemi vitali. Forse possiamo sperare di recuperarne uno, ma quanto tempo ci metteremo? Quanto ci costa? Chi lo fa? Diciamo che è complesso. Ma dal punto di vista biologico il processo di degradazione è invece reversibile perché è tutto quanto circolare: se lasciamo lavorare la natura, possiamo recuperare molto. Riuscirci significa però avere i giusti modelli. Anni fa mi sono imbattuto, studiando, nei modelli medioevali: allora la terra era di proprietà collettiva e veniva data in custodia alle famiglie le quali avevano il diritto di sfruttamento per soddisfare la propria sopravvivenza e che voleva dire anche commercializzare, purché non andassero a deteriorare la terra che avevano avuto in concessione. Ecco quel singolo concetto mi sembra una risposta chiara che dovremmo riproporre. In certe comunità montane in Europa funziona ancora così ed applicare l’agricoltura rigenerativa a questo modello, ovvero coltivare come prima della Rivoluzione verde, è possibile e non è niente di nuovo. Anzi, con più scienza e tecnologia oggi possiamo, guardando al passato, migliorare il futuro. E questo vale per il caffè e le altre colture”. LEGGI TUTTO

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