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    Gli Usa grandi assenti, l’America di Trump guarda al passato

    Quando si ascolta il suono delle gigantesche turbine eoliche spegnersi, e si osservano le torri delle raffinerie ergersi di nuovo nel mezzo di paesaggi che una volta credevamo sacri, c’è qualcosa di più della semplice politica a segnare il futuro americano. È la promessa mancata di un Paese diverso, che non guarda più al futuro. Ma al passato. Gli Stati Uniti saranno i grandi assenti alla Cop 30 in programma a Belém, in Brasile, nel cuore dell’Amazzonia, scelta simbolica perché coinvolge il “polmone del Pianeta”. Non si tratta solo di numeri – emissioni, sussidi, regolamenti – ma di valori. Donald Trump è un leader mondiale che ignora il consenso scientifico globale, disfa accordi internazionali, indebolisce le politiche ambientali. Secondo i suoi oppositori, il presidente degli Stati Uniti non crede nella salvezza del Pianeta, ma solo nella propria sopravvivenza. Vero o no, ci sono atti concreti che hanno allontanato l’America dal resto del mondo. Il 20 gennaio Trump ha firmato un ordine esecutivo (“Putting America First in International Environmental Agreements”), che prevede il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sul clima, da cui il tycoon era già uscito durante il primo mandato presidenziale, nel 2017, poi corretto dal suo successore, Joe Biden. Il ritiro non è immediato – per i meccanismi dell’accordo serve un anno – ma la direzione è chiara. Nel frattempo il dipartimento di Stato ha rimosso tutti gli esperti responsabili per i negoziati sul clima. Questo significa che a Cop30 gli Usa avranno nessuna o una modesta rappresentanza ufficiale, togiendola dalle negoziazioni multilaterali sulle politiche climatiche globali.

    Verso Cop30

    Emissioni, finanza, foreste: i temi in discussione in una Cop in bilico

    di Luca Fraioli

    03 Novembre 2025

    Biden aveva fissato obiettivi per la diffusione di veicoli elettrici e standard più rigidi sulle emissioni nocive. Trump ha revocato il piano che prevedeva la presenza del cinquanta per cento di nuovi veicoli elettrici entro il 2030 e sta rallentando le normative sulle emissioni. Il suo predecessore aveva presentato la normativa “Clean Power Plan 2.0”, una proposta di regolamentazione per ridurre le emissioni dalle centrali elettriche, in forma più rigida in termine di gas serra e inquinanti. L’amministrazione Trump ha ordinato la revisione, cancellando molte delle restrizioni previste. Sotto la presidenza Biden sono stati approvati permessi e incentivi nei progetti solari ed eolici, sulle infrastrutture verdi e gruppi di nuova generazione per la produzione di energia pulita. Trump ha cancellato grandi progetti solari, come Esmerald 7 in Nevada, bloccato sovvenzioni e finanziamenti per programmi green, privilegiando l’industria dei combustibili fossili, da cui provengono molti generosi donatori della campagna elettorale del tycoon. È l’America del “Drill, baby, drill”, delle trivellazioni petrolifere ovunque, anche nelle riserve naturali.

    Con il “Greenhouse Gas Reduction Fund” Biden stava cercando di sostenere le comunità svantaggiate, installare infrastrutture verdi, garantire incentivi per le rinnovabili e veicoli elettrici. Il suo successore ha cancellato o sospeso programmi come “Solar for All”, del costo di sette miliardi di dollari, destinati a espandere l’energia solare per le comunità a basso reddito. La politica antigreen sta diventando la normalità in un mondo in cui l’emergenza ambientale appare più evidente e le riforme sempre più necessarie. Il rischio è che con il disimpegno americano, del Paese più grande e potente al mondo, nonché tra i più inquinanti insieme alla Cina, l’azione climatica perda la sua urgenza morale anche in altre aree, e le politiche ambientali diventino un optional. Gli Stati Uniti non sono nuovi a fluttuazioni nella politica climatica, ma raramente la discontinuità è stata così drammatica. Poche volte l’Unione Europea, ma anche l’Asia, il Sud America e l’Africa hanno guardato all’America con una crescente delusione. La svolta negazionista arriva, però, da lontano: il 5 giugno 2018, in un’intervista Trump aveva parlato di “riscaldamento terrestre” come di una questione passeggera di termini: “Prima dicevano che faceva freddo, ora che fa caldo, ma forse ci vorrebbe in inverno un po’ di riscaldamento globale”.

    Cinque mesi dopo, commentando la pubblicazione di un rapporto federale sugli effetti economici del cambiamento climatico, Trump disse di “non credere ai risultati”. Pochi giorni dopo, il 21 novembre 2018, sull’allora Twitter ironizzò davanti alle temperature polari registrate in America: “Che fine ha fatto il riscaldamento globale?”, scrisse. Da sempre gli Stati Uniti sono stati visti come il teatro di uno scontro tra forze più grandi: la tecnologia contro lo spirito, il potere contro l’autenticità, l’ego contro la comunità. Secondo alcuni, un uomo pubblico che nega la realtà scientifica in nome dell’ego o dell’interesse personale sarebbe la reincarnazione del “falso profeta americano”, che sfrutta la fede collettiva nel progresso per distruggere la stessa idea di progresso.

    Le minacce lanciate da Trump contro la politica ambientale non gli sono costati voti. Anzi, hanno moltiplicato il consenso. Chi lo ha accusato di aver confuso il Pianeta con il suo resort è stato battuto. Chi ironizzava sul fatto che Trump considerasse la Terra solo un bene immobiliare, è stato servito. Niente di quello che sta accadendo adesso dovrebbe sorprendere, ma a vedere tutti i progetti evaporati in pochi mesi, la rivoluzione trumpiana appare imponente e devastante. Il progetto Esmeralda in Nevada era un gigantesco impianto solare che avrebbe alimentato quasi due milioni di case. Finiti nel cestino anche i ventiquattro progetti di clean energy approvati da Biden per un totale di 3,7 miliardi di dollari. Tra questi è a rischio uno di riduzione delle emissioni basato sull’idrogeno nel complesso Baytown di Exxon.

    Editoriale

    Cop30 – “L’ultimo appello”. Un’istituzione da difendere

    di Federico Ferrazza

    03 Novembre 2025

    Evaporati centinaia di migliaia di posti di lavoro in Texas, Louisiana, nel Midwest e in California. Non vedremo più gli hub di nuova generazione per l’idrogeno pulito, selezionati dall’amministrazione Biden con sussidi federali. Tra questi “Pacific Northwest Hydrogen Hub” e Arches, in California. In ballo c’erano investimenti per miliardi di dollari e impianti che avrebbero fornito carburante pulito per industria e trasporti. C’era un piano sovvenzionato dal governo con 3,1 miliardi per favorire pratiche agricole climate smart, in cui erano previste colture di copertura e gestione del suolo nel Midwest e nel sudest americano. In pausa la costruzione di parchi eolici offshore nell’area di Vineyard Sound e nel Golfo del Messico. Cancellato il programma federale per la costruzione di 500 mila stazioni di ricarica elettrica per veicoli in tutti gli Stati Uniti. E l’installazione di impianti per la cattura e stoccaggio di CO2 in Texas, Louisiana e nel Midwest. E i finanziamenti per interventi di adattamento ambientale, con la salvaguardia di barriere naturali, ripristino di paludi e protezione delle coste, oltre a progetti per la produzione di batterie e riciclo di materiale nocivo nella West Coast. L’America, soltanto un anno fa, voleva essere il Paese guida anche nella sfida al cambiamento climatico. L’amministrazione Trump ha messo in pausa o cancellato tutto. LEGGI TUTTO

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    Così l’Italia tenta di annacquare il Green Deal

    Lo aveva annunciato a settembre all’Assemblea generale dell’Onu, lo ha ribadito il 22 ottobre scorso davanti alle Camere. Così, quando Giorgia Meloni è partita per il Consiglio europeo per discutere la revisione della legge europea sul clima era già chiaro a tutti che avrebbe portato il “no” dell’Italia. Cancellato qualsiasi dubbio quando ha aperto il dossier con cui il 23 ottobre è sbarcata a Bruxelles. Conteneva una serie di paletti al Green Deal europeo che Meloni ha bollato come ”ambientalismo ideologico”. Sollecitando un nuovo approccio contro quelle che ha chiamato “follie verdi” che secondo il capo del governo danneggiano l’industria, a cominciare dall’auto. La visione italiana non è mutata nemmeno sul gas sul quale il governo punta per la politica energetica. Al centro la difesa del Piano Mattei, strategia con cui il governo vuole far diventare il Paese un hub energetico nel Mediterraneo. Accordi sono stati siglati soprattutto con l’Algeria (fino al 2021 oltre il 40% delle importazioni di gas dell’Italia proveniva dalla Russia) per far arrivare nove miliardi di metri cubi all’anno attraverso il gasdotto TransMed. Su questo nessuna marcia indietro. Il Piano Mattei è considerato dal governo come un progetto a lungo termine per posizionare l’Italia come corridoio meridionale dell’Europa per il gas e per i biocarburanti.

    Con la Ue, però, ad ottobre l’obiettivo era trovare una linea comune in vista della Cop30 in Brasile a cui comunque la premier ha già fatto sapere che non parteciperà. Per quanto riguarda il taglio delle emissioni, la proposta italiana era di fissare una tappa intermedia: il 90% entro il 2040, come step verso il target finale del 100% entro il 2050. Giorgia Meloni, a questo proposito, ha parlato di “flessibilità“ e “semplificazione“. Così, se da una parte la premier ha assicurato che l’Italia continuerà a sostenere la “riduzione delle emissioni“, dall’altra ha spiegato che lo farà senza “l’approccio ideologico che impone obiettivi irraggiungibili, che producono danni al nostro tessuto economico-industriale, indeboliscono le nazioni europee e rischiano di compromettere la credibilità dell’Unione europea“.

    Per il governo italiano la strada è segnata dal principio della “neutralità tecnologica” e che riguarda soprattutto il futuro dell’auto, del trasporto pesante o delle industrie di acciaio, vetro e cemento. “Non può esistere solo l’elettrificazione, bisogna restare aperti a tutte le soluzioni, come i biocarburanti sostenibili che devono essere consentiti anche dopo il 2035“, ha spiegato la premier confermando di essere contro la scelta del “tutto elettrico” post 2035. In altre parole, la linea del governo sulla transizione energetica è questa: non dobbiamo limitare la ricerca alle fonti rinnovabili, ma includere tutte le soluzioni in grado di abbattere le emissioni, dall’idrogeno al biometano, alla cattura della CO2 fino naturalmente al ritorno del nucleare chiesto a gran voce anche dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin.

    E sempre sulla riduzione delle emissioni e il modo con cui realizzarla, l’Italia fa ancora appello alla “massima flessibilità” puntando sulla contabilizzazione dei tagli ottenuti dai diversi sistemi di cattura del carbonio. Oltre all’adozione di una “robusta clausola di revisione“ degli obiettivi climatici della legge clima, capace di valutare a cinque anni progressi e azioni. E poi ci sono i conteggi del “crediti internazionali”. L’Italia ha chiesto di poter conteggiare fino al 5% dei crediti, ottenuti dai progetti di cooperazione internazionale anti-emissioni di carbonio che l’Ue e gli Stati membri finanziano in Paesi terzi. Considerando che le emissioni europee valgono circa il 6% di quelle globali, “non è trascurabile – per Meloni – il valore che ha, ai fini dell’obiettivo finale, favorire un’economia sostenibile nei Paesi in via di sviluppo“.

    L’Italia vuole far valere il peso del Piano Mattei e del suo focus sui progetti ambientali. Come il sostegno all’accesso all’energia elettrica “Mission 300”, i progetti dalla Costa d’Avorio al Congo, le iniziative Ascent cofinanziate con la Banca mondiale in Tanzania e in Mozambico per ampliare l’accesso all’energia da fonti rinnovabili. La posizione italiana è dunque quella di voler voltare pagina e cambiare paradigma. L’ultimo punto sollevato da Giorgia Meloni, dopo il gas e le fonti rinnovabili, il conteggio dei crediti di cooperazione internazionale anti-emissioni, il principio di neutralità tecnologica da applicare a tutta la legislazione climatica a cominciare da quella dell’auto, riguarda i fondi.

    “Nessuna transizione è davvero possibile senza stanziare risorse adeguate“, ha detto Meloni che guarda ad un Quadro finanziario pluriennale, per favorire gli investimenti privati. Temi su cui la premier cerca alleati. Guarda soprattutto alla Germania del cancelliere Friederich Merz dove l’industria del Paese più “verde” d’Europa è colpita da una crisi senza precedenti. LEGGI TUTTO

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    Il lino, il tessuto sostenibile e dai mille usi

    Conosciuto fin dall’antichità e ancora oggi tra i materiali più apprezzati, il lino (Linum usitatissimum) è una fibra naturale composta al 70% da cellulosa. Robusto, elegante, traspirante, ha saputo attraversare i millenni senza perdere il suo fascino. Qui scopriremo tutto sul lino e sui suoi utilizzi.

    La storia del lino
    Le tracce più antiche del lino risalgono all’8.000 a.C. in Medio Oriente e già gli Egizi lo utilizzavano per avvolgere le mummie dei faraoni. I Fenici lo commerciavano nei porti del Nord Europa, i Romani lo destinavano sia all’abbigliamento, sia alla biancheria da casa, mentre durante il Rinascimento diventò simbolo di eleganza e raffinatezza. Oggi, invece, il cuore della produzione mondiale si concentra in Europa: oltre il 70% del lino che arriva sul mercato nasce in Francia, Belgio e Paesi Bassi. In queste aree il clima umido e i terreni fertili creano le condizioni ideali per coltivarlo, e non a caso i produttori della zona hanno ottenuto il marchio di qualità Master of Linen.

    Che cos’è il lino e che tipo di tessuto è
    Chi lo indossa d’estate conosce bene la sensazione di leggerezza che regala. Il lino, fibra tessile naturale ottenuta dalla pianta omonima e coltivata da migliaia di anni, è traspirante e termoregolatore: mantiene il corpo fresco durante le giornate calde, ma allo stesso tempo protegge dal freddo nelle stagioni intermedie. È anallergico e non trattiene polvere, qualità che lo rendono particolarmente adatto anche alle pelli più sensibili. È, insomma, un tessuto che sa unire comfort e salute, e che continua a essere apprezzato tanto nell’abbigliamento quanto nei tessuti d’arredo.

    Cotone e lino: le differenze tra i due tessuti
    A prima vista lino e cotone possono sembrare simili, ma le differenze sono significative. Il cotone è più morbido e uniforme, meno soggetto a pieghe, mentre il lino, più rigido, tende a stropicciarsi, caratteristica che però oggi è diventata sinonimo di naturalezza ed eleganza. Sul fronte ambientale, invece, il lino ha un vantaggio: richiede meno acqua per la coltivazione e non necessita di pesticidi. È quindi una fibra sostenibile, riciclabile e biodegradabile al 100%.

    Quali tipologie di lino esistono
    Non tutti i lini sono uguali: la finezza della fibra ne determina la destinazione d’uso. Le varietà più sottili si utilizzano per realizzare tele pregiate e tessuti raffinati come la batista, mentre quelle di media grandezza finiscono per diventare camicie, asciugamani o lenzuola. Infine, le fibre più grosse e robuste trovano spazio nelle tovaglie o nei canovacci. Anche i residui della lavorazione non vanno sprecati: la stoppa, ad esempio, è perfetta per spaghi e corde.

    Le proprietà e i vantaggi del lino
    Il lino ha molte virtù. Intanto, è un tessuto molto resistente che non si deforma con i lavaggi, anzi. Con il tempo, per quanto possa sembrare paradossale, tende a diventare più morbido e piacevole al tatto. È anche particolarmente traspirante e lascia che la pelle respiri in modo naturale, assorbendo l’umidità senza trattenerla. Non solo, perché filtra persino i raggi UVA ed è anche una fibra dalle proprietà antibatteriche e ipoallergeniche. Questo significa che chi soffre di sensibilità cutanea, con il lino non avrà problemi di alcun tipo. Ciò che però lo rende un ottimo tessuto prezioso è la sua sostenibilità; coltivarlo non impoverisce il terreno, non richiede irrigazioni intensive e, una volta lavorato, resta completamente riciclabile e biodegradabile.

    Quali sono i difetti del lino
    Nonostante i suoi pregi, il lino non è esente da difetti, o comunque “punti deboli”. Ad esempio, il primo che salta alla mente è la tendenza di questo tessuto pregiato a stropicciarsi molto facilmente, un aspetto che richiede cure specifiche. I capi bianchi, infatti, possono essere lavati fino a 60 gradi, mentre quelli colorati devono essere trattati con detergenti delicati e temperature più basse. Inoltre, dopo il lavaggio è fondamentale asciugarlo bene e stirarlo ancora umido, preferibilmente al rovescio. Solo così manterrà la sua eleganza naturale.

    Lino: come si lavora
    La lavorazione del lino è lunga e complessa. Tutto inizia con la raccolta, quando la pianta viene estirpata interamente dal terreno per mantenere la fibra il più lunga possibile. Dopo la macerazione, che permette di separare il fusto dal tessuto, si passa alla strigliatura: le fibre vengono pulite e pettinate ed è a questo punto che inizia la filatura, che può essere più o meno fine a seconda del risultato che si vuole ottenere. Infine, arriva la fase di nobilitazione, in cui il lino viene candeggiato, tinto o irrigidito con appretti per prepararlo al mercato. Sono passaggi che richiedono esperienza e cura, e che spiegano perché questo tessuto venga considerato di pregio da secoli.

    Gli usi del lino
    Il lino è oggi onnipresente: si trova nell’abbigliamento estivo, nelle lenzuola fresche e traspiranti, nelle tende leggere che filtrano la luce, ma anche nei rivestimenti per divani e poltrone. Non manca nemmeno nel packaging ecologico, sempre più ricercato da chi vuole ridurre l’impatto ambientale. La sua versatilità è tale che viene utilizzato perfino nella produzione di carta e, grazie alla stoppa, per corde e spaghi resistenti.

    Perché preferirlo ad altri tessuti
    Scegliere il lino significa optare per un tessuto che unisce tradizione e modernità. È bello, resistente, rispettoso dell’ambiente e, soprattutto, capace di regalare comfort e freschezza in ogni stagione. Un materiale nobile che ha attraversato i secoli e che, oggi più che mai, risponde alle esigenze di chi cerca qualità senza rinunciare alla sostenibilità. LEGGI TUTTO

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    Cibo del futuro, la biotecnologia aiuta a creare alimenti più sani e sostenibili

    “Crediamo che la biotecnologia possa cambiare radicalmente il modo in cui produciamo il cibo”. Ne è convinto Lorenzo Paolini, cofondatore & ceo di Noiet, startup food-biotech fondata a Milano nel luglio 2025 insieme a Marcello Brugnoli che sviluppa proteine fermentate multifunzionali in grado di sostituire, in un’unica soluzione, additivi sintetici tradizionalmente impiegati nell’industria alimentare. Proteine che garantiscono conservazione naturale, protezione antiossidante, miglioramento del profilo nutrizionale e prolungamento della vita dei prodotti. Davanti alla richiesta del mercato di trovare alimenti più naturali, privi di additivi artificiali e con etichette semplici e trasparenti, Noiet ha sviluppato una tecnologia basata sulla fermentazione microbica che consente di ottenere ingredienti naturali in grado di essere riprodotte anche su scala industriale.

    Il “food tech” incontra la transizione ecologica: arriva un nuovo corso di laurea

    di Dario D’Elia

    05 Novembre 2025

    La tecnologia alleata dei cibi del futuro
    “La nostra idea è dimostrare che è possibile unire innovazione, naturalità e sostenibilità – racconta Lorenzo Paolini – e se l’obiettivo è costruire un’industria alimentare più trasparente, pulita e circolare, la tecnologia non può che essere uno degli alleati principali”. Nemico numero uno: gli additivi di sintesi chimica, i cosiddetti “numeri E”, le sostanze utilizzate per una funzione specifica (ad esempio i conservanti), ma prive di valori nutrizionali, con il risultato di allungare l’etichetta e complicarne la comprensione al consumatore. Spiega Paolini: “Utilizzando come materia prima, gli alimenti originati dalla produzione delle bevande vegetali, ricchi di proteine, fibre e zuccheri, tramite il nostro processo, otteniamo un ingrediente naturale in polvere, estremamente ricco da un punto di vista nutrizionale e con proprietà antiossidanti e conservanti. Attraverso la biotecnologia, riusciamo a sostituire gli additivi chimici con ingredienti fermentati multifunzionali e clean-label, riducendo al contempo l’impatto ambientale dell’industria alimentare”.

    Lorenzo paolini e Marcello Brugnoli fondatori della startup Noiet  LEGGI TUTTO

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    Emissioni a -90% in 15 anni, la Ue continua sulla strada del Green Deal

    “Abbiamo approvato sia la legge clima e che l’Ndc europei”. Lo conferma nella mattinata di Bruxelles il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin alla stampa. Dopo un nulla di fatto ieri nel Consiglio straordinario ambiente, la cui conclusione era prevista per le 16, si è lavorato tutta la notte a un testo […] LEGGI TUTTO

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    Da Berlino a Belém: 30 anni di vertici per aiutare la Terra

    “La guerra è la forma più odiosa di inquinamento”. La frase non è di un leader politico di oggi, ma di Olof Palme primo ministro svedese quando, insieme al segretario delle Nazioni Unite Kurt Waldheim inaugurava la prima Conferenza Onu sull’Ambiente. Era il 1972. Si tenne a Stoccolma, la città che decenni più tardi vide una ragazza di 15 anni, Greta Thunberg, incatenarsi davanti al Parlamento e diventare leader del movimento ambientalista internazionale Friday for Future. All’epoca di Palme e Waldheim però c’era ancora la Guerra Fredda e il conflitto in Vietnam con le devastanti conseguenze ambientali. Fu anche a causa di quelle immagini che per la prima volta 112 Stati e 44 organizzazioni decisero di riunirsi e discutere di ecologia, mentre i movimenti diedero vita a una contro conferenza, i Forum dell’ambiente.

    Editoriale

    Cop30 – “L’ultimo appello”. Un’istituzione da difendere

    di Federico Ferrazza

    03 Novembre 2025

    In realtà, di ambiente nel 1972 si parlò poco, ancora meno di clima. Pensata per rilanciare il ruolo delle Nazioni Unite, i lavori della Conferenza di Stoccolma naufragarono a causa dello scontro ideologico tra il blocco dell’Est e dell’Ovest complicato dalla crisi energetica. Bisognerà aspettare 23 anni, il 1995, per la prima Conferenza delle Parti (Cop) delle Nazioni Unite e veder riuniti gli Stati aderenti alla Convenzione sui cambiamenti climatici. Passando per il Protocollo di Montreal (1987) che sancì la scoperta del buco dell’ozono sopra l’Antartide e la prima Conferenza mondiale sui cambiamenti atmosferici di Toronto (1988) con la nascita dell’Ipcc il Gruppo Intergovernativo sul clima. Il primo report scientifico mostrò l’impatto dei gas serra. Un trattato sul clima non era più rinviabile. Obiettivi: ridurre le emissioni e l’uso delle risorse, definire impegni vincolanti per i Paesi industrializzati. Insomma, trovare un modo nuovo di vivere sulla Terra. La strada è tracciata: BerlinoNel 1995 a Berlino va in scena la prima Conferenza delle parti sul Clima della United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc). La Cop numero 1. E da quel momento le Cop scriveranno la storia della lotta al climate change, tra successi e fallimenti, pietre miliari e intese poco convincenti. I Paesi in quel 1995 elaborano il “Mandato di Berlino”, in cui si impegnano per la riduzione delle emissioni a partire dal 2000.Ma le difficoltà emergono già nel 1996 quando presidente di Cop2 è una giovane Angela Merkel: un teatro di scontri mentre esce il secondo rapporto Ipcc sul taglio delle emissioni. L’Europa spinge, Usa e Giappone no.

    A Kyoto la prima sfida globale
    È in Giappone con la Cop3 nel 1997 che viene adottato il primo impegno vincolante: il Protocollo di Kyoto. Entrerà in vigore solo nel 2005, ma 160 Paesi si impegnavano già a ridurre le emissioni di gas a effetto serra tra il 2008 e il 2012, di almeno il 5%. Per la prima volta le nazioni riconoscevano che il cambiamento climatico era un problema comune causato all’uomo. Vengono anche definiti i gas da “combattere” e parole come “neutralità climatica” e “decarbonizzazione” entrano nel dibattito pubblico. Sembra un punto di svolta, ma nel 2000 all’Aja, la Conferenza numero 6, molto attesa perché avrebbe dovuto dare concretezza proprio al Protocollo, viene sospesa a causa di un forte contrasto tra Ue e Usa: è la prima volta.

    La road map per il futuro
    Finalmente la Conferenza sul clima del 2005 a Montreal sancisce l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto. Alla Cop11 si tenta anche di negoziare tagli più importanti alle emissioni, ma gli Usa si sfilano. Nasce comunque il Montreal Action Plan per estendere gli impegni oltre il 2012. Si tratta per creare la “mappa per il futuro”: tracciare una linea di continuità storica sui negoziati climatici. Si gettano le basi che porteranno a Parigi su finanza climatica e riscaldamento globale.

    Verso Cop30

    Emissioni, finanza, foreste: i temi in discussione in una Cop in bilico

    di Luca Fraioli

    03 Novembre 2025

    La svolta a Parigi
    L’accordo storico doveva essere raggiunto alla Cop15 a Copenaghen nel 2009, ma la conferenza fallì per le grandi divisioni. Si dovette ricominciare da zero e ci vollero sei anni per raggiungere nel 2015 a Parigi (Cop21) un accordo che ponesse l’obiettivo di rimanere “al di sotto dei 2 °C”, con raccomandazioni intorno a 1,5 °C come sostenuto dalla comunità scientifica. 196 Paesi firmarono il trattato fissando una revisione ogni 5 anni. In realtà l’Accordo nacque debole: gli obiettivi non erano vincolanti e il sistema di revisione avrebbe dovuto spingere un maggiore controllo. La realtà racconta un’altra storia.

    “Ho 15 anni e sono svedese”
    “Voi dite di amare i vostri figli, eppure gli state rubando il futuro”. È dicembre 2018 quando a Katowice. in Polonia, un’adolescente parla al summit sul clima Cop24. “Se avrò dei bambini forse mi chiederanno come mai non avete fatto niente quando era ancora il tempo di agire. Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no”. È la prima apparizione internazionale di Greta Thunberg. Sarà il simbolo della mobilitazione giovanile per il clima. L’impatto mediatico globale è molto forte.

    Il Patto per il clima
    Un mondo sconvolto dalla pandemia, che ha mostrato quanto la crisi climatica non sia solo una questione ecologica ma di salute globale, assiste nel 2021 alla Cop26 a Glasgow, un mix di delusioni e passi avanti. Per la conferenza più importante dopo Parigi è un’occasione mancata. Soprattutto per la questione legata al carbone dove India e Cina riescono a far sostituire nel Patto per il clima la parola “fine” a “progressiva riduzione”. Stesso discorso per i sussidi ai combustibili fossili. Ci sono però passaggi importanti: la riduzione del 45% delle emissioni entro il 2030, mentre i diritti umani entrano nel meccanismo del “doppio conteggio”: la riduzione delle emissioni potrà essere conteggiata sia dal Paese che ha acquistato il credito, sia dove avviene l’effettiva riduzione. No invece ai 100 miliardi di dollari all’anno per i Paesi in via di sviluppo. Tutto rimandato.

    Loss and Damage
    Tra infinite discussioni a Sharm el-Sheikh nel 2022 (Cop27) viene istituto il fondo Loss and Damage destinato ai Paesi vulnerabili. Niente da fare per la messa al bando del carbone e dei sussidi alle fonti fossili. L’anno dopo a Dubai la Cop28 si inaugura tra polemiche, defezioni e boicotaggi. Nel Paese che produce milioni di barili di greggio la presidenza della Conferenza va a Sultan Ahmed Al-Jaber, Ceo della compagnia petrolifera statale. Punto debole anche della Cop29. A Baku presidente è Mukhtar Babayev, ministro dell’Ecologia e Risorse naturali dell’Azerbaigian, ex manager della compagnia petrolifera Socar. Eletto Trump che annuncia: gli Usa escono dall’Accordo di Parigi.

    La Road map Baku-Belèm
    Nata per rafforzare la cooperazione, la Road map Baku-Belém, promossa dalla presidenza azera e brasiliana, mira ad aumentare le risorse finanziarie destinate a sostenere lo sviluppo economico a basse emissioni e resilienti al clima dei Paesi più fragili. Obiettivo: mobilitare 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Il Brasile spera di posizionarsi come leader della lotta al cambiamento climatico soprattutto in risposta al disinteresse degli Stati Uniti. Intanto però alcuni Paesi, tra cui lo stesso Brasile, ma anche India e Sudafrica, puntano il dito contro le politiche ambientali della Ue, responsabile secondo loro di aver posto restrizioni al libero commercio. Una controversia che rischia di piombare sulla Cop30 in Amazzonia. Ce la farà il presidente André Corrêa do Lago economista e diplomatico brasiliano a condurre i negoziati con successo? Il mondo ci spera. LEGGI TUTTO

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    Quarant’anni per “riparare” Il buco dell’ozono

    Sono passati quasi 40 anni da quando la scoperta del buco nell’ozono in Antartide ha mostrato al mondo l’impatto dell’uomo sull’ambiente. Una crisi ambientale globale da cui è emersa anche la nostra capacità di reagire. Mentre, infatti, monitoriamo il recupero di questo strato protettivo naturale, la sua storia ci offre una preziosa lezione per affrontare le altre complesse sfide ambientali del nostro tempo, prima fra tutte la crisi climatica.

    Ma partiamo dall’ozono.

    Un gas composto da tre atomi di ossigeno (O?), a differenza dell’ossigeno che respiriamo che ne ha solo due. È un gas minore nella nostra atmosfera e si trova principalmente nello “strato di ozono” ad altitudini comprese tra 10 e 35 chilometri. Sulla superficie terrestre risulta tossico in quantità elevate, ma nella stratosfera svolge un ruolo vitale bloccando le radiazioni ultraviolette più pericolose. Assorbe, infatti, la maggior parte dei raggi UV provenienti dal sole, responsabili di e tumori della pelle e altre gravi patologie negli esseri umani, oltre ad effetti devastanti sulla produttività agricola e sull’equilibrio degli ecosistemi marini. Lo strato di ozono è uno dei cardini fondamentali dell’equilibrio del sistema Terra, tanto che la sua distruzione rientra tra i nove Limiti Planetari (Planetary Boundaries), il cui superamento determina conseguenze catastrofiche e imprevedibili.

    L’invenzione miracolosa
    La minaccia a questo strato vitale dell’atmosfera nasce da un’invenzione al tempo celebrata come rivoluzionaria: i clorofluorocarburi (CFC), una classe di sostanze alcune note col nome commerciale di Freon. Sintetizzati per la prima volta negli anni ’30, questi gas rispondono a molte esigenze dell’industria moderna: stabili, non tossici, non infiammabili e poco costosi. Trovano ampia applicazione in molti settori, come refrigeranti nei frigoriferi e nei condizionatori d’aria, come propellenti nelle bombolette spray di deodoranti, lacche, insetticidi, come solventi nell’elettronica e molto altro. La loro produzione esplode nel dopoguerra, spinta dal boom economico. Il mondo intero si affida ai CFC, ignaro dei pericoli che si celano nell’apparente innocuità: proprio la loro stabilità si sarebbe infatti rivelata, in alta atmosfera, la loro caratteristica più distruttiva.

    La ferita
    È il 16 maggio 1985 quando un gruppo di ricercatori, guidato dal fisico Joe Farman del BAS, pubblica sulla rivista Nature in uno degli articoli scientifici più rilevanti del secolo, annunciando la scoperta del “buco nell’ozono”. Le immagini satellitari della NASA confermarono la presenza una “ferita” enorme sopra il polo sud, estesa quanto il continente nordamericano. Le mappe colorate mostrano un’area vastissima di colore blu scuro-viola (che indica concentrazioni bassissime di ozono) circondata da anelli di colore verde, giallo e rosso (concentrazioni più normali). Il pericolo diventa immediato, tangibile e globale: lo scudo naturale contro le radiazioni ultraviolette era gravemente compromesso.

    La causa
    La comprensione delle cause di questo fenomeno è un capolavoro scientifico internazionale, premiato poi nel 1995 con il Nobel per la Chimica. Già negli anni ’70, Paul Crutzen, Mario Molina e Sherwood Rowland avevano ipotizzato il meccanismo alla base del problema: i CFC potevano raggiungere la stratosfera intatti grazie alla loro elevata stabilità chimica. Qui, la radiazione ultravioletta del Sole ne provocava la fotolisi, liberando atomi di cloro capaci di distruggere, attraverso reazioni a catena, decine di migliaia di molecole di ozono. Ma come può una lacca per capelli creare un buco nello strato di ozono? La risposta sta nella chimica dell’atmosfera: le osservazioni satellitari e le misurazioni dirette condotte in Antartide rivelarono alte concentrazioni di cloro attivo nelle zone dove l’ozono risultava più rarefatto, confermando il legame tra i CFC e la perdita dello strato protettivo. Durante l’inverno australe, quando le temperature scendono sotto i –80 °C, si formano le spettacolari nubi stratosferiche polari, che favoriscono la trasformazione dei composti di cloro in forme altamente reattive. Con il ritorno della luce solare in primavera, queste reazioni si intensificano, portando alla distruzione massiccia dell’ozono: è qui che si apre il “buco” sopra l’Antartide.

    Lo scontro con l’industria
    Questa scoperta suscita un acceso dibattito tra comunità scientifica e mondo industriale. L’amministratore delegato della DuPont – la società che aveva brevettato e dominava la produzione i CFC – bollò la teoria di Rowland e Molina come “un racconto di fantascienza”. Tuttavia, di fronte all’accumularsi delle evidenze scientifiche e la pressione internazionale, i governi iniziarono ad agire: già dal 1978 Stati Uniti, Canada, Norvegia, Svezia e Danimarca approvarono regolamenti per limitare l’uso dei CFC. Nonostante le iniziali resistenze, l’industria finì per adeguarsi alle nuove norme e investì massicciamente nella ricerca di sostituti più sicuri. LEGGI TUTTO

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