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    Che fine ha fatto l’educazione ambientale nella nostre scuole?

    Gli studenti di una scuola media di Napoli hanno adottato il parco pubblico vicino la scuola. Ogni mese ragazzi e ragazze, con i volontari si occupano della pulizia del verde, raccolgono i rifiuti e fanno piccole manutenzioni. In Umbria lo scorso anno è nato il progetto “L’orto dei piccoli”: chi cura l’insalata, chi le erbe aromatiche. “Così i bambini hanno imparato non solo quanto tempo e lavoro richiede prendersi cura della terra, ma anche non sprecare il cibo”, spiegano gli insegnanti. A Venezia i bambini delle materne a turno salgono su un vaporetto insieme agli insegnanti per andare a conoscere le isole della laguna. Piccole storie che raccontano come la materia “Educazione all’ambiente” viene affrontata nelle scuole in Italia. Senza nessuna regia.
    Diritto di tutti, ma senza linee guida
    Perché se da una parte, è diventata una materia obbligatoria quando lo è diventata anche l’Educazione Civica (a partire dall’anno scolastico 2020-21 sono previste 33 ore all’anno) in tutte le scuole dalla primaria alla secondaria di secondo grado, dall’altra le modalità in cui viene insegnata sono lasciate all’autonomia delle singole scuole. Non è infatti previsto un programma nazionale unico. Questo significa che ogni preside o direttore didattico può decidere quali docenti coinvolgere e in quali materia trattare i temi ambientali. Risultato? L’autonomia ha portato in questi anni ad una grande varietà di esperienze. Così, ci sono scuole molto attive sul fronte ecologico e che organizzano progetti interdisciplinari altre invece che la inseriscono solo in scienze o geografia. Altre ancora collaborano con enti e associazioni esterne, come Legambiente, WWF e Marevivo che propongono iniziative e corsi di formazione per i docenti.

    Biodiversità

    Lavori green, la guida ambientale: “Un’escursione è un viaggio culturale”

    di Fiammetta Cupellaro

    11 Marzo 2025

    Scuole verdi
    Anche l’approccio didattico è lasciato alla sensibilità del corpo docente: può essere solo teorico, oppure prevedere esperienze in laboratorio, uscite all’aperto, utilizzare supporti digitali o meno. Insomma, tutto è affidato alla sensibilità del corpo docente: così nella stessa città ci possono essere scuole in cui si organizza un orto didattico, oppure lezioni sul clima, la pulizia del proprio quartiere, incontri con gli esperti e altre in cui semplicemente si chiama un esperto per tenere qualche lezione in classe di scienza sul riciclo e sull’inquinamento. Entrambe le formule rispettano formalmente l’obbligo, ma con un grado di coinvolgimento e profondità molto diverse.

    Entra a scuola la “Consapevolezza finanziaria”
    Così dopo la prima campanella già suonata in molte regioni di Italia, oltre 7 milioni di bambini e ragazzi tornano in classe senza sapere bene cosa faranno durante le ore di Educazione Civica dedicata all’ambiente, allo sviluppo sostenibile e la tutela del patrimonio. “Non solo. Quest’anno questa materia è stata depotenziata – spiega Claudia Cappelletti, responsabile Scuola per Legambiente – il Ministero dell’Istruzione ha introdotto sempre nella stessa materia ‘Educazione Civica’, anche l’insegnamento della ‘Consapevolezza economica e finanziaria’ per tutte le scuole. Eppure, l’ambiente era stata presentato come uno dei tre pilastri dell’Educazione Civica, gli altri due erano lo studio della Costituzione e l’uso consapevole delle tecnologie digitali”. A questo punto quanto tempo rimarrà agli studenti per coltivare l’orto a scuola, oppure pulire con gli insegnanti il tratto di spiaggia davanti casa e imparare con i volontari la raccolta differenziata e non sprecare il cibo? “Molto poco. Visto che dovranno dividerlo con chi insegnerà loro cosa vuol dire risparmio e investimento, banche e bilancio” tiene a sottolineare ancora Cappelletti che con Legambiente continua a proporre iniziative per insegnare la tutela all’ambiente.
    “Come diventare cittadini consapevoli”
    “Purtroppo è un’occasione persa. Speriamo che da parte delle scuole che godono appunto di autonomia didattica e organizzativa continuano a organizzare laboratori e uscite per gli studenti. Cerchiamo poi di far capire quanto sia importante inserire il tema della sostenibilità in ogni materia. Deve essere multidisciplinare: non può essere inserita solo durante l’ora di Scienze o Geografia. Anche l’approccio pratico, con i laboratori, le uscite, le esperienze fuori dalla scuola è importante e va salvato. Da parte nostra offriamo delle chiavi di lettura per studenti e docenti, ma poi l’obiettivo resta quello della scuola che deve formare i cittadini di domani, attivi e consapevoli. Un aspetto importante per la loro crescita. Come insegnare loro a diventare imprenditori e leggere un bilancio”. LEGGI TUTTO

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    L’assenza delle correnti di acqua fredda nel Pacifico preoccupa gli scienziati

    Come ogni anno, da oltre quarant’anni, gli scienziati nei mesi scorsi – tra gennaio ed aprile – si aspettavano di osservare un fenomeno chiave del Pacifico che regola vita e clima. Con molta sorpresa, e una preoccupazione difficile da nascondere, quel fenomeno però in questo 2025 per la prima volta in assoluto non si è verificato. Un cambiamento chiave, inatteso, che apre a una domanda: siamo davanti a un pericoloso punto di non ritorno? Il fenomeno in questione riguarda le acque e le correnti dell’oceano Pacifico, un oceano sempre più caldo, acido e dove la biodiversità è in costante difficoltà. Ogni anno tra gennaio e aprile una grande massa di acqua fredda solitamente risale dalle profondità del Golfo di Panama verso la superficie: questo passaggio è quello decisivo che regola sistemi climatici e vita marina nella regione. Da quando esistono studi e rilevazioni, è sempre avvenuto con puntualità. Ma all’inizio del 2025 gli scienziati hanno osservato quella che è stata definita “una interruzione senza precedenti”, ben raccontata all’interno di uno studio pubblicato su PNAS da un gruppo internazionale di ricercatori.

    Riscaldamento globale

    Il crollo della corrente atlantica è un rischio reale, il nostro clima ne sarebbe sconvolto

    di Giacomo Talignani

    29 Agosto 2025

    Per via di correnti e acqua fredda che risalgono in superficie solitamente le acque del Pacifico al largo della costa di Panama registrano tra gennaio e aprile un drastico calo della temperatura che, a sua volta, causa una complessa interazione tra atmosfera e oceano. Questa risalita fa parte di un processo naturale che, tra le altre cose, contribuisce a mettere in circolo i ricchi nutrienti dei fondali oceanici che a loro volta alimentano la vita (e la pesca) degli organismi marini di un Golfo da sempre soggetto ai forti venti settentrionali che, quando si incanalano verso sud attraverso Panama e il Pacifico, contribuiscono a rimescolare le acque.

    Fin dagli anni Ottanta le rilevazioni hanno sempre indicato la risalita iniziare intorno alla terza settimana di gennaio per poi concludersi ad aprile, un evento capace di abbassare la temperatura media dell’acqua intorno ai 18 gradi. Quest’anno però l’evento non è avvenuto prima di marzo e le acque più fredde sono rimaste in superficie pochissimo, meno di un paio di settimane, tant’è che le temperature medie dell’acqua superficiale sono scese solo a 23 °C.

    Riscaldamento globale

    Agosto 2025 il terzo più caldo mai registrato per gli oceani

    a cura della redazione di Green&Blue

    04 Settembre 2025

    “È stata una sorpresa” sostiene al New York Times Ralf Schiebel, paleoceanografo del Max Planck Institute for Chemistry che studia la regione. “Non avevamo mai visto niente del genere prima” ha poi aggiunto. La causa non è chiara. Complice potrebbe essere la scarsa intensità dei venti alisei che spingono l’acqua calda superficiale lontano dalla costa, risultati in genere nel 2025 meno forti e persistenti. Ma i ricercatori non escludono allo stesso tempo che possa trattarsi di un fenomeno collegato alla crisi del clima. Di certo, aggiunge Steven Paton, fra i coautori dello studio e ricercatore dello Smithsonian Tropical Research Institute, “possiamo affermare con chiarezza che è accaduto qualcosa di molto insolito a cui dobbiamo prestare attenzione”.

    Fra le possibilità individuate come cause oltre al cambiamento degli alisei tipici della stagione secca a Panama c’è anche un possibile cambiamento nei sistemi di alta e bassa pressione che influenzano i modelli meteorologici stagionali (che a loro volta modificano l’intensità degli alisei) oppure i possibili impatti legati al fenomeno naturale de La Niña, la fase fredda di un ciclo oscillante di temperature dell’acqua nell’Oceano Pacifico, ma anche le temperature elevate dovute a ondate di calore e crisi del clima sono sul banco degli imputati.

    Riscaldamento globale

    Ondate di calore marine: 2023 senza precedenti per intensità ed estensione

    di Simone Valesini

    03 Agosto 2025

    Per capire l’impatto a lungo termine di questi fattori e come potrebbero aver cambiato le dinamiche nel Golfo di Panama serviranno ulteriori ricerche spiegano gli esperti. Comprenderlo, è però fondamentale per un fatto: senza più quelle acque fredde cariche di nutrienti la vita marina del Pacifico potrebbe essere compromessa e avere “importanti ripercussioni sull’intera catena alimentare” dicono gli scienziati.

    Dall’esistenza di piccoli pesci sino a quella di coralli o alla vita di delfini e balene migratrici, la maggior parte degli organismi marini dipende infatti proprio dalle dinamiche di correnti e acque. Per esempio la massa fredda del Golfo di Panama offre ai coralli maggiori possibilità di sopravvivere alle ondate di calore marino rispetto ad altre aree del mondo. Ora i ricercatori – sostenendo di dover indagare ancora – temono che questo fenomeno possa rivelarsi un punto di non ritorno: per questo osservate speciali nei prossimi mesi saranno anche le masse d’acqua fredda delle Galapagos, del Costa Rica e di altri luoghi e sistemi degli oceani dove gli alisei potrebbero calare. In particolare, osservato speciale sarà poi tutto il Pacifico, oceano che, come ha scritto recentemente sui social anche il meteorologo e ricercatore del CNR-Lamma Giulio Betti, sta subendo un cambiamento radicale a causa di “temperature superficiali del mare troppo alte” con ripercussioni che potranno farsi sentire ovunque. “Non sorprendiamoci se nei prossimi mesi continueremo a parlare di caldo anomalo ed eventi alluvionali – scrive Betti -. Siamo ufficialmente entrati in una fase ignota, perché se 2023 e 2024 potevano essere eccezioni, il 2025 suona come una conferma: siamo ad un tipping point”. LEGGI TUTTO

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    Dal ghiaccio salato si può ottenere energia pulita e sostenibile

    Il ghiaccio salato può generare una carica elettrica mille volte più elevata rispetto al ghiaccio normale quando viene filtrato. Lo dimostra uno studio, pubblicato sulla rivista Nature Materials, condotto dagli scienziati della Xìan Jiaotong University. Il team, guidato da X. Wen, S. Shen e G. Catalan, ha ideato un approccio in grado di generare una […] LEGGI TUTTO

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    Gli eventi climatici estremi sono costati 12 miliardi di euro all’Italia, 43 miliardi all’Ue

    Ondate di Calore, siccità e inondazioni hanno colpito un quarto di tutte le regioni dell’unione europea nell’estate che si va concludendo, aggiungendo all’elenco dei danni 43 miliardi di euro per le perdite di produzione. Ad aggiornare il bollettino degli effetti climatici sull’economia europea lo studio congiunto dell’Università di Mannheim e degli economisti della Banca Centrale Europea, Dry-roasted nuts: early estimates of the regional impact of 2025 extreme weather.

    Un conto salato che per l’Italia arriva a 11,9 mliardi di euro, con perdite stimate per 2,5 miliardi per la sola Lombardia. E nei prossimi anni potrebbe andare peggio, con perdite stimate a 126 miliardi di euro entro il 2029, che per l’Italia significano 34,2 miliardi, una cifra che vale attorno all’1,75% del Pil.

    In totale, 96 regioni hanno sperimentato ondate di calore, 195 hanno sofferto di siccità e 53 sono state colpite da inondazioni. Spagna, Francia e Italia, affacciate sul Mediterraneo, si confermano le più colpite.

    In Francia, i danni ammontano a 10,1 miliardi di euro e sono previsti a 33,9 miliardi nel 2029. Per la Spagna la perdita quest’anno è stimata in 12,2 miliardi, e in prospettiva al 2029 a 34,8 miliardi di euro entro il 2029, equivalenti rispettivamente allo 0,84% e al 2,4% del Pil. Ma anche economie più piccole, come Bulgaria, Malta e Cipro, registrano perdite minori ma assai ingenti, se rapportate al Pil. I Paesi del Nord e del Centro Europa, come Danimarca, Svezia e Germania, registrano danni relativamente minori, ma la frequenza e l’entità degli eventi meteorologici estremi, in particolare le inondazioni, sono in aumento. LEGGI TUTTO

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    Dai gusci delle mandorle, fertilizzanti bio a costi sostenibili

    Dobbiamo veramente ripensare il concetto di scarto. I principi alla base dell’economia circolare possono essere applicati ovunque, come ci dimostra l’intuizione di una startup californiana che ha concentrato i suoi interessi, sul guscio di scarto delle mandorle. Si stima che da un chilo di mandorle in guscio si ottengano solo 300 grammi di mandorle commestibili, mentre i restanti 700 grammi sono costituiti principalmente dai gusci. La percentuale è 30% di cibo, 70% di scarto. La startup Nitricity produce fertilizzante assolutamente biologici dai gusci di mandorle macinati. Un affare non da poco, visto che ha portato la company a raccogliere 50 milioni di dollari da investitori, proprio per rispondere alle preoccupazioni crescenti dei consumatori, sull’uso degli agenti chimici in agricoltura. Un’attività che si preannuncia, circolare, redditizia ed ecologica, a cui anche qualche volenterosa azienda italiana potrebbe ispirarsi. Il nostro Paese, infatti, produce il 2% del totale mondiale di mandorle, secondo i dati ufficiali di Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) ed Istat, con una particolare concentrazione in Sicilia e Puglia.

    Torniamo all’intuizione americana. Nitricity, azienda fondata da laureati alla prestigiosa Stanford University, che sono riusciti a tirar su una cifra molto importante, 50 milioni di dollari dicevamo all’inizio, proprio per aumentare la produzione di fertilizzante organico ed espandersi negli Stati Uniti e fino in Europa. In una dichiarazione a Bloomberg, Nicolas Pinkowski, co-fondatore e amministratore delegato di Nitricity ha sottolineato che “il nostro obiettivo è ridurre le emissioni, promuovere la salute del suolo e aiutare gli agricoltori a migliorare le rese”. Gli agricoltori, infatti, sono ormai sullo stesso piano dei consumatori. Preoccupati entrambi di quello che si coltiva sotto terra e poi si porta sulle tavole. Di tutti. “Negli Stati Uniti c’è molta preoccupazione per le sostanze chimiche presenti negli alimenti e sulla loro superficie. Sempre più persone non si preoccupano solo di consumare abbastanza calorie ogni giorno, ma anche di assicurarsi che ciò che mangiano sia sano e sicuro”, le parole di Pinkwoski. Insomma, oltre l’Europa e gli europei, da sempre più preoccupati degli americani della genuinità di quello di cui ci nutriamo, ora la stessa eco viene dagli States. Tra l’altro l’inquinamento parte proprio dalla terra. Secondo le stime della startup americana, “i fertilizzanti sintetici convenzionali si basano su un processo che dipende in gran parte dai combustibili fossili”. E questo è noto, così come che questo tipo di produzione è responsabile di circa il 5% delle emissioni globali di gas serra. Infatti, il ricorso eccessivo da parte degli agricoltori di queste sostanze, può causare un deflusso di azoto che inquina l’acqua e l’aria.

    L’azienda, che si rivolge agli agricoltori biologici, utilizza i gusci di mandorle – ricchi di nutrienti come il potassio – bruciandoli, poi li infonde in acqua, creando una sorta di infuso di cenere, realizzato con energia pulita, riducendo di almeno il 92% le emissioni di CO2 rispetto ad altri fertilizzanti convenzionali. Una volta ottenuto l’infuso, questo viene inviato agli agricoltori che lo diluiscono e lo applicano al suolo, con rese migliori del 30%, secondo i dati raccolti da Nitricity, la cui sfida principale è restare competitiva con i fertilizzanti organici già disponibili in commercio. E riuscire ad inserirsi in quella nicchia del 2% del mercato americano che usa fertilizzanti non convenzionali. Un numero decisamente piccolo, a causa del loro basso contenuto nutritivo e dei costi di produzione più elevati, secondo una ricerca di Bloomberg Intelligence. Ad aiutare la mission di questa startup, è la California stessa. Stato in cui risiede, in cui i gusci di mandorle sono abbondanti come i film di Hollywood; la California, infatti, è anche il principale produttore mondiale di mandorle, scartando circa 850.000 tonnellate di gusci all’anno. Prossimo step della giovane imprese californiana è usare i fondi per avviare prove sul campo in tutta Europa, dove prevede di utilizzare scarti agricoli locali come legno e residui della produzione di olio d’oliva. Nel frattempo, anche altre giovani imprese stanno solcando la strada dei fertilizzanti a basso contenuto di carbonio. Tra queste ci sono Toopi Organics e NPK Recovery, che creano fertilizzanti dall’urina umana, da insetti o alghe. Ma gli usi straordinari dei gusci di mandorle non finiscono qui. Infatti sono ritenuti anche un biocombustibile con un alto potere calorifico, paragonabile a quello del legno, e possono essere utilizzati in caldaie, panifici e pizzerie come alternativa ecologica al gas. Infine, nell’edilizia, secondo studi condotti tra cui quelli del Politecnico di Torino, si possono usare per realizzare termointonaci isolanti e pannelli edilizi, contribuendo a ridurre l’impatto ambientale dell’industria delle costruzioni. E tra le applicazioni più complesse e meno comuni, la produzione di bevande, con gli zuccheri e gli estratti dai gusci LEGGI TUTTO

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    Concerto dei Fulu Miziki, la musica che nasce dai rifiuti

    Non è un concerto come altri quello messo in scena dal collettivo congolese Fulu Miziki, ospite il 14 settembre al Palazzo dei Congressi. La loro musica, suonata con strumenti auto prodotti, nati da oggetti di recupero, riciclati e definita afro-futuristica dà vita a vere e proprie perfomance artistiche. “Il suono della spazzatura” questo significa il nome del gruppo che ha trasformato i palchi dei teatri europei in un’esplosione non solo ritmica e visiva ma anche politica. Perché non c’è dubbio che attraverso la loro musica, il collettivo nato a Kinshasa nella Repubblica Democratica del Congo vuole trasmettere al mondo un messaggio ecologista. E non è un caso la scelta dei rifiuti come materia prima per costruire maschere, strumenti e costumi. Tutto quello che c’è sul palco è costruito con gli oggetti che il mondo scarta e che diventano arte. “Il futuro – spiegano – è proprio questo”.

    Come è nato il collettivo Fulu Miziki
    “Siamo un gruppo di amici cresciuti nello stesso quartiere a Kinshasa condividendo lo stesso impegno per la nostra comunità. Abbiamo attraversato diversi generi musicali, band, cantato in chiese e scuole. Poi ci siamo resi conto dell’impatto dell’ambiente sulle nostre vite e abbiamo deciso di fare qualcosa di nuovo e innovativo. Allo stesso tempo, condividiamo il ??desiderio di creare musica diversa, con suoni straordinari e unici. Questo è ciò che ci unisce”.
    I vostri concerti sono performance artistiche. Nasce prima la musica o la coreografia?
    “La musica precede la coreografia. Sarebbe come cucinare una frittata senza le uova”.
    Vi riconoscete nella definizione di eco-artisti?
    “Siamo Eco, anzi, non sappiamo più come altro definirci. Siamo i punk congolesi afro futuristi ecologisti. La lotta ecologica del popolo congolese non è iniziata oggi; ecco perché il nostro Paese ha la seconda foresta più grande dopo l’Amazzonia. Ma siamo anche vittime del mondo moderno”.
    Parliamo degli strumenti musicali che costruite partendo dai rifiuti. Come riuscite ad immaginare quale strumento possa nascere da un oggetto finito in discarica?
    “Scegliamo gli oggetti che abbiamo a disposizione secondo il suono che stiamo cercando. Dobbiamo tenere presente infatti che i suoni cambiano di volta in volta, a seconda del materiale che abbiamo trovato e a cui abbiamo dato nuova vita. C’è poi un’altra valutazione. Spesso, siamo in viaggio quindi abbiamo bisogno di strumenti facili da imballare e trasportare”
    Il pezzo di spazzatura più strano che avete trasformato in uno strumento musicale?
    “La pompa per clisteri è il nostro strumento più strano, ma salva vite nel nostro Paese”.
    Quale messaggio ecologico volete trasmettere con la vostra musica?
    “La nostra musica affronta generalmente il tema del riscaldamento globale e delle sue conseguenze, dell’inquinamento dell’aria e del suolo. Ma tocca anche temi generali come l’amore, il benessere, la comunità, la motivazione e l’incoraggiamento dei giovani, così come l’amore e la pace. Veniamo dal Congo, un paese in guerra, e per noi la pace è quasi impossibile”.
    Che ruolo gioca la cultura congolese nel vostro repertorio?
    “Un frutto non cade mai lontano dal suo albero. Siamo congolesi e siamo cresciuti con la nostra cultura, di cui siamo orgogliosi. Tutto ciò che creiamo fa parte della nostra identità musicale e traiamo ispirazione dalle nostre tradizioni e dai nostri costumi culturali. Siamo cresciuti ascoltando i giganti della musica africana di origine congolese come Papa Wemba, Lwabo, Grand Kale e altri; siamo sulla stessa strada”.
    L’arte può essere un modo più efficace della politica per parlare di ambiente?
    “Sì e no. Bisogna sempre combinare le due cose contemporaneamente. Perché il cambiamento avvenga, bisogna volerlo rendere politico. Ma c’è anche un grande cambiamento se gli artisti decidono di cantare mentre educano le masse, la comunità. L’artista è il comunicatore con le masse”.
    Cosa sognano per il futuro gli artisti di Fulu Miziki?
    “Non chiediamo più di quello che già avevamo. A Kinshasa eravamo a casa; oggi siamo nel mondo. Cosa possiamo chiedere di più, se non crescere ancora una volta con il nostro pubblico, viaggiare in una città diversa, condividere la gioia della musica con sconosciuti, mangiare un buon pasto in un angolo sconosciuto del mondo, vedere volti diversi e, infine, ballare senza sosta. E benvenuti alla nuova avventura, perché dobbiamo vivere la vita in ogni momento e rimanere presenti”. LEGGI TUTTO

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    Fornello a gas o piano a induzione, quale consuma meno?

    Quando si compra casa, o semplicemente la si deve arredare da zero, arrivando alla zona della cucina la domanda sorge sempre spontanea: che cosa consuma davvero di meno, il fornello a gas o il piano a induzione? Alla luce del caro-bollette e dell’emergenza climatica, la risposta è più che mai cruciale. In questa breve guida cercheremo di mettere a confronto entrambe le soluzioni (e le loro caratteristiche) in modo tale che ognuno di voi possa scegliere con criterio e critica l’opzione migliore.
    Fornello a gas e piano a induzione: le differenze di funzionamento
    Il classico piano cottura a gas è ancora presente nella maggior parte delle cucine italiane. Funziona grazie alla combustione di metano (o GPL) che alimenta i bruciatori, generando fiamme regolabili tramite manopole. Si tratta di un sistema semplice, economico all’acquisto e compatibile con qualsiasi pentolame. Tuttavia, la fiamma libera comporta dispersione di calore e qualche rischio legato a fughe o incendi accidentali.

    I piani a induzione, invece, non hanno fiamme. Sotto la superficie in vetroceramica si trovano bobine che generano campi magnetici: quando si appoggia una pentola con fondo ferromagnetico, il calore si sviluppa direttamente all’interno del recipiente. Risultato? Maggiore efficienza, tempi di cottura più rapidi e un controllo preciso della temperatura. La superficie rimane fredda, riducendo il rischio di scottature e semplificando la pulizia.

    Cosa consuma di meno: gas o induzione?
    Il confronto non è così immediato, perché entrano in gioco diversi fattori: il prezzo delle materie prime, la frequenza di utilizzo, la potenza del contatore elettrico e persino le abitudini in cucina.

    Consumi medi di un piano a induzione
    Dopo un picco iniziale di potenza, si attestano intorno a 0,6 kWh per ora di utilizzo.

    Consumi medi di un fornello a gas
    Oscillano tra 0,10 e 0,33 metri cubi di gas all’ora, a seconda della grandezza del fuoco acceso.
    Tradotti in bolletta (sulla base delle tariffe attuali), significa che il piano a induzione viene a costare circa 0,07-0,08 € all’ora, mentre il fornello a gas da 0,03 € fino a 0,13 € all’ora.
    Quindi il gas può risultare più conveniente per i fornelli piccoli, mentre l’induzione può costare meno quando si usano piastre medie o grandi.

    Efficienza energetica: il punto forte dell’induzione
    Se si guarda all’efficienza energetica, l’induzione è imbattibile. Infatti, i piani di cottura che seguono questo modello, trasformano in calore oltre il 90% dell’energia consumata. Caratteristica che non si ritrova nei fornelli a gas classici, che si fermano attorno al 40-55%, poiché molta energia si disperde nell’aria che si crea intorno alla fiamma.
    Per fare un esempio pratico: per portare a ebollizione una pentola d’acqua, il gas disperde circa il 60% del calore prodotto, mentre l’induzione limita le perdite a meno di un quarto. Questo significa che, a parità di tempo, l’induzione cuoce più in fretta e con minori sprechi.

    Altri fattori da considerare prima di scegliere l’induzione o il fornello a gas
    La scelta del fornello a gas o del piano a induzione dipende sì dal consumo dell’energia e da quanto poi effettivamente si andrà a risparmiare in bolletta, ma oltre a questo bisognerebbe tenere conto di altri fattori, qui riassunti di seguito.

    Sicurezza
    L’induzione elimina il rischio di fughe di gas e riduce quello di incendi domestici. Inoltre, la superficie non si surriscalda (se non per il calore residuo della pentola). Il gas, invece, richiede maggiore attenzione, soprattutto in case con bambini e/o anziani.

    Pulizia e mantenimento
    Il piano a induzione ha una superficie liscia che si pulisce con facilità. Al contrario, i fornelli a gas hanno griglie, bruciatori e spazi difficili da raggiungere.

    Costo iniziale
    Un piano a gas è generalmente più economico all’acquisto (circa 200-300 euro), mentre l’induzione richiede un investimento iniziale maggiore (500-700 euro in media). Inoltre, per cucinare a induzione servono pentole con fondo magnetico: chi non le possiede dovrà acquistare un nuovo set, quindi investire altri soldi per avere tutto l’occorrente giusto.

    Potenza del contatore
    Un aspetto spesso trascurato riguarda la potenza elettrica disponibile. Un piano a induzione può richiedere l’aumento del contatore domestico da 3 a 4,5 o 6 kW. Questo comporta costi fissi maggiori, che possono incidere notevolmente sulla bolletta. Il consumo rimane più basso rispetto al fornello a gas, ma questo aspetto è comunque da considerare.

    Gas o induzione: quale conviene davvero?
    Alla domanda “cosa consuma di meno, il gas o l’induzione?” non c’è una risposta assoluta. Dipende dal contesto. Se si tende a cucinare spesso e a lungo, l’induzione può certamente diventare più conveniente nel tempo, grazie all’alta efficienza. Se, al contrario, si cucina poco o si utilizza quasi sempre fornelli di piccole dimensioni, il gas può risultare ancora più economico. Dal punto di vista ambientale e della sostenibilità, l’induzione resta sempre la scelta più green, perché non emette direttamente CO? e sfrutta energia che può provenire da fonti rinnovabili.

    Il confronto tra fornello a gas e piano a induzione però non si esaurisce nei numeri della bolletta; entrano in gioco fattori di sicurezza, praticità, sostenibilità e costi a lungo termine.

    L’induzione rappresenta la scelta del futuro: più efficiente, più sicura, più rispettosa dell’ambiente. Il gas resta invece una soluzione economica nell’immediato e più flessibile per chi non vuole cambiare pentole o potenza del contatore.
    La scelta migliore, insomma, non è universale: dipende dallo stile di vita di ognuno, dalle abitudini in cucina e dalle tariffe energetiche applicate. LEGGI TUTTO

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    Fiore di loto, come coltivare e curare la pianta acquatica

    Vero e proprio capolavoro della natura, il fiore di loto conquista con la sua bellezza ed eleganza, impreziosendo ogni luogo in cui si trova. Questa pianta acquatica è simbolo di purezza, rinascita e spiritualità: ricca di significati profondi, si distingue per i suoi grandi fiori decorativi e le foglie tondeggianti e idrorepellenti, capaci di respingere l’acqua e lo sporco grazie al cosiddetto effetto loto. Approfondiamo di seguito come coltivare e prendersi cura di questa straordinaria pianta acquatica.

    Fiore di loto e l’esposizione
    Il fiore di loto fa parte del genere Nelumbo, che comprende due specie principali, la Nelumbo nucifera, originaria dell’Asia, e la Nelumbo lutea, proveniente da America centrale e settentrionale. Con il suo fascino abbellisce stagni, laghetti ornamentali, giardini, terrazzi e anche ambienti interni. I suoi petali delicati e profumati sono tinti da molteplici sfumature, tra cui bianco, rosa e giallo, e sbocciano sopra le foglie. Queste ultime sono sostenute da steli robusti: a differenza delle ninfee il fiore di loto non galleggia liberamente, ma si trova sopra la superficie dell’acqua.

    Il fiore di loto va coltivato su uno specchio d’acqua e per prosperare richiede ambienti caldi e luminosi, con almeno 6 ore al giorno di luce solare diretta. Il terreno ideale è argilloso, ricco, denso e stabile, evitando quelli troppo leggeri e sabbiosi, e l’acqua in cui viene fatto crescere deve essere calma e pulita. Questa pianta acquatica predilige un clima mite, con temperature comprese tra i 24 e i 30 gradi. Il periodo migliore per dedicarsi alla sua coltivazione è la primavera, per vederla così fiorire in estate. Il fiore di loto impiega tra i 60 e i 90 giorni per sbocciare se coltivato in condizioni ottimali. In inverno va protetto in luoghi riparati, in modo da evitare eventuali danni dettati dal gelo.

    Coltivazione del fiore di loto
    Tanto suggestivo, quanto ricco di profondi significati, il fiore di loto trasforma qualsiasi ambiente in un angolo di bellezza e serenità. Coltivarlo dà molte soddisfazioni, ma richiede specifici accorgimenti. Se si possiede un laghetto naturale o artificiale in giardino, il fiore di loto è una scelta perfetta per impreziosirlo, ma può essere anche coltivato sul terrazzo o negli interni di casa, rispettando le sue esigenze in termini di luce e spazio.

    Il contenitore scelto deve essere ampio e profondo e va riempito con del terriccio ricco e denso, ad esempio un mix di argilla e torba, che ne permetta lo sviluppo radicale e trattenga l’umidità.

    Se si parte dal seme, bisogna innanzitutto scarificarlo leggermente, grattando la sua superficie dura con una lima di metallo, permettendo così all’acqua di penetrare e stimolare la germinazione. I semi scarificati vanno immersi in acqua a temperatura ambiente, cambiandola ogni giorno per mantenerla pulita, e lasciati germogliare, processo che richiede generalmente da alcuni giorni a qualche settimana.

    Una volta che compaiono le prime radici e almeno una foglia galleggiante, le piantine vanno spostate in un recipiente più capiente, senza fori di drenaggio, riempiendolo per metà con il substrato e con dell’acqua fino a coprire il terreno. Bisogna assicurarsi che le radici siano ben interrate e le foglie galleggino all’aperto. Per fiorire in modo rigoglioso, il vaso deve essere posto in un luogo soleggiato e l’acqua mantenuta sopra i germogli.

    In alternativa, per la coltivazione del fiore di loto si può partire dal rizoma, da posizionare orizzontalmente e con un germoglio rivolto verso l’alto, in un substrato umido, interrandolo a una profondità di 5 centimetri. Il vaso va immerso poi nell’acqua, facendo in modo che la parte superiore del rizoma sia coperta tra i 5-10 centimetri.

    Sia che si coltivi da seme, che da rizoma, quando le piantine del fiore di loto hanno sviluppato le foglie fuori dall’acqua possono essere trasferite nel laghetto, verificando che questo sia al sole e profondo tra i 30 e i 50 centimetri. Il vaso va collocato sul fondo del laghetto, facendo in modo che l’acqua copra leggermente i germogli. Nel momento in cui le foglie galleggiano in modo stabile e il sistema radicale è sviluppato, si può rimuovere il recipiente con delicatezza, facendo sì che le piante affondino direttamente nel fondale e proseguano la loro crescita nel laghetto.

    Cura del fiore di loto
    Il fiore di loto non è particolarmente delicato, ma per prosperare richiede azioni mirate per quanto riguarda la sua manutenzione. L’acqua in cui è immerso deve coprire il suolo sopra i 20 centimetri ed essere sempre pulita: se si coltiva in un laghetto si può ricorrere a un sistema di filtraggio dell’acqua. Quando cresce in vaso, il substrato va mantenuto umido, occupandosi delle irrigazioni ogni 3 o 4 giorni ed è necessario concimare la pianta ogni 20 giorni, ricorrendo a del fertilizzante liquido.

    Nella cura del fiore di loto bisogna rimuovere regolarmente fiori morti, steli e foglie danneggiate e alghe. Dopo la fioritura, tra l’autunno e l’inverno, ci si deve dedicare alla potatura vera e propria.

    La pianta resiste al freddo, essendo tuttavia sensibile all’acqua ghiacciata, che danneggia le sue radici. Durante l’inverno bisogna prevenire il congelamento dell’acqua, per esempio ricorrendo per il laghetto a delle pompe con cui movimentarla, mentre se si coltiva in vaso, spostando il recipiente in un luogo protetto. Tra le varie problematiche con cui si possono fare i conti, la pianta è soggetta a macchie fogliari, muffe, ruggini e marciume radicale. Altra criticità sono gli attacchi di lumache, afidi e acari che ne danneggiano gli steli e portano a scolorimento, dovendo ricorrere a insetticidi naturali oppure a prodotti specifici per rimuoverli. LEGGI TUTTO