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    Bonus tende 2025: le novità, come richiederlo, i requisiti

    L’estate è alle porte e anche per il 2025 c’è la possibilità di approfittare del Bonus tende. Si tratta di una detrazione Irpef del 50% per la prima casa e del 36% per gli altri immobili in dieci rate annuali con un massimo di 60.000 euro, nell’ambito dell’ecobonus. Tende e schermature solari, infatti, fanno parte degli interventi di risparmio energetico in quanto consentono di limitare i consumi dei climatizzatori grazie al fatto di ridurre l’insolazione, e quindi il calore calore che entra in casa, in maniera del tutto naturale. Per l’agevolazione fiscale, però, il risparmio energetico deve essere certificato.
    Solo strutture tecniche e “niente fai da te”. Sono ammessi al Bonus tende:
    tende da sole a telo avvolgibile
    a rullo
    a lamelle orientabili (veneziane)
    frangisole;
    coperture tessili per pergole;
    zanzariere tecniche

    Fisco verde

    Bonus per i Gruppi di autoconsumo e le Comunità energetiche rinnovabili: costi e benefici

    di Antonella Donati

    02 Aprile 2025

    La certificazione
    Il rispetto delle norme tecniche deve essere attestato dal produttore per tutte le tipologie di schermature solari. Anche l’installazione deve essere certificata in quanto occorre attestare la riduzione del consumo energetico che si ottiene applicando i sistemi di protezione alle vetrate. Per questo motivo il Bonus è escluso per le tende d’arredo liberamente montabili e smontabili, in quanto prive di documentazione del produttore, e anche per le installazioni fai da te e non da parte del tecnico specializzato.
    Le regole per l’installazione e spese detraibili
    Per assicurare gli obbiettivi di risparmio energetico richiesti ai fini dell’agevolazione, tende e schermature solari debbono essere installate esclusivamente a protezione di superfici vetrate esposte a Sud, Est o Ovest. Ai fini della riduzione dell’insolazione devono essere essere regolabili in base alla luce solare, in modo che con la loro installazione sia possibile garantire un valore di trasmittanza solare (gtot), calcolato secondo la norma UNI EN 14501, inferiore a 0,35. Questo valore deve essere certificato. Per questo motivo tra le spese detraibili, oltre a fornitura e posa in opera e a tutte le opere accessorie legate all’installazione, rientrano anche le prestazioni professionali quali asseverazione e redazione della documentazione tecnica da presentare all’Enea. L’agevolazione è ammessa anche per la sostituzione delle vecchie tende a patto che le nuove consentano di ottenere un ulteriore risparmio energetico. In questo caso sono detraibili anche le spese di smontaggio e smaltimento delle precedenti strutture oscuranti.

    Fisco verde

    Bonus elettrodomestici 2025, salta lo sconto in fattura

    di Antonella Donati

    26 Marzo 2025

    Le pergole bioclimatiche e le zanzariere
    Oltre alle tende è possibile richiedere il bonus anche per l’installazione delle pergole bioclimatiche, vale a dire delle strutture tecniche leggere installate su una parete o autoportanti caratterizzate da un tetto formato da lamelle orientabili automatiche. Rientrano nell’ambito delle strutture oscuranti. Si possono installare senza permessi edilizi, purché siano strutture aperte da tutti i lati.
    Anche le zanzariere sono ammesse (ma non tutte). Anche le zanzariere, peraltro, possono rientrare nell’ecobonus. Per questo però debbono avere le stesse caratteristiche delle altre strutture oscuranti e rispettare i requisiti di trasmittanza solare richiesti per le schermature tecniche. Occorre anche in questo caso la specifica certificazione tecnica da parte del produttore e dell’installatore.

    Fisco verde

    Bonus mobili e risparmio energetico, lo sconto fiscale vale per l’acquisto di elettrodomestici

    di Antonella Donati

    19 Marzo 2025

    Obblighi Enea e modalità di pagamento
    Per usufruire della detrazione è necessario effettuare il pagamento tramite bonifico parlante per l’ecobonus.Si deve poi caricare sul portale ENEA, entro 90 giorni dalla fine dei lavori, tutta la documentazione (fatture, asseverazioni, schede tecniche). La ricevuta dell’invio è sempre necessaria ai fini della detrazione. LEGGI TUTTO

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    Anche le gomme da masticare rilasciano microplastiche

    Si trovano appiccicate alle panchine, attaccate sotto i banchi di scuola, abbandonate sui marciapiedi. Le gomme da masticare sono un grande business, con un valore stimato di 42,85 miliardi di euro nel 2025. Una valutazione globale indica che ne vengono prodotte 1.740 miliardi all’anno, con un peso medio per singolo pezzo di 1,4 grammi, il che significa che la quantità totale ammonta a ben 2,436 milioni di tonnellate annue.
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    Gomme a base di petrolio
    La maggior parte delle chewing gum è realizzata con gomme sintetiche a base di petrolio. Di fatto, ci si ritrova a masticare un pezzo di plastica malleabile.
    “Il marchio Wrigley Extra collabora con dentisti di tutto il mondo per promuovere l’uso di gomme senza zucchero per migliorare la salute orale”, spiega David Jones, docente alla Facoltà di Scienze dell’ambiente e della vita dell’Università di Portsmouth, nel Regno Unito. “Ma le analisi dimostrano che il prodotto contiene stirene-butadiene, sostanza chimica resistente utilizzata per realizzare pneumatici per auto; polietilene, cioè la plastica usata per produrre sacchetti e bottiglie; acetato di polivinile, ovvero colla per legno. E poi dolcificanti e aromi”.

    Dai contenitori dedicati alla segnaletica
    Dopo aver sputato la gomma, molti consumatori la buttano, purtroppo, per terra. Nel Regno Unito, uno studio ha stimato che 250mila chewing gum fossero rimaste appiccicate in Oxford Street a Londra, mentre una ricerca del 2015 ha evidenziato che il costo della rimozione dalle strade della capitale ammontava a 56 milioni di sterline. Per ovviare a un problema che, a quanto pare, è molto diffuso, sono stati avviati vari progetti. Alcuni Paesi hanno, per esempio, installato contenitori dedicati alla raccolta delle gomme usate, come è avvenuto a Hong Kong dal 2018. Altri hanno incoraggiato, tramite un’apposita segnaletica, lo smaltimento responsabile. Singapore ha addirittura vietato l’importazione e la vendita di chewing gum dal 1992. Insomma, tutti si sono concentrati sulla questione dei rifiuti, con provvedimenti più o meno drastici. Il che va bene, però non basta.
    Un inquinamento da contrastare
    “L’adeguato smaltimento delle gomme non può essere considerato una soluzione a questa forma di inquinamento da plastica”, stigmatizza Jones. “Il chewing gum, al pari di altre materie plastiche, non è biodegradabile. Si indurisce e si decompone in microplastiche, un processo che può richiedere decenni”. In proposito, un gruppo di ricercatori dell’Università della California, negli Stati Uniti, ha evidenziato che un grammo di gomma da masticare rilascia una media di 100 microplastiche, mentre alcune ne rilasciano addirittura fino a 600 per grammo.
    “Chiarire ciò significa affrontare la causa principale della questione, spostando la focalizzazione dalla negligenza individuale al sistema aziendale. E questo pone la responsabilità non solo sui consumatori, ma anche sui produttori”, prosegue l’esperto.

    Benessere a tavola

    Microplastiche, quei pericolosi “intrusi” che frutta e verdura possono aiutare a contrastare

    di Giorgio e Caterina Calabrese

    11 Aprile 2025

    In attesa di alternative sostenibili
    “Anzitutto bisognerebbe apporre un’etichettatura più esauriente e completa sulle confezioni, in modo che gli acquirenti possano fare scelte consapevoli”, propone il docente. “Poi ci vorrebbero normative più severe e rigorose, per obbligare i fabbricanti a rendere conto delle proprie azioni. Infine, servirebbe una tassa sulle gomme sintetiche, mirata anche a incentivare gli investimenti in gomme a base vegetale o a creare altre alternative sostenibili. L’inquinamento da chewing gum è solo un’ulteriore forma di inquinamento da plastica. È ora di iniziare a trattarlo come tale”. LEGGI TUTTO

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    Più arsenico nel riso a causa del cambiamento climatico

    La crisi climatica, oltre che con ondate di calore, eventi estremi e ridistribuzione di piante e animali, rischia di produrre effetti meno visibili, ma pericolosi. Secondo una recente analisi pubblicata sulle pagine di Lancet Planetary Health l’aumento delle temperature e dell’anidride carbonica potrebbe infatti portare ad un preoccupante aumento di tumori, malattie cardiovascolari e metaboliche dovuto all’innalzamento dei livelli di arsenico nel riso. Alimento in cima alla lista dei cibi più consumati al mondo.

    Biodiversità

    Il giallo della moria delle api, negli Usa a rischio agricoltura e miele

    03 Aprile 2025

    L’arsenico, è noto, è tossico, soprattutto nella sua forma inorganica, ricordano dall’Istituto superiore di sanità. Oltre che dalle esposizioni professionali e dal consumo di tabacco, possiamo assumerlo attraverso acqua e cibi, e quelli più a rischio sono i cereali, come il riso appunto. Con rischi per la salute che vanno da patologie metaboliche, a un aumentato rischio di alcuni tumori (soprattutto pelle, polmone e vescica) e malattie cardiovascolari, aborti spontanei e diminuzione del peso alla nascita, malattie respiratorie e renali, spiegano dall’Efsa. E c’è ragione di credere che in futuro questi effetti possano manifestarsi con più forza.

    La legge

    In arrivo un decreto per limitare l’inquinamento da Pfas dell’acqua potabile

    28 Marzo 2025

    La ricerca in Cina
    Il motivo, scrivono Lewis Ziska della Columbia University e colleghi, è che fattori come l’aumento delle temperature e delle emissioni possono aumentare le concentrazioni di arsenico nel riso. Alcuni ricercatori in passato avevano già evidenziato delle possibili criticità, ma gli scienziati hanno deciso di approfondire, conducendo esperimenti sul campo. Lo hanno fatto in Cina, nella regione del delta del fiume Azzurro, dove sono state allestite piattaforme per questo studio (note come Free-Air Carbon dioxide Enrichment). Grazie all’utilizzo di tubature e sistemi di riscaldamento a infrarossi i ricercatori sono riusciti a simulare gli effetti derivanti dall’aumento sia di anidride carbonica che delle temperature, valutando diverse condizioni. Gli esperimenti sono durati una decina di anni e hanno riguardato diverse varietà di riso.

    Le microplastiche mettono a rischio la fertilità femminile

    28 Febbraio 2025

    I risultati
    I dati sono poco rincuoranti, soprattutto quando combinati con i livelli di consumo di riso per i principali paesi asiatici, usati per stimare eventuali effetti sulla salute delle persone. Come riportano nel loro studio, infatti, un aumento di anidride carbonica di 220 ppm (parti per milione) e delle temperatura di 2°C contemporaneamente, causerebbe un aumento dei livelli di arsenico inorganico nel riso in diverse varietà. Le potenziali conseguenze sono state stimate in milioni di casi di tumori in più entro il 2050, cui si aggiungerebbero quelli derivanti dagli aumentati rischi per tutte le altre patologie non oncologiche, quali diabete, infarti, disordini neurocognitivi e problemi in gravidanza e alla nascita.

    L’adattamento climatico
    “Documentando questo impatto e identificando contemporaneamente i meccanismi dell’aumento dell’accumulo di arsenico nel riso – si legge nel paper – la nostra ricerca apre la strada all’individuazione di interventi di adattamento climatico volti a migliorare la sicurezza del riso quale alimento di base”. Questi interventi, suggeriscono, dovrebbero essere indirizzati a impedire l’accumulo di arsenico nel riso, agendo sul terreno stesso. La temperatura e l’anidride carbonica infatti, spiegano gli autori, favoriscono una serie di alterazioni nel suolo, nelle piante e nella comunità microbica locale che aumentano la concentrazione di arsenico nel riso da ultimo. Le ipotesi per affrontare il problema sono diverse, e vanno da tecniche di miglioramento delle piante di riso a una modifica nelle pratiche di gestione dei terreni usati per le risaie. Ha concluso il professor Ziska: ”Queste misure, insieme a iniziative di sanità pubblica incentrate sull’educazione dei consumatori e sul monitoraggio dell’esposizione, potrebbero svolgere un ruolo fondamentale nel mitigare l’impatto sulla salute dei cambiamenti climatici legati al consumo di riso”. Il cibo più popolare al mondo. LEGGI TUTTO

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    Batterie all’uranio impoverito per stabilizzare l’energia accumulata grazie alle rinnovabili

    Uranio impoverito. Due parole tradizionalmente funeste, che fanno pensare ad armi terribili, radioattività pericolosa, inquinamento inestinguibile. Ma forse c’è anche dell’altro. Un gruppo di scienziati giapponesi, della Japan Atomic Energy Agency (Jaea) ha recentemente messo a punto una batteria ricaricabile a base di uranio impoverito, per l’appunto, che – dicono – potrebbe coadiuvare gli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, in particolare vento e sole, a “stabilizzare” la produzione, sostituendo le tradizionali batterie agli ioni di litio. In questo modo, proseguono gli inventori del dispositivo, si otterrebbe anche il beneficio di trasformare delle pericolose scorie nucleari in preziose risorse per l’industria.

    Come dovrebbe funzionare
    Effettivamente di uranio impoverito in giro per il mondo ce n’è parecchio. Le centrali nucleari giapponesi, per esempio, hanno lasciato in “eredità” 16mila tonnellate del materiale, e gli Stati Uniti ne conterrebbero addirittura 750mila tonnellate. Si tratta di un “sottoprodotto” delle reazioni di fissione, debolmente radioattivo ma molto tossico, in particolare per i reni: in virtù della sua alta densità, viene utilizzato sia dall’industria nucleare che in campo bellico, dove se ne fanno proiettili perforanti, che medico, dove serve alla realizzazione di schermature antiradiazioni. E forse, tra non molto, finirà anche nelle batterie.

    Il rapporto

    Italia rimandata in materia di transizione: bene le rinnovabili male la decarbonizzazione

    di Luca Fraioli

    22 Aprile 2025

    Il prototipo
    Al momento, la Jaea non ha pubblicato alcun documento dettagliato sul dispositivo messo a punto dai suoi scienziati, ma ne ha annunciato lo sviluppo il mese scorso e ha fornito una panoramica generale del suo funzionamento. Secondo la ricostruzione di Ieee Spectrum, si tratterebbe di una cosiddetta batteria di flusso, che immagazzina l’energia in due serbatoi di soluzioni elettrolitiche liquide, uno caricato positivamente e l’altro negativamente. Le soluzioni vengono poi “pompate” verso degli elettrodi, generando così elettricità. Nel prototipo è stato usato uranio per l’elettrodo negativo e ferro per l’elettrodo positivo; la soluzione elettrolitica è una miscela di solventi organici e un sale contenente sia ioni positivi e negativi, che è liquida a temperature inferiori a 100 °C.
    Uranio multicolore
    L’idea di usare uranio per costruire batterie non è nuova. Già circa 25 anni fa, Yoshinobu Shiokawa, della Tohoku University, Hajimu Yamana e Hirotake Moriyama, della Kyoto University, avevano proposto un’idea simile: la novità, nel prototipo appena realizzato, sta nell’utilizzo di ioni di ferro con differenti stati di ossidazione, che si sono rivelati cruciali per favorire la stabilizzazione della soluzione elettrolitica. In questo modo, combinando un elettrolita di ferro con un elettrolita di uranio, gli autori del lavoro sono riusciti a raggiungere una tensione di 1,5 volt nel loro prototipo, sufficiente ad accendere una piccola luce led. La batteria, inoltre, è stata caricata e scaricata per dieci volte e le sue prestazioni sono rimaste sempre le stesse, il che indica un ciclo di carica relativamente stabile: durante i cicli di carica e scarica, il colore dell’uranio è cambiato da verde a viola e poi è tornato verde, coerentemente con i suoi diversi stati di ossidazione.
    La sicurezza prima di tutto
    “La radioattività dell’uranio nel prototipo non ha costituito un problema per la sicurezza”, ha spiegato Kazuchi Ouchi, uno dei ricercatori coinvolti nel progetto, “perché il prototipo – e dunque la soluzione elettrolitica – era molto piccolo: appena 3 millilitri”. Naturalmente, scalare il dispositivo a dimensioni maggiori richiederà l’adozione di accorgimenti per la sua schermatura. Gli scienziati stanno lavorando proprio a questo, con l’obiettivo ambizioso di realizzare un giorno una batteria con 650 tonnellate di uranio, dalla capacità di 30mila chilowattora, sufficiente a soddisfare il fabbisogno giornaliero di circa 3mila famiglie. Ma c’è molto da aspettare. LEGGI TUTTO

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    “Per vincere la sfida climatica dobbiamo cambiare mentalità. Il momento è adesso”

    “È un momento brutto, ma è anche quello giusto per tentare davvero di cambiare mentalità”. La lotta alla crisi climatica che sta portando a temperature sempre più elevate ed eventi meteo sempre più estremi sta vivendo un momento di forte difficoltà: le politiche di oscurantismo e negazione climatica di Donald Trump, il ritorno dei combustibili fossili, il multilateralismo internazionale che scricchiola. Nonostante il Pianeta e la natura chiedano risposte immediate, l’umanità frena nell’affrontare il problema. Eppure, come racconta il fisico dell’atmosfera del Cnr Antonello Pasini nel suo nuovo libro in uscita il 24 aprile intitolato “La sfida climatica. Dalla scienza alla politica: ragioni per il cambiamento” (Codice Edizioni, 192 pp), siamo ancora in tempo per uscire dalle tendenze attuali, a patto però che per affrontare la sfida decidiamo tutti di “cambiare mentalità”.

    Perché, per vincere la sfida del clima, dobbiamo “cambiare mentalità” come racconta nel suo nuovo libro?
    “Perché il clima è un sistema complesso, con caratteristiche a cui non siamo abituati. Di solito quando abbiamo un problema noi umani cerchiamo una rapida soluzione per risolverlo ma con il clima non è così: la sua inerzia, le temperature e l’innalzamento degli oceani, l’accumulo di CO2, sono tutti problemi che chiedono un cambio di mentalità, di visione. Dobbiamo cambiare il nostro istinto di voler trovare una soluzione con effetti immediati: dobbiamo risolvere emergenze temporanee ma con la visione del lungo periodo. E negli ultimi anni in più occasioni potevamo farlo, eppure abbiamo perso un treno dietro l’altro”.

    Quali treni abbiamo perso?
    “Abbiamo perso il treno del dopo Covid per esempio, che poteva essere l’impulso verso un rapporto più armonico con la natura. Abbiamo perso anche il treno dettato dall’invasione russa in Ucraina che poteva essere una spinta verso le rinnovabili invece noi corriamo ancora dietro ai sostituti del gas russo e ora stiamo perdendo anche l’ occasione dei dazi, perché rischiamo di contrattare di comprare petrolio americano, che come tutti i fossili influisce sul clima, in cambio di riduzione dei dazi su nostri prodotti”.

    Nello specifico nel libro parla di una quadrupla sfida che definisce scientifica, filosofica, di comunicazione ma anche politica.
    “Per prima affronto la sfida scientifica, di come cerchiamo, come scienziati, di approcciare questo grande cambiamento. Poi, essendo tutti nel nodo di una rete fatto di relazioni con la natura e altri uomini, parlo di quella filosofica: non possiamo più pensarla alla Cartesio con uomo padrone del mondo che trascende la natura solo perché essere intelligente ma dobbiamo agire per armonizzare la nostra dinamica con quella della natura. Poi narro la sfida comunicativa: il messaggio scientifico passa trasversalmente? La risposta è no, perché tra bolle, polarizzazione e manipolazioni oggi non funziona, quindi dobbiamo trovare soluzioni. Infine analizzo la sfida politica, in cui racconto anche la mia esperienza come coordinatore di Scienza al voto”.

    Già, quanto è distante oggi il rapporto scienza-politica?
    “C’è un grosso problema: la comunicazione a una via non funziona, intendo quella dove scienziati parlano e politici ascoltano o non ascoltano. Manca un dialogo efficace, a più vie, strutturato e magari istituzionalizzato: per esempio con un consiglio scientifico clima ambiente che porti a un rapporto paritario fra scienza e politica. Noi scienziati non vogliamo fare i politici, ma al contrario vogliamo tentare di fare un passo indietro nel tentativo di fornire alla politica misure e ventagli di strumenti davvero efficaci per frenare la crisi del clima che poi i politici possono e devono scegliere. Forse così la politica si accorgerà che il problema climatico non è ideologico, è reale. Che tu sia di sinistra o di destra la crisi del clima non cambia, negli scenari peggiori porterà comunque ad aumentare disuguaglianze sociali e crollo del Pil. Per cui abbandoniamo le ideologie e agiamo tutti insieme”.

    E per riuscirci come dovremmo fare?
    “Ripeto, cambiare mentalità. Non possiamo continuare a credere alla crescita infinita in un Pianeta finito, o pensare che la tecnologia risolva tutto o a trovare soluzioni additive. Nel nostro modello di sviluppo noi pensiamo sempre di aggiungere le cose, di aumentare le risorse. Spesso invece si potrebbe far bastare le risorse che ancora abbiamo andando a curare, a sistemare e proteggere”.

    Delle emergenze climatiche in atto quale la spaventa di più?
    “La perdita dei ghiacci è drammatica e da lì dipende l’inerzia del clima. I nostri ghiacciai alpini per esempio non sono in equilibrio con la temperatura che fa oggi sulle Alpi, ma rispondono ancora lentamente alla crescita di temperatura degli ultimi decenni. I nostri modelli mostrano come se anche la temperatura rimanesse quella che è ora loro al 2100 perderebbero un 30% di superficie. Adesso possiamo adattarci e proteggere parte delle risorse, ma con le tendenze in atto la temperatura non rimarrà tale e aumenterà: significa che perderemo il 90% di superficie a fine secolo. A quel punto non riusciremo più ad adattarci: dove finiranno tutte le risorse idriche della Pianura Padana? Questo ci fa capire come l’inerzia del clima è fondamentale e perciò come scienziati diciamo di fare in fretta: ma non c’è mai la sensazione che arrivino risposte”.

    Risposte che tarderanno ulteriormente viste le politiche oscurantiste di Donald Trump.
    “Oggi con l’ aumento degli eventi estremi visibili a tutti c’è più consapevolezza sulla sfida climatica, ma rimane la difficoltà di affrontare seriamente il problema perché interi stati fanno fake news e cresce il potere delle lobby industriali: è un momento brutto, complicato. Per noi che facciamo questo lavoro come scienziati è un momento di lotta proprio contro l’oscurantismo, la cancellazione dei dati o il negazionismo attuale come negli Usa. E poi il ritorno a nazionalismi e sovranismi è tragico per la questione climatica perché la si risolve solo con il multilateralismo. I ricchi del mondo pensano di poter vincere comunque da soli questa sfida e che a perdere saranno solo i poveri: ma non è così, siamo tutti sulla stessa barca e se non troviamo soluzioni affonderemo comunque tutti”.

    Infine, dovesse sbilanciarsi ora, la vinceremo o la perderemo la sfida climatica?
    “Non posso sbilanciarmi, è impossibile dirlo. Sa perché? Perché noi scienziati del clima facciamo scenari e per farli abbiamo le leggi della dinamica naturale, ma le leggi della dinamica umana sono al di fuori dei nostri modelli, non sono certe o prevedibili. Chi poteva per esempio prevedere le attuali politiche di Trump? Per questo non ho una risposta sicura, ma ho comunque una certezza: questa sfida riguarda tutti noi, nessuno escluso”. LEGGI TUTTO

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    Italia rimandata in materia di transizione: bene le rinnovabili male la decarbonizzazione

    La Giornata mondiale della Terra è anche l’occasione per dare la pagella ambientale all’Italia. Nel 2024 il nostro Paese se l’è cavata in alcune materie, non si è affatto applicata in altre. Il risultato non è una sonora bocciatura. Ma sarebbero certo necessari esami di riparazione, soprattutto per quanto riguarda la decarbonizzazione. E’ questo il risultato dello “scrutinio” condotto da Italy for Climate, a partire dai dati pubblici e sintetizzato nel rapporto sui 10 Key Trend sul clima in Italia. Dieci materie con molte insufficienze, tanto che il “Paese che ancora non sta marciando con il passo giusto sulla via della transizione energetica”. In particolare, le emissioni di gas serra non si riducono di quanto si dovrebbe per rispettare gli obiettivi europei, mentre i consumi energetici sono di nuovo in crescita. Ci sono però anche settori dove l’Italia prende buoni voti: “l’unico ambito della transizione energetica su cui nel 2024 ha fatto passi in avanti, seppure ancora non del tutto sufficienti, resta quello delle rinnovabili e della decarbonizzazione del settore elettrico, con la crescita di eolico e soprattutto fotovoltaico degli ultimissimi anni che ha portato a una significativa riduzione della dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili”, si leggere nel rapporto di Italy for Climate. Ma vediamo in sintesi le dieci “tendenze chiave” punto per punto.

    La crisi climatica
    Nel 2024 sono stati 3.631 gli eventi estremi censiti dal European Severe Weather Database, di cui oltre 1.600 episodi di piogge intense, mille raffiche di vento, quasi 700 grandinate e oltre 300 tornado: il valore più alto mai registrato e più che triplicato dal 2018.

    L’acqua
    L’andamento delle scorte nazionali di acqua nevosa si conferma altalenante e particolarmente negativo anche nel 2024: secondo i dati della Cima Foundation, le scorte idriche misurate nel picco primaverile si sono attestate a circa 7 miliardi di metri cubi di acqua equivalente, con un deficit del 36% rispetto alla media del periodo 2011-2022 e picchi di -86% nel bacino del Tevere e dell’Aterno.

    Le emissioni
    Dopo l’incoraggiante riduzione registrata nel 2023, il 2024 è stato nuovamente caratterizzato da un taglio delle emissioni estremamente contenuto, pari a circa -2,3%. Si tratta di un taglio di poco più di 10 milioni di tonnellate di gas serra, circa la metà di quello che sarebbe necessario, che attesta le emissioni nazionali a circa 375 milioni di tonnellate nel 2024, un valore inferiore del 28% a quello dell’anno base 1990, decisamente insufficiente a conseguire gli obiettivi europei al 2030 e rispettare gli impegni dell’Accordo di Parigi.

    L’energia
    Nel 2024 i consumi finali di energia, secondo le stime dell’Enea, sono tornati a crescere, facendo segnare un aumento di 1,6 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (Mtep) pari a +1,5% sull’anno precedente. Questo dato, oltre ad essere in totale controtendenza rispetto agli impegni 2030 di riduzione dei consumi di energia, evidenzia come le politiche e misure di efficientamento energetico in Italia siano ancora del tutto insufficienti. A trainare questa crescita i consumi negli edifici (+0,9 Mtep), complice anche un inverno un po’ più rigido del precedente, ma soprattutto i trasporti (+1,2 Mtep), che si confermano il settore più difficile da aggredire con le politiche di risparmio energetico e di decarbonizzazione.

    La dipendenza energetica
    L’Italia si conferma uno dei Paesi europei con la più alta dipendenza dall’estero in materia di energia, a causa delle alte importazioni di combustibili fossili. Tuttavia, nell’anno appena trascorso le importazioni hanno soddisfatto circa il 72% del fabbisogno energetico nazionale, il valore più basso registrato. Questo trend positivo è iniziato nel 2022, quando le importazioni coprivano ancora il 79% del fabbisogno, ed è direttamente connesso alla crescita delle fonti rinnovabili elettriche degli ultimissimi anni.

    La produzione elettrica
    Nel 2024, complice anche una ripresa del settore idroelettrico, ci siamo fermati ad un soffio da uno storico sorpasso, con le rinnovabili che hanno contribuito per il 49% alla produzione elettrica nazionale. Ancora non siamo sufficientemente in linea con gli obiettivi al 2030, ma l’importante trend di riduzione delle emissioni del settore elettrico ha portato nel 2024 ad un nuovo record storico: 1 kWh consumato in Italia ha emesso appena 200 grammi di CO2, quasi il 65% in meno rispetto ai primi anni ’90.

    L’eolico e il solare
    Il 2024 conferma il buon momento per le rinnovabili in Italia, con eolico e solare che insieme hanno raggiunto +7,5 GW di nuovi impianti. Questo risultato corrisponde a circa il 70% di quello che dovremmo fare ogni anno per allinearci ai – pur non ambiziosissimi – obiettivi del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima.

    L’industria
    L’industria è il settore che più di tutti ha contribuito al taglio delle emissioni in Italia dal 1990 a oggi e nel 2024 è ancora l’unico settore ad aver ridotto sia i consumi di energia che le emissioni. Le emissioni in valore assoluto si sono ridotte di circa il 40%.

    Gli edifici
    Le pompe di calore, che dovrebbero trainare l’elettrificazione del settore, registrano per il secondo anno di fila un calo di vendite (meno di 360 mila unità nel 2024). Il fotovoltaico residenziale, invece, nel 2024 ha raggiunto oltre 1,6 milioni di impianti installati sui tetti delle case degli italiani e oltre 9 GW di potenza complessivamente installata, in grado di soddisfare circa il 15% dei consumi domestici di energia elettrica.

    I trasporti
    Sono il settore più difficile da decarbonizzare in Italia e ancora nel 2024 le emissioni settoriali di gas serra sono tornate a crescere di oltre il 2% sull’anno precedente, superando le 110 milioni di tonnellate di gas serra e confermandosi l’unico settore in Italia con emissioni più alte rispetto alla baseline del 1990. Dopo i voti materia per materia, un giudizio complessivo. “Questi ultimi tre anni di crescita delle rinnovabili hanno prodotto qualcosa”, commenta Andrea Barbabella, coordinatore e responsabile scientifico di Italy for climate. “E’ quella la strada da percorrere se si vuole l’autonomia energetica”. E in prospettiva? “Bisogna tenere alta la guardia: l’altro giorno sono usciti i dati di Terna relativi al primo trimestre del 2025: purtroppo registrano un rallentamento nell’istallazione di nuovi impianti rinnovabili in Italia, dopo tre anni consecutivi di crescita”.

    Punta il dito su edilizia e mobilità Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile: “Negli edifici, dopo il blocco per i costi insostenibili del superbonus del 110%, non è stata adottata alcuna una nuova misura, più ragionevole ed efficace, necessaria e possibile, per promuovere il risparmio delle bollette e delle emissioni. Nei trasporti si sentono solo richieste di rinvio delle misure di decarbonizzazione, continuando a puntare su una propaganda a favore delle auto a benzina e diesel e di freno delle auto elettriche, con pochi investimenti anche per la mobilità collettiva e ciclo-pedonale. Ma sia nell’edilizia che nel settore auto, dove più forte è la frenata delle misure di decarbonizzazione, cresce anche la crisi. Non dovrebbe sorprendere perché rallentare la decarbonizzazione oggi significa anche frenare innovazione, investimenti e sviluppo”. LEGGI TUTTO

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    Impatto ambientale minimo e ricarica ultrarapida. Ecco la bici a idrogeno

    “Nel 2023 a Francoforte durante una visita alla fiera internazionale Eurobike ci eravamo fermati, incuriositi, davanti a un piccolo ed anonimo stand un po’ nascosto, in cui un giovane ragazzo esponeva una bici e un idrolizzatore. In mezzo a centinaia di espositori del Far East dedicati alla componentistica per e-bike, quel progetto ci aveva colpito per la sua visione semplice e rivoluzionaria”. Lui è Andrea Tomasoni, presidente e Ceo di Remoove, startup di Riva del Garda specializzata in mobilità dolce e inclusiva che, in questi giorni, ha introdotto sul mercato italiano la bici a idrogeno, innovazione ancora più sostenibile di quella elettrica: si ricarica con mezzo litro d’acqua, il rifornimento avviene in pochi minuti, proprio come la fornitura di un’auto a benzina. Le biciclette a idrogeno rappresentano una delle più innovative soluzioni di mobilità sostenibile, perché combinano tecnologia avanzata con un impatto ambientale ridotto. Questi veicoli funzionano attraverso l’uso di celle a combustibile a idrogeno, che generano energia elettrica necessaria per alimentare il motore della bicicletta. Il principio su cui si basano è tanto semplice quanto rivoluzionario: l’idrogeno, immagazzinato in appositi serbatoi, reagisce all’interno della cella a combustibile con l’ossigeno dell’aria, producendo energia elettrica e acqua come unico sottoprodotto.

    “In Italia, solo nel 2023 sono state vendute 1,3 milioni di bici. Le e-bike continuano a guadagnare popolarità grazie alla crescente domanda di mobilità sostenibile. Per questo motivo ci siamo avvicinati al mercato delle biciclette a idrogeno. Per circa un anno – racconta Tomasoni -, abbiamo lavorato a stretto contatto con il produttore cinese per renderle disponibili nel nostro Paese (e in tutta Europa). E ci siamo riusciti. Queste bici, ci hanno conquistato innanzitutto perché, la linea produttiva è già attiva e pronta alla commercializzazione anche in grandi quantità. Poi si ricaricano con soli 20 cl di acqua, utilizzano una bombola a 30 bar di idrogeno e non contengono materiali inquinanti”. LEGGI TUTTO