Kitty Genovese venne uccisa nel 1964 nel quartiere di Kew Gardens, a New York, in tre attacchi distinti nell’arco di trenta minuti. Ben trentotto vicini avrebbero osservato l’aggressione dalle finestre o ascoltato le grida senza intervenire o chiamare le forze dell’ordine. Alcuni avrebbero acceso le luci o chiuso le tende, ma nessuno avrebbe agito per fermare l’assassino. L’unica chiamata alla polizia arrivò quando la donna era già morta. Il caso, descritto da John Darley e Bibb Latané nel 1968, divenne leggendario ed è oggi citato nei manuali di psicologia sociale di tutto il mondo: era una manifestazione tragica di un meccanismo psicologico che oggi conosciamo come effetto spettatore. Il resoconto originario del giornalista Martin Gansberg, apparso sulle pagine del New York Times, fu in seguito ridimensionato.
Molti testimoni non videro chiaramente la scena, alcuni chiamarono la polizia e molti non compresero la gravità di quanto stava accadendo. Ma quello che qui ci interessa è che la vicenda stimolò le ricerche di Darley e Latané, incuriositi e forse anche increduli. Darley e Latané ricrearono in laboratorio una simile situazione di emergenza, che permise loro di verificare che, in effetti, la probabilità che una persona intervenga si riduce significativamente in presenza di altre persone. Quando il partecipante è l’unico spettatore, l’85 per cento segnala l’emergenza. Se i partecipanti sono in due si scende al 62 per cento. Se sono sei, la percentuale è del 31 per cento. Anche il tempo medio di risposta è indicativo. Aumenta con il numero di spettatori: due persone, 52 secondi; tre persone, 93 secondi; sei persone, 166 secondi. Più spettatori ci sono, più il senso di responsabilità si diluisce, perché si presume che ad agire sarà qualcun altro. Considerando che sulla Terra siamo in 8 miliardi, non è difficile capire per quale motivo di fronte al cambiamento climatico ci si comporti come testimoni indifferenti. Ad amplificare l’effetto spettatore concorrono anche altri fattori. Innanzitutto, l’anonimato: in quanto estranei gli uni agli altri, viene a mancare il pungolo all’azione dello sguardo giudicante di chi ci conosce. E poi tendiamo a pensare che solo soggetti ben più potenti di noi – governi, multinazionali, istituzioni internazionali – siano in grado di fare la differenza, e tacitamente li deleghiamo. Il risultato è che ogni individuo si colloca nel ruolo di spettatore passivo di un disastro collettivo, incapace di riconoscere il proprio potenziale per il cambiamento.
Se la delega alimenta l’inazione, il fatalismo la consolida. Trasforma la passività in una rassegnazione totale. Di fronte all’enormità del problema ci si arrende come se il destino fosse già scritto e ogni sforzo velleitario. A differenza dell’illusione ottimistica, che genera una falsa sicurezza e smorza la percezione dell’urgenza, nel fatalismo l’iniziativa è inibita dal senso della propria inutilità. Entrambi, pur originando da premesse opposte, finiscono per avere lo stesso effetto: non fare niente, mantenere tutto com’è. Il fatalismo è strettamente legato al fenomeno sempre più diffuso delle eco-ansie. Si tratta di una condizione di preoccupazione cronica, spesso accompagnata da angoscia e impotenza, legata agli effetti del cambiamento climatico. Interessa in particolare i giovani, ai quali il futuro appare come già compromesso. Questo stato emotivo emerge quando il problema risulta tanto immenso da sembrarci insormontabile e quindi schiacciante. Per questo, l’esposizione costante a immagini catastrofiche e narrazioni cupe spesso ha effetti opposti a quelli desiderati: invece di stimolare l’azione, rischia di sopraffare le persone, inducendole a rifiutare il problema per autodifesa. L’eco-ansia, dunque, non è soltanto il riflesso di una minaccia oggettiva, ma anche il risultato di una comunicazione climatica che, pur con l’intento di sensibilizzare, rischia di generare paralisi.
Per evitare il blocco emotivo serve riconoscere un altro meccanismo: il bias dello status quo. Tendiamo a sopravvalutare ciò che abbiamo e a preferire lo stato presente anche quando non è l’opzione migliore. Questa trappola si intreccia con l’effetto spettatore: se nessuno intorno a me interviene, la condizione abituale diventa la non-azione, e la mia inerzia mi apparirà non solo comoda, ma anche ragionevole. Il primo ci fa aspettare che agisca qualcun altro; il secondo ci fa sentire che, in fondo, non c’è nulla da cambiare. Purtroppo il nostro status quo è così basato sull’uso dei combustibili fossili da sembrarci inevitabile. E noi, che ci piaccia o no, tendiamo a percepire lo status quo come naturale, e quindi “giusto”. Quando non sappiamo come comportarci, infatti, il primo riflesso è imitare gli altri. Se tutti continuano a percorrere strade insostenibili, è più facile seguirli. Eppure è proprio questa nostra predisposizione al comportamento gregario che può rivelarsi un’opportunità se sappiamo orientarla verso buoni esempi. Le norme sociali possono essere descrittive (che cosa fanno le persone) o prescrittive (che cosa è approvato si faccia). Spesso non coincidono, e quando non coincidono prevalgono le prime: ciò che osserviamo pesa più di ciò che sarebbe desiderabile facessimo – come accade nell’educazione dei figli, che tendono a seguire l’esempio dei genitori più che a da fare ciò che viene detto loro.
Pensiamo all’auto: la norma prescrittiva dice “usala meno”, ma il traffico quotidiano ci segnala che l’uso diffuso – anche per brevi tratte – è la norma descrittiva dominante. Per questo i contesti contano. Piccoli indizi possono rendere saliente una norma o l’altra. In una città del Colorado, i rifiuti venivano collocati in contenitori da 340 litri e il materiale riciclabile in contenitori da 130 litri. La città ha invertito questa disposizione, fornendo ai residenti contenitori da 340 litri per il riciclo e quelli più piccoli da 130 litri per i rifiuti. I residenti hanno così iniziato a riciclare di più, riempiendo i contenitori più grandi, e hanno prodotto meno rifiuti da collocare nei contenitori più piccoli. Evidentemente la grandezza del contenitore veicola una norma in modo silenzioso ma efficace. In una caffetteria del campus di Stanford, comunicare che un numero crescente di clienti sceglieva pasti con meno carne ha raddoppiato gli ordini vegetariani (dal 17% al 34%). In un altro studio, durante la siccità nelle lavanderie residenziali dello stesso campus, informare che sempre più residenti riducevano i lavaggi ha portato a un calo del 28,5% rispetto al 2,5% del gruppo di controllo. La leva è semplice: se il mondo sta cambiando, non vogliamo restare indietro. Ma il cambiamento deve apparire stabile e duraturo, non una moda passeggera.
Un caso suggestivo è quello dei pannelli solari. Più un pannello è visibile, più diventa un messaggio esplicito: “Qui crediamo nella sostenibilità”. Studi condotti in California, Connecticut, Germania e Svizzera hanno documentato che la presenza di impianti solari ben riconoscibili sui tetti dei vicini aumenta significativamente la probabilità che altri seguano l’esempio. L’effetto si amplifica quando gli impianti vengono integrati nelle facciate o installati su tetti scoscesi, bene in mostra dalla strada. Non sono più solo fonti di energia pulita: diventano elementi estetici, simboli di status, dichiarazioni pubbliche di intenti. Tanto da trasformarsi in un vero e proprio catalizzatore sociale: stimolano conversazioni, incuriosiscono e invitano all’imitazione; diventano il segno tangibile di una scelta condivisa. La via d’uscita dal fatalismo e dall’effetto spettatore passa da qui: spostare lo sguardo dalla domanda “perché non interviene nessuno?” a “cosa posso fare io, qui e ora, insieme agli altri?”, e progettare contesti in cui la scelta sostenibile sia la più naturale, visibile e socialmente approvata. Le scelte quotidiane non risolvono tutto, ma sono tasselli essenziali di una risposta collettiva. Così si passa dallo stare passivamente alla finestra a fare attivamente il bene per il pianeta: non aspettando l’eroe, ma moltiplicando piccoli interventi coordinati che ridefiniscono in modo virtuoso – passo dopo passo – ciò che chiamiamo “normale”.
* (L’autore è professore ordinario di Filosofia della scienza presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano)
