Si chiamava Paraná. Aveva la mia età, nei miei libri per bambini. Lo vedo ancora, con indosso un perizoma, mentre pesca con una lancia mentre sua madre gli prepara un piatto di manioca. Si diceva che fosse un “piccolo indiano”. Mio padre mi raccontava che venivano uccisi per rubare le loro terre. E io piangevo.
Oggi, alla Cop30 di Belém, lo ritrovo sugli schermi. Ora lo chiamano “indigeno”. La parola è cambiata, ma non il destino. Il suo ambiente è devastato, gli alberi della sua foresta abbattuti, i fiumi avvelenati. E io ho ancora voglia di piangere.
Parana ha ancora la mia età, ma è cresciuto. Nel frattempo, il mondo si è rimpicciolito. Non in termini di dimensioni, ma di valori umani, compassione, lucidità. Improvvisamente ho l’impressione che questi ultimi 60 anni non siano serviti a nulla. Da decenni mi sforzo di dimostrare che esistono migliaia di innovazioni pulite e attraenti in tutti i settori e che rendono la transizione non solo possibile, ma desiderabile ed economicamente redditizia.
Molte persone sono giustamente deluse dal percorso insostenibile del nostro mondo. Io lo sono doppiamente: perché oltre a vedere i suoi danni, vedo le soluzioni che non vengono utilizzate. Quelle che potrebbero innescare un paradigma diverso: un’economia qualitativa e un capitalismo finalmente illuminato, che crea valore rispettando i limiti del pianeta. Un nuovo software il cui successo non si misura solo in base alle sue prestazioni, ma anche all’attenzione che presta all’essere umano.
Ed è senza dubbio questo che mi sconvolge di più. Le soluzioni – tecnologiche, politiche ed economiche – per proteggere il Paraná e la sua foresta esistono. Ma rimangono prigioniere di un sistema che preferisce il profitto immediato alla rigenerazione. Eppure nessun business model può restituire la dignità a un popolo che viene cancellato in nome della crescita. Finché l’avidità prevarrà sulla compassione, nessuna innovazione sarà sufficiente.
Per completare il quadro, mentre scrivo queste righe, la polizia reprime una manifestazione di indigeni che difendono la loro terra dall’estrazione petrolifera. Uno dei portavoce, ancora ansimante e coperto di sudore, grida davanti alle telecamere: “I soldi non si mangiano”. È tutto detto.
Eppure, in mezzo a questo sconforto, emergono segnali di speranza. Una delle principali novità della Cop30 è la Tropical Forest Facility, che vuole dimostrare che preservare le foreste tropicali può essere un investimento per il futuro. Mobilitando capitali privati per progetti sostenibili di protezione e rigenerazione, mira a dimostrare che è più redditizio salvaguardare che distruggere.
Passare dall’emozione all’azione è l’unica strada percorribile. E nonostante ciò che dicono alcuni, la transizione è già ben avviata. Tuttavia, è necessario che sia condotta con umanità.
Voglio credere che il Paraná possa ancora essere salvato. Non con la pietà, ma con una visione del progresso che unisca redditività e responsabilità, innovazione e rispetto.
Salvare l’Amazzonia non è un atto di carità, è un atto di sopravvivenza.
Perché, in fondo, non è solo il Paraná che deve essere salvato. Siamo anche noi.
(Ogni giorno l’aviatore e psichiatra svizzero Bertrand Piccard racconterà la sua partecipazione alla Cop30 di Belém, in Brasile, con un diario su Green&Blue)
