VENEZIA — “Il sistema moda e tessile italiano ed europeo è sotto attacco”. Non usa mezzi termini Luca Sburlati, presidente Confindustria moda, nel suo intervento al Venice Sustainable Fashion Forum, curato da TEHA Group con il contributo di Sistema Moda Italia e Confindustria Veneto Est.
Più o meno felice che sia di questi tempi la metafora bellica, i numeri snocciolati da Sburlati sono eloquenti: export -4,5%, import +4,3%, un dato questo del tutto inaspettato e con un solo “colpevole”: la Cina, che da sola ha fatto registrare un +9%. Ma è soprattutto il modo che preoccupa: le piattaforme innovative e la vendita punto a punto, che si traduce nell’alluvione di centinaia di migliaia di pacchi sotto i 150 euro al giorno nelle nostre case.
“Pacchi che non pagano dazi, né dogane e, spesso, neppure l’Iva” denuncia Sburlati.
Una disruption per mutuare un termine di moda nel tech, che ha avuto luogo in soli 6 mesi. Ultra fast fashion (l’ultra indica una ancor maggiore velocità nell’aggiornamento delle collezioni, ormai su base addirittura quotidiana) nel mirino quindi: se l’anno scorso era ancora visto come una controparte con cui cercare di instaurare un dialogo, tanto da aver registrato la presenza tra i relatori di un rappresentante di Shein (che a onor del vero disse poco o nulla), oggi i veli sono caduti e non ci sono più remore nell’identificarlo come un nemico da combattere, anzi da cui difendersi.
E per questo servono regole, norme anti-penetrazione dei pacchi (in Francia, dove arrivano 1 milione di pacchi al giorno, il Parlamento ha approvato all’unanimità una legge che tassa i pacchi di provenienza extraeuropea e vieta la pubblicità ingannevole ai giovani sui social), la definizione di un piano strategico nazionale. E, seppur in un quadro geopolitico profondamente mutato, puntando sempre di più sulla sostenibilità, in primo luogo la sostenibilità sociale.
Proprio alla Fondazione Cini di Venezia, città sostenibile e resiliente per eccellenza, il mondo della moda si è riunito per provare a fare sul serio con la sostenibilità. A spingere davvero, come detto, non è il fast fashion, bensì l’alta gamma, l’artigianato e i marchi del lusso, che oggi si trovano a dover conciliare etica e competitività in un contesto globale sempre più instabile.
La sostenibilità non è più (solo) un valore: è una condizione di competitività
“Just Fashion Transition 2025”, lo studio strategico presentato al Venice Sustainable Fashion Forum, è il documento che, alla sua quarta edizione, si conferma la bussola per comprendere la trasformazione sostenibile dell’industria europea dell’abbigliamento, dalla filiera al consumatore.
Nel 2025, spiega il report, la transizione green si intreccia con la geopolitica e la sicurezza industriale. Guerre, dazi e reshoring stanno ridisegnando le catene del valore, mentre l’Unione Europea tenta di reagire con il Clean Industrial Deal, un piano da oltre 100 miliardi di euro pensato per sostenere la decarbonizzazione dei settori energivori.
La moda però resta ai margini. “Il rischio — avverte TEHA — è che un comparto strategico per l’Europa, ma formato per il 90% da PMI, venga escluso dal grande gioco della transizione industriale”. Eppure l’Europa resta la regione più esposta alla crisi ecologica: il 65% del suo Pil dipende direttamente dagli ecosistemi naturali.
Numeri in crescita, ma meno occupazione
Le proiezioni al 2030 indicano che l’industria della moda europea potrebbe raggiungere un fatturato di oltre 226 miliardi di euro, con una crescita tra il 12 e il 17%.Dietro questi numeri, però, si nasconde un dato meno brillante: quasi 300.000 posti di lavoro sono a rischio, soprattutto nell’Europa orientale, dove la produzione di fascia medio-bassa soffre di più l’automazione e la delocalizzazione inversa.
L’Italia mantiene un ruolo centrale — genera quasi la metà della produzione europea — ma il settore resta fortemente polarizzato tra poche grandi maison del lusso e una moltitudine di piccole imprese, spesso familiari, che faticano a reggere il ritmo degli investimenti necessari per innovazione e sostenibilità.
La moda del lusso riscrive la narrazione: l’artigianato deve diventare trasparente
Sul piano culturale e mediatico, lo studio rileva un cambiamento profondo: i Paesi storicamente associati al “bello e ben fatto” — Italia, Francia e Spagna — stanno perdendo terreno narrativo rispetto a economie emergenti come Cina, Vietnam e Bangladesh, oggi sempre più protagoniste in termini di innovazione e tecnologia.
La Cina, in particolare, non è più soltanto “la fabbrica del mondo”: guida la trasformazione digitale del settore e costruisce un racconto centrato su innovazione e design.
In Italia, invece, il “Made in” deve riconciliare eccellenza e legalità. Nonostante un calo dei casi di lavoro irregolare, il fenomeno resta presente (intorno al 7%), e coinvolge talvolta anche marchi noti. “Serve un cambio di paradigma — sottolinea TEHA —: la qualità deve valere anche nelle condizioni di lavoro”.
Consumatori giovani, spese impulsive e desiderio di autenticità
La ricerca evidenzia anche la trasformazione dei comportamenti d’acquisto. I Millennial e la Gen Z, cresciuti nell’incertezza economica e climatica, rispondono al pessimismo con il cosiddetto “doom spending”: una spinta a spendere in beni di lusso o aspirazionali come forma di gratificazione emotiva.Il 60% dei giovani europei acquista moda o accessori almeno una volta ogni sei mesi, privilegiando autenticità, esclusività e valori etici. Ma il paradosso resta: solo il 30% verifica davvero l’origine o l’impatto dei prodotti che acquista.
Normative in ritardo, ma l’Europa resta leader nei fondi per la transizione
Il report denuncia inoltre un quadro normativo frammentato: oltre il 60% delle leggi UE sulla moda sostenibile è in ritardo, dai regolamenti su sostanze chimiche e imballaggi fino alla due diligence e alle etichette ambientali.Nonostante ciò, l’Unione Europea continua a guidare gli investimenti: oltre 2.000 miliardi di euro di fondi pubblici destinati alla doppia transizione verde e digitale tra 2020 e 2029, con 120 miliardi accessibili alle imprese.
In Italia, strumenti come il Piano Transizione 5.0 e i programmi Horizon Europe e MICS possono aiutare le aziende a colmare il divario tecnologico e accelerare verso la decarbonizzazione.
Circolarità, tecnologie pulite e finanza: tre pilastri per il futuro
Le soluzioni esistono, ma non si applicano abbastanza. La produzione mondiale di fibre è più che raddoppiata in vent’anni, mentre in Europa solo il 20% dei tessili viene effettivamente riciclato. Le esportazioni di usato, circa 1,4 milioni di tonnellate l’anno, spesso spostano il problema in Paesi con meno regole ambientali.
Sul fronte tecnologico, il 66% delle soluzioni “clean tech” è già maturo, ma la loro adozione è frenata da alti costi iniziali e burocrazia. L’intelligenza artificiale, ancora poco diffusa, potrebbe aumentare il valore aggiunto del settore del 8%. Tuttavia in Italia gli investimenti di venture capital sul clean tech sono irrisori, non superano i 250 milioni di euro.
Per raggiungere gli obiettivi climatici al 2030, saranno necessari 4,4 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi. Ma sei imprese italiane su dieci non dispongono dei margini per sostenerli da sole: da qui la necessità di una finanza più coraggiosa e di partnership pubblico-private più mirate.
Una “Just Transition” anche per il lusso
Se il fast fashion resta ai margini del dibattito, è il lusso europeo a farsi carico del compito più difficile: dimostrare che sostenibilità e profitto possono coesistere.Il nuovo paradigma, spiegano gli autori, non è più “essere sostenibili” per immagine, ma “competere attraverso la sostenibilità”.
Da qui le sei raccomandazioni finali del rapporto: promuovere innovazione e capitali accessibili, premiare i virtuosi, concentrarsi su obiettivi misurabili, guidare la filiera con l’esempio, aggregarsi per competere e comunicare con trasparenza i risultati.
La sfida del prossimo decennio
“Non si tratta più di essere green, ma di restare rilevanti”, conclude il documento.Una frase che riassume l’urgenza di un settore che vale oltre 1,5% del Pil europeo, e che — almeno nelle sue componenti più alte — ha deciso di non delegare la transizione a slogan o passerelle.Non si può non ricordare, tuttavia, che nel salotto veneziano del forum, nessuno del fast fashion era presente.