L’umanità nel corso dell’ultimo millennio ha avuto un’influenza più grande di qualsiasi altro fattore ambientale sugli animali, arrivando addirittura a modificarne le dimensioni. È questa l’impressionante conclusione a cui è giunto uno studio multidisciplinare durato cinque anni e condotto su più di 80mila misurazioni biometriche di frammenti ossei provenienti da 311 siti archeologici della Francia del Sud. La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Pnas, si è concentrata sugli ultimi 8mila anni (periodo in cui nella regione sono comparse le prime specie allevate) e ha evidenziato che nei primi 7mila gli animali domestici e selvatici hanno cambiato le proprie dimensioni di pari passo, mentre negli ultimi mille i primi sono diventati più grandi e i secondi più piccoli, a causa dell’impatto dell’uomo.
Ossa e denti
Allo studio, finanziato dallo European Research Council, hanno partecipato più di una ventina di persone tra ricercatori universitari (compresi archeozoologi e studiosi di modelli climatici), personale di musei e responsabili di siti archeologici. Dopo aver deciso di concentrarsi su un’area ristretta, per evitare qualsiasi variazione geografica significativa, si è optato per il sud della Francia, territorio dove numerosi reperti erano già stati approfonditamente studiati (in totale sono state confrontate 81.211 misurazioni biometriche).
“Quello che ancora non si sapeva esattamente era come le dimensioni delle specie si fossero evolute da quando i primi animali domestici erano stati introdotti nella zona a oggi”, afferma la bioarcheologa Allowen Evin, dell’Istituto di scienze evolutive di Montpellier. “Per arrivare a capirlo, abbiamo deciso di confrontare le misurazioni di ossa e denti, che sono degli ottimi indicatori di questi cambiamenti”. In particolare, sono state scelte specie per le quali erano disponibili abbastanza frammenti ossei per l’intero periodo considerato: cervo nobile, volpe rossa, lepre e coniglio per quanto riguarda quelle selvatiche; e pecora, capra, maiale, pollo e bovino, per quelle domestiche.
Cosa è successo mille anni fa?
A partire dal Medioevo, come si diceva, si è registrato un cambiamento nella variazione delle dimensioni sia degli animali selvatici sia di quelli domestici. “Possiamo solo fare delle ipotesi su cosa abbia provocato questa tendenza, sicuramente non si deve ricercare un’unica causa, ma piuttosto una complessa interazione di fattori, tanto antropogenici quanto ambientali, entrambi indotti dall’uomo”, spiega Evin. Tra questi ci sono sicuramente l’intensificarsi della caccia, con la conseguente uccisione sistematica degli animali selvatici più grossi, e l’aumento dell’estensione degli insediamenti umani, che ha portato a una maggiore frammentazione degli habitat naturali. “Entrambi sono parametri noti per indurre una riduzione nella taglia delle specie selvatiche”, chiarisce la studiosa. Anche per quanto riguarda le specie domestiche, sarebbero più elementi ad aver provocato il loro aumento di dimensioni. “La causa principale, probabilmente, è la maggiore selezione da parte dell’uomo, che sempre più spesso prediligeva e faceva riprodurre animali grandi”, continua la bioarcheologa. “Ma a influire sono state anche le nuove modalità di allevamento di questi animali, che prevedevano cibo migliore, più abbondante e cure contro le malattie”.
I ricercatori hanno invece escluso che a provocare questa duplice tendenza siano stati altri fattori esterni, come, ad esempio, il cambiamento climatico. “Nel periodo che abbiamo studiato, l’Olocene, c’è effettivamente un aumento delle temperature, ma è talmente lento e regolare (tranne che per l’ultimo secolo) da non poter provocare cambiamenti così importanti nella morfologia delle specie animali”, chiarisce Evin.
Un trend universale
Ma la conclusione a cui è arrivata questa ricerca, ovvero che da mille anni l’influenza dell’uomo sulle dimensioni degli animali ha sorpassato qualsiasi fattore ambientale, può essere applicata ad altri territori? “Sappiamo con certezza che ovunque ci sono fluttuazioni analoghe nella grandezza delle specie”, risponde la ricercatrice. “Sarebbe interessante verificare, attraverso studi condotti in altre zone, l’entità di questi cambiamenti, che probabilmente differiranno sia per tempistiche sia per intensità”.
La speranza dei ricercatori è che gli strumenti sviluppati in cinque anni di lavoro, e messi a disposizione online, vengano utilizzati da altre équipe per ulteriori analisi. “Parlando dell’Italia, ad esempio, sarebbe importante capire come hanno influito sugli animali le molte trasformazioni avvenute durante il periodo dell’Impero romano”, prosegue Evin. “Credo che questo sarà un Paese chiave per future ricerche”. Nei prossimi anni, quindi, gli studiosi vogliono comprendere meglio fino a che punto il trend messo in luce dalle analisi sui reperti della Francia del sud si possa applicare ad altri territori, a partire dalla Francia del nord e dalla Penisola iberica. “Vorrei anche andare indietro nel tempo per vedere cosa succedeva prima del periodo considerato”, rivela la bioarcheologa. “Abbiamo bisogno di fare ulteriori misurazioni nei siti archeologici, ma l’obiettivo è estendere lo studio sui cambiamenti morfologici degli animali selvatici fino a 50mila anni fa”.
Un impatto con molte conseguenze
A differenza delle variazioni risultato dell’evoluzione – quelle che Charles Darwin definì come ‘adattamento’ – quelle osservate dal team coordinato da Evin sono indotte dall’uomo e hanno quindi conseguenze imprevedibili. “La nostra ricerca non si è spinta fino a determinare se essere più grandi o più piccoli sia una cosa positiva o negativa per le specie studiate”, spiega la ricercatrice. “Negli animali selvatici una taglia più ridotta può essere vantaggiosa in habitat frammentati e poveri di risorse, ma non si tratta necessariamente di un processo evolutivo: infatti, se il rimpicciolimento è semplicemente il risultato dell’eliminazione degli individui più grandi attraverso la caccia, senza una trasmissione ereditaria del carattere, si tratta di un effetto antropico (cioè legato all’uomo e le sue attività, ndr), non di un adattamento”. E al momento non è nemmeno chiaro se il fatto di avere dimensioni ridotte o accresciute renda gli animali più o meno vulnerabili e, quindi, ne minacci la sopravvivenza. Conducendo le loro analisi, i ricercatori hanno però notato come anche molte specie domestiche siano sparite. “Se ne parla poco, ma oggi più che mai c’è una crisi della agrobiodiversità: molte razze tradizionali non vengono più allevate perché considerate meno produttive”, afferma Evin.
“Sarebbe importante diffondere una maggiore consapevolezza sulla ricchezza di queste specie e tradurla in un’attenzione alla provenienza e alle modalità di produzione di ciò che mangiamo”. Per quanto riguarda gli animali selvatici, invece, le conclusioni a cui è arrivato lo studio dovrebbero portare innanzitutto a riflettere sull’importanza dei corridoi ecologici (le aree che collegano più habitat). Nel periodo storico in cui viviamo, infatti, l’incessante consumo di suolo rende sempre più estrema la frammentazione degli ambienti naturali, sottraendo spazio e risorse insostituibili a moltissime specie. Se vogliamo ridurre la nostra impronta sul mondo animale, preservare gli ambienti selvatici ed essere consumatori più consapevoli dovrebbero essere la priorità.

