“Forse dovremmo ripartire dal Medioevo, è tempo di fare un passo indietro se vogliamo guardare avanti e rigenerare la Terra. E lasciatemelo dire: svegliamoci a puntare di più sull’agricoltura rigenerativa o sarà tardi per il Pianeta”. Andrea Illy, presidente della Illy Caffè, è uno dei pochi imprenditori italiani presenti alla Cop30 di Belém, in Brasile. Se ha sorvolato l’oceano per partecipare alla grande Conferenza delle parti sul clima, c’è un motivo: dice di sentire l’urgenza di agire anche perché – vedendo il mondo del caffè cambiare tra speculazione e impatti del cambiamento climatico – ha la sensazione che “l’agricoltura debba tornare centrale. Siamo ancora in tempo per dar vita a un nuovo modello di progresso, ma per farlo dobbiamo unire i concetti di clima, biodiversità e economia circolare”.
Lei è uno dei pochi imprenditori italiani che è volato in Brasile per partecipare alla Cop30. Che impressione le ha fatto?
“Uno dei pochi o forse addirittura l’unico. Scherzi a parte io volevo esserci e questa Cop che, nonostante le critiche, mi è sembrata organizzata in maniera adeguata e simbolica per due motivi. Il primo è che nonostante i grandi assenti, a cominciare da Trump, si va avanti lo stesso. Il secondo è che è stata realizzata in Amazzonia – simbolo dell’ambiente e madre degli ecosistemi – in modo tale da porre l’accento su un approccio più sistemico nella salvaguardia della natura, parlando, ed è la cosa che oggi mi interessa di più, anche di agricoltura rigenerativa”.
Che cosa si aspetta dal summit?
“Che si arrivi a fare di questa Cop, come ha detto Lula, la Cop della verità, capace di dirci le cose come stanno ma anche di indicare soluzioni. Io personalmente avevo un’agenda tutta focalizzata sul caffè, dato che ero parte della delegazione italiana della cooperazione che ha presentato la strategia italiana per il caffè, e dunque non sono riuscito a seguire altri temi, ma per quanto ho potuto respirare ho fiducia nella riuscita del vertice”.
Lei sostiene l’idea che serva un’unica Cop sul clima e sulla biodiversità. Perché?
“Qui siamo di fronte a un sistema complesso, dove però cerchiamo sempre di scomporre i problemi uno alla volta per affrontarli, ma questo non funziona, anzi può addirittura produrre effetti collaterali. Io invece credo che si debba affrontare le due grandi crisi globali, clima e biodiversità, non come separate ma insieme. Finalmente a questa Cop ci si è focalizzati sulla vera natura del problema, che è di natura ecologica prima ancora di climatica. Nel libro che ho scritto e pubblicato di recente (La società rigenerativa, edizione Egea, 2025, ndr) sostengo con determinazione proprio che la crisi climatica è risultante della crisi ambientale e non viceversa e che non sono due crisi separate. Dobbiamo partire dalla crisi ambientale se vogliamo risolvere quella climatica e per riuscirci dobbiamo puntare sulla rigenerazione ambientale”.
Quello della rigenerazione è un mantra che porta avanti con la Regenerative Society Foundation, di cui è co-presidente, puntando molto sull’agricoltura rigenerativa. Di cosa si tratta?
“Di un approccio circolare dell’agricoltura che include un business model capace di rigenerare gli ecosistemi vitali. Sappiamo tutti che abbiamo bisogno dei servizi ecosistemici: per vivere ci serve l’aria, l’acqua, il cibo. L’agricoltura rigenerativa punta a ripristinare la salute del suolo e la biodiversità invertendo il degrado causato dall’agricoltura industriale e, anziché esaurire risorse, le rimette in circolo attraverso pratiche sostenibili, migliorando la fertilità e anche la resilienza al clima. Un sistema opposto al modello estrattivo attuale che ha già “bruciato” quasi il 40% delle risorse naturali. Quello di oggi è un modello destinato a portare all’estinzione della nostra specie: è solo una questione di tempo, ma possiamo cambiarlo subito e puntare sulla rigenerazione del capitale naturale, che significa anche crescita economica”.
Ma in un mondo che va verso i 10 miliardi di persone è applicabile su larga scala?
“Io credo di sì. Mentre il biologico, con vincoli precisi, è più complesso su larga scala, l’agricoltura rigenerativa, che fra i suoi driver ha l’idea di nutrire il suolo con carbonio organico e migliorarne il microbiota, ha bisogno di poca agrochimica ed è espandibile in vari contesti. Ma per iniziare a spingere veramente in questa direzione serve prima ammettere, partendo dai dati, che l’agricoltura classica oggi è quasi sempre al primo posto per impatti negativi se pensiamo per esempio al consumo di acqua e suolo o la perdita di biodiversità. Se partiamo da qui, allora è logico puntare su un cambiamento necessario dell’agenda, dove mirare appunto all’agricoltura rigenerativa che dimostra produttività inalterata o addirittura migliorata e ha bisogno di molto meno suolo e acqua. Spesso però, anche a causa della pressione delle lobby, questo concetto non riesce a passare”.
Il vostro caffè è prodotto così?
“Dal 2019 puntiamo sull’agricoltura rigenerativa, capace di adattarsi e mitigare l’ambiente al tempo stesso, un vero miracolo. E, tracciando, sappiamo anche esattamente chi ci vende il caffè, come e dove viene fatto. Il 90% dei nostri farmer ha adottato questa pratica e il caffè è diventato il raccolto leader in assoluto nella rigenerativa. Davvero fantastico”.
Quanto impatta la crisi del clima sul caffè?
“Come ho detto più volte il caffè soffre per speculazione, che incide sia sulla vita dei lavoratori sia sui consumatori che vedono talvolta raddoppiare il costo di una tazzina, e soffre per una crisi del clima che, avevamo stimato dieci anni fa, nel 2050 porterà il 50% delle terre coltivabili a caffè a non esserlo più. Purtroppo dopo dieci anni oggi osserviamo che questo sta già accadendo a causa di intensità e frequenza degli eventi estremi: ondate di calore e siccità, ma anche eccesso di pioggia e successive malattie delle piante, stanno diventando letali. Però, appunto, è anche vero che per esempio l’agricoltura rigenerativa permette di resistere a due gradi superiori di temperature estreme e ha dato prova di maggiore resilienza”.
Dunque il caffè del futuro sarà “rigenerativo”? E anche le Cop dovranno mettere al primo posto la questione agricoltura?
“Sì credo che l’agricoltura dovrebbe diventare centrale nell’agenda del clima. Per risponderle, il punto è questo: noi abbiamo perso due miliardi e mezzo di ettari boschivi di ecosistemi vitali. Forse possiamo sperare di recuperarne uno, ma quanto tempo ci metteremo? Quanto ci costa? Chi lo fa? Diciamo che è complesso. Ma dal punto di vista biologico il processo di degradazione è invece reversibile perché è tutto quanto circolare: se lasciamo lavorare la natura, possiamo recuperare molto. Riuscirci significa però avere i giusti modelli. Anni fa mi sono imbattuto, studiando, nei modelli medioevali: allora la terra era di proprietà collettiva e veniva data in custodia alle famiglie le quali avevano il diritto di sfruttamento per soddisfare la propria sopravvivenza e che voleva dire anche commercializzare, purché non andassero a deteriorare la terra che avevano avuto in concessione. Ecco quel singolo concetto mi sembra una risposta chiara che dovremmo riproporre. In certe comunità montane in Europa funziona ancora così ed applicare l’agricoltura rigenerativa a questo modello, ovvero coltivare come prima della Rivoluzione verde, è possibile e non è niente di nuovo. Anzi, con più scienza e tecnologia oggi possiamo, guardando al passato, migliorare il futuro. E questo vale per il caffè e le altre colture”.
