19 Novembre 2025

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    Il Pianeta è in pericolo e noi stiamo alla finestra

    Kitty Genovese venne uccisa nel 1964 nel quartiere di Kew Gardens, a New York, in tre attacchi distinti nell’arco di trenta minuti. Ben trentotto vicini avrebbero osservato l’aggressione dalle finestre o ascoltato le grida senza intervenire o chiamare le forze dell’ordine. Alcuni avrebbero acceso le luci o chiuso le tende, ma nessuno avrebbe agito per fermare l’assassino. L’unica chiamata alla polizia arrivò quando la donna era già morta. Il caso, descritto da John Darley e Bibb Latané nel 1968, divenne leggendario ed è oggi citato nei manuali di psicologia sociale di tutto il mondo: era una manifestazione tragica di un meccanismo psicologico che oggi conosciamo come effetto spettatore. Il resoconto originario del giornalista Martin Gansberg, apparso sulle pagine del New York Times, fu in seguito ridimensionato.

    Molti testimoni non videro chiaramente la scena, alcuni chiamarono la polizia e molti non compresero la gravità di quanto stava accadendo. Ma quello che qui ci interessa è che la vicenda stimolò le ricerche di Darley e Latané, incuriositi e forse anche increduli. Darley e Latané ricrearono in laboratorio una simile situazione di emergenza, che permise loro di verificare che, in effetti, la probabilità che una persona intervenga si riduce significativamente in presenza di altre persone. Quando il partecipante è l’unico spettatore, l’85 per cento segnala l’emergenza. Se i partecipanti sono in due si scende al 62 per cento. Se sono sei, la percentuale è del 31 per cento. Anche il tempo medio di risposta è indicativo. Aumenta con il numero di spettatori: due persone, 52 secondi; tre persone, 93 secondi; sei persone, 166 secondi. Più spettatori ci sono, più il senso di responsabilità si diluisce, perché si presume che ad agire sarà qualcun altro. Considerando che sulla Terra siamo in 8 miliardi, non è difficile capire per quale motivo di fronte al cambiamento climatico ci si comporti come testimoni indifferenti. Ad amplificare l’effetto spettatore concorrono anche altri fattori. Innanzitutto, l’anonimato: in quanto estranei gli uni agli altri, viene a mancare il pungolo all’azione dello sguardo giudicante di chi ci conosce. E poi tendiamo a pensare che solo soggetti ben più potenti di noi – governi, multinazionali, istituzioni internazionali – siano in grado di fare la differenza, e tacitamente li deleghiamo. Il risultato è che ogni individuo si colloca nel ruolo di spettatore passivo di un disastro collettivo, incapace di riconoscere il proprio potenziale per il cambiamento.

    Se la delega alimenta l’inazione, il fatalismo la consolida. Trasforma la passività in una rassegnazione totale. Di fronte all’enormità del problema ci si arrende come se il destino fosse già scritto e ogni sforzo velleitario. A differenza dell’illusione ottimistica, che genera una falsa sicurezza e smorza la percezione dell’urgenza, nel fatalismo l’iniziativa è inibita dal senso della propria inutilità. Entrambi, pur originando da premesse opposte, finiscono per avere lo stesso effetto: non fare niente, mantenere tutto com’è. Il fatalismo è strettamente legato al fenomeno sempre più diffuso delle eco-ansie. Si tratta di una condizione di preoccupazione cronica, spesso accompagnata da angoscia e impotenza, legata agli effetti del cambiamento climatico. Interessa in particolare i giovani, ai quali il futuro appare come già compromesso. Questo stato emotivo emerge quando il problema risulta tanto immenso da sembrarci insormontabile e quindi schiacciante. Per questo, l’esposizione costante a immagini catastrofiche e narrazioni cupe spesso ha effetti opposti a quelli desiderati: invece di stimolare l’azione, rischia di sopraffare le persone, inducendole a rifiutare il problema per autodifesa. L’eco-ansia, dunque, non è soltanto il riflesso di una minaccia oggettiva, ma anche il risultato di una comunicazione climatica che, pur con l’intento di sensibilizzare, rischia di generare paralisi.

    Per evitare il blocco emotivo serve riconoscere un altro meccanismo: il bias dello status quo. Tendiamo a sopravvalutare ciò che abbiamo e a preferire lo stato presente anche quando non è l’opzione migliore. Questa trappola si intreccia con l’effetto spettatore: se nessuno intorno a me interviene, la condizione abituale diventa la non-azione, e la mia inerzia mi apparirà non solo comoda, ma anche ragionevole. Il primo ci fa aspettare che agisca qualcun altro; il secondo ci fa sentire che, in fondo, non c’è nulla da cambiare. Purtroppo il nostro status quo è così basato sull’uso dei combustibili fossili da sembrarci inevitabile. E noi, che ci piaccia o no, tendiamo a percepire lo status quo come naturale, e quindi “giusto”. Quando non sappiamo come comportarci, infatti, il primo riflesso è imitare gli altri. Se tutti continuano a percorrere strade insostenibili, è più facile seguirli. Eppure è proprio questa nostra predisposizione al comportamento gregario che può rivelarsi un’opportunità se sappiamo orientarla verso buoni esempi. Le norme sociali possono essere descrittive (che cosa fanno le persone) o prescrittive (che cosa è approvato si faccia). Spesso non coincidono, e quando non coincidono prevalgono le prime: ciò che osserviamo pesa più di ciò che sarebbe desiderabile facessimo – come accade nell’educazione dei figli, che tendono a seguire l’esempio dei genitori più che a da fare ciò che viene detto loro.

    Pensiamo all’auto: la norma prescrittiva dice “usala meno”, ma il traffico quotidiano ci segnala che l’uso diffuso – anche per brevi tratte – è la norma descrittiva dominante. Per questo i contesti contano. Piccoli indizi possono rendere saliente una norma o l’altra. In una città del Colorado, i rifiuti venivano collocati in contenitori da 340 litri e il materiale riciclabile in contenitori da 130 litri. La città ha invertito questa disposizione, fornendo ai residenti contenitori da 340 litri per il riciclo e quelli più piccoli da 130 litri per i rifiuti. I residenti hanno così iniziato a riciclare di più, riempiendo i contenitori più grandi, e hanno prodotto meno rifiuti da collocare nei contenitori più piccoli. Evidentemente la grandezza del contenitore veicola una norma in modo silenzioso ma efficace. In una caffetteria del campus di Stanford, comunicare che un numero crescente di clienti sceglieva pasti con meno carne ha raddoppiato gli ordini vegetariani (dal 17% al 34%). In un altro studio, durante la siccità nelle lavanderie residenziali dello stesso campus, informare che sempre più residenti riducevano i lavaggi ha portato a un calo del 28,5% rispetto al 2,5% del gruppo di controllo. La leva è semplice: se il mondo sta cambiando, non vogliamo restare indietro. Ma il cambiamento deve apparire stabile e duraturo, non una moda passeggera.

    Un caso suggestivo è quello dei pannelli solari. Più un pannello è visibile, più diventa un messaggio esplicito: “Qui crediamo nella sostenibilità”. Studi condotti in California, Connecticut, Germania e Svizzera hanno documentato che la presenza di impianti solari ben riconoscibili sui tetti dei vicini aumenta significativamente la probabilità che altri seguano l’esempio. L’effetto si amplifica quando gli impianti vengono integrati nelle facciate o installati su tetti scoscesi, bene in mostra dalla strada. Non sono più solo fonti di energia pulita: diventano elementi estetici, simboli di status, dichiarazioni pubbliche di intenti. Tanto da trasformarsi in un vero e proprio catalizzatore sociale: stimolano conversazioni, incuriosiscono e invitano all’imitazione; diventano il segno tangibile di una scelta condivisa. La via d’uscita dal fatalismo e dall’effetto spettatore passa da qui: spostare lo sguardo dalla domanda “perché non interviene nessuno?” a “cosa posso fare io, qui e ora, insieme agli altri?”, e progettare contesti in cui la scelta sostenibile sia la più naturale, visibile e socialmente approvata. Le scelte quotidiane non risolvono tutto, ma sono tasselli essenziali di una risposta collettiva. Così si passa dallo stare passivamente alla finestra a fare attivamente il bene per il pianeta: non aspettando l’eroe, ma moltiplicando piccoli interventi coordinati che ridefiniscono in modo virtuoso – passo dopo passo – ciò che chiamiamo “normale”.
    * (L’autore è professore ordinario di Filosofia della scienza presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano) LEGGI TUTTO

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    “Per salvare il mondo dobbiamo rigenerare. Come? Ispirandoci al Medioevo”

    “Forse dovremmo ripartire dal Medioevo, è tempo di fare un passo indietro se vogliamo guardare avanti e rigenerare la Terra. E lasciatemelo dire: svegliamoci a puntare di più sull’agricoltura rigenerativa o sarà tardi per il Pianeta”. Andrea Illy, presidente della Illy Caffè, è uno dei pochi imprenditori italiani presenti alla Cop30 di Belém, in Brasile. Se ha sorvolato l’oceano per partecipare alla grande Conferenza delle parti sul clima, c’è un motivo: dice di sentire l’urgenza di agire anche perché – vedendo il mondo del caffè cambiare tra speculazione e impatti del cambiamento climatico – ha la sensazione che “l’agricoltura debba tornare centrale. Siamo ancora in tempo per dar vita a un nuovo modello di progresso, ma per farlo dobbiamo unire i concetti di clima, biodiversità e economia circolare”.

    Lei è uno dei pochi imprenditori italiani che è volato in Brasile per partecipare alla Cop30. Che impressione le ha fatto?
    “Uno dei pochi o forse addirittura l’unico. Scherzi a parte io volevo esserci e questa Cop che, nonostante le critiche, mi è sembrata organizzata in maniera adeguata e simbolica per due motivi. Il primo è che nonostante i grandi assenti, a cominciare da Trump, si va avanti lo stesso. Il secondo è che è stata realizzata in Amazzonia – simbolo dell’ambiente e madre degli ecosistemi – in modo tale da porre l’accento su un approccio più sistemico nella salvaguardia della natura, parlando, ed è la cosa che oggi mi interessa di più, anche di agricoltura rigenerativa”.

    Che cosa si aspetta dal summit?
    “Che si arrivi a fare di questa Cop, come ha detto Lula, la Cop della verità, capace di dirci le cose come stanno ma anche di indicare soluzioni. Io personalmente avevo un’agenda tutta focalizzata sul caffè, dato che ero parte della delegazione italiana della cooperazione che ha presentato la strategia italiana per il caffè, e dunque non sono riuscito a seguire altri temi, ma per quanto ho potuto respirare ho fiducia nella riuscita del vertice”.

    Lei sostiene l’idea che serva un’unica Cop sul clima e sulla biodiversità. Perché?
    “Qui siamo di fronte a un sistema complesso, dove però cerchiamo sempre di scomporre i problemi uno alla volta per affrontarli, ma questo non funziona, anzi può addirittura produrre effetti collaterali. Io invece credo che si debba affrontare le due grandi crisi globali, clima e biodiversità, non come separate ma insieme. Finalmente a questa Cop ci si è focalizzati sulla vera natura del problema, che è di natura ecologica prima ancora di climatica. Nel libro che ho scritto e pubblicato di recente (La società rigenerativa, edizione Egea, 2025, ndr) sostengo con determinazione proprio che la crisi climatica è risultante della crisi ambientale e non viceversa e che non sono due crisi separate. Dobbiamo partire dalla crisi ambientale se vogliamo risolvere quella climatica e per riuscirci dobbiamo puntare sulla rigenerazione ambientale”.

    Quello della rigenerazione è un mantra che porta avanti con la Regenerative Society Foundation, di cui è co-presidente, puntando molto sull’agricoltura rigenerativa. Di cosa si tratta?
    “Di un approccio circolare dell’agricoltura che include un business model capace di rigenerare gli ecosistemi vitali. Sappiamo tutti che abbiamo bisogno dei servizi ecosistemici: per vivere ci serve l’aria, l’acqua, il cibo. L’agricoltura rigenerativa punta a ripristinare la salute del suolo e la biodiversità invertendo il degrado causato dall’agricoltura industriale e, anziché esaurire risorse, le rimette in circolo attraverso pratiche sostenibili, migliorando la fertilità e anche la resilienza al clima. Un sistema opposto al modello estrattivo attuale che ha già “bruciato” quasi il 40% delle risorse naturali. Quello di oggi è un modello destinato a portare all’estinzione della nostra specie: è solo una questione di tempo, ma possiamo cambiarlo subito e puntare sulla rigenerazione del capitale naturale, che significa anche crescita economica”.

    Ma in un mondo che va verso i 10 miliardi di persone è applicabile su larga scala?
    “Io credo di sì. Mentre il biologico, con vincoli precisi, è più complesso su larga scala, l’agricoltura rigenerativa, che fra i suoi driver ha l’idea di nutrire il suolo con carbonio organico e migliorarne il microbiota, ha bisogno di poca agrochimica ed è espandibile in vari contesti. Ma per iniziare a spingere veramente in questa direzione serve prima ammettere, partendo dai dati, che l’agricoltura classica oggi è quasi sempre al primo posto per impatti negativi se pensiamo per esempio al consumo di acqua e suolo o la perdita di biodiversità. Se partiamo da qui, allora è logico puntare su un cambiamento necessario dell’agenda, dove mirare appunto all’agricoltura rigenerativa che dimostra produttività inalterata o addirittura migliorata e ha bisogno di molto meno suolo e acqua. Spesso però, anche a causa della pressione delle lobby, questo concetto non riesce a passare”.

    Il vostro caffè è prodotto così?
    “Dal 2019 puntiamo sull’agricoltura rigenerativa, capace di adattarsi e mitigare l’ambiente al tempo stesso, un vero miracolo. E, tracciando, sappiamo anche esattamente chi ci vende il caffè, come e dove viene fatto. Il 90% dei nostri farmer ha adottato questa pratica e il caffè è diventato il raccolto leader in assoluto nella rigenerativa. Davvero fantastico”.

    Quanto impatta la crisi del clima sul caffè?
    “Come ho detto più volte il caffè soffre per speculazione, che incide sia sulla vita dei lavoratori sia sui consumatori che vedono talvolta raddoppiare il costo di una tazzina, e soffre per una crisi del clima che, avevamo stimato dieci anni fa, nel 2050 porterà il 50% delle terre coltivabili a caffè a non esserlo più. Purtroppo dopo dieci anni oggi osserviamo che questo sta già accadendo a causa di intensità e frequenza degli eventi estremi: ondate di calore e siccità, ma anche eccesso di pioggia e successive malattie delle piante, stanno diventando letali. Però, appunto, è anche vero che per esempio l’agricoltura rigenerativa permette di resistere a due gradi superiori di temperature estreme e ha dato prova di maggiore resilienza”.

    Dunque il caffè del futuro sarà “rigenerativo”? E anche le Cop dovranno mettere al primo posto la questione agricoltura?
    “Sì credo che l’agricoltura dovrebbe diventare centrale nell’agenda del clima. Per risponderle, il punto è questo: noi abbiamo perso due miliardi e mezzo di ettari boschivi di ecosistemi vitali. Forse possiamo sperare di recuperarne uno, ma quanto tempo ci metteremo? Quanto ci costa? Chi lo fa? Diciamo che è complesso. Ma dal punto di vista biologico il processo di degradazione è invece reversibile perché è tutto quanto circolare: se lasciamo lavorare la natura, possiamo recuperare molto. Riuscirci significa però avere i giusti modelli. Anni fa mi sono imbattuto, studiando, nei modelli medioevali: allora la terra era di proprietà collettiva e veniva data in custodia alle famiglie le quali avevano il diritto di sfruttamento per soddisfare la propria sopravvivenza e che voleva dire anche commercializzare, purché non andassero a deteriorare la terra che avevano avuto in concessione. Ecco quel singolo concetto mi sembra una risposta chiara che dovremmo riproporre. In certe comunità montane in Europa funziona ancora così ed applicare l’agricoltura rigenerativa a questo modello, ovvero coltivare come prima della Rivoluzione verde, è possibile e non è niente di nuovo. Anzi, con più scienza e tecnologia oggi possiamo, guardando al passato, migliorare il futuro. E questo vale per il caffè e le altre colture”. LEGGI TUTTO