24 Febbraio 2025

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    Epiphyllum: coltivazione, cura e dove posizionare

    Nell’universo delle piante grasse spicca l’epiphyllum, conosciuta per il suo aspetto suggestivo ed esotico. Contraddistinta da una struttura imponente, è chiamata anche cactus orchidea, per via dei suoi grandi fiori, e lingua di suocera, nome in comune con la sansevieria, con cui condivide anche la forma allungata, malgrado nel suo caso questa caratteristica riguardi il fusto piuttosto che le foglie. Infatti, l’epiphyllum è priva di foglie, essendo una cactacea, e presenta solo piccoli rami dotati di spine minuscole. Con costanza e le giuste azioni coltivare questa splendida pianta grassa è piuttosto semplice e può dare molte soddisfazioni, visto che fiorisce con fiori vistosi e suggestivi.

    Epiphyllum e la sua collocazione ideale
    Appartenente alla famiglia delle cactacee, la stessa del fico d’India, l’epiphyllum è originaria delle foreste dell’America tropicale ed è una pianta epifita, ciò significa che si sviluppa su alberi e rocce, vive su altre piante e si disseta con l’umidità dell’atmosfera e l’acqua piovana. Questa pianta grassa si nutre di muschio oppure, attraverso le sue radici aeree, di sostanze organiche in decomposizione. I suoi fiori spettacolari sbocciano durante il periodo della primavera e tendenzialmente sono rossi, ma possono presentarsi rosa oppure gialli, e le sue foglie sono robuste, lunghe e dentellate ai margini.

    Con i giusti interventi, la coltivazione dell’epiphyllum è semplice e non richiede grandi sforzi anche dal punto di vista della sua manutenzione. In primo luogo è importante valutare con attenzione dove posizionare la pianta, tenendo conto che il suo habitat naturale è la foresta e di come si sviluppi in luoghi luminosi e caldi, dovendo essere tuttavia protetta dai raggi solari: rispetto alla maggior parte dei cactus vive in ambienti umidi.

    Per crescere in modo vigoroso l’epiphyllum necessita quindi di molta luce, evitando però la luce solare diretta, considerando che i raggi non filtrati possono danneggiarla, bruciandone le foglie. Se coltivata in piena terra può essere posizionata in una zona esposta al sole diretto purché per non più di 5 ore al giorno, tempistiche che devono essere minori durante l’estate. Nelle aree del nord Italia è bene coltivarla in appartamento, collocandola negli interni per poi spostarla sul balcone tra la primavera e l’autunno. In caso di clima rigido è consigliato proteggerla in ambienti riparati, facendo in modo che non si trovi mai a temperature sotto i 10 gradi. In generale, è consigliato posizionare la pianta in un luogo che sia ben areato, ma non troppo esposto al vento.

    La coltivazione dell’epiphyllum: cosa sapere
    Per coltivare l’epiphyllum in vaso è consigliabile ricorrere a un recipiente di coccio, del diametro tra i 15 e i 25 centimetri. Il contenitore utilizzato deve essere più largo che alto e sistemato in un posto stabile e sopraelevato, oppure appeso, in modo tale che i fusti della pianta possano cadere liberamente, tenendo conto che con gli anni si svilupperà molto, presentando steli lunghi a differenza delle radici che non richiedono una grande profondità.

    Il terriccio usato deve essere leggero, drenante e fertile: una volta preparato, ricorrendo a della sabbia e della torba, i semi vanno posti a 1-2 centimetri di profondità. Durante la germinazione il substrato dovrà essere sempre umido e caldo. Ogni 2-3 anni ci si potrà dedicare al rinvaso qualora si siano sviluppati nuovi rami, operazione da eseguire dopo la fioritura.

    In merito alla coltivazione dell’epiphyllum in piena terra, questa è consigliata solo nelle zone del sud d’Italia, in ambienti che siano sia soleggiati, evitando i raggi solari diretti, e riparati dal freddo. Il terreno usato deve essere anche in questo caso drenato e ricco di sostanza organica, ricorrendo ad esempio a della terra per piante grasse unita alla sabbia e alla torba.

    L’epiphyllum può essere moltiplicata tramite talea. Le talee vanno prelevate tra luglio e agosto e devono essere lunghe tra i 10 e i 15 centimetri, per poi sistemarle in un luogo riparato per una settimana, in modo che la ferita si asciughi. In seguito un terzo della loro lunghezza va piantato in un contenitore con un mix di terra fertile e sabbia, per poi sistemare il recipiente all’ombra. Le talee impiegano tra le 2 e le 3 settimane per radicare.

    Cura dell’epiphyllum: consigli utili
    La manutenzione dell’epiphyllum passa da alcuni interventi fondamentali. Tra questi l’irrigazione ricopre un ruolo cruciale: infatti, rispetto a molte piante grasse, richiede un terreno che sia sempre umido, evitando tuttavia i ristagni idrici, responsabili del marciume radicale. Durante la fase vegetativa si dovrà dare da bere in modo abbondante alla pianta, mentre le annaffiature andranno ridotte nel corso dell’autunno e dell’inverno, garantendo un minimo di umidità al terreno, ma dosando l’acqua con grande attenzione. In estate l’epiphyllum andrebbe irrigata con frequenza e se le temperature sono elevate si può vaporizzare dell’acqua demineralizzata.

    Altra operazione fondamentale è la concimazione, da effettuare durante il periodo vegetativo della pianta, all’incirca 2 volte alla settimana, ricorrendo a un fertilizzante contenente poco azoto e molto fosforo e potassio, per poi interrompere questo intervento negli altri periodi. La potatura dell’epiphyllum non è richiesta, dovendosi solo limitare a eliminare le parti secche o danneggiate, scongiurando così l’insorgere di eventuali parassiti e malattie che possono colpirla, malgrado sia una pianta molto resistente.

    Epiphyllum e la manutenzione: gli aspetti ai quali prestare attenzione
    Tra i problemi che possono minare l’epiphyllum spiccano malattie fungine e parassiti, come la cocciniglia, che se presente comporta l’insorgere di macchie sulle sue foglie. Questo insetto può essere rimosso ricorrendo ad antiparassitari ad hoc oppure mediante del cotone imbevuto in alcool nei casi meno gravi.

    Qualora le sue foglie appaiano bruciate significa che l’epiphyllum è stata esposta ai raggi solari diretti e bisogna spostarla in un luogo soleggiato, ma che non riceva sole diretto. Altra problematica si presenta quando la pianta diventa molla e raggrinzita, spia di come le annaffiature siano eccessive: in questo caso è necessario rimuoverla dal vaso, per poi far asciugare il terreno ed eliminare le radici danneggiate, ricollocandola successivamente nel recipiente, astenendosi dalla sua irrigazione per una settimana. Anche le foglie gialle sono un indicatore da non sottovalutare, segnalando come la pianta grassa non sia in salute, dovendo calibrare la frequenza con cui viene irrigata, diminuendola oppure aumentandola.

    Oltre a tutto questo, la pianta può soffrire per via degli sbalzi di temperatura tra il giorno e la notte, che possono portare all’insorgere di fessure nei rami, dovendo rivedere la sua collocazione per eliminare questo stress termico. LEGGI TUTTO

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    Caffè, come prepararlo senza sprechi: i consigli

    Il caffè dà il giusto sprint alla mattinata, segna il termine del pranzo, costituisce una piacevole pausa liquida nei pomeriggi di lavoro. “Ci prendiamo un caffè?” è la frase che, come scrive Beppe Severgnini nel libro Neoitaliani, segnala l’inizio di conoscenze, amori, progetti, contratti. Che la bevanda scura e bollente sia tra le più amate nel mondo, per l’aroma intenso che sprigiona e per l’energia che regala, ci sono pochi dubbi. Lo conferma il fatto che ogni anno a livello globale vengono consumate ben 500 miliardi di tazzine. In Italia, nel 2019, il consumo di caffè tostato e macinato si è attestato intorno alle 304mila tonnellate. Una grande popolarità, riscossa anche tra le mura domestiche. Di seguito i consigli per preparare una tazzina a regola d’arte, che sia, oltre che deliziosa per il palato, anche amica dell’ambiente.

    Riciclo

    Il caffè si beve nel caffè: la tazzina è fatta con fondi riciclati. E dà lavoro a chi non lo trova

    Serena Gasparoni

    24 Febbraio 2022

    La moka, una tradizione virtuosa
    Compagna fedele di molti italiani fin dal risveglio, la moka è stata ideata dall’imprenditore Alfonso Bialetti nel 1933. Secondo uno studio condotto dall’Accademia dei Georgofili nel 2021, una tazzina da 40 millilitri preparata con il modello tradizionale per il fornello a gas rilascia 51 grammi di anidride carbonica, mentre una preparata con il modello più moderno, idoneo per i piani di cottura a induzione, ne produce 48 grammi. In entrambi i casi, i consumi di energia elettrica ammontano a 6,8 wattora.

    Sostenibilità

    Dal campo alla tazzina: arriva in Italia una nuova ricetta di caffè sostenibile

    Gabriella Rocco

    12 Aprile 2024

    Per preparare un espresso con la caffettiera in modo sostenibile è sufficiente seguire il Disciplinare della moka firmato dal Comitato italiano del caffè. Il documento suggerisce di riempire il serbatoio inferiore di acqua fino a filo della valvola di sicurezza e di riempire il filtro a imbuto con la polvere di caffè fino a saturarlo. Abbondare con l’acqua o pressare la polvere è un errore perché non aiuta il liquido a risalire attraverso il filtro, prolungando i tempi di preparazione e aumentando, di conseguenza, i consumi energetici.

    Una volta predisposta nel modo giusto la moka, occorre posizionarla sul fornello più piccolo, facendo in modo che la fiamma rimanga sempre all’interno del diametro della caldaia. Dopo cinque minuti la bevanda è pronta: si potrà spegnere la fiamma non appena si avverte l’inconfondibile brontolio, segno che l’erogazione è terminata.

    “Con il cambiamento climatico il caffè è in pericolo. Ma abbiamo gli strumenti per un futuro sostenibile”

    Nicolas Lozito

    13 Luglio 2024

    Anche con cialde e capsule si può essere ecologici
    Secondo un’indagine condotta da Astraricerche nel 2023, il 65% degli italiani preferisce le macchine a cialde o capsule rispetto alla cara, vecchia caffettiera. I motivi: è pratica, veloce e offre un caffè vellutato e cremoso, simile a quello del bar. Tuttavia, è convinzione diffusa che servirsi di questi dispositivi sia poco sostenibile dal punto di vista ambientale. Un’affermazione che non sarebbe, però, corroborata dalle ricerche più recenti. Per esempio, uno studio realizzato dai ricercatori dell’Università del Quebec a Chicoutimi, in Canada, nel 2023, sostiene che — essendo la fase produttiva del caffè la maggiore responsabile delle emissioni di gas serra (40-80% del totale) — è cruciale non sprecare la materia prima. E, di fatto, utilizzare una macchina a cialde o capsule anziché la moka consente di risparmiare circa 11 grammi di polvere per dose, per produrre i quali vengono generati 59 grammi di anidride carbonica.

    Il racconto

    Dalla piantagione alla tazzina, viaggio alla scoperta del caffè

    Sandra Riccio

    23 Novembre 2024

    Per quanto riguarda poi l’energia, la potenza di un apparecchio automatico può variare, in media, tra gli 800 e i 1.200 watt. Una quota, per intenderci, inferiore rispetto a quella di altri piccoli elettrodomestici, come la friggitrice ad aria (tra i 1.400 e i 2.000 watt) e il phon (tra i 600 e i 2.400 watt). Per ridurre ulteriormente i consumi, è consigliabile scegliere una macchina dotata della funzione di spegnimento automatico. Lasciandola nella modalità stand-by, quindi non completamente spenta, assorbe, infatti, circa 1 watt ogni ora: uno spreco, dato che i modelli attuali si scaldano in pochi secondi. LEGGI TUTTO

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    Il costo climatico della guerra in Ucraina: pari a 120 milioni di auto o emissioni di 4 Paesi

    C’è un conto enorme, spesso invisibile, che sta pagando l’ambiente dopo tre anni di guerra. L’invasione russa in Ucraina, iniziata nel 2022, non ha solo portato a migliaia di vittime, milioni di vite distrutte e una infinita distesa di macerie, ma anche ad un aumento costante di emissioni di CO2, quelle che alterano il clima della Terra portandola a surriscaldarsi.

    Ogni anno il gruppo Initiative on GHG Accounting of War, con il contributo di autori internazionali e la supervisione ucraina, prova a tenere conto proprio della crescita delle emissioni causata dalle operazioni militari: ormai in Ucraina siamo arrivati a superare i 200 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, emissioni climalteranti che, per dare un’idea, sono vicine per valore a quella che l’intera Spagna rilascia in un anno.

    Da sola, la guerra, ha prodotto finora un livello di emissioni che è pari a quelle annuali di Austria, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca messe insieme, oppure a quelle causate da 120 milioni di automobili in 365 giorni.

    Ormai, si legge nel rapporto, “le emissioni hanno raggiunto quasi 230 milioni di tonnellate di CO2 equivalente dal febbraio 2022 e nell’ultimo anno sono aumentate del 31%”. Il costo climatico dell’invasione è dunque altissimo. L’impatto dei combattimenti, dei veicoli pesanti che bruciano carburante, dell’acciaio e del cemento usato nelle trincee e nelle fortificazioni e tutte le emissioni derivanti dalle varie attività militari stanno continuando a crescere. A questo punto le emissioni legate alla guerra hanno superato quelle, sempre negative in termini di costi climatici, necessarie per la ricostruzione di edifici, case e infrastrutture danneggiate. Se a questo mix si aggiungono poi quelle legate agli incendi boschivi, che nel 2024 sono cresciuti e risultati particolarmente dannosi, è facile comprendere come la guerra stia avendo un peso specifico sempre più elevato nelle emissioni che alterano il clima globale.

    In parte, è già un circolo vizioso: come sappiamo le emissioni antropiche hanno reso gli eventi meteo più estremi ed intensi, portando forte siccità estiva in alcune zone boschive dell’Ucraina che, tra temperature elevate e conseguenze del conflitto, sono bruciate in maniera copiosa. Il report indica che l’area degli incendi boschivi legati al conflitto, rispetto alla media annuale degli anni precedenti, è raddoppiata (118%), con emissioni pari a 16.9 milioni di tonnellate di CO2 equivalente. L’Ucraina è risultata così uno dei paesi più impattati dagli incendi nel 2024 e “secondo i dati compilati dal European Forest Fire Information System, la guerra è stato un fattore scatenante principale” si legge nel report che viene solitamente diffuso dal gruppo ucraino Ecoaction.

    Gli autori sottolineano inoltre come “un maggiore utilizzo di droni nel 2024 ha fatto poco per compensare l’uso di proiettili di artiglieria costosi per il clima” e anche “l’intensificarsi degli attacchi alle infrastrutture energetiche ha portato a un aumento del 16% delle emissioni di conflitto in questa categoria negli ultimi 12 mesi”.

    Sono state prese di mira per esempio gli impianti carichi di combustibili fossili, come “le infrastrutture petrolifere che sono state particolarmente colpite causando un’impennata delle emissioni a 2,1 MtCO2e negli ultimi 12 mesi rispetto a 1,1 MtCO2e nei 24 mesi precedenti” si legge ancora nel rapporto.All’impatto climatico delle operazioni attive va poi aggiunto un dato dovuto ai divieti, quello relativo ad esempio al sorvolo aereo delle zone di conflitto. Con gli aerei che hanno continuato a evitare o sono stati banditi dallo spazio aereo sopra la Russia e l’Ucraina “le emissioni del trasporto aereo sono state spinte a 14,4 MtCO2e dall’inizio dell’invasione”, mentre rimangono inalterate quelle “legate alla fuga dei rifugiati”. I risultati dello studio sono stati presentati anche alla sessione IPCC (Gruppo intergovernativo per i cambiamenti climatici) a Hangzhou, in Cina e sono stati “approvati” dal governo ucraino il quale ricorda come la Federazione Russa dovrebbe essere ritenuta responsabile delle emissioni climalteranti legate al conflitto. Per Lennard de Klerk, autore principale del report, “il 2024 è stato l’anno in cui clima e conflitto si sono combinati, portando a vaste aree di foreste bruciate. Con i negoziati di pace nell’aria, i costi climatici non dovrebbero essere dimenticati”. LEGGI TUTTO

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    Cop16, nuovo round a Roma sulla biodiversità: “Serve uno sforzo globale”

    Mai, come in questo caso, è corretto parlare della “partita della vita”. Perché quella che andrà in scena a breve a Roma è una sfida non solo per proteggere la natura, ma tutti noi: adesso che è arrivata nella fase dei supplementari, in tre giorni di vertice mondiale l’imperativo è riuscire a vincerla. In gioco c’è non solo la biodiversità del Pianeta ma, anche se questo evento sta passando un po’ in sordina almeno fra i media di casa nostra, c’è decisamente molto di più: si discuterà infatti di come proteggere una natura da cui dipende oggi oltre la metà del Pil mondiale. Dal 25 al 27 febbraio nella sede FAO a Roma si terrà dunque la fase “supplementare” della Cop16, la grande conferenza sulla Biodiversità che si è svolta in Colombia a Calì lo scorso anno ma, essendo fallita dato che non si è trovata un’intesa, vede ora nel tentativo italiano una nuova chance per centrare diversi obiettivi necessari per la salvaguardia della biodiversità planetaria.

    Le idee

    Cop16, gli aiuti al Sud del mondo per salvare la biodiversità

    di Greenpeace

    19 Febbraio 2025

    Oggi nel mondo ci sono 1 milione di specie animali e vegetali a rischio. In soli 50 anni, soprattutto a causa delle azioni dell’uomo, dall’inquinamento alle emissioni che portano alla crisi del clima, abbiamo perso oltre il 70% delle popolazioni mondiali di animali selvatici, con picchi che sfiorano l’85% quando si parla di specie che vivono in fiumi e sistemi d’acqua dolce.

    Ormai, secondo lo IUCN, Unione internazionale per la Conservazione della Natura, un mammifero su quattro è a rischio: prima o poi potrebbe non abitare più questa Terra. Ancora peggio se si parla di anfibi, uno su tre. Non va meglio agli alberi: ormai più di una specie arborea su tre è inserita nel nuovo aggiornamento delle Lista Rossa IUCN, con 16.425 delle 47.282 specie arboree valutate a rischio di estinzione.

    Giornata mondiale del suolo

    Consumo di suolo e siccità nel mondo, per combatterli serve un miliardo al giorno

    di Giacomo Talignani

    05 Dicembre 2024

    La vita, la natura, fa fatica ovunque: in Europa ad esempio oltre un terzo (il 36%) degli habitat è degradato e qui le specie arrancano nella sopravvivenza. Stiamo perdendo diversità, natura, colori, genetica e senza tutto quello che offrono i servizi ecosistemici – pensate anche solo al nostro cibo – il 50% del Pil mondiale è totalmente a rischio. Per questo, nel vertice romano sotto guida della Convenzione sulla Biodiversità dell’Onu, alle migliaia di delegati in arrivo da tutto il mondo è richiesto uno sforzo gigantesco: mettere da parte le divergenze, soprattutto tra Nord e Sud del mondo, tra Paesi sviluppati e quelli meno abbienti, per trovare una soluzione, da intendersi soprattutto in finanziamenti miliardari e piani da qui al 2030, come vedremo dopo.

    Anche in Italia la natura è in crisi. In occasione dell’inizio del vertice Legambiente ha diffuso un report in cui racconta come siano ormai 58 gli ecosistemi della Penisola considerati “a rischio”. Nel report “Natura selvatica a rischio in Italia” c’è una fotografia della situazione attuale del nostro Paese, fra i più ricchi di biodiversità in Europa. Da noi il 19,6% della superficie nazionale, quasi la metà degli ecosistemi naturali e seminaturali, è messa male e poco si sta facendo per tutelarla.”Ci sono difficoltà e gravi ritardi dell’Italia nell’applicare la Strategia Europea per la Biodiversità 2030 (SEB) e incisive politiche di tutela della natura. Sono zero i target SEB 2030 raggiunti: a sei anni dal countdown del 2030 l’Italia non è cresciuta di un solo ettaro nela superficie protetta terrestre o marina, non sono aumentate le aree a protezione integrale, né migliorano le azioni per contrastare le specie aliene o il degrado del territorio. Preoccupa poi lo stallo relativo alle 70 nuove aree protette marine e terrestri che sono ancora in attesa di completare l’iter; ma anche il mancato avvio, da parte dell’Italia, del registro volontario dei crediti di carbonio nel settore agricolo e forestale” denuncia Legambiente. Anche per questo, in vista della Cop16, l’associazione ambientalista lancia un monito “ai Governi della Terra perché non è più ammissibile perdere altro tempo e far fallire un’altra Cop, come accaduto a Calì. Ogni ritardo e ogni mancato accordo internazionale è un danno che facciamo al Pianeta, all’ambiente e alla biodiversità”.

    Lo dobbiamo alla natura, lo dobbiamo a noi stessi, ricorda Legambiente, perché proteggere gli ecosistemi è anche una questione economica: pensiamo per esempio “agli insetti impollinatori, come api e farfalle, che garantiscono la produzione di molte colture agricole, con un valore stimato a livello globale in 235-577 miliardi di dollari ogni anno secondo l’IPBES”.

    Lo stesso vale per le risorse ittiche che “garantiscono nel mondo la sicurezza alimentare e il sostentamento di milioni di persone, con un valore economico che supera i 150 miliardi di dollari all’anno secondo la FAO”.

    Conferenza dell’Onu

    Cop16, nessuna intesa per salvare la biodiversità nei paesi più vulnerabili

    di Luca Fraioli

    04 Novembre 2024

    L’obiettivo di 200 miliardi di dollari all’anno
    Al centro della partita supplementare di Roma le Parti che si riuniscono alla Cop16 sono chiamate soprattutto ad affrontare alcuni punti rimasti in sospeso dopo il vertice colombiano. Servono per esempio risorse per l’attuazione del Quadro globale sulla biodiversità di Kunming-Montreal (KMGBF) con un meccanismo finanziario che possa fornire risposte adeguate ed efficaci. I Paesi coinvolti devono dunque trovare una strategia per mobilitare risorse che possano garantire 200 miliardi di dollari all’anno, entro il 2030, per sostenere iniziative che preservino la biodiversità in tutto il mondo. Servono più fondi da parte dei Paesi sviluppati, sia pubblici che privati, e servono obblighi per aiutare i Paesi in via di sviluppo, le economie in transizione o i piccoli Stati insulari che oggi a causa delle azioni antropiche stanno perdendo biodiversità a ritmi accelerati.

    Un altro punto chiave delle discussioni della Cop nella sede FAO sarà poi affrontare il tema della riduzione degli incentivi dannosi di almeno 500 miliardi di dollari all’anno entro cinque anni. Sussidi che, per esempio, oggi vengono indirizzati verso pesticidi o sostanze chimiche che stanno mettendo in ginocchio la biodiversità, ma anche denaro pubblico che finisce nell’estrazione di combustibili fossili, nella pesca eccessiva o nell’agricoltura e gli allevamenti intensivi.

    Infine, altro passaggio chiave sarà trovare un’intesa, concreta, su tutti quei sistemi per monitorare e rendicontare ciò che si sta facendo per evitare la perdita di specie e per proteggerle. Così come bisognerà mostrare più impegno per centrare uno dei 23 obiettivi dell’accordo di Kunming-Montreal del 2022, quello che richiede ai paesi di ripristinare il 30% dei territori degradati entro il 2030. Ogni azione, ogni forma di intesa, dovrà tenere ben presente quali sono oggi secondo gli scienziati i cinque principali problemi della perdita di biodiversità, tutti legati alle azioni dell’uomo: la distruzione di habitat e la frammentazione dei territori, lo sfruttamento eccessivo delle risorse, la crisi del clima, l’inquinamento e l’impatto delle specie aliene invasive. Ben presto, ricordano gli esperti, entro il 2050 la crisi climatica sarà purtroppo l’elemento predominante nell’impatto sulla vita di animali, piante e anche la nostra.

    L’appello del WWF al governo italiano
    Nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di questo vertice “che sta passando un po’ in sordina”, dicono dal WWF, venerdì 21 febbraio l’associazione ambientalista ha organizzato un flash mob a Roma. I partecipanti, con indosso maschere di animali, hanno messo in scena insieme a Francesco Petretti, biologo e divulgatore, sull’importanza della biodiversità, perché questa Cop è cruciale per il futuro. L’appello del WWF e altre 38 organizzazioni della società civile invita il governo italiano ad “adoperarsi per facilitare un accordo sulla mobilitazione delle risorse finanziarie e garantire un maggiore impegno finanziario dell’Italia per la biodiversità nei fondi multilaterali dedicati”. LEGGI TUTTO

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    Beauty routine, i consigli per renderla eco-friendly

    Detergente per il viso, tonico, crema. E poi fondotinta, blush, rossetto, mascara. Nell’era dei social, in cui la cura di sé si è imposta come un diktat, il nostro beauty case si è sempre più colmato di prodotti di bellezza. Con un rilevante impatto, oltre che sul portafoglio, anche sull’ambiente. Come evidenzia il report Make up the future redatto da Quantis, a generare effetti negativi nel settore sono i processi di estrazione e di lavorazione delle materie prime (10%), gli imballaggi (20%), il trasporto (10%), ma soprattutto la fase d’impiego delle referenze (40%). Ecco perché i consumatori possono dare un contributo fondamentale alla sostenibilità, anche seguendo i consigli di seguito.

    Packaging, meglio il cartone o il vetro
    Secondo Forbes, l’industria cosmetica genera fino a 120 miliardi di confezioni di plastica all’anno. Per limitare questa cifra, è bene scegliere, quando possibile, prodotti privi di packaging o con packaging ridotti al minimo, meglio se di cartone. Utile anche puntare su cosmetici ricaricabili con cialde e refill, sempre più diffusi soprattutto nel caso di shampoo, profumi, creme per il viso e per il corpo.
    In alternativa, vanno bene contenitori di vetro, materiale altamente riciclabile, che non rilascia sostanze dannose; di alluminio, che può essere riciclato all’infinito, con un processo che richiede solo il 5% dell’energia necessaria per produrre l’elemento vergine; di plastica riciclabile o, meglio, riciclata, utile nel caso di prodotti contenenti ingredienti fotosensibili, la cui efficacia o durata può essere alterata dalla luce.

    Attenzione alle dosi
    Capita, perché si va di fretta o si è soprappensiero, di non fare attenzione alla dose di gel o di siero impiegata, finendo per utilizzarne molto più del necessario, in particolare se la formulazione è liquida. Così non solo sprechiamo il prodotto, ma riduciamo il ciclo di vita del contenitore, che viene buttato via prima del dovuto. L’ideale è provare a seguire le indicazioni riportate sull’etichetta: un modo per abituarsi a consumare la quantità giusta.

    Sandro Greblo: “La mia vita da rider in cargobike”

    di Agostina Delli Compagni

    23 Novembre 2024

    Finire prima di riacquistare
    In un mercato che produce e pubblicizza di continuo nuovi cosmetici, è facile cadere nella tentazione del nuovo. Ma si tratta di un errore. È bene, infatti, finire ciò che si ha in casa prima di comprare altri prodotti simili. Così non si correrà il rischio di abbandonare nel mobiletto del bagno uno scrub o un ombretto usati a metà, lasciandoli scadere. E se c’è un articolo che proprio non si riesce a terminare, lo si può sempre regalare a chi potrà farne buon uso.

    Stop a dischetti struccanti e cotton fioc
    I dischetti struccanti sono da sostituire con le versioni lavabili e riutilizzabili, ovvero i panni in microfibra o in bambù che, se trattati correttamente, possono durare fino a mille lavaggi. Anche i cotton fioc usa-e-getta andrebbero rimpiazzati: la produzione di quelli tradizionali, non biodegradabili e non compostabili, è già stata messa al bando in Italia da gennaio 2019. Ora occorre fare un passo in più: scegliere quelli in bioplastica a forma di cucchiaino, ergonomici, lavabili, riutilizzabili molte volte. Da mettere al bando pure i rasoi monouso: ogni anno nel mondo ne vengono buttati via circa 5mila miliardi, che non si possono smaltire né si degradano nel tempo.

    Limitare il consumo di acqua
    È stato calcolato che una doccia di 10 minuti richiede circa 50 litri di acqua, ovvero cinque litri al minuto. Per preservare questo bene prezioso e limitato, è importante ricordarsi di chiudere sempre il rubinetto mentre ci si insapona o si distribuisce il balsamo sui capelli, riaprendolo solo al momento di sciacquare. A ciò si può aggiungere qualche altra piccola azione orientata al risparmio. Come, per esempio, raccogliere l’acqua mentre si aspetta che si scaldi e usarla poi per lavare i pavimenti o per dare da bere alle piante. Oppure installare rubinetti con erogatore a basso flusso, che riducono i consumi anche della metà.

    Scegliere le formulazioni solide
    Dal bagnoschiuma al deodorante fino al detergente intimo, i prodotti solidi non contengono acqua e sono più concentrati di quelli liquidi. Per esempio, una confezione di shampoo solido equivale in media a tre flaconi e può durare il doppio dei lavaggi.

    Non demonizzare gli ingredienti sintetici
    Una strategia commerciale molto in voga tra le aziende cosmetiche è porre l’accento sull’impiego di ingredienti naturali. Ma, come sottolinea l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, un estratto naturale non è necessariamente associato a una maggiore sostenibilità, dato che può avere un elevato impatto in termini di emissioni di gas serra, di uso del suolo, di utilizzazione di acqua. Invece, al contrario di ciò che si pensa, i componenti sintetici possono spesso offrire un’alternativa più sostenibile per l’ambiente senza compromettere la qualità del prodotto. LEGGI TUTTO

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    Nel deserto di Atacama funzionano le reti che catturano nebbia per l’acqua potabile

    Il Nord del Cile è una delle aree più aride del pianeta: in alcune zone del grande deserto di Atacama cade meno di un millimetro di pioggia l’anno. Eppure, la regione ospita diverse città e cittadine, che si affidano a falde acquifere non rinnovabili (ricaricate l’ultima volta oltre 10mila anni fa, in un periodo in cui il clima nell’area era più umido) per le loro necessità idriche. E che quindi presto potrebbero trovarsi a secco. Un nuovo studio pubblicato su Frontiers in Environmental Science propone una soluzione: catturare l’umidità presente nella nebbia.

    L’idea di raccogliere la nebbia e trasformarla in acqua liquida non è nuova. Ma tradizionalmente è stata sfruttata principalmente per l’irrigazione e altre esigenze delle aree rurali. La possibilità di sostenere un insediamento urbano di grandi dimensioni utilizzando la nebbia, invece, fino ad oggi era meno studiata.

    “La nostra ricerca rappresenta un importante cambio di prospettiva sulle possibilità di utilizzo dell’acqua raccolta dalla nebbia: da una soluzione su piccola scala dedicata alle aree rurali, a una risorsa idrica per le città”, conferma Virginia Carter Gamberini, ricercatrice della Universidad Mayor che ha lavorato al nuovo studio. “I nostri risultati dimostrano che la nebbia può effettivamente rappresentare una fonte complementare di acqua in contesto urbano, per le aree secche in cui i cambiamenti climatici stanno esacerbando i problemi di siccità”.

    Lo studio ha utilizzato dei classici dispositivi per la raccolta della nebbia, fondamentalmente delle reti a maglia molto fine che fanno condensare l’umidità e la raccolgono in appositi contenitori. I dispositivi sono stati dispiegati nell’area che circonda Alto Hospicio, un insediamento di circa 10mila abitanti che sorge nel deserto di Atacama.

    Ricerca

    Nuovi cristalli sviluppati per estrarre acqua dall’aria senza energia: lo studio

    di redazione Green&Blue

    26 Novembre 2024

    La ricerca è durata un anno, ed ha confermato l’efficacia dei raccoglitori di nebbia: nel contesto di Alto Hospicio, è possibile ottenere in media due litri e mezzo di acqua al giorno per metro quadrato di reti. Con una forte variabilità annuale, legata alle condizioni metereologiche e ambientali, che va dagli 0,2 litri nelle condizioni peggiori, a quasi 10 al giorno nella stagione migliore.

    Secondo i calcoli degli autori dello studio, la resa dei “raccogli nebbia” permetterebbe di rifornire di acqua potabile la cittadina utilizzando circa 17mila metri quadrati di reti, mentre per l’irrigazione delle aree verdi urbane ne servirebbero altri 110. Un risultato che a detta loro conferma la possibilità di rifornire con la stessa tecnica anche altre città che non hanno accesso a riserve idriche adeguate. Ovviamente, la fattibilità e la resa di questa strategia vanno valutate caso per caso.

    “I prerequisiti chiave comprendono la densità della nebbia, la direzione dei venti, e la presenza di strutture elevate con il giusto orientamento”, sottolinea Nathalie Verbrugghe, ricercatrice della Libera Università di Bruxelles che ha collaborato allo studio. “In aggiunta, visto che la nebbia in molte aree è stagionale, anche questa variabilità va considerata”.

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    Dove le condizioni lo consentono, i ricercatori assicurano che raccogliere acqua dalla nebbia è una strategia efficace anche per integrare le risorse idriche cittadine. E potrebbe rivelarsi sempre più importante in futuro, con i cambiamenti climatici destinati ad aumentare la siccità in moltissime aree del pianeta. LEGGI TUTTO