Si stima che dagli anni ’60 a oggi, ossia da quando le temperature hanno iniziato ad aumentare rispetto al periodo pre-industriale, la quota di specie estinte a causa del cambiamento climatico sia aumentata del 4% ogni dieci anni. Secondo una meta-analisi appena pubblicata su Science, nel peggiore degli scenari dal punto di vista delle emissioni potremmo addirittura perdere un terzo delle specie animali note.
Quelle più a rischio sarebbero quelle che vivono in Australia, Nuova Zelanda e Sud America, in aree montuose, insulari o in ecosistemi di acqua dolce. Lo studio è stato effettuato da Mark Urban, docente di ecologia e biologia dell’evoluzione presso l’Università del Connecticut (Stati Uniti), che ha analizzato i risultati di 485 studi effettuati negli ultimi 30 anni, riguardanti le previsioni (o, in gergo, proiezioni) sullo stato di conservazione della maggior parte delle specie animali conosciute.
Dalla meta-analisi è emerso che nella situazione attuale di circa +1.3°C rispetto alle temperature dell’epoca pre-industriale si prevede l’estinzione dell’1.6% delle specie esistenti. Superando la soglia dei +1.5°C, presa come riferimento nell’Accordo di Parigi del 2015, e raggiungendo i +2°C, il rischio salirebbe al 2.7%. Ma, si legge nella pubblicazione, stando agli attuali impegni internazionali in termini di riduzioni delle emissioni, in futuro potremmo raggiungere i +2.7°C rispetto alle temperature pre-industriali, il che metterebbe a rischio di estinzione una specie ogni 20 di quelle attualmente note. Oltre questa soglia il rischio subirebbe poi un’ulteriore rapida impennata, balzando al 14.9% a +4.3°C e addirittura al 29.7% a +5.4°C. Ossia, nel peggiore scenario dal punto di vista delle emissioni di gas serra e quindi dell’aumento delle temperature globali, circa una specie su tre sarebbe a rischio di estinzione.
Come anticipato, le specie che vivono in Australia, Nuova Zelanda e Sud America sono quelle che corrono un rischio maggiore. Per quanto riguarda i primi due paesi, il rischio particolarmente elevato sarebbe legato al fatto che le specie terrestri che li abitano hanno una possibilità di spostamento limitata prima di dover fare i conti con l’oceano. Nel caso del Sud America, spiega Urban, il rischio probabilmente riflette il fatto che questa zona sia caratterizzata da un’incredibile biodiversità e da specie che vivono in areali ristretti e in nicchie ecologiche particolarmente specializzate.
Entrando poi nello specifico dei gruppi tassonomici e dei vari ecosistemi esistenti, dalla meta-analisi emerge che gli anfibi e gli animali che vivono in montagna, sulle isole e all’interno di ecosistemi di acqua dolce sono quelli maggiormente a rischio. Tendenzialmente, spiega Urban, perché queste specie si possono spostare di meno o perché l’ecosistema all’interno del quale vivono è di per sé più soggetto a cambiamenti climatici o all’invasione da parte di specie aliene.
Anche i dati storici confermano questa previsione: la maggior parte delle estinzioni avvenute in passato e attribuite ai cambiamenti climatici avrebbero riguardato proprio specie che vivono in montagna, sulle isole o negli ecosistemi di acqua dolce. Un esempio è la Melomys rubicola, una specie di roditore originaria di una minuscola isola situata fra l’Australia e la Nuova Guinea, classificata come estinta nel 2015 probabilmente a causa dell’innalzamento del livello dell’oceano.
Secondo Urban, tra l’altro, il numero di specie estinte a causa dell’aumento delle temperature globali è in realtà sottostimato. Questo perché tendiamo a focalizzare la nostra attenzione sui vertebrati, lasciando in secondo piano le miriadi di altre specie, magari più piccole o meno carismatiche. Senza considerare che possiamo tenere traccia solo di quelle che conosciamo, ma le specie esistenti sono molte di più.