Novembre 2024

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    Bonsai olmo, è tempo di potatura: i consigli

    Opera d’arte vivente, il bonsai olmo è estremamente popolare ed è apprezzato per il portamento raffinato, la grande resistenza, la coltivazione semplice e per la sua capacità di adattarsi a molteplici condizioni, essendo alla portata anche dei bonsaisti neofiti. Il bonsai olmo presenta una corteccia rugosa e piccole foglie che formano chiome imponenti. Malgrado sia una varietà robusta, come tutti gli alberi in miniatura richiede cure particolari e accorgimenti specifici nella sua coltivazione.
    Bonsai olmo: dove collocarlo
    Il bonsai olmo è piuttosto semplice da coltivare: la sua riproduzione può avvenire tramite seme oppure talea, metodologia che consente di accelerare le tempistiche e può essere svolta in diversi momenti dell’anno. Per quanto riguarda il luogo in cui collocare il bonsai, visto che si adatta a praticamente ogni clima, può essere posto sia in casa che all’aperto dovendo, in ogni caso, scegliere un punto luminoso, dato che la luce incentiva la produzione di nuove gemme. Durante la primavera, momento in cui le prime foglie fanno la loro comparsa, può essere posizionato in pieno sole (come anche in autunno), consentendo così la produzione di foglie piccole, rami vigorosi e una vegetazione compatta. Nella stagione estiva l’arbusto va collocato invece in ombra, evitando i raggi solari diretti che potrebbero comportare danni significativi al suo apparato radicale. Nel corso dell’inverno il bonsai olmo può essere tenuto all’esterno, ma va protetto da eventuali gelate.

    Bonsai olmo e la potatura
    Per quanto riguarda la potatura il periodo migliore per eseguire quella di impostazione è l’inverno, in quanto il bonsai si trova in riposo vegetativo. Questo intervento permette di effettuare una prima impostazione del bonsai e va effettuato ricorrendo a una tronchese concava: a seconda dello stile di bonsai che si desidera ottenere si elimineranno determinate branche oppure si accorceranno, eliminando comunque i rami che crescono in modo incrociato oppure verticale. In caso di rami paralleli oppure contrapposti, uno dei due va rimosso. In seguito alla potatura si dovranno medicare i tagli con della pasta cicatrizzante. In merito alla potatura di mantenimento questa va eseguita nel corso del tempo, meglio se da dicembre a marzo, riducendo l’apparato radicale di circa un terzo, ricorrendo a un rastrellino e premurandosi di rimuovere le radici in eccesso con delle forbici ad hoc.

    Da non trascurare
    Altro step fondamentale è quello della pinzatura, tecnica con cui mantenere la forma del bonsai, che se non viene cimato tende a trasformarsi in un cespuglio informe nell’arco di breve tempo. L’albero è infatti molto vigoroso e produce germogli nuovi nel corso di tutto l’anno. Prima di eseguire la pinzatura, per non indebolire l’arbusto, è necessario che si sviluppino diversi germogli, per poi intervenire con una forbice lunga, effettuando dei tagli alla base dei rametti da accorciare.
    Proprio perché l’olmo è un albero dalla crescita molto vigorosa nel momento in cui si applica il filo in alluminio per orientare i rami del bonsai è importante non stringerlo troppo, rischiando altrimenti di segnare la corteggia. Eccetto la primavera, momento dell’anno in cui l’arbusto cresce più velocemente, il filo può essere applicato nel corso dell’anno, evitando di dare da bere al bonsai il giorno prima, in modo tale da assicurarsi che i suoi rami siano flessibili.
    Nella cura del bonsai olmo è poi necessario occuparsi della defogliazione, da eseguire dalla fine di maggio all’inizio di giugno per quelle varietà dalle foglie grandi. Per effettuare l’operazione si ricorre a un defogliatore, rimuovendo tutte le foglie: nell’arco di pochi giorni l’arbusto produrrà nuove foglioline dando al bonsai un aspetto più proporzionato.
    Quando annaffiare il bonsai olmo
    Una cura ottimale del bonsai olmo non può prescindere dall’annaffiatura, dovendo irrigare il terriccio in modo abbondante ricorrendo a un annaffiatoio con soffione a fori sottili. Quando il substrato risulta asciutto, si dovrà dare da bere al bonsai ripetendo questa operazione per 2 o 3 volte, facendo passare qualche minuto tra un’annaffiatura e l’altra, per far sì che il terreno assorba totalmente l’acqua. Nel corso dell’estate si può ricorrere a un sottovaso con della ghiaia mantenuto umido, assicurando un microclima ideale per il bonsai e grazie al quale tenere alla larga il ragno rosso, tra i suoi nemici numero uno: in generale, durante la stagione calda le annaffiature devono essere costanti e abbondanti, meglio se eseguite di mattina presto oppure dopo il tramonto. Per quanto riguarda l’irrigazione è molto importante non esagerare mai con l’acqua, evitando i ristagni idrici responsabili del marciume radicale.

    Cura del bonsai olmo: altri aspetti da considerare
    Nella cura del bonsai un grande nemico è rappresentato dal ragno rosso, che lo attacca durante i mesi estivi, comportando la caduta delle sue foglie: per scongiurare la presenza di questo parassita è importante effettuare dei trattamenti preventivi con un insetticida acaricida da applicare ogni 2 settimane.

    Per quanto riguarda il rinvaso del bonsai olmo, questa operazione va eseguita ogni 3 anni: svolto rigorosamente con il terreno asciutto, l’intervento deve essere realizzato quando l’apparato radicale dell’albero ha occupato tutto lo spazio nel vaso. Durante tutto il periodo vegetativo, che va da marzo a giugno e da metà agosto a metà ottobre, è necessario concimare il bonsai, evitando di esagerare con le dosi, prediligendone uno a lenta cessione a base di azoto, fosforo e potassio. In questo periodo il bonsai richiede di essere nutrito molto in quanto rischia di disidratarsi. LEGGI TUTTO

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    Chiara Garini e i suoi funghi shiitake: “Il bosco ci nutre, difendiamolo”

    Nel bosco Chiara Garini, 34 anni, coltiva i funghi shiitake. L’azienda agricola “Guà Farm”, che gestisce con il suo compagno Stefano, fa crescere i funghi di origini giapponesi su tronchi degli abeti rossi, all’aperto, senza l’utilizzo di sostanze nocive e nel rispetto dell’ecosistema. Nel giardino, poi, ci sono più di 60 specie tra erbe aromatiche, ortaggi, arbusti e alberi da frutto, tutti commestibili e coltivati senza l’utilizzo di fertilizzanti o pesticidi.

    Nel giardino crescono più di 60 specie tra erbe aromatiche, ortaggi, arbusti e alberi da frutto  LEGGI TUTTO

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    Nella ciclofficina di Lesbo dove tutto si ripara, dalle bici allo smartphone

    Appesa ad un supporto al centro della stanza una bici rossa senza una ruota aspetta di essere riparata, nell’oscurità brillano le chiavi inglesi riposte alla parete in ordine di grandezza. Makerspace non è solo una ciclofficina, è un progetto per favorire l’accesso alla tecnologia per richiedenti asilo e rifugiati a Lesbo, isola greca che da quasi dieci anni è una delle principali e più dolorose porte di accesso all’Europa per chi lascia il proprio paese alla ricerca di una vita migliore.

    Il Centro Chiuso ad Accesso Controllato (CCAC) di Mavrovouni a Lesbo, Grecia, dove vivono poco più di 800 persone in movimento arrivate dalla Turchia. Molte di esse frequentano lo spazio “Parea” ed il “Makerspace” (foto: Giacomo Sini)  LEGGI TUTTO

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    Meteo estremo, in Spagna introdotto il “congedo climatico”: 4 giorni di ferie retribuite

    Si chiama “permiso climatico” il nuovo e primo congedo climatico approvato in Spagna dal Consiglio dei ministri per dare nuovi diritti ai lavoratori in caso di disastri climatici come le tremende alluvioni che hanno colpito Valencia.
    Tutti i lavoratori spagnoli avranno fino a quattro giorni di congedo retribuito in caso non possano raggiungere il posto di lavoro a causa di condizioni meteorologiche estreme o allerte meteo. La nuova misura entrerà in vigore oggi grazie alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale dello Stato ed entro un mese dovrà essere convalidata dal Congresso dei deputati.
    Evitare spostamenti quando c’è un rischio
    L’idea del Ministero del Lavoro spagnolo è quella di un permesso climatico che possa tutelare i lavoratori in tutti quei casi – dalle tremende alluvioni che con il fenomeno della Dana hanno portato morte e distruzione nella penisola iberica sino all’estrema siccità che ha messo in ginocchio determinati territori – ci siano rischi concreti per le persone nel recarsi sul proprio posto di lavoro.

    Nei giorni successivi all’alluvione centinaia di persone sono accorse in aiuto  LEGGI TUTTO

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    Quanto impatta il Black Friday sull’ambiente? Le domande che dovremmo porci prima di acquistare

    Mi serve davvero questo prodotto? Forse è la prima domanda da porsi mentre si partecipa alla sfrenata corsa agli acquisti del Black Friday. La seconda invece potrebbe essere: quanto impattano sull’ambiente gli acquisti che sto per fare nel grande venerdì degli sconti? E infine, ci sono alternative più verdi che potrei scegliere a parità di costi? Piccoli ma importanti quesiti che nel giorno del gigantesco shopping online, quello in cui le vendite e di conseguenza anche i trasporti e i consumi energetici aumenteranno vertiginosamente, possiamo provare a porci nel tentativo di capire quanto – il Black Friday – impatti sull’ambiente (e dunque sul nostro futuro).

    Calcolare gli impatti ambientali del Black Friday a livello globale non è semplice e mancano cifre e studi completi in grado di restituirci una fotografia aggiornata: sappiamo però che l’inquinamento avviene sotto forma di emissioni (da quelle per la produzione sino ai trasporti e le consegne), di materiali da imballaggio (come la plastica) e perfino per sprechi e inutilizzo, dato che per esempio negli Usa un quarto degli acquisti effettuati tra il venerdì di fine novembre e Capodanno finisce nel dimenticatoio.

    Il caso

    “Buy now”, altro che Black Friday: il docufilm svela i danni del consumismo sull’ambiente

    di  Paolo Travisi

    28 Novembre 2024

    A livello di emissioni i calcoli sono complessi e per un Paese come l’Italia si stimano circa 500.000 tonnellate di CO2 equivalente nell’arco della settimana a cavallo del Black Friday.

    Come trasporti, in un report di due anni fa a livello europeo, Transport&Envoirement stimava invece 1,2 milioni di tonnellate di CO2 legate ai soli camion che spostano su strada merci in Europa: si parla di 94% in più rispetto a una settimana media, come 7.000 voli da Parigi a New York. Appena fuori Europa, in Gran Bretagna, l’Università di Leeds ha invece stimato solo per il trasporto degli acquisti del Black Friday circa 400mila tonnellate di anidride carbonica, un bel po’ di emissioni, che quest’anno potrebbero oltretutto aumentare secondo le previsioni di altre 30mila tonnellate. Sempre a livello di emissioni dei trasporti, a livello globale, la previsione relativa allo spostamento dei nostri pacchi è di un aumento del 90% durante l’intera settimana di shopping.

    Economia circolare

    Da Ikea a eBay, quando i prodotti di seconda mano aiutano l’ambiente

    di Giacomo Talignani

    27 Agosto 2024

    Tutto ciò lo sappiamo: si traduce in alterazioni dell’atmosfera che portano all’intensificazione della crisi del clima, con eventi meteo sempre più estremi come quelli osservati negli ultimi mesi. Ma se per arrivare fino a noi è inevitabile che questi prodotti contribuiscano all’inquinamento, è ancor più preoccupante pensare quello che con i pacchi appena ordinati finiamo per non fare: ovvero, non utilizzarli nemmeno (motivo per cui vale la pena di chiedersi se è davvero necessario acquistarli). Un report di Green Alliance stima per esempio che addirittura l’80% degli articoli acquistati durante il Black Friday vengano rispediti o persino gettati dopo “pochi utilizzi”, in alcuni casi anche “senza essere stati usati” o tirati fuori dalla confezione. Con lo shopping online tra l’altro, a differenza dell’acquisto in negozio i resi aumentano fino a quattro volte. Più resi significano più trasporti e di conseguenza un aumento dei veicoli per le consegne che sarà esponenziale soprattutto nei prossimi tre anni dato che a livello globale si prevede che il giro d’affari dell’ecommerce supererà gli 8 trilioni di dollari.

    I trasporti ovviamente sono però solo una parte degli impatti ambientali, perché a livello di CO2 per esempio incide molto di più il processo di produzione, che è diverso per ogni materiale o merce. Per dare un’ idea: produrre un comunissimo pc rilascia in atmosfera sino a 200 kg di CO2. Un solo smartphone può emettere oltre 70 kg di CO2, di cui l’80% proprio in fase di produzione. Una maglietta invece rilascia in media più chilogrammi di anidride carbonica rispetto al peso della maglietta stessa e, per realizzarla, si possono arrivare ad usare anche sino a 2.700 litri di acqua.

    Proprio l’abbigliamento e gli accessori, insieme all’elettronica, sono i prodotti che molto probabilmente acquisteremo di più durante questo Black Friday. Come fa notare però l’associazione Friends of the Earth con un nuovo rapporto sul fashion, in meno di 40 anni in paesi come la Francia ad esempio il consumo di abbigliamento è più che raddoppiato. A livello mondiale, praticamente, se la produzione di abbigliamento si fermasse oggi l’intera umanità avrebbe “abbastanza vestiti da indossare fino al 2100”. E mentre cresce la produzione di vestiti (ormai siamo tra i 100 e i 150 miliardi di capi l’anno), cresce anche il contributo del settore moda e soprattutto fast fashion per le emissioni globali, ormai oltre al 10%. Solo in Francia, per dare un’idea , un quarto di tutte le consegne postali è per pacchi dei colossi cinesi Temu e Shein.

    L’inchiesta

    Fast fashion dei veleni, Greenpeace: “Il Ghana inquinato dagli abiti usati che arrivano dall’Europa”

    di redazione Green&Blue

    12 Settembre 2024

    A questo punto, anche se le cifre spesso non aiutano a identificare la reale portata dell’inquinamento da shopping legato al Black Friday, ci si può sempre chiedere se ci sono alternative più sostenibili da cavalcare. In rete si trovano tante proposte, ma alcuni marchi specifici proprio per il Black Friday hanno deciso di prendere posizione radicali nel tentativo di aiutare l’ambiente e mostrare un’altra strada da poter percorre. Ad esempio Patagonia – che da anni fa campagne anti-Black Friday – anziché grandi sconti incoraggia i clienti alla riparazione degli articoli e donerà l’1% delle vendite a cause ambientali. Oppure Asket, marchio di moda svedese, per il BF ha deciso di chiudere il suo negozio online per il settimo anno consecutivo. Altri, come Monki, evitano gli sconti e fanno campagne per acquisti di seconda mano, o addirittura c’è chi come Citizen Wolf, azienda australiana di abbigliamento, offre un servizio per rinnovare i vecchi vestiti con nuovi colori anziché acquistare nuovi prodotti. Al netto di alcuni esempi, gli esperti di sostenibilità consigliano sempre di seguire quattro passaggi nel caso si voglia vivere un venerdì un po’ più green e meno black: il primo è acquistare meno e riparare ciò che si ha e, per questo, è anche stata lanciata la campagna Buy Nothing Day che invita proprio ad astenersi dagli acquisti per 24 ore. Il secondo è usare le cose, perché molti prodotti vengono appunto acquistati e nemmeno mai utilizzati. Poi si può sempre fare attenzione ai materiali: meglio quelli sostenibili in cui grazie a etichette trasparenti si conosce la composizione. Infine, come sempre, vale la pena acquistare localmente per ridurre sprechi ed emissioni legati alle spedizioni. LEGGI TUTTO

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    Ai negoziati per il Trattato globale sulla plastica la carica delle lobby dei combustibili fossili

    A Busan, mentre i rappresentanti di tutto il mondo discutono su un problema enorme che non possiamo più ignorare, l’elefante nella stanza è talmente grande che si teme per l’effettiva riuscita del vertice. Esattamente come alla Cop29, conferenza delle parti sul clima appena conclusa a Baku e presidiata da migliaia di lobbisti dei combustibili fossili, anche in Corea del Sud il paradosso è lampante: mentre fino al 1° dicembre si negozierà per ottenere un Trattato globale sulla plastica, in modo da limitare l’inquinamento di questo materiale che potrebbe raddoppiare al 2050, nei corridoi del summit è pieno di lobbisti dell’industria della plastica.

    Il report

    Più lobbisti dei combustibili fossili che delegati dei paesi vulnerabili alla Cop del clima

    di  Giacomo Talignani

    15 Novembre 2024

    C’è di tutto: dai rappresentanti del petrolio a quelli della chimica, da quelli degli imballaggi alla cosmetica sino ai lobbisti della componentistica auto. Il numero è da record: circa 220 manager e uomini di aziende che hanno come intenzione primaria quella di garantire che la plastica vergine possa ancora essere prodotta e che l’industria della plastica non incappi in battute d’arresto. Mai, ai negoziati sul Trattato – che vede attualmente opposte le posizioni di Paesi produttori di combustibili fossili come Arabia Saudita, Russia e Iran a un gruppo di circa 60 nazioni che invece chiedono passi indietro sulla produzione di plastica – c’erano stati così tanti lobbisti, impegnati a frenare tentativi di porre limiti alla quantità di plastica che in futuro potrà essere prodotta.

    Inquinamento

    Trattato mondiale della plastica: ultima chance per liberarci dall’inquinamento

    di  Giacomo Talignani

    25 Novembre 2024

    Non è una novità che ai vertici mondiali ci sia una tale ingerenza: è accaduto alla Cop16 sulla Biodiversità, dove erano presenti per esempio lobbisti del mondo della pesca e della caccia, è accaduto nuovamente anche alla Cop29 sul clima, con 1773 rappresentati dell’oil&gas presenti laddove bisognava discutere di uscita graduale dai combustibili fossili. Ora, l’analisi del Center for International Environmental Law (CIEL), mostra come anche ai colloqui sulla plastica guidati dalle Nazioni Unite a Busan a primeggiare siano i lobbisti: se presi come gruppo, sarebbero addirittura la delegazione più numerosa ai colloqui dato che si parla di 220 persone, mentre la delegazione del Paese ospitante, la Corea del Sud, è di “appena” 140 persone.

    Numeri che sono più del doppio persino degli 89 delegati dei piccoli stati insulari in via di sviluppo del Pacifico (PSID), quelli che oggi sono più sommersi dalla plastica. I lobbisti superano, per numero, perfino i delegati della Coalizione degli scienziati che punta ad ottenere un trattato efficace sulla plastica, preoccupati dal fatto che ormai ogni anno vengano prodotte 460 milioni di tonnellate di plastica, materiale di cui riusciamo a riciclare pochissimo (intorno al 10%). Proprio 900 scienziati indipendenti di recente hanno firmato una dichiarazione per chiedere ai negoziatori di accelerare e trovare un accordo per un Trattato globale che limiti la produzione di plastica, cosa che invece i rappresentati delle aziende presenti non auspicano affatto. I produttori infatti non vogliono “limiti” e, sulla spinta di Arabia Saudita, Russia, Iran e anche Cina continuano a insistere sulla necessità di evitare tagli alla produzione e migliorare invece la gestione dei rifiuti, aspetto che finora però non è mai funzionato.

    “I limiti alla produzione e la riduzione della quantità di materiale nel sistema avrebbero un impatto maggiore su coloro che meno se lo possono permettere” sostiene per esempio Stewart Harris, portavoce dell’International Council of Chemical Associations (ICCA). Questa retorica è però quella che preoccupa attivisti e scienziati perché ci porta verso qualcosa, il recupero e riciclo, che finora non ha dato alcun frutto concreto. Per Delphine Levi Alvares del CIEL “abbiamo visto i lobbisti del settore circondare i negoziati con tattiche tristemente note di ostruzione, distrazione, intimidazione e disinformazione, una strategia progettata per preservare gli interessi finanziari dei Paesi e delle aziende che antepongono i loro profitti derivanti dai combustibili fossili davanti alla salute umana, ai diritti umani e al futuro del Pianeta”.

    La sola presenza dei lobbisti fra i corridoi Onu fa temere dunque per una riuscita reale degli accordi: ci si chiede per esempio cosa ci facciano a Busan i rappresentati di aziende come Dow o Exxon Mobil, grandi produttori di plastica, gli stessi che insieme ad altre ditte avevano firmato una alleanza volontaria per “porre fine ai rifiuti di plastica” nonostante si sia poi scoperto che proprio quelle aziende avevano prodotto fino a 1000 volte più plastica nuova rispetto ai rifiuti che hanno smaltito in cinque anni. Anche per questa ingerenza ci sono forti dubbi sulla possibilità di raggiungere un accordo per un trattato “giuridicamente vincolante” entro la fine della settimana quando, come sostiene Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia, “gli Stati membri dovranno definire un trattato globale sulla plastica che dia priorità a un ambiente vivibile per noi e per le future generazioni, piuttosto che ai compensi di un manipolo di amministratori delegati. E per farlo serve un accordo ambizioso e legalmente vincolante che riduca la produzione della plastica e ponga fine al monouso”. Un accordo che però senza pressioni da parte della società civile, anche vista l’ingerenza dei lobbisti, rischia di non trovare terreno fertile: eppure, avvertono scienziati e associazioni guidate dalla Plastic Health Council, ignorare l’impatto della plastica sulla salute non solo degli ecosistemi ma anche umana, è ormai “delirante”. LEGGI TUTTO