6 Settembre 2024

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consigliato per te

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    Rifiuti in montagna, come comportarsi

    Cosa c’è di meglio di una passeggiata nella natura, al fresco, tra boschi e vette? Però, passo dopo passo, ci capita spesso di vedere fazzoletti che segnalano toilette improvvisate, sacchetti con all’interno i bisogni dei cani a terra o appesi agli alberi come precoci palline di Natale, croste di formaggio, bucce di banana, confezioni di snack, lattine, bottigliette… “Marchiamo il territorio” con i nostri rifiuti, per disattenzione o scarsa voglia di portarne il peso anche in discesa. Proviamo a capire, però, quanto impiegano questi materiali a sparire dalle nostre montagne.

    Bisogna, innanzitutto, fare una distinzione tra due termini: compostabile e biodegradabile. Partendo dall’ultimo, un elemento lo è se può essere scisso in composti chimici semplici come acqua, anidride carbonica e metano da batteri, luce e altri agenti fisici naturali. Per essere definito tale, però, la normativa europea ha stabilito che deve decomporsi del 90% entro sei mesi. Essere compostabile significa qualcosa in più: deve essere biodegradabile in soli tre mesi, disintegrabile, quindi in grado di frammentarsi secondo criteri stabiliti, e deve superare i test di ecotossicità come prova che non possa esercitare alcun effetto negativo sull’ambiente. Si trasforma in compost, ricco di proprietà nutritive e usato in genere come fertilizzante. Per questi materiali, quindi, esiste una normativa che stabilisce regole e tempistiche precise, riferite però a condizioni controllate.

    Turismo sostenibile

    Anche la montagna soffre di “overtourism”

    di Giulia Negri

    10 Agosto 2024

    Questo significa che in natura e all’aperto, soprattutto in montagna dove temperature e altri parametri possono essere molto diversi da quelli in cui si sono ottenute le certificazioni, i tempi potranno risultare molto più lunghi. Ecco perché, anche se si tratta di sostanze naturali come nel caso di scarti e bucce alimentari, è meglio riportarli a casa con noi: impiegheranno mesi, se non anni, a sparire, se sono presenti semi potremmo far germogliare piante alloctone, e i rifiuti, poi, chiamano altri rifiuti. Vederli in giro, infatti, porta a emulazione e a situazioni di degrado. Basti pensare alle “toilette” di cui sopra: quando compare un fazzoletto, finisce poi per moltiplicarsi in molti altri, e servono dai tre mesi in sù perché si disperdano (per la carta igienica ci vuole circa un quarto del tempo). La gomma da masticare, pur essendo un alimento, non è del tutto biodegradabile e si stima impieghi intorno ai cinque anni per degradarsi.

    Non sempre, però, tempo e danni per l’ambiente vanno di pari passo. Il vetro, in natura, è sostanzialmente immortale, ma si tratta di un materiale inerte – che, in tempi molto lunghi, ridiventerebbe sabbia -, non arrecando quindi grandi danni a flora e fauna. Discorso diverso vale per la plastica: anche quando si degrada – e potrebbe riuscirci in 100, 400 o 1000 anni – continua a rimanere un inquinante, frammentandosi in microplastiche e nanoplastiche, delle quali stiamo ancora studiando gli effetti sulla salute. Pur volendoci un tempo inferiore, quindi, l’impatto riuscirebbe a essere decisamente maggiore: se possibile riduciamo al minimo l’utilizzo di questa tipologia di imballaggi e non abbandoniamoli mai nell’ambiente. Lattine e carta stagnola hanno bisogno dai 10 ai 100 anni; considerati i grandi costi ambientali dell’estrazione dell’alluminio, riciclare questi materiali è davvero fondamentale.

    Biodiversità

    Dieci regole per rispettare la flora in montagna

    di Fabio Marzano

    01 Agosto 2024

    Una parentesi è d’obbligo per i fumatori: i pacchetti di sigarette ci mettono circa 5 mesi a scomparire, per i mozziconi si va dai due ai dieci anni. Il filtro, contrariamente a quanto alcuni potrebbero pensare, non è in carta o cotone, ma di materiale plastico, e rilascia sostanze tossiche in grado di inquinare le acque, uccidere organismi acquatici, danneggiare gli ecosistemi. Fumando si inquina anche l’aria, quell’aria pura di montagna che siamo saliti apposta per poter respirare… Se proprio non possiamo aspettare di tornare a valle per la pausa sigaretta, portiamo almeno con noi un contenitore per i mozziconi per scongiurare sia i danni ambientali che gli incendi. LEGGI TUTTO

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    Il recupero delle acque reflue, un grande aiuto contro la siccità

    La purificazione delle acque reflue non è mai stato un argomento da grandi riflettori, ma a volte basta un singolo exploit di innovazione per cambiare tutto: è il caso della tecnologia sviluppata dalla startup Gradiant. “Prendiamo acque reflue altamente contaminate che contengono solventi, sali disciolti, sostanze organiche, ed eliminiamo tutti i rifiuti liquidi”, ha spiegato a CNBC Prakash Govindan, co-fondatore e direttore tecnico dell’azienda. “Altre tecnologie possono recuperare forse dal 50 al 60% dell’acqua, ma noi possiamo recuperarne il 99%”. È in questo ultimo dato eclatante che si svela il potenziale della startup, fondata nel 2013 come spinoff del Massachusetts Institute of Technology (MIT). Per altro sarebbe più corretto chiamarla unicorno – come si dice in gergo startupper – poiché lo scorso anno, pur non essendo quotata in borsa, ha raggiunto un valore di un miliardo di dollari.

    La tecnologia Gradiant si basa sul principio con cui si crea la pioggia nell’atmosfera, ovvero l’azione di condensazione del vapore acqueo. Nello specifico le acque reflue confluiscono in un impianto dove il flusso viene riscaldato e poi pompato in un umidificatore a contatto con aria a temperatura ambiente. La tecnologia proprietaria consente poi di trasferire il vapore ottenuto in una colonna di acqua pulita. E così l’aria di raffredda e si ottiene una sorta di pioggerellina pulita, che secondo l’azienda, abbatte i costi di depurazione del 50%. Da rilevare che ormai Gradiant ha centinaia di brevetti relativi al trattamento di acque con inquinanti di diverso tipo.

    Ambiente

    Riscaldamento globale, a rischio la potabilità dell’acqua per milioni di persone

    di Sara Carmignani

    22 Luglio 2024

    Il metodo pare funzionare così bene che fra i clienti ci sono già colossi come Coca-Cola, Tesla, Amd, Bmw, TSMC, Micron e Pfizer. E il motivo di tale entusiasmo è facile da spiegare: il 50% del consumo dell’acqua globale si deve a esigenze industriali e con la diffusa siccità si rischiano ripercussioni sulle attività, al netto delle rinnovate sensibilità ambientali. Si pensi anche solo al settore alimentare, tessile e farmaceutico. Senza contare l’industria dei semiconduttori dove l’acqua è una componente critica per la produzione poiché se ne necessita di ultra pura e poi si ha bisogno di una gestione efficiente delle acque reflue. Gradiant in tal senso assicura di essere riuscita a massimizzare il recupero, ridurre i prelievi di acqua dolce, recuperare minerali e reagenti preziosi e ridurre l’impronta di carbonio e di acqua della produzione. Come ha spiegato a Forbes promette infatti di ridurre i consumi di una classica fab di semiconduttori: da 37 milioni di litri al giorno a 757mila litri al giorno. E sul fronte farmaceutico per GlaxoSmithKline è riuscita a risolvere l’annoso problema delle acque reflue, del grande impianto di amoxicillina di Singapore, che contenevano sostanze pericolose difficili da gestire. Dal 2020 l’ingrediente fondamentale di uno dei più noti antibiotici dell’azienda non è più un problema: Gradiant estrae circa cinque tonnellate di rifiuti al giorno dalle acque reflue dell’impianto.

    In Italia un sistema come quello di Gradiant consentirebbe di migliorare notevolmente il trattamento delle acque. Secondo l’ultimo report Istat relativo agli anni 2020-2023 gli impianti di depurazione italiani gestiscono ogni anno più di 6,7 miliardi di metri cubi di acqua reflua, di cui 4,7 dovuti alla potabile e il resto a scarichi industriali, perdite e il resto. Dopodiché il 70% subisce un trattamento avanzato che ne consente l’impiego per irrigazione e nuovamente l’ambito industriale. “Scalare queste tecnologie è difficile. È facile trovare un prodotto, ma è molto più difficile trovare una soluzione end-to-end completa per i clienti, ed è quello che ha fatto Gradiant”, ha puntualizzato uno degli investitori, Mark Danchak di General Innovation Capital Partners. Oggi la startup ha più di 600 impianti di trattamento delle acque nel mondo e tratta circa 8,5 miliardi di acque reflue giornaliere. Assicura di poter riciclare il 98% dell’acqua contaminata dei suoi clienti, e farlo più e più volte, facendo risparmiare 6,4 miliardi di litri di acqua al giorno; quanto consumano circa 48 milioni di persone. LEGGI TUTTO

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    Quello che i ghiacciai dicono (su di noi e sull’ambiente)

    Che cosa sarebbero le Alpi senza ghiacciai? La sola prospettiva di perdere un elemento così caratteristico del paesaggio naturale a cui siamo stati abituati ci lascia interdetti. Le conseguenze per gli ecosistemi e per la società sarebbero drammatiche. La realtà è che oggi la “situazione clinica” dei ghiacciai è a dir poco critica. Dal 2000 al 2019 ogni anno sono stati persi in media 267 miliardi di tonnellate di ghiaccio a livello globale e con l’aumento delle temperature la velocità con cui i ghiacciai fondono è destinata a crescere. Non è un caso che le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2025 “anno internazionale della conservazione dei ghiacciai”.

    Da anni, in realtà, non mancano le iniziative che mirano a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’emergenza della fusione dei ghiacciai. Nell’agosto 2019 in Islanda, per esempio, si è svolto il funerale del ghiacciaio Okjökull. Sempre in Islanda, poche settimane fa un gruppo di ricercatori della Rice University ha dato vita al primo “cimitero dei ghiacciai” (con tanto di lapidi che si sciolgono a ricordare il loro declino inesorabile), accompagnato dalla Global Glacier Casualty List, una piattaforma in cui tenere traccia dei ghiacciai in grave pericolo e di quelli che sono già scomparsi negli ultimi anni. Per chi volesse conoscere meglio i ghiacciai da poco c’è anche un libro: “I ghiacciai raccontano”, edito da People e scritto da Giovanni Baccolo, ricercatore all’università di Roma Tre e membro del Comitato Glaciologico Italiano. Con spirito divulgativo e senza mai cadere nel tecnicismo, Baccolo ci porta dentro questo tanto fragile quanto affascinante mondo.

    L’emergenza

    La morte dei ghiacciai e il vuoto che lasciano

    di Vanda Bonardo*

    28 Agosto 2024

    Partiamo dal titolo: che cosa raccontano i ghiacciai?
    “È riduttivo vedere i ghiacciai soltanto come vittime del cambiamento climatico. Certo, confrontare una fotografia scattata oggi con una scattata 50 anni fa ha un forte impatto sullo spettatore. Ma i ghiacciai sono molto di più che dei giganti agonizzanti. La glaciologia va a toccare numerosi aspetti del mondo naturale e umano, perché la nostra storia è fortemente intrecciata con quella dei ghiacciai. Non sono solo un elemento che impreziosisce i paesaggi montani, ma sono anche degli autentici archivi che conservano la memoria del clima e dell’ambiente, con il loro carico di storie da raccontare. C’è poi da tenere in considerazione il fatto che i ghiacciai non sono tutti uguali. Il secondo capitolo del libro si intitola ‘glaciodiversità’ e ha proprio l’obiettivo di mostrare come ogni ghiacciaio racconti una storia diversa dal punto di vista scientifico. Le storie più antiche vengono dai ghiacci polari che sono più estesi e più spessi e dunque permettono di andare più indietro nel tempo”.

    Se scomparissero i ghiacciai che cosa perderemmo?
    Proprio perché i ghiacciai sono una componente fondamentale del mondo naturale, toglierli significherebbe sconvolgere una serie di equilibri. In prima battuta, tutta quella riserva di acqua dove andrebbe a finire? Si alzerebbe in maniera considerevole il livello dei mari e degli oceani e la geografia del Pianeta sarebbe sconvolta: molte zone diventerebbero inabitabili e milioni di persone sarebbero costrette a migrare. Molte comunità montane si ritroverebbero senza la loro fonte primaria di acqua dolce. O ancora, scomparirebbero quelle specie che si sono sviluppate e adattate agli ambienti glaciali. L’elenco potrebbe proseguire ancora a lungo”.

    L’emergenza

    La morte dei ghiacciai e il vuoto che lasciano

    di Vanda Bonardo*

    28 Agosto 2024

    Si tratterebbe anche di un’enorme perdita culturale.
    “Certamente. Questo è un aspetto che ci tengo sempre a sottolineare anche se non è il più importante, visto che non va a toccare direttamente la sopravvivenza della specie umana. I ghiacciai, con il loro declino, hanno avuto un ruolo di primo piano nel plasmare la consapevolezza sugli effetti del cambiamento climatico. Fanno parte del nostro immaginario collettivo: se chiedi a un bambino di disegnare una montagna, senz’altro disegnerà in cima un cappello bianco. Chissà se un bambino lo continuerà a fare anche nel 2100. La vedo dura. Per la fine del secolo di ghiaccio sulle Alpi ne rimarrà davvero poco”.

    Ma quindi i ghiacciai alpini sono spacciati? Non c’è più alcuna speranza di salvarli?
    “Anche se saremo virtuosi nel contenere le emissioni di gas serra, sappiamo già che nei prossimi decenni perderemo una frazione considerevole del ghiaccio presente oggi sul Pianeta. I ghiacciai sotto i 3500 metri, ahimè, è quasi sicuro che scompariranno. Ma non voglio nemmeno essere catastrofista, perché dire ‘non c’è più niente da fare’ è un messaggio sbagliato e spinge all’inazione. Inoltre, per un contesto come quello dei ghiacciai alpini non utilizzerei il termine tipping point (punto di non ritorno, ndr). Diverso è il caso dell’Antartide o della Groenlandia dove la scienza ci dice di essere molto più cauti nel superare determinate soglie perché la risposta del sistema potrebbe essere non lineare e difficile da gestire una volta che il meccanismo si innesta. Insomma, sarebbe una vera e propria catastrofe ambientale”.

    Il 2022 e il 2023 sono stati due anni difficilissimi per i ghiacciai alpini (basti pensare alla tragedia della Marmolada del 3 luglio 2022 che è costata la vita a 11 persone). Il 2024 sembra andare un po’ meglio: si può parlare di un anno positivo per i ghiacciai?
    “Nel 2022 e nel 2023 si sono verificate le due peggiori condizioni per i ghiacciai, insieme: poca neve durante l’inverno e alte temperature durante l’estate. Nel 2024 i danni sono stati limitati dalle abbondanti nevicate primaverili, ma sarà un altro anno negativo per i ghiacciai. Anche quest’estate, infatti, è stata caldissima e per settimane la quota dello zero termico si è mantenuta al di sopra dei 4000 metri. Ormai la neve caduta la scorsa primavera è stata consumata quasi completamente”.

    Nel capitolo conclusivo del libro dice che il futuro dei ghiacciai è nelle nostre mani. Che cosa dobbiamo fare per tentare di salvare il salvabile?
    “È chiaro che la tutela dei ghiacciai va di pari passo con il contrasto ai cambiamenti climatici. L’unica soluzione possibile è dunque limitare l’aumento della temperatura terrestre. Facile a dirsi, molto più difficile a farsi: occorre per esempio, come ripetono da anni gli scienziati dell’IPCC, abbandonare i combustibili fossili, con tutte le ricadute sociali ed economiche che possiamo immaginare. Ma i costi della transizione saranno comunque inferiori a quelli dell’inazione climatica”.

    A proposito di soluzioni mirate per i ghiacciai, si sente spesso parlare dei teli geotessili, come quelli che vengono installati da diversi anni in estate sul Presena (in Trentino). Funzionano o sono parte del problema?
    “Per funzionare, funzionano benissimo da un punto di vista tecnico: è stato verificato che coprire il ghiacciaio con i teli geotessili permette di ridurre il tasso di fusione del 50-60%. Tuttavia, questo intervento presenta alcuni aspetti di insostenibilità sia economica sia ambientale. Coprire un ghiacciaio è molto costoso. Economicamente parlando, ha senso solo dove è possibile ottenere un ritorno che ripaghi queste spese: quindi piste da sci, attrazioni turistiche visitabili a pagamento (come delle grotte di ghiaccio, per esempio) eccetera. E poi c’è un problema ambientale. Coprire un ghiacciaio richiede l’utilizzo di grandi quantità di combustibili fossili. Mi riferisco non solo al carburante per i gatti delle nevi, ma anche alle coperture stesse dei teli che sono realizzati con materie plastiche. Certo, qualcuno potrebbe dire che è una goccia nell’oceano in termini di emissioni, ma ai miei occhi rimane un controsenso”.

    Quali sono gli strumenti per aumentare la consapevolezza sull’importanza dei ghiacciai?
    “Il mio consiglio è quello di viverli in prima persona, senza filtri. Prendi una fotografia di qualche anno fa di un ghiacciaio a cui sei legato in qualche modo o che ti piace esteticamente e poi vai di persona a vedere con i tuoi occhi la differenza con il presente. Solo con un’esperienza del genere è possibile capire quanto velocemente i ghiacciai stiano reagendo al clima che cambia e quanto urgente sia la necessità di fare qualcosa per salvarli”. LEGGI TUTTO

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    Agricoltura ed edilizia trainano la crescita dei droni commerciali

    Tra dieci anni il mercato globale dei droni commerciali arriverà a valere 83,2 miliardi di dollari, al culmine di una crescita media annua del 13,90%. La stima, elaborata da The Brainy Insights, segnala che il Nord America è l’area più importante con il 34% del fatturato mondiale (un primato che sarà confermato negli anni a venire), mentre a livello di settori la domanda arriverà soprattutto da agricoltura, edilizia e logistica. Quanto all’Europa, lo sviluppo è partito più tardi, ma ora la crescita è sostenuta anche da noi, soprattutto al traino di trasporti ed energia. Francia, Germania e Regno Unito sono tra i Paesi più attivi nel settore dell’industria dei droni commerciali, grazie soprattutto agli investimenti effettuati lungo le nuove frontiere della tecnologia.
    Normative favorevoli allo sviluppo
    Le normative governative favorevoli e la presenza dei principali attori regionali sono i fattori principali per la crescita e lo sviluppo del mercato. Dji, AeroVironment, Autel Robotics, Aeronavics, EHang, Intel Corporation, Yuneec, Parrot Drones, PrecisionHawk e Draganfly Innovations vengono indicate tra le aziende più innovative, fermo restando che nuovi campioni potranno emergere negli anni a venire dato che è difficile stimare a priori le nuove direzioni dell’innovazione.
    Quanto alla tipologia di droni, il segmento a lama rotante ha fin dominato il mercato, con una quota di mercato di circa il 61,22% nel 2023. Si prevede che questi apparecchi diventeranno popolari per le attività di ispezione grazie alla loro capacità di librarsi e di effettuare manovre rapide mantenendo una visuale a lungo raggio di un singolo bersaglio. Dunque di facile applicazione per attività come riprese e fotografia, monitoraggio e sorveglianza. Per altro, gli sviluppi tecnologici nel campo delle scienze motorie e il restringimento delle batterie stanno rendendo possibile la creazione di droni ultraportatili adatti per l’uso interno. Inoltre, sono più facili da utilizzare rispetto a quelli ad ala fissa e ibridi. Il segmento riprese e fotografia ha dominato il mercato, con una quota di mercato di circa il 31% nel 2023. La crescita del segmento è attribuita principalmente al crescente utilizzo delle telecamere dei droni per scopi di visualizzazione e registrazione.
    Applicazioni crescenti nei media
    Va anche considerato che droni commerciali hanno molti utilizzi nel settore dei media e dell’intrattenimento. I produttori e i registi cinematografici utilizzano sempre più droni commerciali per catturare fotogrammi in modo conveniente e preciso. Inoltre, la necessità di fotografia aerea per pubblicizzare spazi pubblici, parchi di divertimento e altre attrazioni turistiche come hotel e resort, segnala il report, probabilmente guiderà la crescita del segmento.
    Si parla sempre di ipotesi probabilistiche in quanto, ricordano gli analisti, i droni si basano molto su tecnologie avanzate, ma la maggior parte di esse è ancora in fase di sviluppo. Si prevede che l’introduzione della tecnologia di volo autonomo avrà un impatto positivo sulla crescita del mercato nel prossimo futuro. LEGGI TUTTO

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    Ora anche i lobbisti della carne sono d’accordo sull’idea che bisogna consumarne di meno

    A parole c’è l’intesa, per i fatti però bisognerà aspettare. Come noto, l’industria della carne e degli allevamenti intensivi rappresenta circa il 14% delle emissioni climalteranti e da tempo si parla di una riforma di questo settore. Dopo le proteste degli scorsi mesi di agricoltori e allevatori a bordo dei loro trattori – tali da influenzare persino la campagna elettorale per le elezioni europee – la Commissione Ue ha provato a prendere le misure sul futuro di questo comparto e ha redatto un ampio rapporto che è stato discusso insieme ad alcuni rappresentanti delle più importanti lobby del mondo della carne. Il risultato annunciato dall’Ue è che c’è una intesa: anche le lobby sembrano riconoscere la necessità di mangiare meno carne – e dunque produrne meno – così come di una revisione ormai non più rimandabile del settore.

    Il rapporto chiede un cambiamento “urgente, ambizioso e fattibile” dei sistemi agricoli e alimentari, mettendo nero su bianco anche il fatto che gli europei mangiano e consumano più carne e proteine di quanto raccomandato dalle linee guida degli scienziati. Per questo servirebbe “riequilibrare” le diete verso proteine vegetali. Dopo le consultazioni, che oltre ai lobbisti hanno coinvolto anche il mondo dell’ambientalismo e delle ong, la presidente della Commissione Ue, fresca di riconferma, ha parlato dell’idea di avviare una profonda revisione della PAC (Politica agricola comune) da 387 miliardi di euro per sovvenzionare gli agricoltori in base al loro reddito anziché alle dimensioni delle loro aziende agricole. In generale le parti interessate hanno trovato un punto d’accordo sulla necessità di riconsiderare i sussidi e di avviare un “fondo di transizione giusta” soprattutto per aiutare gli agricoltori ad attuare pratiche davvero sostenibili.

    L’intervista

    Singer, il filosofo della liberazione animale: “Mai avuto cane o gatto, ma sono convinto che nessun essere deve soffrire”

    dalla nostra inviata Cristina Nadotti

    06 Luglio 2024

    “Condividiamo lo stesso obiettivo. Solo se gli agricoltori possono vivere della loro terra, investiranno in pratiche più sostenibili. E solo se raggiungeremo insieme i nostri obiettivi climatici e ambientali, gli agricoltori saranno in grado di continuare a guadagnarsi da vivere” ha spiegato von der Leyen che proprio dopo le proteste degli agricoltori e gli allevatori fu costretta a tornare sui suoi passi, ridimensionando il suo Green Deal. Ora – mentre la presidente intende far confluire le basi di queste intesa in un piano per l’agricoltura da presentare nei primi 100 giorni del nuovo mandato – il punto è capire se il settore riuscirà davvero a subire una trasformazione che convenga a tutti, dai produttori sino ai cittadini che oggi pagano il conto, a livello di crisi del clima, anche delle emissioni di zootecnia e agricoltura.

    Editoriale

    Basta animali come macchine da produzione

    di Barbara Nappini

    02 Giugno 2024

    Anche se a parole ci sono grandi intese il rapporto non ha però fissato obiettivi concreti per ridurre la produzione di carne, ma in generale chiede sostegno per aiutare a cambiare le abitudini alimentari degli europei, con sistemi che vanno dalle etichettature sino a riduzioni fiscali su prodotti alimentari sani e sostenibili. Per i lobbisti del mondo della carne e dell’agricoltura la buona notizia è che il metodo di lavoro promosso dalla Commissione sembra allontanarli dal concetto di imposizione di obiettivi elevati da raggiungere lasciando spazio a una transizione più “collettiva e strategica”. Per Ariel Brunner, direttore di Birdlife Europe, è incoraggiante vedere che la lobby agricola ora sostiene la necessità di un cambiamento: “Questa è una vittoria per i nostri agricoltori, il nostro ambiente e il nostro futuro, se i politici avranno il coraggio e l’integrità di agire in tal senso”. Il negoziato per arrivare alla condivisione del nuovo rapporto è durato quasi sette mesi e ha riunito circa trenta diverse parti interessate. Fra i punti concordati c’è l’idea di “sostenere un’agricoltura rispettosa della natura”, di “rivedere il sostegno al reddito nell’ambito della prossima Politica agricola comune (PAC)”, ma anche appunto il riconoscimento della necessità di politiche di consumo che sostengono la transizione “da un consumo eccessivo di carne e latticini a diete a base vegetale”.

    Stazione Futuro

    Per chi votano gli animali

    di Riccardo Luna

    03 Giugno 2024

    Su quest’ultimo passaggio sembra esserci una intesa più generale sul lato economico, soprattutto per quella revisione della Pac che prevederebbe invece di assegnare un sostegno diretto agli agricoltori in base alla quantità di terra di loro proprietà e di collegarla a standard ambientali obbligatori, dei sussidi che vadano “agli agricoltori attivi che ne hanno più bisogno” in base al reddito. Al contrario, alcune raccomandazioni (che sono comunque tutte non vincolanti) sono ancora ampiamente discusse, tra cui l’idea di aiutare gli agricoltori ad abbandonare l’allevamento del bestiame magari introducendo misure di acquisizione volontaria per le aziende agricole in aree con alti livelli di allevamenti intensivi. LEGGI TUTTO

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    Italiani consapevoli della crisi ecologica, la maggioranza vuole un deciso cambiamento

    L’Italia è fortemente esposta alla crisi climatica ed ecologica, i suoi abitanti sono pienamente consapevoli dei rischi presenti e futuri e chiedono un’azione più decisa al governo per affrontarli. E’ quanto emerge da un nuovo sondaggio condotto da IPSOS, commissionato da Earth4All e dalla Global Commons Alliance – nei Paesi del G20 pubblicato oggi.

    Proteggere la natura, anche per le generazioni future
    Tra i dati della ricerca emerge, in primo piano, la consapevolezza sulla necessità di proteggere la natura: in Italia nove intervistati su dieci si dichiarano preoccupati della condizione in cui versano gli ecosistemi e il 62% è consapevole che il mondo si sta avvicinando a pericolosi punti di rottura, quelli che gli scienziati hanno definito tipping points, cioè punti di non ritorno oltre i quali i processi di degrado dell’ambiente diventano irreversibili. Due italiane/i su tre (67%) si dichiarano favorevoli rispetto al fatto che la distruzione o il danneggiamento della natura da parte di politici o imprese – il cosiddetto ecocidio, su cui è stato di recente approvata la direttiva Ue – debba essere considerato un crimine penale.

    La proposta

    Ue, fino a 10 anni di carcere per l’ecocidio. Approvata anche la legge sul ripristino della natura

    di Cristina Bellon

    27 Febbraio 2024

    Più della metà (56%) è favorevole al riconoscimento di diritti propri della natura, come già avviene in alcuni Paesi, come per esempio i diritti di un fiume, di una montagna o di una foresta, con l’obiettivo di conservarli meglio. Il 60% degli intervistati è favorevole al riconoscimento di diritti legali per le generazioni future, in continuità con la riforma della Costituzione del 2022 che, anche grazie al lavoro dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), ha introdotto la tutela degli interessi delle future generazioni tra i principi costituzionali, all’articolo 9.

    Visto quando accade quotidianamente non sorprende che circa metà degli italiani si senta esposto a rischi ambientali e climatici, come ondate di calore, incendi, alluvioni o frane. A giugno 2024, quando un primo set di dati di questo sondaggio era stato pubblicato, ne abbiamo scritto su Green & Blue, era già emerso che il 62% degli intervistati chiedeva al governo con urgenza una transizione ecologica rapida e incisiva questo decennio.

    La riforma

    La Natura entra in Costituzione: cosa cambia per ambiente, biodiversità ed ecosistemi

    di Luca Fraioli

    09 Febbraio 2022

    Un’alleanza tra “protettori del pianeta” e pragmatici
    I risultati del sondaggio hanno portato a individuare cinque diverse “visioni del mondo” trasversali al campione intervistati dei diversi Paesi del G20. Un quarto di chi ha riposto dall’Italia (25%) si possono definire “protettori del pianeta”. Persone che comprendono i rischi derivanti dalla distruzione della natura e dall’aumento delle temperature, e sono propense a sostenere una decisa e immediata trasformazione politica ed economica. Il 15% sono “ottimisti preoccupati”, consapevoli dei rischi ma anche convinte che sia possibile invertire la rotta. Un altro 18% è formato da “pragmatici progressisti”, moderati, fiduciosi nella scienza, in cerca di soluzioni bilanciate. Questi tre gruppi chiedono tutti ai governi un’azione robusta e urgente su natura e clima, dimostrandosi molto o estremamente preoccupati della situazione attuale. Solo una piccola minoranza, il 13%, si oppone all’azione climatica e la quota rimanente del campione è disinteressata ai temi sociali e ambientali.

    Un futuro che preoccupa
    Il sondaggio misura anche come gli italiani guardino al futuro e i risultati sono abbastanza preoccupanti in quanto l’Italia appare uno dei Paesi più pessimisti tra quelli del G20: infatti, solo un italiano su tre è ottimista sul proprio futuro (31%), un quarto (25%) è ottimista sul futuro dell’Italia e solo un quinto (il 20%) è ottimista sul futuro del mondo. I risultati dell’indagine rivelano l’importanza, e l’urgenza, di ridare fiducia a italiane e italiani, offrendo una visione positiva ma realistica del futuro, e investendo seriamente per realizzarla. Questa prospettiva è vista con favore dalla maggioranza della popolazione, che concorda con quanto dice la scienza sullo stato di salute del pianeta ovvero che bisogna agire subito.

    Le opportunità per il governo
    I tempi sono stretti ma le opportunità per intervenire sono concrete. Il governo italiano, nelle prossime settimane, dovrebbe: presentare all’Unione Europea un Piano fiscale strutturale di medio-termine che acceleri le riforme in favore della transizione energetica, proteggendo le fasce più deboli e più esposte della popolazione; approvare una Legge sul Clima, sul modello di quanto fatto da altri importanti Paesi; mettere in pratica la Direttiva europea sul Ripristino della Natura, attraverso un piano nazionale credibile e adeguatamente finanziato; promuovere i diritti delle future generazioni, approvando il Disegno di Legge sulla valutazione di Impatto Generazionale delle nuove normative, ora in Parlamento. Siamo a pochi giorni dal Summit sul Futuro dell’Onu che vedrá i governi del mondo approvare un Patto in cui si rilanciano gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 e una “Dichiarazione sulle generazioni future”. Sappiamo che è ancora possibile generare un benessere durevole, per tutte e tutti, all’interno dei confini planetari. La dimensione ambientale, quella economica e quella sociale dello sviluppo possono e devono diventare obiettivi sempre più interconnessi e conciliabili.

    *(Owen Gaffney, Project Lead Earth4All – Luca Miggiano Responsabile “Ecosistema Futuro”, ASviS) LEGGI TUTTO