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    L’Islanda autorizza la caccia alle balene fino al 2029

    Altri cinque anni di caccia alle balene. L’Islanda e decine di associazioni ambientaliste da tempo stavano aspettando una notizia che avrebbe potuto mettere fine alla caccia alle balene nel Paese: il primo ministro Bjarni Benediktsson però, che ricopriva anche la carica ad interim di ministro per l’Alimentazione, agricoltura e pesca, anziché negare le licenze di […] LEGGI TUTTO

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    Con l’aumento delle temperature di 2 gradi potremmo perdere un terzo delle specie animali

    Si stima che dagli anni ’60 a oggi, ossia da quando le temperature hanno iniziato ad aumentare rispetto al periodo pre-industriale, la quota di specie estinte a causa del cambiamento climatico sia aumentata del 4% ogni dieci anni. Secondo una meta-analisi appena pubblicata su Science, nel peggiore degli scenari dal punto di vista delle emissioni potremmo addirittura perdere un terzo delle specie animali note.

    Quelle più a rischio sarebbero quelle che vivono in Australia, Nuova Zelanda e Sud America, in aree montuose, insulari o in ecosistemi di acqua dolce. Lo studio è stato effettuato da Mark Urban, docente di ecologia e biologia dell’evoluzione presso l’Università del Connecticut (Stati Uniti), che ha analizzato i risultati di 485 studi effettuati negli ultimi 30 anni, riguardanti le previsioni (o, in gergo, proiezioni) sullo stato di conservazione della maggior parte delle specie animali conosciute.

    Dalla meta-analisi è emerso che nella situazione attuale di circa +1.3°C rispetto alle temperature dell’epoca pre-industriale si prevede l’estinzione dell’1.6% delle specie esistenti. Superando la soglia dei +1.5°C, presa come riferimento nell’Accordo di Parigi del 2015, e raggiungendo i +2°C, il rischio salirebbe al 2.7%. Ma, si legge nella pubblicazione, stando agli attuali impegni internazionali in termini di riduzioni delle emissioni, in futuro potremmo raggiungere i +2.7°C rispetto alle temperature pre-industriali, il che metterebbe a rischio di estinzione una specie ogni 20 di quelle attualmente note. Oltre questa soglia il rischio subirebbe poi un’ulteriore rapida impennata, balzando al 14.9% a +4.3°C e addirittura al 29.7% a +5.4°C. Ossia, nel peggiore scenario dal punto di vista delle emissioni di gas serra e quindi dell’aumento delle temperature globali, circa una specie su tre sarebbe a rischio di estinzione.

    Come anticipato, le specie che vivono in Australia, Nuova Zelanda e Sud America sono quelle che corrono un rischio maggiore. Per quanto riguarda i primi due paesi, il rischio particolarmente elevato sarebbe legato al fatto che le specie terrestri che li abitano hanno una possibilità di spostamento limitata prima di dover fare i conti con l’oceano. Nel caso del Sud America, spiega Urban, il rischio probabilmente riflette il fatto che questa zona sia caratterizzata da un’incredibile biodiversità e da specie che vivono in areali ristretti e in nicchie ecologiche particolarmente specializzate.

    Entrando poi nello specifico dei gruppi tassonomici e dei vari ecosistemi esistenti, dalla meta-analisi emerge che gli anfibi e gli animali che vivono in montagna, sulle isole e all’interno di ecosistemi di acqua dolce sono quelli maggiormente a rischio. Tendenzialmente, spiega Urban, perché queste specie si possono spostare di meno o perché l’ecosistema all’interno del quale vivono è di per sé più soggetto a cambiamenti climatici o all’invasione da parte di specie aliene.

    Anche i dati storici confermano questa previsione: la maggior parte delle estinzioni avvenute in passato e attribuite ai cambiamenti climatici avrebbero riguardato proprio specie che vivono in montagna, sulle isole o negli ecosistemi di acqua dolce. Un esempio è la Melomys rubicola, una specie di roditore originaria di una minuscola isola situata fra l’Australia e la Nuova Guinea, classificata come estinta nel 2015 probabilmente a causa dell’innalzamento del livello dell’oceano.

    Secondo Urban, tra l’altro, il numero di specie estinte a causa dell’aumento delle temperature globali è in realtà sottostimato. Questo perché tendiamo a focalizzare la nostra attenzione sui vertebrati, lasciando in secondo piano le miriadi di altre specie, magari più piccole o meno carismatiche. Senza considerare che possiamo tenere traccia solo di quelle che conosciamo, ma le specie esistenti sono molte di più. LEGGI TUTTO

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    In America Centrale è tornata la mosca assassina. L’esperto: “Colpa del traffico di bovini”

    La verità su Cochliomyia hominivorax. Il nome scientifico, nato a seguito di una serie di epidemie nell’800, non fa sconti: la mosca assassina del Nuovo Mondo ha larve voraci e carnivore, responsabili delle ‘miasi’, infestazioni dei tessuti che colpiscono i capi da bestiame e non risparmiano l’uomo. In Costa Rica è, dall’inizio del 2024, una vera e propria emergenza nazionale, la prima dagli anni ’90: qui la popolazione di mosche ha registrato un brusco incremento. E un caso di contagio a Catazaja, piccola città stato del Chiapas, Messico, ha innalzato il livello di allerta anche negli Stati Uniti, che hanno sospeso le importazioni di bestiame dal paese confinante.

    Già, perché le infezioni più rilevanti colpiscono bovini e ovini: le uova vengono deposte all’interno di una ferita, individuare i capi infetti e isolarli per tempo – priva ovvero dello sviluppo di una potenziale epidemia – è difficile. Per questo, è dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso che la comunità scientifica si adopera nel tentativo di eradicare la specie, o ridimensionarne la popolazione. Dal 1994 lo fa, in particolare, la Copeg, acronimo di Comisión Panamá – Estados Unidos para la Erradicación y Prevención del Gusano Barrenador del Ganado: nata a seguito di un accordo tra il ministero dello Sviluppo Agricolo di Panama e il dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, riconosciuta come missione internazionale, mira proprio “a sradicare e prevenire la sua reinfestazione nella Repubblica di Panama, senza causare danni all’ambiente”. LEGGI TUTTO

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    Google (e non solo): le promesse dell’intelligenza artificiale per prevenire il meteo estremo

    “Un nuovo modello di intelligenza artificiale migliora la precisione delle previsioni meteorologiche e dei rischi connessi agli eventi meteo estremi, offrendo previsioni più rapide e accurate fino a 15 giorni in anticipo”. La rivendicazione è di Google DeepMind, uno dei colossi dell’hi-tech che si sta cimentando col lo sviluppo e le possibili applicazioni della AI. L’annuncio fa seguito alla pubblicazione sulla prestigiosa Nature di un articolo in cui viene presentato GenCast, “il nostro nuovo modello di ensemble AI, che fornisce previsioni migliori sia del meteo giornaliero che degli eventi estremi rispetto al sistema operativo principale quello dello European Centre for Medium-Range Weather Forecasts (ECMWF), fino a 15 giorni in anticipo. Google spiega che GenCast è stato addestrato e allenato fornendogli “quattro decenni di dati meteorologici storici dall’archivio ERA5 dell’ECMWF. Questi dati includono variabili come temperatura, velocità del vento e pressione a varie altitudini. Il modello ha appreso modelli meteorologici globali…”.

    Che l’intelligenza artificiale possa essere il futuro delle previsioni meteo lo ammette anche Carlo Buontempo, direttore del programma europeo Copernicus, al quale Green&Blue ha chiesto un commento. “Lo sviluppo di GenCast, un modello di previsione meteorologica basato sull’intelligenza artificiale (Machine Learning Weather Predictions MLWP nel suo acronimo inglese), segna una pietra miliare significativa nell’evoluzione delle previsioni meteorologiche”, conferma Buontempo. Che però precisa come quello messo a punto da Google non sia una novità assoluta. “GenCast è uno degli ultimi modelli di machine learning esaminati in una serie di articoli scientifici di alto profilo, che evidenziano la continua evoluzione (e rivoluzione) nelle previsioni meteorologiche”.

    Lo stesso ECMWF, di cui Copernicus è una emanazione, ci lavora da tempo. “Abbiamo abbracciato questa rivoluzione integrando il nostro modello basato sulla fisica, l’Integrated Forecasting System (IFS), basandoci sulla scienza del machine Learning applicata al meteo e sviluppando l’Artificial Intelligence Forecasting System, AIFS, il nostro MLWP che adesso funziona in modo operativo”, continua Buontempo. Alcune componenti chiave dell’approccio di GenCast sono state integrate in una versione dell’AIFS: “Già dal giugno scorso, gli utenti possono vedere previsioni di ensemble live utilizzando AIFS che sfrutta alcune delle tecniche chiave sviluppate nel lavoro GenCast, in combinazione con la nuova ricerca dell’ECMWF”, spiega infatti Buontempo. Sul sito dell’ECMWF si trovano una serie di carte meteo e alcune (“sperimentali”, si sottolinea) sono ottenute con il modello di intelligenza artificiale AIFS.

    Ricerca

    Il Cmcc apre Dataclime cards, mappe per il futuro clima dell’Italia

    di Cristina Nadotti

    06 Marzo 2024

    L’annuncio era stato dato poco più di un anno fa da Florence Rabier, direttrice generale dell’Agenzia meteo europea: “Abbiamo deciso di lanciare l’AIFS sulla scia delle iniziative di diverse aziende per produrre previsioni meteo basate su metodi di apprendimento automatico. Tra queste, FourCastNet di Nvidia, Pangu-Weather di Huawei e il modello di Google DeepMind. Abbiamo reso disponibili questi sistemi sulle pagine pubbliche dei grafici dell’ECMWF, in base alle nostre condizioni iniziali. L’AIFS è stato ora aggiunto a quelle pagine”.

    Google rivendica la sua supremazia: una risoluzione più alta (vale a dire un reticolo in cui è divisa la superficie terrestre le cui maglie sono più fitte), un ampio margine di preavviso (15 giorni) e in generale risultati migliori di quelli forniti dalle previsioni tradizionali di ECMWF. “Ci sono domande e discussioni aperte su quello che può essere l’equilibrio ottimale tra i sistemi di previsione basati di machine learning e quelli tradizionali”, fa però notare Buontempo. “Un’ampia comunità scientifica, tra cui l’ECMWF, sta attivamente esplorando questo aspetto. GenCast presenta una buona scienza dal punto di vista del machine learning, ma questi miglioramenti devono essere testati su quanto bene si comportano in eventi meteorologici estremi per apprezzarne appieno il valore”. LEGGI TUTTO

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    Così il polistirolo uccide i pesci: l’impatto delle nanoplastiche nel mare

    Le nanoplastiche di polistirene (polistirolo) sono in grado di provocare la morte delle cellule degli animali marini. È quanto ha dimostrato lo studio ENEA su modelli in vitro di orata e trota iridea, condotto in collaborazione con Cnr e Università della Tuscia (Viterbo) e pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment.

    Dallo studio emerge che nanoparticelle di polistirene da 20 nanometri – cento volte più piccole di un granello di polvere – hanno causato un danno alle cellule maggiore rispetto a quelle da 80 nanometri. Inoltre, le cellule di orata sono risultate circa quattro volte più sensibili alle nanoplastiche rispetto a quelle di trota.

    Inquinamento

    I solventi che purificano l’acqua dalle nanoplastiche

    di Anna Lisa Bonfanceschi

    28 Agosto 2024

    “Le particelle di plastica si sono attaccate alle membrane delle cellule, causando cambiamenti visibili nella loro forma e struttura, con tracce già evidenti dopo 30 minuti di esposizione. Solo le nanoplastiche da 20 nanometri hanno danneggiato gravemente le cellule nel tempo, portandole a una morte cellulare programmata (per apoptosi). E i primi segni evidenti di questo processo includevano il restringimento della cellula, la formazione di protuberanze sulla membrana, l’esposizione della fosfatidilserina (una molecola essenziale per il funzionamento della cellula) sulla superficie esterna della membrana, chiaro segnale di ‘agonia’ della cellula, fino alla frammentazione del DNA”, spiega Paolo Roberto Saraceni, ricercatore del Laboratorio ENEA Biotecnologie RED e coautore dello studio.

    “I risultati ottenuti – sottolinea Saraceni – evidenziano che la salute degli ecosistemi acquatici e terrestri, con il loro relativo impatto sulla salute umana, è strettamente interconnessa e può venire drammaticamente compromessa dalla diffusione dell’inquinamento da nanoplastiche se non affrontato con la dovuta tempestività”.

    La ricerca

    Riciclare il polistirolo ora potrebbe essere possibile

    di Sara Carmignani

    18 Giugno 2024

    Grazie a questo studio i ricercatori hanno identificato i possibili meccanismi alla base del danno ai tessuti biologici causato dalle nanoplastiche, attraverso l’applicazione di sistemi biotecnologici innovativi e lo sviluppo di modelli sperimentali animal free avanzati. Tali modelli si sono rivelati cruciali per ampliare la comprensione dell’impatto dei rifiuti plastici sulla salute degli ecosistemi, permettendo di ottenere dati riproducibili e di condurre studi su larga scala.

    Le nanoparticelle di plastica (visibili solo al microscopio e con dimensioni inferiori a 1000 nanometri, ossia circa 50-100 volte più piccole del diametro di un capello) hanno attirato l’attenzione della comunità scientifica per la capacità di attraversare membrane biologiche come quella intestinale e la barriera emato-encefalica, aumentando la loro tossicità potenziale verso gli organismi marini.

    “Le nanoparticelle possono causare effetti come tossicità cellulare, neurotossicità, genotossicità, stress ossidativo, alterazioni metaboliche, infiammazioni e malformazioni nello sviluppo delle specie marine, ma i meccanismi cellulari e molecolari alla base di questi impatti non sono ancora completamente compresi”, sottolinea Saraceni.

    Inquinamento

    Microplastiche e polistirolo, cibo per pesci e molluschi alla foce del Tevere

    di Paolo Travisi

    11 Marzo 2024

    La contaminazione degli ambienti marini e di acqua dolce da parte delle nanoplastiche è considerata una minaccia globale per gli organismi viventi che li popolano. La produzione di plastica nel mondo è stata di oltre 400 milioni di tonnellate nel 2022 e le stime più recenti prevedono che raddoppierà nei prossimi 20 anni fino a triplicare entro il 2060. La maggior parte dei rifiuti plastici non viene gestita correttamente: solo il 9% è riciclato, il 19% incenerito e il resto finisce in discariche o siti di smaltimento non controllati. Questo contribuisce all’accumulo di plastica nell’ambiente e sono soprattutto gli ecosistemi marini a subire l’impatto maggiore: si stima che più di 171 trilioni di particelle di plastica si accumulino nell’ambiente marino, degradandosi in frammenti più piccoli: il polistirene è una delle materie plastiche non biodegradabili più comuni e contribuisce significativamente all’inquinamento plastico ambientale. Tra le più frequentemente trovate negli organismi marini, presenta una tossicità significativamente maggiore rispetto ad altri polimeri testati. La sua potenziale tossicità per gli organismi acquatici e gli ecosistemi rimane una preoccupazione e, per questo, servono ulteriori ricerche per indagare su scala più ampia gli effetti a lungo termine”, conclude Saraceni. LEGGI TUTTO

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    Andrea Illy: “Un’agricoltura più gentile fa bene all’ambiente e alla salute”

    Uno dei pochi uomini al mondo che quando beve un caffè, sta lavorando. Uno dei pochi uomini al mondo che quando si presenta fa pubblicità commerciale. Dura vita di Andrea Illy perennemente diviso tra l’essere un uomo come tanti e l’essere l’uomo sandwich di un prodotto. Per lui é la normalità. Ha introiettato fin dalla culla questa doppia dimensione e come i figli dei monarchi non ha mai messo in conto di fare qualcos’altro. La determinazione gli arriva dal nonno mezzo ungherese che dopo la grande guerra trovò patria a Trieste, città cosmopolita che in Europa, oggi, viene considerata uno dei centri più importanti per la ricerca scientifica. Nel 1933, tra il cioccolato e il caffè, scelse quest’ultimo perché lo riteneva affine culturalmente alla Mitteleuropa, ai caffè viennesi, agli intellettuali, più Damel che Sacher.

    Ma non furono subito rose a aromi, due anni apolide pur di restare in quella piazza che si apriva al mare, poi i brevetti, il barattolo pressurizzato per conservare la fragranza e la macchina espresso a pressione, la prima al mondo. L’arma di seduzione di questo millennio? Una tazzina disegnata ad arte da 126 artisti di fama mondiale per citarne due, Pistoletto e Koons. Andrea lo racconta con orgoglio lui, che ama il buon vino e le olive.

    Andrea, si capisce l’investitura imprescindibile ma da bambino non può aver sognato di diventare il re del caffè…
    “Certo che no. Avrei voluto diventare un chirurgo o un pilota di caccia. Poi ho fatto il chimico e il dottore del caffè. Non mi è pesato perché i fondi di quel caffè erano intrisi d’illuminismo e dei movimenti culturali che sono all’origine della modernità. All’epoca l’acqua era infetta e non si poteva bere. Si rimediava con la birra fermentata. Risultato, ubriachezza e scarsa produttività. Il caffè portò una sferzata di vitalità. E il futuro”. Ma lungo andare pure il “nero bollente” causa problemi di salute. “Quattro espressi al giorno non di più ed ecco attivato il potere antiossidante della caffeina”.

    Come fa con il suo mestiere? Sarà sovreccitato.
    “Quando lo degusto per lavoro, poi lo sputo”. Attento a non farsi vedere, si potrebbe equivocare. E in famiglia? Già vede i suoi eredi? “Ho tre fantastiche bionde di 31, 29 e 27 anni, la quarta generazione. Ancora non lavorano con me, ci vuole un percorso di crescita fuori per arrivare in azienda già formate. Siamo un’azienda familiare ma non chiusa in se stessa. Come famiglia abbiamo istituito una fondazione intitolata a mio padre, un grande maestro per agricoltori ed economisti, presieduta da mia sorella. Bisogna trasferire le conoscenze ai paesi produttori. Parliamo di raccolto tropicale invece abbiamo 12,5 milioni di micro-agricoltori che non hanno risorse per uscire dalla soglia di povertà. Solo il 5% del valore complessivo del caffè da supermercato rimane nelle tasche di chi lo coltiva. Troppo poco ma è un fenomeno strutturale, il flusso di denaro è insufficiente perché questi micro-produttori possano crescere. Figuriamoci ora, flagellati come sono dal cambiamento climatico che li priva persino del raccolto annuale”.

    In questi giorni ha riportato una grande vittoria, ci lavorava da anni…
    “Su nostra spinta, il Governo italiano aveva inserito il caffè come una delle prime tre priorità del Piano Mattei. Era nell’agenda del G7 di Pescara a fine ottobre. Noi abbiamo sollecitato una partnership pubblico/privato allo scopo di investire nelle piantagioni di caffè, fino alla costruzione di un fondo comune. In queste ore, dopo otto anni di lavoro, la proposta è realtà approvata. Una cooperazione che vede coinvolte 25 milioni di famiglie del Sud del mondo grazie all’adesione di colossi come Jde, Lavazza, Nestlé, Starbucks, il Governo italiano, gli altri G7, e istituzioni intergovernative. Abbiamo anche creato master a livello mondiale con esperti di rigenerazione di ecosistemi naturali per aiutare la comunità a migliorare le condizioni di vita dei bambini che dovrebbero andare a scuola e sono nei campi. Ci occupiamo degli abusi e contrastiamo il crimine sensibilizzando il sociale. Teniamo alla sostenibilità e alla rigenerazione del caffè. Me ne occupo da 40 anni perché è un fattore necessario alla vita. La biosfera dalla quale dipendiamo al 100% è la nostra sopravvivenza. A rischio”.

    Siamo messi tanto male?
    “Malissimo. Il disastro è in corso. Siamo tecnicamente come una rana bollita. La rana si crogiola nell’acqua calda che si riscalda sempre più e così senza rendersene conto, finisce bollita”.

    Che orrore…
    “Sì, ma solo a parole. Io da scienziato e imprenditore mi sono preso un anno sabatico per decarbonizzare l’Azienda in modo circolare e studiando mi sono imbattuto nella teoria dell’agricoltura rigenerativa che è l’opposto di quella convenzionale. Il focus è la terra e meno la pianta. La salute del suolo, abbattimento dell’agrochimica a favore dei fertilizzanti naturali per rispettare le biodiversità. Il suolo ha una capacità tre volte superiore rispetto all’atmosfera di sequestrare il carbonio. Le piantagioni sperimentali ci riportano agli agricoltori che collaborano con noi da tempo”.

    Chi vi ha aiutato?
    “La guerra in Ucraina. Sembra brutto dirlo ma i prezzi dei fertilizzanti per il conflitto sono saliti alle stelle e si è scoperto che questa agricoltura resiliente al cambio climatico non perde produttività, anzi, produrre costa meno, fa bene all’ambiente e alla salute, un’agricoltura più gentile”.

    Un modo virtuoso di mettere a frutto il suo tempo adesso che si è fatto un po’ da parte.
    “Per 22 anni sono stato operativo. Ora non lo sono più e posso dedicare tutto me stesso a questa che è diventata un’ossessione. Sono i chimici che devono interpretare l’evoluzione della materia nel tempo e nello spazio”.

    Non deve essere facile starle accanto.
    “È perché mai? Sono discretamente spiritoso, sono curioso di tutto, mi interesso d’arte, parlo cinque lingue, sono sportivo, vado a vela e in bicicletta, pratico sci e moto, mi piacciono le passeggiate aerobiche, non sudo. Dimenticavo, sono elicotterista ma ho smesso perché inquinavo, ho una macchina ibrida e una barca a vela a Barcellona, la barca ufficiale di Emergency, la Ancilla Domini di 22 metri. Io mi troverei simpatico, da frequentare”.

    Scherza? Sia mai! Le pare una vita riposante? Un incubo in moto perpetuo…
    “A mia moglie piaccio così. Immagini che quando ero attivo in Azienda ero fuori casa 200 notti all’anno e l’ho fatto per trent’anni. Ora io e mia moglie andiamo in giro in barca per quattro settimane all’anno e mai una lite. Stiamo insieme da 38 anni, ci siamo conosciuti a Trieste, ero appena tornato dal Giappone e ho incontrato lei, una marziana, mezza friulana e mezza pugliese. Sono stato fortunato. C’è affinità elettiva, abbiamo le stesse passioni, facciamo tutto insieme”.

    Lei parla con orgoglio di ‘’Azienda familiare’’. Come si fa a lungo andare a non odiarsi? Penso ai Gucci ma anche a tanti altri…
    “La nostra è una grande responsabilità che si muove tra passato e futuro. Io sono il più giovane della mia famiglia, nato perché i miei fratelli mi hanno voluto. Detto questo, ci vuole una grande disciplina per andare d’accordo, consci sempre del fatto che con 10 milioni di tazzine distribuite al giorno, il vero padrone resta il consumatore. È poi diversificare, il più grande ha un ottimo vigneto di Montalcino, l’altro produce un cioccolato buonissimo. Una mia figlia fa prodotti di bellezza con estratti del caffè. L’Azienda di famiglia è un business e prevale sull’affettività”.

    Pensa così anche la sua mamma?
    “Soprattutto lei. A 93 anni si interessa (è un eufemismo) degli affari. Pretende di avere lo stesso vigore di una trentenne. Mi pone domande tendenziose che vorrebbero sembrare consigli invece sono spiate di rendiconti, numeri. Quest’anno le ho regalato delle cuffie professionali per sentire meglio ai consigli d’amministrazione”. LEGGI TUTTO

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    Bonsai ginepro: facile prendersene cura, ma attenzione alla potatura

    Il bonsai Ginepro è una delle specie di bonsai più utilizzate; questo perché consente di creare delle forme impossibili da eseguire con altre piante. Facile da coltivare, resiste sia al caldo dell’estate, sia al freddo dell’inverno. Conta una quantità di varietà piuttosto ampia, anche se le più conosciute sono il Ginepro Rigida, Itoigawa, quello giapponese (o Juniperus giapponese) e il Juniperus Chinensis Itoigawa.

    Ginepro bonsai: le varietà principali
    La principale distinzione che si fa quando si parla di bonsai ginepro riguarda la vegetazione, Infatti, questa pianta particolare può presentarsi sia con vegetazione a scaglie, sia con vegetazione ad aghi. Tra i ginepri a scaglie si trovano principalmente il ginepro cinese e lo Shimpaku giapponese: i colori abbracciano il giallo-verde, il verde-blu e il verde-grigio. Lo Shimpaku Itoigawa, invece, si riconosce per la sua vegetazione verde smeraldo.

    Tra i bonsai di ginepro ad aghi, invece, il ginepro spinoso giapponese è forse uno dei più conosciuti. I suoi aghi sono acuminati di colore verde scuro e molto pungenti. Si riconoscono perché sulle loro lunghezze è presente una striscia bianca.

    Bonsai ginepro: come prendersene cura
    Prendersi cura del bonsai di ginepro non è particolarmente complicato; questa pianta dal fascino ancestrale, infatti, non richiede troppe attenzioni ed è perfetta anche per chi non ha alle spalle grosse esperienze nel vastissimo campo dei bonsai.
    Intanto, appartenendo alla famiglia delle conifere, il bonsai ginepro apprezza molto la rugiada notturna, sua alleata.

    Potatura del bonsai ginepro
    Come per la maggior parte dei bonsai, anche il bonsai ginepro richiede una potatura. In particolare, si consiglia di effettuare tale azione durante l’inverno, stagione durante la quale avviene il riposo vegetativo della pianta. Una volta potato, il bonsai ginepro ha bisogno di un po’ di tempo per “riprendersi”, motivo per il quale si consiglia di effettuare l’operazione quando questo è ancora inserito nel vaso da coltivazione. Il trapianto, quindi, sarebbe meglio effettuarlo dopo, ossia l’anno successivo.

    Per svolgere una potatura ottima, si consiglia sempre di utilizzare una tronchese concava: in questo modo si eviteranno tagli netti, che andrebbero a indebolire il bonsai e potrebbero anche portare la crescita di foglie ad aghi. Solitamente, per non sbagliare, si eliminano i rami che tendono a svilupparsi in senso verticale, quelli che si incrociano o che crescono verso l’interno della pianta. Forse non tutti lo sanno, ma una volta conclusa la potatura del bonsai ginepro, si dovrà procedere con la “medicazione” dei tagli utilizzando una pasta cicatrizzante adatta.

    Bonsai ginepro: esposizione
    Appurato che il bonsai ginepro ami molto la rugiada, viene da sé che ci sono piccoli accorgimenti da seguire affinché la sua crescita sia sempre rigogliosa e sana. Ad esempio, uno dei fattori principali legati al suo benessere, riguarda l’ambiente. Questo, infatti, deve essere sempre ben luminoso e ben ventilato.

    Durante la stagione primaverile sul bonsai ginepro nasce la nuova vegetazione e in questo periodo dell’anno sarebbe meglio tenerlo in pieno sole. La giusta quantità di luce consentirà alla pianta dalle forme particolari di cresce forte e rigogliosa, con foglie (dette scaglie) piccole, vegetazione compatta e visivamente uniforme.

    In estate, invece, il bonsai ginepro ha bisogno di una posizione di semi-ombra, anche se volendo, si potrebbe ancora tenerlo esposto al sole, ma facendo attenzione a coprire bene i vasi per evitare che l’apparato radicale si surriscaldi. Rispetto alla chioma, che ama il caldo, le radici lo temono. Nel caso in cui il terreno superi i 40°, si potrebbe andare incontro a un vero e proprio blocco delle funzioni a livello delle radici: la conseguenza? Un marciume radicale assolutamente nocivo per il bonsai.

    Nella stagione dell’autunno il bonsai ginepro richiede le stesse attenzioni della primavera. Anche in questo periodo si consiglia di esporre la pianta in pieno sole. Per quanto riguarda l’inverno, infine, l’esposizione del bonsai può comunque rimanere esterna. Essendo molto resistente anche al gelo, il ginepro può essere lasciato fuori. Tuttavia, è sempre bene avere l’accortezza di proteggere il vaso dalle gelate estreme; le radici potrebbero infatti soffrire molto gli sbalzi di temperatura.

    Come e quanto annaffiare il bonsai ginepro
    L’irrigazione del ginepro bonsai è molto importante. Prima di bagnare il terreno, infatti, bisogna assicurarsi che questo sia effettivamente asciutto. Essendo una pianta sensibile al ristagno, è sempre bene attendere che il terreno si asciughi prima di procedere con una nuova annaffiatura. Oltre a bagnare il terreno (si consiglia sempre l’uso di un annaffiatoio con soffione a fori sottili), è molto importante procurarsi un nebulizzatore ad hoc da utilizzare direttamente sulla chioma del bonsai. Amando molto la rugiada e soprattutto se tenuto in un contesto al chiuso, il bonsai ha bisogno di rimanere umido in superficie.
    Piccolo suggerimento: per facilitare l’irrigazione del bonsai si consiglia di porre un sottovaso con ghiaia all’interno e di mantenere quest’ultima umida.

    Bonsai ginepro: concimazione e difesa dai parassiti
    Durante la stagione vegetativa il bonsai ginepro richiede una concimazione regolare. Se si sceglie un concime organico si consiglia l’utilizzo ogni mese, mentre in caso di fertilizzante liquido si consiglia l’uso settimanale.

    Per quanto riguarda invece la grande sfera dei parassiti e delle malattie, il bonsai ginepro rimane una pianta molto resistente. Con la giusta cura e con le giuste attenzioni c’è caso che questa meravigliosa pianta non soffra mai l’attacco di funghi o parassiti. Tuttavia, può capitare che venga “attaccato” da alcuni nemici, tra cui ragnetto rosso, cocciniglia, afidi, larve mangia aghi e lepidotteri. In questo caso si consiglia sempre l’utilizzo dei giusti prodotti, ma ancora prima si consiglia di comprendere meglio se effettivamente il bonsai sia predisposto a tali parassiti e perché. LEGGI TUTTO