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    Sy Montgomery: “Così le tartarughe ci insegnano a prenderci cura del mondo”

    Le tartarughe sono creature sorprendenti. Ne esistono oltre 350 specie e sono diffuse in tutti i continenti. Sono preistoriche quanto i primi dinosauri, più antiche dei primi coccodrilli e sono in circolazione da oltre 250 milioni di anni. Le loro storie ci rivelano nuove prospettive sul tempo e la guarigione. Hanno personalità distinte e vivono emozioni forti, anche se i loro sentimenti spesso sfuggono agli esseri umani.

    A differenza della maggior parte dei rettili, le tartarughe non ci spaventano: non strisciano, si muovono lentamente e possiamo osservarle mentre portano con grazia la loro casa sulla schiena. A chi volesse imparare a conoscerle, consiglio di non perdersi il saggio Il tempo delle tartarughe, scritto da Sy Montgomery, naturalista statunitense di fama mondiale, in libreria dal 28 marzo. È pubblicato, in Italia, da Aboca edizioni con la traduzione di Teresa Albanese.

    Sy ha trascorso un lungo periodo alla Turtle Rescue League, la “Lega per il soccorso delle tartarughe”, dove vengono curate tartarughe con ferite così gravi che persino i veterinari le darebbero per spacciate. Ha così potuto scoprire tutto sul loro mondo e spiegarci perché queste creature hanno bisogno di aiuto. Come altri animali selvatici, le loro popolazioni si riducono quando la cementificazione invade il loro habitat. Soffrono per l’inquinamento, il cambiamento climatico e le specie invasive. Ed esiste un commercio illegale mostruoso e omicida che tratta la loro carne, le loro uova, i loro gusci e loro stesse come merce. LEGGI TUTTO

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    Pigro come un elefante: le strategie a risparmio energetico per procurarsi cibo

    Gli elefanti sono pigri o meglio furbi: se possono, evitano terreni troppo accidentati e frequentano zone ricche di cibo. D’altra parte però mostrano anche comportamenti, in fatto di dove e come si muovono, meno scontati di quel che si creda. A portarli a galla, mappando i percorsi più battuti dagli animali, è stato il lavoro di un gruppo di ricercatori che ha analizzato i dati raccolti in più di vent’anni dai radiocollari utilizzati su circa 160 elefanti. La sintesi del loro lavoro, pubblicato sulle pagine di Journal of Animal Ecology, mostra che dietro il comportamento degli elefanti c’è di fatto una logica di massimizzare i guadagni con il minimo sforzo, ma non solo.

    Perché però, prima di tutto, è necessario seguire gli elefanti nel loro girovagare, e farlo così a lungo? Il motivo, spiegano i ricercatori, in apertura del loro articolo è presto detto. I cambiamenti climatici, il bracconaggio e la distruzione degli habitat rischiano di modificare anche i luoghi battuti dagli elefanti. Così, studiare che strade prendono e perché le prendono potrebbe aiutare esperti ed istituzioni a proteggerli meglio. Tanto più che, ricordano gli scienziati – un team della University of Oxford, del German Centre for Integrative Biodiversity Research (iDiv), e della University Jena guidati da Emilio Berti – non si tratta di rischi potenziali, tutt’altro: le popolazioni di elefanti africani si stanno da tempo pericolosamente restringendo.

    Per analizzare i percorsi e i siti di interesse visitati dai pachidermi – nel nord del Kenya, studiati con la collaborazione della non profit Save The Elephants – i ricercatori si sono rifatti al concetto dei “paesaggi energetici” (più propriamente energy landscapes). Ovvero hanno analizzato i luoghi più battuti tenendo in considerazione anche il costo energetico per accedervi. Questo ha significato, nella pratica, capire che tipo di relazione c’era tra le traiettorie prese dagli animali e alcuni fattori in grado di pesare sul loro dispendio energetico. Tra questi ultimi figurano per esempio la stazza dell’animale, la distanza percorsa, l’abbondanza di risorse (che misura la convenienza o meno di un determinato percorso, stimata grazie alla raccolta di dati satellitari) e soprattutto le caratteristiche del terreno, come l’inclinazione, spiegano i ricercatori.

    I risultati delle loro analisi hanno mostrato, come anticipato, che gli elefanti cercano di ottimizzare gli sforzi, evitando nella stragrande maggioranza di casi terreni troppo scoscesi, soprattutto se si muovono più velocemente, e preferendo zone ricche di risorse, ma solo se si parla di vegetazione. Nei confronti dell’acqua infatti il comportamento degli elefanti è più variabile: non c’era una preferenza spiccata nei confronti delle aree più ricche. Secondo gli autori la presenza umana potrebbe spiegare in parte questo dato ma allo stesso modo la stagionalità, con l’abbondanza o meno di piogge, non è stata considerata e potrebbe avere un ruolo a loro sfuggito.

    Tutto questo per dire che, di certo, le strategie di movimento degli elefanti sono influenzate anche da altri fattori, ma la convenienza energetica ha un ruolo di primo piano, e dovrebbe essere tenuta in considerazione nello studio di strategie di tutela di questi animali. Senza dimenticare però che, e qui gli autori concludono, l’aumento delle temperature potrebbe cambiare le carte in tavola, facendo diventare magari convenienti percorsi che ora non lo sono. LEGGI TUTTO

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    Venezia a rischio inondazioni estreme entro il 2150

    Uno studio ipotizza scenari critici per l’intera laguna di Venezia e il Mose, attualmente progettato per proteggere la città dalle acque alte. Secondo i ricercatori dell’Istituto nazionale di Geofica e Vulcanologia (Ingv) le dighe mobili poste alle bocche di porto potrebbero non essere più in grado di difendere la laguna dall’Adriatico. Quando? Verso la fine di questo secolo.
    È quando emerso dai dati raccolti durante uno studio multidisciplinare dal titolo “Multi-Temporal Relative Sea Level Rise Scenarios up to 2150 for the Venice Lagoon” condotto da Ingv in collaborazione con Enti italiani e stranieri, pubblicato sulla rivista scientifica Remote Sensing.

    Uno studio basato sulle ultime proiezioni climatiche dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) e i dati geodetici disponibili per stimare l’estensione delle superfici esposte all’allagamento nei prossimi decenni, a causa dell’aumento del livello marino. “Scopo dell’indagine è proprio di fornire informazioni sulla prossima evoluzione dell’innalzamento del livello del mare nella laguna di Venezia per comprendere come possa influenzare una delle città più iconiche al mondo”, spiega Marco Anzidei, primo autore della ricerca condotta con Cristiano Tolomei, entrambi ricercatori Ingv. E i risultati sono stati scioccanti.

    Acqua alta in piazza San Marco  LEGGI TUTTO

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    Il cestino intelligente che differenzia i rifiuti automaticamente

    “Noi siamo una startup atipica: siamo partiti semplicemente da un bisogno. Avevo notato quanto si lamentassero tutti della raccolta differenziata e quanto quest’ultima sia diventata importante per le aziende che redigono il bilancio di sostenibilità. E così abbiamo messo insieme robotica, intelligenza artificiale e un approccio polivalente”, spiega Nicolas Lorenzo Zeoli, fondatore di Ganiga. La soluzione del primo team – appunto Gabriel, Nicola e Gabriele – puntava a rivoluzionare la gestione dei rifiuti creando un nuovo ecosistema tecnologico. Qualcosa che poi ha iniziato a prendere la forma di un cestino intelligente, con supporto alla localizzazione e capace di accogliere ogni tipo di rifiuto, nonché differenziare automaticamente. Insomma, una risposta al problema del conferimento corretto: ad esempio il Tetra Pak va nella carta, nella plastica o nell’indifferenziato? “Sembra banale ma i comuni hanno regole diverse perché tutto dipende dai singoli gestori ambientali. E anche questo è un tema chiave”, aggiunge Zeoli.

    Ufficiosamente la startup è nata a Bientina nel 2021. Una terra tra Lucchesia e Valdarno, dove convivono imprese di ogni settore: dall’alimentare, al pellame e all’energetico. In questi quattro anni c’è stata una rivoluzione nel team e una evoluzione nei progetti. “Ma non ho mai tradito la mia passione per l’invenzione e la robotica. E a metà 2022 ho lasciato il posto fisso in un’azienda che fa robot per il packaging per compiere il salto. Il primo vero prodotto è stato acquistato già da più di cento aziende, fra cui Google, Autogrill e Aeroporto di Bologna. Si chiama Hoooly! Indoor”. LEGGI TUTTO

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    Museo d’Orsay e i 100 capolavori che raccontano il clima

    La Normandia dipinta da Monet, Coubert e Caillebotte, i paesaggi di Delacroix. Pittori che già due secoli fa raccontavano il cambiamento climatico. Avevano colto i segni di quanto la rivoluzione industriale stava trasformando l’ambiente intorno a loro. Parte da questa considerazione l’idea del celebre Musèe d’Orsay di Parigi che da marzo al 15 luglio propone la mostra “100 œuvres qui racontent le climat”. Capolavori che lasceranno uno dei più prestigiosi musei del mondo per questa mostra itinerante in 12 regioni francesi. 31 gli istituti d’arte coinvolti, alcuni dei quali presteranno le loro opere.
    L’origine dalle trasformazioni del XIX secolo
    L’obiettivo è di accompagnare i visitatori in un “racconto del clima” attraverso quadri dipinti tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Le opere selezionate testimoniano, infatti, i rivolgimenti iniziati nel XIX secolo, nel pieno dell’industrializzazione, e raccontano le origini delle sfide climatiche che ci troviamo ad affrontare oggi. Il periodo coperto dalle collezioni esposte va dal 1848 al 1914, segnato dall’ascesa dei trasporti e dalle grandi accelerazioni tecnologiche sostenute dall’uso del carbone, del gas e del petrolio. Proprio sotto la spinta di questi cambiamenti, i paesaggisti francesi della metà del XIX secolo furono i primi a sostenere l’importanza della salvaguardia della natura.

    Come ha spiegato Sylvain Amic, presidente dell’Istituto pubblico del Musée d’Orsay e del Musée de l’Orangerie – Valéry Giscard d’Estaing durante la presentazione al Museo d’Orsay: “Più che una riflessione, questo progetto è un invito all’azione. Intrecciando legami tra arti, scienze e territori, le ‘100 opere che raccontano il clima’ ci incoraggiano a pensare al futuro con lucidità ma anche con speranza, trovando nel patrimonio una fonte di ispirazione e impegno”.

    La truite di Gustave Courbet  LEGGI TUTTO

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    Le case green? Si costruiscono con i container da smaltire

    Secondo la direttiva UE Case Green le nostre abitazioni dovranno consumare sempre meno energia e raggiungere la classe energetica E entro il 2030 con l’obiettivo emissioni zero del patrimonio edilizio europeo entro il 2050. Attualmente gli edifici, infatti, rappresentano circa il 40% del consumo energetico totale dell’UE, producendo il 36% delle emissioni inquinanti. Numeri importanti, per questo motivo il pacchetto normativo Ue punta non solo a migliorare l’efficienza energetica degli edifici esistenti, ma anche a garantire che le nuove costruzioni abbiano un impatto ambientale ridotto. Dai paesi del Nord Europa, da sempre più avanzati nello sviluppo di soluzioni abitative più ecologiche, arriva l’esempio di Keetwonen, in Olanda il più grande complesso di case fatte con container, destinate ad offrire una soluzione economica a circa 1.000 studenti, in una città come quella di Amsterdam, dove i prezzi degli affitti sono piuttosto elevati. In Danimarca, c’è un altro progetto, il CPH Village, mini-appartamenti per studenti anche questi costruiti con container dismessi, con una spesa media del 30% inferiore rispetto a case tradizionali.

    Transizione ecologica

    “Il mio bisnonno produceva sapone, oggi sviluppiamo materiali naturali dal sughero per case green”

    di Dario D’Elia

    19 Marzo 2025

    Le abitazioni costruite con container dunque, stanno diventando una soluzione abitativa sempre più diffusa grazie alla loro economicità, sostenibilità e rapidità di realizzazione. I container, abitualmente usati nel trasporto marittimo, a bordo di navi che trasportano merci in tutto il mondo, infatti, possono diventare spazi personalizzabili, riciclando circa 2 milioni di container che ogni anno vengono dismessi. Un’operazione che se compiuta su grande scala, sarebbe un esempio virtuoso di economia circolare. Ed i vantaggi non sono pochi. Uno dei principali è il basso costo, considerando che una casa in container varia tra 800 e 1.500 euro al metro quadrato, a seconda del livello di finitura e degli impianti installati. Altro punto di forza è la modularità dei container che possono essere assemblati in diverse configurazioni, per creare ambienti più ampi e complessi, adattandosi alle esigenze di chi li abita. La loro resistenza strutturale, progettata per affrontare condizioni atmosferiche estreme, li rende sicuri e durevoli nel tempo. Il fascino di queste abitazioni risiede nella loro versatilità e nel connubio tra innovazione e rispetto per l’ambiente e potrebbero rappresentare una soluzione utile anche in Italia per diverse ragioni: tra cui l’emergenza abitativa, visto che le case in container potrebbero offrire una soluzione rapida ed economica per il social housing, fornendo alloggi temporanei o permanenti per persone in difficoltà o ancora in caso di disastri naturali, come i terremoti, per la rapidità di costruzione.

    Inoltre l’Italia è uno dei Paesi più visitati al mondo e le case in container potrebbero essere utilizzate anche nel settore turistico, come strutture ricettive sostenibili, bungalow o eco-lodge. Ovviamente non mancano le criticità, come l’isolamento termico e acustico, infatti, i container sono costruiti in acciaio, che conduce facilmente sia il calore che il freddo, rendendo indispensabile l’installazione di adeguati sistemi di coibentazione. Se la direttiva europea stabilisce requisiti rigorosi per ridurre il consumo energetico, in questo caso, i container possono rappresentare una valida alternativa, ma solo se progettati secondo i criteri di efficienza, come l’uso di materiali isolanti avanzati e sistemi di energia rinnovabile. Nel nostro paese, c’è un’azienda specializzata in questo processo trasformativo – da container navali ad abitazioni – si chiama Green Living, ed è stata fondata nel 2016 da Vincenzo Russi, bio-architetto molto attivo anche nel promuovere green e sostenibilità delle abitazioni, di cui parlerà anche a Edilsocialnetwork BCAD, la fiera internazionale di Edilizia, Architettura e Design, a La Nuvola di Roma (19-21 settembre).

    Russi a Green&Blue ha spiegato come funziona il processo di trasformazione e quali sono gli aspetti di sostenibilità più importanti di una casa-container. “Acquistiamo container di due dimensioni, 16 e 35 metri quadri, che andrebbero in dismissione dopo aver svolto la loro attività di trasporto merci per 5 anni. Sono fatti di acciaio corten, il più resistente in commercio, praticamente indistruttibili, e ridiamo loro nuova vita connettendoli uno con l’altro, come dei mattoncini Lego, per realizzare case dai 50 ai 500 metri quadri, o altre soluzioni, come una caserma dei Carabinieri che abbiamo realizzato a Ravenna”, evidenzia Russi, che ha scoperto questo sistema di costruzione nel Regno Unito, e ha importato per primo l’idea in Italia, dopo aver studiato il modo di adattare le case-container alla normativa italiana, più restrittiva rispetto ad altri Paesi.

    Ricerca

    Così l’edilizia studia come intrappolare la CO2 nei materiali da costruzione

    di Sara Carmignani

    17 Gennaio 2025

    Tra i motivi che spingono una persona ad una soluzione abitativa così alternativa, in primis ci sono i costi. “Sono inferiori rispetto alle case in legno e costano la metà rispetto alle case tradizionali, si costruiscono rapidamente e sono resistenti anche a livello sismico”, spiega Russi. Ed a proposito di costi, “una villetta di 100 metri costa circa 80mila euro, indipendentemente dal costo del terreno, che varia in base alla location”, senza contare che se costruire una casa tradizionale genera in media 50 tonnellate di CO?, una casa in container può ridurre le emissioni fino al 60%, soprattutto se realizzata con materiali isolanti naturali.

    E dal punto di vista energetico? “Una casa-container ha la stessa coibentazione di una casa in legno, per essere riscaldata usiamo pompe di calore connesse all’impianto fotovoltaico da 8 kw ed alle batteria da 12 kw per l’accumulo energetico, che rendono la casa del tutto autosufficiente – evidenzia ancora Russi – senza contare che l’impiego di cemento si riduce ad appena 20 centimetri usati per il piano terra, su cui sono poggiati i container, per cui siamo totalmente dentro i parametri della direttiva Case Green”. LEGGI TUTTO

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    Non solo uragani, le parole del meteo estremo

    Ormai sappiamo cosa intende per uragano o tifone, mentre è meno noto il significato di “dust devil”. Anche il linguaggio risente degli effetti della crisi climatica e i termini legati alla meteorologia sono sempre più frequenti nell’uso comune e si arricchiscono di definizioni tecniche che rimandano agli eventi estremi. In occasione della Giornata mondiale della meteorologia l’app Babbel propone un glossario per comprendere l’etimologia di alcune parole che sentiamo sempre più spesso. Eccone alcune.

    Ciclone, uragano e tifone
    Un evento atmosferico devastante, contraddistinto da forti e impetuose raffiche di vento e piogge torrenziali, è generalmente categorizzabile con la denominazione ciclone; questo termine affonda le sue radici etimologiche nel greco kùklos, ovvero “cerchio” o “giro”: a livello satellitare, infatti, i cicloni sono distinguibili per le loro dense nubi a forma circolare che si sviluppano intorno ad un “occhio”, il punto centrale più calmo dove i venti si placano. Tuttavia questa perturbazione violenta, esacerbata dall’aumento delle temperature globali, assume nomi diversi a seconda della zona in cui si sviluppa e si abbatte. Ad esempio con uragano, o ciclone tropicale, si fa riferimento alla tempesta che interessa principalmente il Centro e il Nord America; nella zona del centro-America, in particolare, si utilizza il termine proveniente dallo spagnolo di origine caraibica huracán, ovvero il nome del terribile dio indigeno al comando del vento e delle tempeste. Mentre al largo e sulle coste dell’Oceano Pacifico e del Mar Cinese nascono i tifoni, un vocabolo preso in prestito dalla lingua cinese, dove t’ai fung significa “grande vento”, in riferimento alla potenza dei venti che caratterizzano questo fenomeno distruttivo.

    Società

    “Treintrots” e altri neologismi climatici, così la crisi cambia la nostra lingua

    di Pasquale Raicaldo

    17 Gennaio 2025

    Tsunami
    Conosciuto anche come maremoto nella lingua italiana, lo tsunami è uno degli eventi naturali potenzialmente più catastrofici. Questo fenomeno colpisce principalmente le aree soggette a terremoti subacquei i quali, a seconda della loro intensità, possono generare onde anomale, che raggiungono fino a 50 metri di altezza nei casi più estremi. Mentre il termine italiano “maremoto” richiama la caratteristica oscillazione delle onde del mare a seguito di una scossa, in giapponese il termine “tsunami” ha un significato letterale di “onde sul porto”, essendo etimologicamente composto da due kanji, tsu, che significa “porto”, e nami, che può voler dire “maroso” o “grande onda”. La denominazione giapponese di questo fenomeno violento è ormai entrata nel linguaggio comune, soprattutto per la frequenza con cui questi eventi estremi si verificano sulle coste del Giappone, un’area geografica fortemente soggetta a sismi di magnitudo elevata.

    Tornado
    Con il termine “tornado”, o tromba d’aria in italiano, si indica il vortice intenso di nubi e vento alimentato da correnti di aria calda e fredda che nasce da una cella temporalesca. Questo fenomeno si verifica sempre più frequentemente in diverse regioni a causa del surriscaldamento globale che, con l’aumento della temperatura atmosferica, favorisce la formazione di trombe d’aria. La parola “tornado” deriva dal termine spagnolo “tronada”, che significa “tempesta” o “temporale”, a sua volta derivato dal verbo tronar (“tuonare”); successivamente, il termine si è evoluto in “tornado”, con riferimento al moto rotatorio del vento tipico del fenomeno (dal participio del verbo spagnolo “tornar” ovvero “girare”). Una versione informale, utilizzata soprattutto negli Stati Uniti, per descrivere questo evento atmosferico è twister la cui etimologia richiama, anche in questo caso, la forma turbinosa del vortice, dal verbo inglese twist che significa “ruotare”.

    Derecho
    Tra aprile ed agosto uno dei fenomeni estremi più frequenti, soprattutto negli stati del Midwest statunitense, è il “derecho”. Questa tempesta è caratterizzata principalmente da improvvisi rovesci di pioggia e da forti venti, che possono essere paragonabili in potenza e velocità a quelli generati dagli uragani e dai tornado. Per descrivere questo tipo di fenomeno atmosferico violento i meteorologi hanno coniato il termine derecho, che in spagnolo significa “dritto”, per contraddistinguere i venti lineari, tipici di questo evento naturale, che si muovono appunto in linea retta, differenziandosi da quelli invece ruotanti dei tornado. Negli ultimi anni, a causa dell’aumento delle temperature e, soprattutto, dell’umidità, queste tempeste improvvise sono arrivate ad interessare anche le coste italiane provocando numerosi danni.

    Willy willy
    Chiamato anche dust devil, ovvero “diavolo di polvere”, il “willy willy” è un fenomeno molto particolare che interessa le zone desertiche dell’outback australiano. Si tratta di alte colonne di sabbia e polvere che, a differenza dei tornado, nascono e si innalzano direttamente dal suolo e, seppur simili nella forma, risultano decisamente meno distruttive. Come sottolinea Gianluca Pedrotti di Babbel, l’origine etimologica del termine è incerta, ma si ritiene che “willy-willy”, ampiamente usato dagli australiani, derivi dal nome con cui le popolazioni aborigene, in lingua Yindjibarndi e Wemba-wemba, descrivevano degli spiriti maligni che si manifestavano appunto sotto forma di vortici di sabbia. Il fenomeno dei “vortici di polvere” è diffuso in numerosi Paesi ed è noto con nomi differenti, spesso connessi ad un elemento divino, come “diablo de polvo” (“diavolo di polvere”) in Messico e “Djin” o “Jinn”, in riferimento agli spiriti del vento nella mitologia islamica, in Egitto e in Medio Oriente.

    Eruzione vulcanica, capelli di Pele e lahar
    Il termine eruzione, che deriva dal verbo latino erumpere ovvero “erompere”, descrive la natura dirompente ed esplosiva di questo fenomeno. Le eruzioni vulcaniche hanno effetti collaterali importanti sia sull’ambiente che sul clima, essendo ad esempio in grado di influenzare le temperature a causa dell’elevata produzione di anidride carbonica che comportano. Inoltre, portano con sé fenomeni secondari, come la formazione dei cosiddetti capelli di Pele e del lahar, entrambi potenzialmente distruttivi. I “capelli di Pele” sono sottili filamenti di vetro vulcanico, formati dalle fontane di lava durante un’eruzione (che prendono il nome dall’omonima dea hawaiana che governa il fuoco ed i vulcani); sebbene ricordino una morbida chioma dorata, diventano particolarmente pericolosi e abrasivi se trasportati ad alte velocità dal vento. In Indonesia, invece, la lava raffreddata miscelata con acqua e rocce vulcaniche viene chiamata in lingua giavanese “lahar”; la sua consistenza assomiglia a quella densa del cemento fresco e, se smosso, può provocare frane e travolgere le aree circostanti per diversi chilometri, con gravi conseguenze per l’ambiente e le abitazioni.

    Cataclisma
    Negli ultimi anni questo termine ha iniziato sempre di più a far parte del vocabolario comune per descrivere eventi di natura dirompente e distruttiva, che interessano varie zone del mondo e sotto diverse forme. Nei tempi antichi il cataclisma era strettamente legato a catastrofi causate dall’acqua, come indicato dall’etimologia greca kataklysmós, che significa “inondazione”, derivata dal verbo kataklýzein, composto dalle particelle katá ovvero “giù” e klýzein ovvero “lavare, bagnare”. Oggi, con l’intensificarsi in potenza e frequenza di fenomeni estremi come tornado, uragani ed eruzioni vulcaniche, il termine cataclisma ha assunto un significato più generico, che fa riferimento a qualsiasi situazione che arrechi danni estesi a persone e ambiente. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, Alice Pomiato e la sostenibilità: i social per aiutare l’ambiente

    Questa è la storia di due crisi. Una personale, l’altra globale. Una è quella di Alice, 33 anni, green influencer, l’altra quella del Pianeta in cui viviamo. Tutto comincia nel 2015, quando Alice Pomiato, con una laurea in Comunicazione, inizia a lavorare in varie agenzie di pubblicità. Ma il suo disagio cresce sempre di più. […] LEGGI TUTTO