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    Il guano di pinguino aiuta a contrastare la crisi del clima in Antartide

    L’ammoniaca rilasciata dal guano dei pinguini potrebbe contribuire a ridurre gli effetti del cambiamento climatico in Antartide, contribuendo ad aumentare la formazione di nubi. Questo curioso risultato emerge da uno studio, pubblicato sulla rivista Communications Earth & Environment, condotto dagli scienziati dell’Università di Helsinki.

    Il team, guidato da Matthew Boyer e Mikko Sipila, ha analizzato una colonia di pinguini di Adelia, scientificamente noti come Pygoscelis adeliae. Gli ecosistemi antartici, spiegano gli esperti, stanno subendo pressioni significative a causa dei cambiamenti climatici di origine antropica. Tra questi, una recente tendenza alla riduzione dell’area coperta dal ghiaccio marino.

    I pinguini, aggiungono gli autori, sono specie chiave nell’ecosistema antartico, il cui habitat è minacciato da questa continua perdita di ghiaccio. Questi teneri animali sono inoltre anche i principali emettitori di ammoniaca nella regione. Tale sostanza può favorire la formazione di nubi, reagendo con i gas contenenti zolfo e aumentando la creazione di aerosol, particelle che forniscono al vapore acqueo una superficie su cui condensare, portando alla formazione di nubi.

    Crisi climatica

    Copernicus: mai così poco ghiaccio ai poli

    a cura della redazione di Green&Blue

    06 Marzo 2025

    Le nubi risultanti possono agire come strati isolanti nell’atmosfera, contribuendo spesso a ridurre le temperature superficiali e di conseguenza influenzando l’estensione della copertura di ghiaccio marino. Nell’ambito dell’indagine, i ricercatori hanno misurato la concentrazione di ammoniaca nell’aria in un sito vicino alla Base Marambio, in Antartide, tra il 10 gennaio e il 20 marzo 2023.

    I risultati hanno mostrato che quando il vento soffiava dalla direzione di una colonia di pinguini formata da circa 60mila esemplari a circa otto chilometri di distanza, la concentrazione di ammoniaca aumentava fino a 13,5 parti per miliardo, oltre 1.000 volte superiore al valore di base. Anche dopo la migrazione dei pinguini dalla zona verso la fine di febbraio, la concentrazione di ammoniaca era ancora oltre 100 volte superiore al valore di base, dato che il guano dei pinguini continuava a emettere gas. Per confermare che l’aumento della concentrazione di ammoniaca influisse sulla concentrazione di particelle di aerosol, gli autori hanno registrato diverse misurazioni atmosferiche aggiuntive in un unico giorno. Quando il vento soffiava dalla colonia di pinguini, il numero e le dimensioni delle particelle di aerosol registrate nel sito aumentavano drasticamente.

    I risultati, commentano gli esperti, suggeriscono che il guano di pinguino potrebbe contribuire a ridurre gli effetti del cambiamento climatico sugli ecosistemi antartici. Il lavoro, concludono gli scienziati, evidenzia l’importanza e i benefici della protezione degli uccelli marini e dei loro habitat dagli effetti del cambiamento climatico. LEGGI TUTTO

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    SOS orchidee: in Italia 240 specie ma non le proteggiamo abbastanza

    Dalle Alpi agli Appennini l’Italia è uno dei paesi europei più ricchi di orchidee e proprio per la sua elevata biodiversità orchidologica risulta essere un centro unico nel panorama mediterraneo. Nella Penisola se ne contano ben 240 e di queste circa un quarto di esse è costituito da specie endemiche. Oggi, però, le orchidee selvatiche sono sempre più rischio a causa della crisi climatica, delle attività antropiche, delle trasformazioni del paesaggio e dal commercio illegale. Tra quelle più minacciate, si va ad esempio dalla Scarpetta di Venere (Cypripedium calceolus) quasi scomparsa dalle Alpi occidentali al Barbone adriatico (himantoglossum adriaticum) alla splendida e rara Ofride specchio (Ophrys speculum), all’orchidea Orchis patens. Estinta in Sardegna, nel 2025, l’orchidea palustre Dactylorhiza elata subsp. Sesquipedalis, era presente in provincia di Nuoro. Negli anni ’80 se ne contavano una trentina, nel 2010 si è passati a 10 esemplari, a 3 nel 2020, per scomparire del tutto nel 2025.

    (foto: Maria Rosaria Cesarone/Legambiente)  LEGGI TUTTO

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    Decreto CER: le novità sui contributi per le Comunità energetiche rinnovabili

    Contributi PNNR per le Comunità energetiche cumulabili per intero con le detrazioni fiscali, anche per le Comunità che hanno già fatto domanda per ottenere i fondi. Accesso ai contributi non più limitato ai piccoli ma esteso a quelli di medie dimensioni. Possibilità di ottenere un anticipo fino al 30% per realizzare gli impianti, e più tempo per la loro entrata in funzione. Le novità grazie al decreto del Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica firmato il 16 maggio scorso che modifica le norme sulle Cer.

    Più ampia la platea dei beneficiari
    Il decreto Cer prevede l’erogazione di un contributo a fondo perduto per la realizzazione degli impianti fotovoltaici al servizio delle Comunità energetiche. I contributi coprono fino al 40% dei costi sostenuti e sono erogati dal Gse. Fino ad ora la possibilità di accedere al finanziamento a fondo perduto è stata limitata ai piccoli Comuni, ossia alle Cer costituite in quelle fino ai 5.000 abitanti. Con le nuove norme, invece, possono accedere alla misura anche le Comunità energetiche costituite nei Comuni con una popolazione fino ai 50.000 abitanti.

    Anticipo più alto e più tempo per avviare gli impianti
    Con le modifiche introdotte diventa anche più facile anche ottenere i fondi per avviare il progetto. Sale infatti dal 10% al 30% l’ammontare dell’anticipo che potrà essere richiesto al Gse per finanziare la realizzazione del nuovo impianto, e ci sarà più tempo per completarlo. In base alle nuove regole, infatti, gli impianti devono entrare in esercizio entro 24 mesi dalla data di completamento dei lavori e per questo ci sarà tempo fino al il 31 dicembre 2027. Finora invece il termine era fissato al 30 giugno 2026. Resta confermata al momento la data del 30 novembre 2025 per la presentazione delle domande sul sito del Gse.

    Stop retroattivo al taglio delle detrazioni
    Altra novità di rilievo destinata a rendere più vantaggiosa la costituzione della Cer riguarda il cumulo delle agevolazioni. Con il nuovo decreto è stato infatti eliminato il vincolo che prevedeva la riduzione del 50% dell’importo delle detrazioni fiscali per i soggetti, comprese le persone fisiche, beneficiari del contributo a fondo perduto. Questo veniva considerato solo parzialmente cumulabile con la detrazione Irpef del 50% riconosciuta in generale per la realizzazione degli impianti a fonti rinnovabili, che veniva quindi proporzionalmente ridotta in funzione dell’ammontare del contributo incassato. L’eliminazione del divieto parziale di cumulo, per espressa indicazione del decreto, si applica in maniera retroattiva, vale a dire anche alle domande di contributo già presentate. Potranno quindi contare sulle detrazioni senza tagli anche i partecipanti alle Cer che hanno già avviato i lavori. Il decreto, comunque, è stato trasmesso alla Corte dei Conti per i controlli di competenza ed entrerà in vigore il giorno successivo alla pubblicazione sul sito istituzionale del Ministero.

    Più facile costituire una Comunità energetica rinnovabile
    La riforma del decreto Cer si aggiunge alle novità introdotte dal decreto Bollette, destinate a rendere più facile la costituzione delle Comunità energetiche. È stata prevista infatti l’estensione della platea dei soci o membri delle comunità, che ora comprende persone fisiche, PMI, anche partecipate da enti territoriali, associazioni, aziende territoriali per l’edilizia residenziale, istituti pubblici di assistenza e beneficenza, aziende pubbliche per i servizi alle persone, consorzi di bonifica, enti e organismi di ricerca e formazione, enti religiosi, enti del Terzo settore, associazioni di protezione ambientale e le amministrazioni locali. LEGGI TUTTO

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    Gli effetti della desertificazione sul PIL: fino al 10% in meno nelle aree più colpite

    Intere aree del mondo si stanno desertificando. L’ambiente come abbiamo imparato a conoscerlo, negli ultimi anni sta cambiando, in modo rapido e visibile non solo agli occhi degli scienziati. Spesso anche agli occhi di ognuno di noi. Non è solo la Sicilia, una delle regioni più calde d’Europa, ad essere esposta ai cambiamenti climatici con effetti facilmente visibili. Solo un esempio. A giugno dello scorso anno, il fiume italiano per eccellenza, il Po, è tornato ai livelli record di magra del 2022. La desertificazione è ovunque. E minaccia la crescita economica di molti paesi del mondo, oltre che rappresentare una minaccia per l’ambiente.

    Uno studio italiano condotto da Marco Percoco dell’Università Bocconi, insieme a Maurizio Malpede dell’ateneo di Pavia, dal titolo Desertification, crop yield and economic development: a disaggregated analysis, ha svolto un lavoro enorme, analizzando i dati climatici e socioeconomici su scala planetaria, con l’obiettivo di misurare la crescente aridità del suolo ed il suo impatto sull’economia reale. Ovvero, il legame tra PIL pro capite – in oltre 60.000 aree geografiche – e desertificazione.

    “La desertificazione non dobbiamo pensarla come il deserto che avanza, ma è la capacità del terreno di trattenere l’acqua, i nutrienti, per cui di fatto stiamo parlando di una sorta di sterilità dei terreni che diventano meno produttivi per l’agricoltura, soprattutto per quelle colture che hanno bisogno di più acqua” spiega Percoco, professore associato del Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università Bocconi. D’altronde, solo per citare un esempio numerico, i raccolti di grano in Spagna sono crollati del 60% rispetto alla media, mentre in Marocco intere aree rurali sono state abbandonate per la mancanza d’acqua. Da paesi lontani dai nostri orizzonti, come la Mongolia fino alla nostra Sicilia, la terra continua a produrre fratture del suolo. Possiamo vedere le cicatrici di quello che sta accadendo, anno dopo anno.

    “Nelle scienze sociali si studia il cambiamento climatico soprattutto in termini di fenomeni estremi, maremoti, alluvioni, che ci danno la dimensione catastrofica del cambiamento climatico. Molto spesso però ci perdiamo quel cambiamento climatico che avviene tutti i giorni, un fenomeno inesorabile che ci porterà verso l’aumento di 2°C entro 2040. Ma la desertificazione è diversa rispetto alla siccità, non necessariamente i due fenomeni sono correlati. L’Italia è molto più esposta alla desertificazione che non a fenomeni estremi, come la siccità, benché in Sicilia sia evidente, seppur meno grave rispetto a quella che si registra nell’Africa subsahariana o nell’Asia centrale”, aggiunge Percoro.

    La progressiva desertificazione avrà un impatto negativo certo sulla produttività agricola meridionale, e a livello di reddito, il Sud potrebbe allontanarsi ancora di più dal PIL del Nord Italia. “Stiamo vedendo su scala micro, in Italia, un fenomeno che è presente a livello globale. Il cambiamento climatico ha un impatto maggiore sull’economia più povera rispetto a quelle più ricche, anche perché quelle più ricche sono in una zona climatica diversa, quindi si avvantaggiano di produttività più alta e capacità di risposta migliore e clima più mite”.

    Lo studio dei due italiani si basa su un dataset disaggregato a livello mondiale, che ha raccolto oltre 1,6 milioni di osservazioni nel periodo 1990–2015. Incrociando dati climatici, come precipitazioni, temperature e livelli di evapotranspirazione, con indicatori economici e agricoli, Percoco e Malpede hanno sviluppato l’Aridity Index, l’indice di aridità, una misura composita della desertificazione. “Il nostro programma di ricerca è durato diversi anni, grazie al finanziamento della Fondazione Invernizzi, con cui abbiamo messo insieme una banca dati molto grande e dettagliata su scala globale a livello di cella, con variabili di dettaglio fino a 1 km per 1 km, cioè dei piccoli quadrati di aree del mondo” sottolinea Percoco, “dopodiché abbiamo studiato i dati con tecniche econometriche, che ci hanno consentito di mettere in relazione delle variabili, tra cui il PIL pro capite piuttosto che la produttività dell’agricoltura in quella cella specifica”. Il legame tra desertificazione ed economia passa dunque, in larga parte attraverso l’agricoltura. In Africa, ad esempio, un aumento della produttività agricola di un solo punto percentuale si associa a un incremento medio dello 0,07% del PIL locale. È stato verificato che il calo della resa agricola è uno dei principali canali attraverso cui l’aridità danneggia la crescita. Ma questo fenomeno non riguarda più solo le economie fragili.

    “Abbiamo riscontrato effetti rilevanti anche in alcune regioni europee, come la Spagna e la Grecia, oltre al nostro Meridione, che mostrano segnali crescenti di desertificazione”, sottolinea Percoco. Ma non è ancora tutto. Lo studio prevede che l’indice di aridità medio globale continuerà a scendere fino al 2040 e che il numero di celle terrestri classificate come aride o iperaride aumenterà del 16%, toccando 21.000 aree su scala globale. Gli impatti più forti in Arica occidentale, nel Sud-est asiatico, in particolare Vietnam, Cambogia ed India centrale, America centrale e settentrionale, ed anche l’area mediterranea europea, di cui l’Italia fa parte. Nell’Africa sub-sahariana si stima che il reddito pro capite possa diminuire fino al 10%, senza adeguate politiche di migrazione.

    Infatti, oltre il fattore economico, lo studio per la prima volta al mondo ha evidenziato il collegamento tra desertificazione e migrazioni locali, non solo sulle lunghe distanze. “Sono soprattutto gli uomini che emigrano dalle campagne verso le città meno interessate della desertificazione. E questo potrebbe avere un effetto ancora più avverso sul cambiamento climatico, perché se la popolazione si riversa dalle campagne verso le città non è detto che le emissioni di CO? si riducano”.

    È opinione di una certa corrente scientifica che densificare la popolazione nelle città, produca maggiore efficienza energetica, quindi riduca l’impatto delle persone, ma “non ne siamo convinti, perché quando ci si sposta in ambienti urbani cambiano le abitudini di consumo, e quindi in realtà consumando molto di più rispetto a quando si è nelle campagne emettiamo molto di più in termini di carbonio e quindi incidiamo molto di più sul cambiamento climatico”, sostiene il docente della Bocconi. Ci troviamo davanti ad un paradosso: il cambiamento climatico provoca la desertificazione, quindi la migrazione dalle campagne alle città, che non fa che aumentare ancora il cambiamento climatico.

    Ma aridità significa anche meno acqua per uso domestico e industriale, maggiore insicurezza alimentare, ed un impatto possibile anche su altri settori che sono legati all’agricoltura. “La contrazione del PIL non è dovuta solo alla minore produzione agricola, ma ai salari che vengono pagati ai lavoratori della terra che consumeranno meno, con effetti intersettoriali su tutta l’economia” conclude Percoco, che auspica un cambio di paradigma, in cui misurare e mitigare l’impatto della desertificazione deve diventare una priorità per la politica economica e climatica. LEGGI TUTTO

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    Riscaldamento globale e agricoltura intensiva: un cocktail letale per le api

    Le api sono insetti fondamentali per la biodiversità, la sicurezza alimentare umana e la salute dell’ambiente. E purtroppo, non se la passano troppo bene: quasi il 10% delle specie di api europee, ad esempio, è considerato oggi a rischio di estinzione, e di un altro 50% non ci sono dati sufficienti per un verdetto. I principali responsabili di questo declino sono il riscaldamento globale e l’agricoltura intensiva, che distrugge l’ambiente delle specie selvatiche e ne mette a rischio la sopravvivenza con pesticidi e monocolture. I pericoli, come detto, sono ben noti. Quello che non si sapeva, invece, è che gli effetti dei cambiamenti climatici e della perdita di habitat sono cumulativi, e possono quindi diventare un binomio ancora più letale per questi impollinatori indispensabili. A dimostrarlo è uno studio dei ricercatori della Julius-Maximilians-Universität di Würzburg, pubblicati di recente sui Proceedings of the Royal Society B.

    Biodiversità

    Il giallo della moria delle api, negli Usa a rischio agricoltura e miele

    03 Aprile 2025

    La ricerca è stata realizzata in Germania, e ha coinvolto 179 siti sul territorio bavarese, rappresentativi di tutti i principali biomi abitati dalle api: foreste, prati, terreni agricoli e aree urbane. Utilizzando delle trappole, gli autori dello studio hanno monitorato l’andamento delle popolazioni di insetti in risposta ai cambiamenti di temperatura, verificando le differenze presenti nei diversi habitat e a diversi livelli della catena alimentare.

    Biodiversità

    Lavori green, l’apicoltore: “Nelle arnie il segreto del cibo sano”

    15 Marzo 2025

    Le api sono risultate tra gli insetti più colpiti dagli aumenti delle temperature e dal cambiamento del loro habitat: nelle foreste, infatti, le giornate più calde non hanno sortito effetti negativi – anzi, sembrerebbero aumentare il numero di esemplari presenti – mentre nelle aree urbane e nelle zone agricole le popolazioni di questi insetti sono diminuite anche del 65% in risposta all’aumento delle temperature. Gli effetti maggiori, però, sono risultati quelli legati all’aumento delle temperature notturne: tutti gli insetti infatti ne hanno risentito negativamente, e in tutti gli ambienti studiati.

    “Il fatto che le temperature notturne abbiano un simile impatto su questi insetti diurni è significativo – sottolinea a proposito Cristina Ganuza, biologa della Julius-Maximilians-Universität che ha partecipato alla ricerca – perché le temperature medie stanno aumentando più velocemente di notte rispetto a quanto avviene con le medie diurne”.

    Biodiversità

    Troppe api per poco nettare: la lotta per sopravvivere tra quelle selvatiche e da miele

    21 Marzo 2025

    A detta dei ricercatori, i risultati sottolineano la necessità di preservare e ripristinare gli ambienti naturali anche all’interno delle aree urbane e dei territori agricoli, perché in questo modo le medie giornaliere più alte possono addirittura risultare benefiche per le popolazioni di api selvatiche (almeno in un paese con un clima come quello della Germania, dove i picchi di calore diurno rimangono ancora relativamente contenuti). Riguardo ai danni provocati dagli aumenti di temperatura nelle ore notturne, invece, serviranno ulteriori ricerche.

    Biodiversità

    Lavori green, l’apicoltore: “Nelle arnie il segreto del cibo sano”

    15 Marzo 2025

    “Questo effetto negativo che hanno le notti più calde sugli insetti era sconosciuto in precedenza – conclude Ingolf Steffan-Dewenter, professore della Julius-Maximilians-Universität che ha coordinato la ricerca – e rivela un nuovo pericolo, che necessiterà ora di ulteriori ricerche che identifichino i meccanismi fisiologici da cui è causato”. LEGGI TUTTO

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    Il “super legno” più resistente dell’acciaio

    Dalla ricerca universitaria al primo impianto industriale. Un legno modificato in laboratorio – grazie ad un processo di trasformazione molecolare – promette di sfidare l’acciaio in resistenza, sostenibilità e stile. Si chiama SuperWood ed è il risultato di anni di lavoro del professor Liangbing Hu dell’Università del Maryland.

    Tutto ha inizio da una ricerca scientifica pubblicata sulla rivista Nature nel 2018. Liangbing Hu, scienziato dei materiali dell’Università del Maryland, inventa un metodo per trasformare il legno tradizionale in un materiale più resistente dell’acciaio. Allora il professor Hu non aveva la possibilità di portare i risultati della sua ricerca a livello industriale, così ha impegnato gli anni successivi a perfezionarne la tecnologia, riducendo – tra l’altro – il tempo necessario per produrre il materiale da una settimana a poche ore. Dando vita ad un legno trattato capace di sopportare carichi e sollecitazioni con una robustezza mai vista prima.

    Quando il materiale si è reso pronto per la produzione, a quel punto, il professore Hu ha deciso di concedere la licenza della sua invenzione a una startup con sede a Frederick, sempre nel Maryland, InventWood, che ha annunciato la fase di commercializzazione dei primi lotti del prodotto a partire dall’ estate 2025.

    L’obiettivo a lungo termine dell’azienda è estendere l’impiego del materiale innovativo alle componenti portanti degli immobili, come travi e pilastri. Una strategia che punta a sostituire cemento e acciaio, responsabili di oltre il 90% delle emissioni di carbonio generate nella fase di costruzione degli edifici. LEGGI TUTTO

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    La strategia per il clima di Henkel: obiettivo 90% di emissioni di gas serra in meno entro il 2045

    Detersivi e adesivi, prodotti come minimo problematici per la sostenibilità ambientale: questo il core business di Henkel, società tedesca nata a fine del XIX secolo e che ha oggi presentato, presso la Fondazione Tog, che sostiene bambini e famiglie che vivono gravi patologie neurologiche, il suo Rapporto Sviluppo Sostenibile 2024.

    Ecco i numeri principali: ridotte del 64% le emissioni di CO2 Prendendo come riferimento il 2017; ridotti del 23% i consumi di acqua e del 39% i rifiuti per tonnellata di prodotti (numeri, questi comparati con il 2010).
    È cresciuto del 47% l’acquisto di energia da fonti rinnovabili, segno di una transizione energetica sempre più marcata.
    Il nuovo obiettivo della strategia climatica di Henkel esplicitato oggi nella roadmap Net-Zero, è la riduzione del 90% delle emissioni di gas serra (Ghg) assolute Scope 1, 2 e 3. etro il 2045 rispetto al 2021. Entro 5 anni prevede però di ridurre del 42% le emissioni Scope 1 e 2 (quelle direttamente controllabili da Henkel) e del 30% delle emissioni Scope 3.

    Lato economia circolare, ha dichiarato Mara Panajia, Presidente e Amministratore Delegato di Henkel Italia “abbiamo raggiunto l’89% di packaging riciclabile ed è cresciuta al 25% la quota media di plastica riciclata negli imballaggi destinati ai consumatori finali, con alcuni prodotti che sono già al 100%.

    Venendo alle esperienze concrete, Luca Pinelli, responsabile Salute, Sicurezza e Ambiente per i siti italiani Henkel Adhesive Technologies, ha raccontato quelle negli stabilimenti di Casarile e Zingonia. Il primo è stato tra gli apripista del progetto NOWA per ridurre o recuperare i rifiuti e gli scarti dei processi produttivi, progetto che verrà gradualmente esteso a tutti gli stabilimenti europei di Henkel Adhesive Technologies. A Casarile (Mi), nel 2024 i rifiuti complessivi sono stati ridotti del 16% e la quota di scarti inviati a riciclo o riuso è stata pari all’88% (il restante 12% è stato avviato ai termovalorizzatori, il che singnifica 0% di rifiuti in discarica). L’obiettivo per il 2025 è l’ulteriore riduzione del 10% dei rifiuti.

    A Zingonia (Bg), invece, si è lavorato soprattutto sull’acqua: “una materia prima della produzione – il 90% dei volumi è rappresentato da adesivi base acqua – usata per diversi processi, tra cui la pulizia dei reattori e degli ambienti in cui si svolgono le produzioni per il settore alimentare, il raffreddamento degli impianti ecc”. Il sito è riuscito a ridurre del 30% i consumi idrici negli ultimi 3 anni, soprattutto grazie alla standardizzazione dei processi – rivedendo i passaggi di lavaggio ed eliminando quelli non necessari – e all’ottimizzazione della produzione: “è stato creato un modello che incrocia le informazioni sui cicli di produzione dei 13 mixer con i lavaggi richiesti al termine di ciascuna lavorazione. Questo ha permesso di pianificare meglio il lavoro e mettere in sequenza le produzioni compatibili che possono essere eseguite in continuità, senza lavare i mixer” ha concluso Pinelli.

    Eleonora Parisella, coordinatrice Salute, Sicurezza e Ambiente presso il sito di Ferentino (Fr), ha sottolineato i risultati di riduzione delle emissioni di CO2 ottenuti grazie a un trigeneratore a biomassa, biogas e pannelli solari, operativo già dal 2007, la cui elettricità prodotta “copre il 90% del fabbisogno del sito. A marzo dello scorso anno, per recuperare l’energia termica proveniente dai processi chimici del reparto di solfonazione ed evitare la dispersione in atmosfera, è stato installato uno scambiatore di calore che genera 400 kg/h di vapore ad alta pressione. Questo ha permesso, solo nel 2024, di emettere 152 ton di CO2 in meno e ridurre le emissioni delle caldaie del 7%”.

    Ma è soprattutto nel campo della depurazione delle acqua reflue che si sono ottenuti risultati di rilievo. “Nei primi mesi del 2024 a Ferentino è entrato in funzione il nuovo depuratore chimico-fisico per le acque di scarto della produzione. Attualmente gestisce circa 50 metri cubi al giorno di residuo del trattamento osmotico dell’acqua e quasi 15 metri cubi al giorno di acque reflue. Il sistema ha una potenzialità di 100 metri cubi per il ritenuto dell’osmosi e di 30 metri cubi per le acque di recupero, e prevede due fasi che impiegano specifici agenti chimici e poi delle filtropresse meccaniche per depurare le acque, separando alcune sostanze sotto forma di fanghi che vengono inviati a una società esterna per lo smaltimento.

    La scorsa estate è stato rinnovato anche il depuratore biologico che tratta ogni giorno più di 150 metri cubi di acqua. Grazie a tecnologie di ultima generazione, il ciclo di depurazione prevede oggi anche l’attivazione di fanghi batterici attivi e un bioreattore a membrana che consentono di ottenere un’acqua trasparente, perfettamente rispondente ai requisiti di legge” ha concluso Parisella. LEGGI TUTTO

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    L’energia geotermica: cos’è e come funziona

    È una delle fonti di energia più importanti per il nostro futuro, specialmente se si guarda la situazione attuale del mondo, tra cambiamento climatico e necessaria corsa all’uso di energie rinnovabili. Questa forma di energia offre una promessa di sostenibilità e continuità, ma come ogni risorsa, porta con sé vantaggi e sfide da considerare attentamente.

    Che cos’è l’energia geotermica
    Nel cuore della Terra c’è una risorsa energetica che l’umanità ha iniziato a sfruttare con crescente interesse: l’energia geotermica. Si tratta di un tipo di energia pulita, rinnovabile e alternativa, che sfrutta il naturale calore della Terra. Questo calore può essere utilizzato sia come fonte di produzione di energia elettrica, sia come fonte di calore diretto, secondo il processo della cogenerazione. Esistono diversi tipo di sorgenti di energia geotermica e la differenza principale risiede nella profondità in cui le rocce scaldano l’acqua e dalla temperatura che si viene a creare.

    Tipologie di energia geotermica
    Esistono due categorie principali di energia geotermica: quella classica e quella a bassa Entalpia. La prima, sfrutta le anomalie geologiche o vulcanologiche e produce energia elettrica e il riscaldamento delle acque termale. La seconda, invece, sfrutta il sottosuolo come serbatoio termico dal quale è possibile estrarre calore durante la stagione invernale per poi “restituirlo” durante la stagione estiva. Il suo utilizzo principale riguarda impianti geotermici domestici o industriali.

    Come funziona l’energia geotermica
    Il funzionamento delle centrali geotermoelettriche è analogo a quello delle centrali termoelettriche a vapore, con la differenza che il vapore non è prodotto da caldaie ma proviene direttamente dai vapori geotermici contenuti nel sottosuolo. Non esiste dunque, in questo tipo di centrali, alcun processo di combustione. Esistono diverse tipologie di impianti geotermici, adattate alle specifiche caratteristiche del sito e alle esigenze energetiche locali. Le pompe di calore geotermiche, ad esempio, sfruttano il calore del sottosuolo per il riscaldamento e il raffrescamento degli edifici, offrendo un’efficienza energetica elevata e una riduzione significativa delle emissioni di gas serra.

    L’energia geotermica in Italia e in Europa
    L’Italia continua a mantenere un ruolo di primo piano nel settore della geotermia, una fonte rinnovabile che affonda le sue radici nel nostro Paese fin dai primi del Novecento. A livello globale, l’Italia è stata pioniera nello sfruttamento dell’energia proveniente dal sottosuolo e ancora oggi conserva una posizione di rilievo, grazie soprattutto alla Toscana, dove si concentra la maggior parte degli impianti. Le principali centrali geotermiche italiane si trovano nelle province di Siena, Pisa e Grosseto, con 35 siti attivi distribuiti tra Larderello, Travale, Radicondoli e il Monte Amiata. Questo sistema garantisce una produzione costante di energia elettrica, destinata poi alla rete nazionale. A livello europeo, la geotermia è presente anche in Germania, Austria, Francia e Portogallo, mentre fuori dai confini dell’UE è la Turchia a distinguersi per un forte sviluppo nel settore. A livello mondiale, i protagonisti assoluti sono l’Indonesia e diversi Paesi africani, che stanno investendo sempre più risorse nella produzione di energia geotermica. Da segnalare anche le Filippine, dove il 27% dell’energia elettrica nazionale proviene esclusivamente da questa fonte rinnovabile.

    Pro e contro dell’energia geotermica
    L’energia geotermica offre una serie di vantaggi significativi. Innanzitutto, è una fonte energetica rinnovabile e sostenibile nel medio-lungo termine se sfruttata in modo razionale con una corretta pianificazione dell’iniezione di fluido esausto. Inoltre, le centrali geotermiche non richiedono combustibili fossili, riducendo le emissioni di gas serra e contribuendo alla lotta contro il cambiamento climatico. Un ulteriore vantaggio è la continuità della produzione energetica, indipendente dalle condizioni meteorologiche, il che consente una fornitura stabile di energia importante e assolutamente positiva. Più sinteticamente, i vantaggi dello sfruttamento dell’energia geotermica sono:

    Sfrutta energia rinnovabile;
    Non inquina e non ha impatto sull’ambiente;
    Non ha bisogno di manutenzione;
    La sua durata è considerevole;
    Consente un risparmio dei costi del sostentamento energetico di un edificio fino all’80%.

    Tuttavia, non mancano alcuni aspetti critici da considerare; non veri e propri svantaggi, ma considerazioni da non dovere dimenticare se si pensa alla scelta di questa tipologia di energia. Il primo aspetto critico riguarda sostanzialmente le centrali geotermiche più che gli impianti in sé per sé. Si parla infatti di impatto paesaggistico, poiché le strutture sono invadenti, occupano molto spazio e sono progettate secondo canoni di funzionalità e non secondo canoni prettamente estetici. Un altro svantaggio da considerare potrebbe essere l’odore sgradevole che si diffonde nell’aria. Questo è dovuto alle emissioni di idrogeno solforato. In linea di massima, però, bisogna ammettere che non si tratta di aspetti così gravi e irrisolvibili, bensì di lati che possono trovare miglioramento. I sistemi e le tecnologie attuali, infatti, sono ancora piuttosto giovani; quindi, il margine per fare meglio in ogni campo c’è ed è notevole.

    Sull’aspetto economico, infine, si dovrebbe compiere un discorso più preciso. Abbiamo visto che uno dei vantaggi dell’energia geotermica sta proprio nel risparmio dei costi del sostentamento energetico, ma bisogna comunque tenere a mente che i costi iniziali di sviluppo per l’installazione degli impianti sono abbastanza elevati. Questo perché l’installazione stessa richiede la perforazione di pozzi profondi, ma soprattutto richiede competenze tecniche specializzate, che ovviamente hanno un costo. LEGGI TUTTO