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    Coppette o tamponi? Ecco le soluzioni più green per il ciclo mestruale

    Nell’antico Egitto si usava il papiro ammorbidito, a Roma e in Grecia si utilizzavano lana o stoffa, in Giappone si adoperava la carta. Nei piccoli villaggi venivano fabbricati rudimentali tamponi di garza avvolta intorno a legno, spugne o muschio, mentre nelle campagne si privilegiavano le pelli di pecora, da far bollire dopo l’uso. Oggi, in fatto di prodotti per il ciclo mestruale, c’è l’imbarazzo della scelta. Sarebbe, però, importante selezionarli tenendo conto anche della loro sostenibilità. Ecco allora una mini-guida alle varie soluzioni, con un occhio per quelle più green.

    Le coppette mestruali
    Non c’è dubbio che l’opzione migliore dal punto di vista ambientale siano le coppette mestruali, piccoli strumenti a forma di campana, di solito in silicone, che, una volta inseriti in vagina, raccolgono il sangue senza assorbirlo. A spiegarne i vantaggi è Pippa Notten, ingegnere chimico, consulente per la sostenibilità delle Nazioni Unite: “Questi dispositivi costano pochi dollari e non necessitano di essere svuotati di frequente (bastano due volte al giorno). È, inoltre, sufficiente usarli per due cicli per ammortizzare l’energia e le risorse impiegate per produrli, ma, se trattati correttamente, durano fino a dieci anni. Infine, non richiedono agenti sbiancanti né additivi chimici nella produzione e non si accumulano nelle discariche”.

    Sostenibilità

    Eco mestruazioni, come ridurre l’impatto ambientale di ‘quei giorni’

    di Giulia Mattioli

    28 Maggio 2021

    Assorbenti riutilizzabili
    In alcune condizioni, come il vaginismo o un flusso molto abbondante, le coppette possono, però, non essere adatte. Un’alternativa sono gli assorbenti riutilizzabili, porzioni di tessuto da fissare alla biancheria intima e da cambiare più volte al giorno. Attenzione, però, al lavaggio. Lavare il prodotto in modo scorretto, usando acqua calda, può, infatti, azzerare i benefici per l’ambiente. Affinché ciò non accada, gli esperti suggeriscono di risciacquare l’assorbente in acqua fredda subito dopo l’uso e di lavarlo poi a freddo. Così il risparmio di energia è garantito.

    Biancheria intima mestruale
    La maggior parte delle analisi indica che questo tipo di biancheria ha un profilo di sostenibilità molto simile a quello degli assorbenti riutilizzabili. Il problema è che, per ottenere tempi di assorbenza più prolungati, fino a 12 ore, molti produttori di mutandine utilizzano tessuti sintetici super assorbenti, spesso poliestere e nylon, materiali a base di plastica ricavati dal petrolio.

    Nel 2020 alcuni test trovarono nella biancheria per il ciclo del marchio Thinx, commercializzata come “biologica” e “naturale”, tracce di Pfas (Perfluorinated alkylated substances, sostanze alchiliche perfluorurate e polifluorurate), che hanno effetti negativi sulla salute. Una faccenda che si è conclusa alla fine del 2022 con un accordo tra l’azienda e i consumatori, riuniti in una class action.

    A oggi gli scienziati non hanno ancora stabilito se i Pfas possano essere effettivamente assorbiti attraverso le mucose che rivestono la vagina e in quale misura, ma certo è che questi inquinanti non dovrebbero essere presenti.

    I prodotti monouso e la “spesa sfusa”
    Inventati alla fine dell’Ottocento dall’azienda Johnson&Johnson, i prodotti usa-e-getta sono senza dubbio molto comodi da utilizzare. Purtroppo non sono, però, altrettanto vantaggiosi dal punto di vista della sostenibilità. Anzitutto perché, non essendo riutilizzabili, sono destinati a finire in discarica. Poi perché la loro produzione risulta estremamente inquinante. Susan Powers, docente di ingegneria ambientale alla Clarkson University di Potsdam, a New York, ha confrontato assorbenti e tamponi monouso per cercare di individuare quale categoria fosse più sostenibile. “Considerando una serie di fattori, tra cui l’impiego di acqua, il consumo di suolo, l’inquinamento chimico, il contributo al cambiamento climatico, i tamponi ottengono punteggi migliori in alcune categorie, mentre gli assorbenti sono in vantaggio in altre”, afferma Powers. L’unico modo per mitigare l’impatto ambientale di un tampone monouso è optare per la versione sfusa, cioè senza applicatore, alla quale aggiungere poi un applicatore riutilizzabile. LEGGI TUTTO

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    La transizione energetica e le nuove professioni: l’energy manager

    Su un punto sono tutti d’accordo: la rivoluzione energetica, non si porta avanti senza nuove figure professionali. Non c’è dubbio, infatti che la transizione energetica stia cambiando profondamente anche il mondo del lavoro creando nuovi ruoli, nuovi metodi di formazione, nuove competenze. E non si tratta di un settore secondario. Secondo i numeri riportati dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) nel 2023 il settore energetico impiega infatti quasi 67 milioni di persone, con i lavoratori impiegati nell’energia pulita (35 milioni) che superano quelli del settore dei combustibili fossili (32 milioni). Non solo. Nei prossimi anni è prevista la creazione di altri 14 milioni di nuovi posti di lavoro legati all’energia pulita dove poter ricollocare coloro che escono dai settori energetici in crisi.

    L’energy manager: figura obbligatoria
    Ma ancora oggi, con un mercato che rende altalenanti i prezzi a causa dei conflitti e la mancanza di cooperazione, le aziende pubbliche e private hanno davvero capito la necessità di creare nuove competenze e figure professionali? Per rispondere a questa domanda nei giorni scorsi a Roma c’è stato un confronto tra i rappresentanti dei grandi gruppi industriali di produzione, consulenza e consumo di energia con esperti del settore, docenti universitari soprattutto. Un incontro organizzato dal Consorzio universitario Humanitas e l’università San Raffaele (con la partecipazione di Acciaierie d’Italia, Acciaierie Venete ed Essenergy) che con l’occasione hanno presentato il master di II livello in Energy Manager, considerata proprio questa una delle figure professionali più ricercate nel nostro Paese sia nelle aziende pubbliche che private. Entrambi i settori obbligati per legge da aprile 2024 ad assumere un energy manager.

    Fisco verde

    Energia rinnovabile, al via gli incentivi per i Gruppi di autoconsumo

    di  Antonella Donati

    14 Gennaio 2025

    Zanchini: “La crisi energetica ci ha colto in ritardo”
    Eppure, ascoltando gli interventi del convegno ci sono ancora troppe amministrazioni pubbliche e grandi industrie private (il settore che registra più consumi con il 45%) a non aver nominato un energy manager. Un dato rilevate perché vanno ricordati gli obiettivi nazionali e europei sempre più stringenti: entro il mese di ottobre di quest’anno il nostro Paese dovrà recepire la direttive Ue che prevede per tutte le amministrazioni l’obbligo del 3% annuo di riqualificazione energetica di tutto il patrimonio pubblico, insieme ad un obiettivo i riduzione dei consumi dell’1,9. Una sfida.

    I target di sostenibilità? Il successo dipende dalle città

    di  Luigi dell’Olio

    04 Dicembre 2024

    Edoardo Zanchini, direttore dell’Ufficio clima di Roma Capitale (la città ha approvato la prima Strategia di Adattamento Climatico) ha raccontato, senza mezzi termini, il ritardo con cui le amministrazioni hanno compreso l’entità della crisi energetica, soprattutto quella legata al conflitto Russia-Ucraina negli anni 2022-2023. “L’aumento dei prezzi dell’energia ha fatto letteralmente saltare i bilanci, perché non eravamo preparati a ridurre sia i costi che i consumi – ha spiegato Zanchini – anche noi a Roma scontiamo questo ritardo e ora stiamo correndo verso la riqualificazione energetica della città. Questo significa ridurre non solo i costi, ma anche l’inquinamento. Abbiamo bisogno di analisi continue dei dati, di stilare strategie, abbiamo bisogno di figure professionali che supportino il lavoro degli amministratori per farci capire dove possiamo intervenire e in che modo”. Dal pubblico al privato il caro energia, il passaggio alle rinnovabili e il monitoraggio delle emissioni sono temi comuni.

    Il caso delle acciaierie: la sfida delle rinnovabili

    Un’immagine all’interno delle Acciaierie d’Italia  LEGGI TUTTO

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    I delicati fiori della bergenia: i consigli

    Nota per la sua bellezza e la notevole resistenza, la bergenia prospera anche in condizioni climatiche avverse. Questa pianta erbacea perenne rizomatosa e sempreverde presenta grandi foglie carnose, i cui colori cambiano durante l’autunno assumendo una sfumatura rossastra, e nuvole di fiori, declinate in tonalità differenti come rosa, bianco e rosso. La bergenia è piuttosto semplice da coltivare e non richiede cure particolari, rappresentando un’ottima soluzione per chi è alle prime armi con il giardinaggio.

    Bergenia e l’esposizione: cosa sapere
    Appartenente alla famiglia delle Saxifragaceae, la bergenia è originaria dell’Asia centrale e meridionale e si presenta in diverse specie, tra le quali le principali sono la cordifolia, la crassifolia e la ciliata. Si tratta di una pianta rustica che cresce praticamente ovunque, adattandosi a molteplici terreni e resistendo a climi molto rigidi, anche quando le temperature scendono sotto lo zero. Il suo periodo di fioritura coincide con la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, ma se esposta al sole può iniziarla anche in modo precoce: apprezzata per le sue fioriture colorate e per la sua robustezza, è usata per decorare giardini, bordure e terrazzi, potendo essere coltivata sia in piena terra che in vaso.

    Questa pianta ornamentale tappezzante può essere esposta sia al sole, ma anche in mezz’ombra. In inverno sopporta fino a -20 gradi, ma se le temperature sottozero persistono per lungo tempo è bene proteggerla, ricorrendo a del tessuto non tessuto. Resistente anche alle estati torride, durante questa stagione è opportuno, però, premurarsi di farle ombra, soprattutto nelle ore più calde della giornata, in modo tale da evitare che le sue foglie brucino. Quando si superano i 35 gradi non dovrebbe essere esposta al sole.

    Versatile e compatta, la bergenia è capace di crescere in diversi tipi di terreno, sia in quelli argillosi che ghiaiosi, prediligendo però un substrato umido, ben drenato, sabbioso, fertile e ricco di sostanze organiche. Un aspetto da non sottovalutare sono i ristagni d’acqua, da evitare sempre in quanto responsabili del marciume radicale della pianta.

    Coltivazione in giardino e in vaso della bergenia
    La moltiplicazione della bergenia può avvenire tramite talea, divisione dei cespi e semina. Il metodo più diffuso è la divisione dei cespi che richiede di dividere in più parti le radici della pianta madre (facendo in modo che ognuna abbia almeno un germoglio oppure una gemma). Questa operazione va eseguita tra la primavera e l’autunno: in seguito alla divisione si piantano i nuovi cespi in un terreno drenato e a una distanza di 30-40 centimetri.

    La semina, invece, richiede più pazienza, dovendo coltivare le piantine in vaso, interrando i semi in un terreno umido a una profondità di un centimetro: successivamente si possono spostare le piantine in giardino.

    Se la bergenia viene coltivata in vaso, è bene prediligere un contenitore in plastica oppure in terracotta di dimensioni tali da farla crescere stretta, in quanto altrimenti tende a produrre esclusivamente le foglie. Il rinvaso è necessario solo nel momento in cui le radici escono all’esterno oppure quando le sue dimensioni sono diventate molto grandi.

    Bergenia e irrigazione: ogni quanto annaffiare la pianta
    La bergenia richiede una bassa manutenzione: per farla risplendere è necessario, infatti, compiere semplici azioni. Un aspetto molto importante da tenere in considerazione è l’irrigazione, operazione fondamentale per una sua crescita ottimale, dovendo darle da bere con costanza soprattutto durante la primavera e l’estate. Nel periodo estivo la pianta va irrigata settimanalmente, facendo in modo che il substrato non sia mai secco, ma sempre umido: dall’altra parte, però, è cruciale evitare quantità di acqua eccessive che potrebbero portare al marciume radicale e all’insorgere di malattie e parassiti. In autunno e inverno se la pianta è coltivata in vaso sul terrazzo deve essere irrigata una volta al mese, mentre qualora si trovi in giardino si accontenta dell’acqua piovana, dovendo annaffiarla molto raramente.

    Manutenzione della bergenia: dal concime agli insetti
    La bergenia non richiede di essere potata, dovendo limitarsi a rimuovere le foglie e i fiori secchi, eliminandoli alla base con delle forbicine specifiche, disinfettandole sempre prima di eseguire l’operazione. Con questo stesso strumento si tolgono le parti lignificate che possono presentarsi nell’apparato radicale. Inoltre, è necessario eliminare anche le foglie morte, in modo tale da scongiurare malattie fungine che possono insorgere se marciscono, e passati circa 3 anni dalla sua messa a dimora, si dovrà probabilmente intervenire per contenerne le dimensioni, visto che tende a espandersi soprattutto se esposta al sole.

    Per quanto riguarda la concimazione, per rendere la fioritura ancora più rigogliosa si può ricorrere a del fertilizzante, optando per un concime a lento rilascio per piante a fiore, da usare durante il riposo vegetativo. Nel corso della primavera e dell’estate la pianta va concimata ogni 2 settimane.

    Parassiti e malattie della pianta
    Nella cura della bergenia bisogna tenere conto di alcune problematiche che possono presentarsi. Tra queste l’insorgere di parassiti, come chiocciole, lumache e punteruolo rosso, molto pericoloso per la pianta, dovendo intervenire prontamente con prodotti specifici.

    Altre criticità sono rappresentate dal marciume radicale, dettato dai ristagni idrici, dovendo evitare irrigazioni troppo abbondanti, e dagli attacchi fungini, determinati da un’umidità eccessiva. La pianta può essere colpita anche dalle macchie, causate da funghi come alternaria e botrytis, che comportano una crescita debole e la decolorazione delle foglie: queste, se infettate in modo grave, possono ingiallire e cadere precocemente, inficiando lo stato generale della pianta, dovendo intervenire rimuovendole e migliorando la circolazione dell’aria per ridurre l’umidità. In alternativa, si può ricorrere a degli spray fungicidi specifici contenenti rame e zolfo. LEGGI TUTTO

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    Lo spettacolo del viburnum tinus, siepe colorata amata dagli animali

    Arbusto sempreverde appartenente alla famiglia delle Caprifoliaceae tipico del sud-est Europa, Il Viburnum tinus (Viburno tino) è spesso selezionato per riempire e rendere più riservato il giardino di casa, ma non solo. La sua natura è rustica e la sua tolleranza nei confronti del freddo piuttosto alta, raggiungendo addirittura i -10° senza problemi.
    Viburnum tinus, pianta da siepe: usi comuni
    Comunemente chiamato anche lentaggine, o laurotino, il Viburnum tinus è molto apprezzato per la sua coltivazione semplice, per il suo adattamento climatico, per i suoi boccioli rosa-rosso che fioriscono in splendidi fiorellini rosa e bianchi e per le sue bacche tonde sfumate di blu, amate molto da uccelli e altri animali selvatici. Una pianta meravigliosa alla vista, capace di arricchire più spazi della casa, tra cui siepi alte, siepi basse e bordure e siepi in vaso.
    Il Viburno tino, dunque, è perfetto sia per realizzare siepi molto alte (anche 3 metri), ottime per proteggere lo spazio e renderlo più privato, sia per siepi più basse e/o bordure, perfette per abbellire vialetti o delimitare esteticamente certi perimetri. Infine, questa pianta sempreverde elegante può essere anche coltivata in vaso senza problemi. In questo caso, l’attenzione maggiore si rivolgerà alle dimensioni del vaso: 90 cm di lunghezza in cui potere inserire due piante di Viburnum a circa 40 cm l’una dall’altra.
    Viburnum tinus: cura della pianta
    Prendersi cura del Viburnum tinus non è poi così complesso. Tale pianta, infatti, essendo molto rustica e vantando uno “spirito di adattamento” molto sviluppato, richiede davvero poche attenzioni. Intanto, il Viburnum preferisce un terreno ben idratato ricco di sostanze organiche e con un pH o neutro, o lievemente acido. Riesce ad adattarsi senza problemi anche a terreni più poveri e calcarei e resiste anche alle temperature invernali, ma se non si vuole indebolirlo, in caso di freddi molto rigidi, si consiglia una protezione maggiore, magari utilizzando teli o coperture specifiche.
    Quando piantare il Viburnum tinus
    In realtà il Viburnum può essere piantato in ogni periodo dell’anno, anche se le sue stagioni preferite sono o l’Autunno, o la Primavera. Prima di procedere con l’impianto, assicurarsi sempre che il buco sia delle dimensioni giuste per accogliere la pianta e che le radici di quest’ultima siano bene irrigate prima di procedere. Una volta piantato, il Viburnum avrà bisogno di qualche giorno per stabilirsi; in questo frangente di tempo si consiglia un’irrigazione più frequente, per dare modo al terreno di scendere e di modellarsi e alla pianta di adattarsi perfettamente, attecchendo.
    Irrigazione: quando bagnare il Viburnum tinus
    Per quanto riguarda l’annaffiatura (o irrigazione), il Viburnum tinus richiede una giusta quantità di acqua, da tenere controllata e da aumentare specialmente durante i lunghi periodi di siccità. Come la maggior parte delle piante, anche questa sempreverde non ama i ristagni d’acqua, motivo per il quale è sempre bene non esagerare: un’irrigazione eccessiva, infatti, potrebbe provocare la proliferazione di funghi, nemici della pianta.
    Concimazione e potatura del Viburnum tinus
    Poiché il periodo vegetativo di questa robusta pianta va da marzo a settembre, si consiglia sempre di arricchirne il terreno con un concime ad hoc. L’ideale sarebbe quello specifico per piante verdi, da dare ogni 15-20 giorni circa.
    Sulla potatura, invece, pochi e pratici consigli: il Viburnum tinus potrebbe anche non essere potato, ma per un risultato estetico ottimale, se ne consiglia la potatura o alla fine della stagione dell’Inverno, o all’inizio della Primavera. Per farlo basterà togliere tutti i rami secchi e/o malandati, prestando attenzione ad accorciare quelli eccessivamente lunghi. Viene da sé che seguendo questi semplici passi il Viburnum crescerà meglio e molto più rigoglioso, dando vita molto presto a nuovi germogli, prontissimi a sbocciare in tutta la loro bellezza.

    Viburnum tinus: esposizione
    Il Viburnum tinus è facile da coltivare cresce senza particolari problemi in tutta Italia, fattore che la porta a essere utilizzata anche a mero scopo decorativo. Per quello che riguarda l’esposizione del Viburnum tinus, l’ideale sarebbe posizionarlo in un punto o di pieno sole, o di semi-ombra. In realtà la sua adattabilità fa sì che cresca in piena salute anche in zone d’ombra. L’unica differenza? Una crescita minore e meno rigogliosa (ma più colorata) rispetto all’esposizione solare. La luce, infatti, gioca sempre un ruolo cruciale per la crescita delle piante e dei suoi fiori (i boccioli arrivano nel mese di novembre, ma i fiori sbocciano a febbraio e restano fino a marzo-aprile).

    Quanto cresce il Viburnum tinus
    Scelto sì per la sua resistenza, per i suoi fiori e per le sue particolarissime bacche, il Viburnum tinus è anche scelto per la sua robustezza. Questa pianta, infatti, ha la capacità di raggiungere anche i 3-4 metri di altezza, mentre la sua estensione in larghezza può raggiungere tranquillamente i 2 metri. I rami crescono fitti, ma lo fanno in tempi piuttosto lunghi, dunque la potatura, proprio come affermato in precedenza, non deve essere frequente, anzi.
    Viburnum tinus: i trattamenti più comuni
    Il Viburnus tinus è molto resistente anche alle malattie, ma può essere intaccata, e dunque indebolita, da alcuni funghi. I più comuni sono l’oidio e la ruggine e in caso di infestazione la soluzione migliore è sempre quella di utilizzare un prodotto specifico per eliminarli. Alla lentaggine non piacciono molto neanche afidi, parassiti e cocciniglie (temute da ogni pianta), ma per tenerli a bada si può sempre ricorrere a un insetticida. LEGGI TUTTO

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    Crisi climatica, una primavera senza broccoli nel Regno Unito. E in Italia le arance più piccole

    L’ultimo allarme arriva dal Regno Unito, dove si annuncia una primavera senza broccoli, cavolfiori e altre Brassicaceae. L’indice è puntato ancora una volta sul cambiamento climatico: troppo miti le temperature dell’autunno e dell’inverno, con i raccolti che hanno germogliato in anticipo. E la denuncia del Guardian racconta anche la difficoltà di integrare il mercato con i raccolti del continente, dove le inondazioni hanno impedito a molte imprese agricole di piantare in tempo utile per il raccolto primaverile. Ma il punto, sottolinea il Met Office, il servizio meteorologico nazionale del Regno Unito, del Department for Business, Energy and Industrial Strategy, è che casi del genere saranno sempre più frequenti a causa della “chiara tendenza all’innalzamento della temperatura media invernale nel Regno Unito, effetto diretto del cambiamento climatico indotto dall’uomo”.

    Inverni meno rigidi, precipitazioni estreme sempre più frequenti: l’agricoltura deve fare i conti con la schizofrenia del clima. Non può che fare spallucce l’agronoma Hannah Croft, che lavora con l’azienda Riverford: “Abbiamo registrato perdite nei raccolti dei cavolfiori del Regno Unito a causa delle piogge significative dell’autunno, mentre le temperature miti hanno portato i cavolfiori invernali in anticipo”. Si dice sorpreso della maturazione precoce dei cavolfiori Guy Barter, orticoltore della Royal Horticultural Society: la raccolta è stata anticipata addirittura di sei mesi nel suo appezzamento di terreno del Surrey. “Le avevamo piantate nel periodo consueto, – spiega – ma sono cresciute molto durante i mesi umidi di luglio e settembre e nel corso di un autunno particolarmente mite”.
    Se si rimpiccioliscono le arance di Sicilia
    L’imprevedibilità dei tempi di raccolta di ortaggi e frutta è una circostanza con la quale bisogna fare i conti a tutte le latitudini. “Le piogge eccessive hanno causato problemi nella raccolta del radicchio nel Trevigiano, mentre la siccità in Sicilia si è tradotta per esempio nella raccolta di arance di piccolo calibro, molto meno apprezzate, a torto, dai consumatori, e c’è una riduzione consistente nella produzione dei carciofi – rileva Lorenzo Bazzana, responsabile economico Coldiretti – E molte sono le incognite legate alla prossima primavera, quando negli anni scorsi le improvvise gelate e grandinate, con sbalzi termini importanti, hanno causato danni alle piante appena uscite dal riposo vegetativo.

    Sostenibilità

    Gli eventi meteorologici estremi impoveriscono i terreni agricoli e senza fosforo aumentano i prezzi

    di  Anna Lisa Bonfranceschi

    25 Novembre 2024

    Due prodotti su tutti hanno registrato un calo notevole negli ultimi anni: le pere e i kiwi. Il punto – annota Bazzana – è che il cambiamento climatico sta esasperando le variabili che, da sempre, influiscono sulla produzione agricola, che non è una fabbrica di bulloni al chiuso ma un sistema in dialogo costante con il clima. E se sulle specie arboree si ha meno possibilità di manovra, è sulle erbacee che siamo chiamati a studiare il modo più efficace per limitare, attraverso lo studio dei tempi di semina e trapianto, l’effetto del fenomeno”.

    Già, ma come? “Le serre possono aiutare solo in parte, perché il condizionamento artificiale di temperatura e luminosità ha costi alti e perché soprattutto al Sud le estati così calde costringono a una chiusura stagionale di molte strutture. – risponde Bazzana – Più concreto lavorare su tecniche colturali – tenere le radici più sollevate aiuta a prevenire le asfissie radicali legate alle bombe d’acqua – e sulla selezione genetica, che premi le varietà più resilienti e in grado di rispondere alla variabilità del clima. Penso ai peschi meridionali, che mostrano un minore fabbisogno di freddo invernale rispetto alle varietà settentrionali”.
    Il futuro è nella genetica?
    Claudio Cantini si occupa di ricerca all’Istituto per la Bioeconomia del Cnr. “Sono anni complicati per l’agricoltura dice – soprattutto perché registriamo andamenti climatici profondamente differenti rispetto agli storici, e molte imprese raccolgono ora, proprio a causa delle temperature troppo miti dell’autunno, quello che pensavano di raccogliere a dicembre. Questo si traduce in scaffali vuoti al supermercato, in una qualità più scadente di alcuni prodotti – dai pomodori Pachino alle arance siciliane – o in importazioni che fanno lievitare i prezzi di ortaggi, verdure e frutta che siamo abituati a mangiare e utilizzare, e che rischiano gradualmente di diventare prodotti per pochi privilegiati. Quelle del settore agricolo sono, oggi, difficoltà cui si cerca di ovviare con processi variegati: vi si risponde con uno spostamento di alcune colture – come nel caso della vite, che si innalza di quota – o attraverso lo studio di varietà più resistenti. Lo si fa in due modi. Anzitutto, selezionandole tra quelle esistenti, privilegiando magari varietà che in passato erano state scartate per motivi oggi meno significativi. Poi, c’è la genetica: si può intervenire, con tempi certamente più lunghi e maggiori investimenti, manipolando il Dna degli organismi, dopo aver selezionato i geni che favoriscono una certa resistenza alla variabilità climatica: il futuro passa di qui. Con il mio gruppo di ricerca ci stiamo occupando, tra l’altro, di olivi: ne abbiamo studiate oltre 800 varietà, solo 20 non hanno mostrato una sofferenza evidenza allo stress da siccità. Bisogna comprendere cosa abbiano di diverso, nel loro DNA”. LEGGI TUTTO

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    Energia rinnovabile, al via gli incentivi per i Gruppi di autoconsumo

    E’ iniziato il conto alla rovescia per la richiesta degli incentivi per i Gruppi di autoconsumo. Chi sta pensando di attivarsi in questo senso per abbandonare il gas una volta per tutte, senza però avere un eccessivo aggravio per i costi energetici, dovrà mettere a punto il progetto in fretta. Il termine per la presentazione della domanda al GSE, infatti, scade il prossimo 31 marzo, e per beneficiare degli incentivi gli impianti dovranno essere in attività al più tardi entro il 30 giugno 2026.

    Come creare un Gruppo
    Per costituire un Gruppo di autoconsumo è sufficiente avere due utenze distinte nello stesso immobile. Non è necessario che ci sia un condominio ma solo che le utenze facciano capo a soggetti diversi. Gli impianti fotovoltaci possono essere installati sull’edificio, presso altri siti nella disponibilità di uno o più clienti finali del Gruppo, oppure si può utilizzare l’impianto di un produttore esterno. Il Gruppo può essere costituito anche a fronte del potenziamento di un impianto già esistente, ed è anche possibile installare sistemi di accumulo. L’incentivo, infatti, non è rapportato all’energia prodotta ma a quella condivisa e consumata da parte di chi si associa alla configurazione. Dal punto di vista burocratico è sufficiente un accordo sotto forma di scrittura privata e la nomina di un referente che dovrà occuparsi di presentare la pratica al GSE. Se si tratta di condominio si può demandare tutta la procedura all’amministratore. Per l’installazione dei pannelli, quando si si tratta di prima casa, è possibile avere anche la detrazione fiscale del 50% in dieci anni, che è cumulabile con gli incentivi.

    Quanto vale l’incentivo
    Una volta entrato in funzione l’impianto il GSE pagherà una tariffa incentivante per ogni MWh prodotto e condiviso: un importo che varia in funzione della grandezza dell’impianto, e vai dai 60 euro per gli impianti più grandi agli 80 euro per quelli più piccoli, ossia fino ai 200kw. È prevista inoltre una maggiorazione di 4 euro nelle regioni del centro (Lazio, Marche, Toscana, Umbria, Abruzzo) e di 10 euro nelle regioni del nord (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta e Veneto). La tariffa incentivante verrà riconosciuta per 20 anni. All’importo va aggiunto l’ulteriore corrispettivo ARERA di valorizzazione per l’energia autoconsumata, il cui importo viene definito annualmente.

    Come verificare costi e benefici
    Per verificare l’effettiva convenienza alla creazione del Gruppo di autoconsumo il GSE ha messo a disposizione un simulatore che consente la pianificazione degli interventi e l’analisi della loro convenienza economica sulla base delle caratteristiche dell’impianto, facendo riferimento a soluzioni che il GSE ha già incentivato. Le indicazioni che si possono avere, dunque, sono reali e non generiche. E’ sufficiente individuare l’indirizzo dell’edificio o del sito dove realizzare l’impianto o uno degli impianti e inserire i dati di consumo e la superficie degli immobili dei clienti finali che intendono associarsi. Inoltre il GSE fornisce tutta la documentazione necessaria per guidare i richiedenti nella compilazione della domanda.

    I Gruppi nei Comuni più piccoli
    Per chi decide di creare un Gruppo in un comune con meno di 5.000 abitanti c’è la possibilità di richiedere anche il contributo a fondo perduto del PNRR che è pari al 40% dei costi di installazione. Gli incentivi sono cumulabili con il contributo, ma non è possibile in questo caso usufruire della detrazione fiscale. Anche per il bonus PNRR si dovrà presentare la domanda entro al 31 marzo prossimo. LEGGI TUTTO

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    La vespa orientalis fa strage di api: persi 40mila alveari fra Lazio, Molise e Campania

    Da circa cinque anni le segnalazioni fioccano senza sosta. Nel 2020 a Grosseto, poi a Genova e Trieste, ancora a Lucca e in Sardegna e, nell’estate del 2022, perfino nella zone urbane della Capitale. La vespa orientalis, che nonostante il nome è una specie autoctona e ben nota nel Mediterraneo, anno dopo anno continua a risalire la Penisola, ad espandere la sua presenza e a mettere in ginocchio le api e il sistema miele – soprattutto nelle città – con rischi talvolta anche per l’incolumità degli esseri umani. Queste vespe dall’aspetto rossiccio, lunghe tra i 3 e i 5 centimetri, grazie alla crisi del clima innescata dall’uomo con le sue emissioni, in un’Italia sempre più calda stanno infatti trovando terreno fertile per riprodursi ed espandersi. Crescono per numero, ma anche per aggressività e competizione con altri alveari, distruggendo per esempio quelli di molte api mellifere. Le ultime stime parlano di circa 35-40mila alveari distrutti in Lazio, Campania e Molise dalla vespa orientalis, talvolta chiamata calabrone orientale.

    Come altri imenotteri la vespa orientalis produce un veleno: a seconda della sensibilità delle persone le punture possono determinare reazioni anafilattiche molto pesanti, anche se non è questo aspetto a spaventare particolarmente. Più che altro, è l’impatto che questa vespa potrebbe avere su un comparto – quello del miele e dei 20mila apicoltori italiani – già estremamente in difficoltà tra surriscaldamento globale, perdita di biodiversità e api in costante calo. La orientalis è una specie termofila: vive e si riproduce soprattutto a temperature elevate. Da sempre è presente soprattutto a sud, dalla Sicilia alla Calabria, ma in un contesto climatico che cambia – e soprattutto in una Europa che va a doppia velocità per aumento di temperature legate alla crisi climatica – questa vespa sta pian piano risalendo la Penisola da sud a nord.

    A Roma, dove è stata segnalata per la prima volta soltanto pochi anni fa, ci sono già stati casi emblematici dell’impatto di questo insetto. Nella casa di un 99enne a Labaro nello scorso ottobre è stato individuato un nido da record, con un numero impressionante composto da migliaia o “forse milioni” di esemplari ricordano gli esperti intervenuti. Poi c’è stata la notizia “straordinariamente grave”, parole del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, con cui il titolare del ministero ha annunciato che api allevate con il progetto “Api in città” sul tetto del ministero erano state uccise proprio dalla presenza della vespa orientalis. Da allora le segnalazioni di presenza della vespa orientalis, da quelle rinvenute all’interno di abitazioni sino agli appelli da parte di apicoltori che hanno perso interi alveari per via del calabrone, si sono moltiplicate.

    Si tratta di “una nuova calamità, di fronte alla quale siamo disarmati, non essendo oggi disponibili strumenti e tecniche di contrasto alle aggressioni” ha spiegato Riccardo Terriaca, segretario generale di Miele in Cooperativa, associazione nazionale che raggruppa diverse associazioni di apicoltori delle regioni oggi più colpite dalla vespa, come appunto Lazio, Campania e Molise. Oggi a causa della vespa orientalis che si intromette sempre di più all’interno degli alveari indebolendoli, vengono uccise grandi quantità di api e la produzione di miele diventa dunque più complessa e costosa. Per Terriaca è quindi “indispensabile che il mondo della ricerca impegni risorse umane e finanziarie per studiare il problema con un approccio pragmatico, per darci delle risposte. Sono a rischio decine di migliaia di alveari e la sostenibilità di centinaia di aziende apistiche”. In più, come ricorda il segretario, e come sta già accadendo per esempio proprio a Roma, grazie alle nuove temperature e anche alla perdita di habitat il calabrone orientale si sta diffondendo soprattutto nelle aree urbane, un aspetto che può creare problemi anche per la salute dellle persone se punte.

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    Cocciniglia: come eliminarla con rimedi naturali e difendere le piante dai parassiti

    21 Luglio 2023

    Da non confondere con altre due specie di calabroni presenti in Italia, quella più comune (Vespa crabro) e quella aliena e invasiva (la Vespa velutina, anche detta calabrone asiatico), la vespa orientalis secondo l’Istituto di Zooprofilattico sperimentale delle Venezie è un predatore che può essere pericoloso anche per la diffusione di patogeni. Avendo gli adulti delle vespe bisogno di nutrirsi di carboidrati e sostanze zuccherine, così come le larve necessitano di proteine, attaccano le api alla ricerca di cibo: ma il suo impatto negativo sulle api “non si limiterebbe soltanto ai gravi danni diretti provocati dal suo comportamento predatorio, ma anche alla capacità di fungere da potenziale vettore, meccanico o biologico, di agenti patogeni di Apis mellifera, favorendone la diffusione nelle colonie” scrivono dall’IZSV in uno studio.

    Tutte queste informazioni vanno però inquadrate in un contesto ben specifico: quello delle città. Come ricordava in un lungo post sui social il naturalista Nicola Bressi, le vespe orientalis non sono infatti particolarmente pericolose per l’uomo (nel senso che sono poco aggressive), e in parte che per gli allevamenti biologici di api nelle campagne, ma sono invece estremamente impattanti proprio nei centri urbani. Nelle città, dai nostri scarti e rifiuti sino alle crocchette di cani e gatti abbandonate (di cui sono ghiotte), grazie al mix composto da fonti di cibo e temperature elevate, queste vespe trovano le condizioni ideali per riprodursi in grande quantità (soprattutto nei mesi caldi), prosperare e attaccare gli alveari urbani. LEGGI TUTTO

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    Multe salate per chi non smaltisce i vestiti usati nei cassonetti gialli

    Da quest’anno dobbiamo imparare una nuova abitudine, quando gettiamo i rifiuti. Quella maglietta bucata o le scarpe vecchie che intendiamo buttare via, non possono più essere gettate nell’indifferenziata. Dal 1° gennaio 2025, infatti, è entrata in vigore in tutta Europa, una nuova normativa nata per combattere l’inquinamento crescente derivato dai rifiuti tessili, complice anche il dilagante fast fashion, che ci porta a consumare più velocemente i vestiti che indossiamo. E’ un cambiamento non da poco, che obbliga i comuni italiani a predisporre una raccolta specifica non solo per carta, vetro e plastica, ma anche per i rifiuti tessili che diventano un nuova categoria da smaltire separatamente in un cassonetto apposito.

    In realtà, il nostro Paese, già dal 2022 (con il Decreto Legislativo n. 116/2020) ha introdotto la raccolta differenziata per i rifiuti tessili in anticipo di tre anni sui tempi di Bruxelles, che con la normativa europea ha acceso un faro permanente sulla situazione; secondo le stime più recenti, la produzione tessile contribuisce dal 2% al 10% delle emissioni globali di CO2, e provoca il 20% dell’inquinamento delle acque dolci, oltre a una forbice del 16-35% dell’inquinamento oceanico dove finiscono le microplastiche. Basti pensare che ogni abitante europeo, getta in media 11 kg di prodotti tessili, ed il totale dei 27 Stati membri produce 12,6 milioni di tonnellate di rifiuti tessili all’anno: di cui 5,2 solo tra abbigliamento e calzature. Secondo uno studio dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, solo il 12% della produzione europea di materiali tessili viene dal circuito dei sistemi di raccolta, mentre il resto finisce nei rifiuti indifferenziati. La norma, dunque, intende sensibilizzare i cittadini europei ad una pratica circolare dei rifiuti, multando fino a 2.500 euro, chi non rispetta tali disposizioni.

    L’Italia al centro della transizione ecologica e della green economy globale

    28 Ottobre 2024

    D’altronde la raccolta differenziata dei tessili permette il recupero di materiali ancora validi, che possono essere avviati un processo virtuoso di riciclo delle fibre tessili, dando loro una seconda vita, andando a ridurre la produzione di altri materiali, che non farebbero altro che alimentare quel circolo vizioso: consumo energetico, rifiuti, inquinamento. Infatti i rifiuti tessili che andremo a depositare nei giusti contenitori, se in buono stato possono essere riutilizzati direttamente, mentre quelli danneggiati sono sottoposti al riciclo da cui si ricavano nuove fibre o materiali. E non è ancora tutto. L’Unione Europea, introducendo questo nuovo obbligo, ha istituito anche la cosiddetta “responsabilità estesa del produttore” che obbliga chi realizza determinati prodotti tessili, a farsi carico anche di riutilizzo, riciclaggio e recupero. Ma se vi state chiedendo dove poter gettare gli abiti usati per fare al meglio la differenziata e non incorrere nella multa, la domanda è più che lecita. La destinazione idonea è quella dei cassonetti gialli, dove possono essere inseriti capi di abbigliamento e accessori, tra cui biancheria intima, scarpe e borse, ma anche stoffe, tende e persino tappeti.

    Prendiamo come esempio quello di Roma: andando sul sito della municipalizzata AMA, gli utenti possono accedere ad una mappa online dove visualizzare la disposizione dei cassonetti gialli, che ammontano a 1.500 per tutta la città e che nei prossimi mesi saranno aumenti del 20% per raggiungere l’obiettivo di avere un cassonetto ogni 800 abitanti, contro l’attuale 1 per 1877 romani, aumentando la quantità di tessili raccolti fino a 5,5 kg per ciascun cittadino, quando la media europea è di 4,4 kg/abitante. LEGGI TUTTO