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    Meteo estremo, inquinamento e import: il miele italiano è ancora in crisi

    Caduta dei prezzi all’ingrosso, andamento produttivo altalenante, e, non bastasse, a peggiorare la situazione, gli effetti del cambiamento climatico. La crisi di miele e apicoltura italiana è tutta qui, tratteggiata in un rapporto pubblicato nei giorni scorsi dal Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura, che ha il gruppo di studio più importante in Europa su api e impollinatori. Una squadra di venti persone, di stanza a Bologna. A stemperare il quadro, e ad aggiungere complessità, un dato in controtendenza: le cifre mostrano che, nonostante tutto, negli ultimi anni aziende produttrici e numero di alveari sono aumentati.

    Le analisi del Crea si basano su dati della Banca Dati Apistica, il principale riferimento per il settore in Italia. Istituita nel 2009 – ed entrata in funzione nel 2016 -, raccoglie tutte le informazioni quantitative e qualitative relative agli allevamenti. Pensata per scopi fitosanitari, si è trasformata col tempo in uno strumento prezioso anche per il monitoraggio dei parametri economici della filiera. “Vengono registrati razze, varietà, spostamenti, modalità di allevamento tradizionale o biologica, per fornire un quadro attendibile di quanto cresce l’apicoltura in Italia”, dice Milena Verrascina del centro di politiche e bioeconomia del Crea, curatrice del rapporto, “favorendo, cosi, la predisposizione e l’attuazione di politiche di sostegno effettivamente tarate sulle esigenze specifiche dell’apicoltura”.

    “Siamo tra i primi Paesi al mondo ad aver creato una banca dati nazionale” prosegue Verrascina. Uno strumento erga omnes: “Tutti, anche gli apicoltori non professionisti, quelli con poche arnie e che producono per autoconsumo, devono necessariamente registrare i loro apiari”.

    Viaggio a Terra Madre, in cerca di una nuova “bio-logica” per salvare la nostra agricoltura

    di  Giacomo Talignani

    30 Settembre 2024

    Dal 2010 al 2020 (il periodo considerato dai dati) il numero di alveari in Italia è aumentato del 57%, cifre che collocano l’Italia al sesto posto in Europa. Gli alveari nella Penisola superano di poco il milione, con la concentrazione maggiore che si registra in Piemonte (ben 171.224). Seguono Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana, Sicilia e Calabria. L’80% è gestito da apicoltori professionali.

    Gli aumenti più significativi per quanto riguarda gli alveari, hanno interessato soprattutto Marche (+179%), Puglia (+167%) e Calabria (+143%). Invece, la crescita del numero di aziende dedite all’apicoltura ha interessato in particolare l’Umbria, dove sono passate da 146 nel 2010 a 976 dieci anni dopo (+568%), la provincia autonoma di Trento (+393%), la Puglia (+363%), il Veneto (+362%) ed il Lazio (+343%).

    Se l’interesse per il settore aumenta, la produzione, però, è altalenante. “Il principale fattore che nell’ultimo decennio ha influenzato negativamente i livelli produttivi rispetto alle effettive potenzialità è indubbiamente il cambiamento climatico” sottolinea Verrascina. “Gelate tardive ed estati torride decimano gli alveari, perché le api non sopportano temperature elevate, anche in alta montagna: in queste condizioni muoiono, costringendo gli agricoltori ad acquistare nuovi alveari”. Altro problema è costituito dalle piogge: “Gli insetti non escono per le precipitazioni continue, e quindi non producono” riprende la ricercatrice.

    Biodiversità

    Ape nana rossa, scoperta in Europa la prima colonia della specie invasiva

    di Tiziana Moriconi

    30 Agosto 2024

    La conferma arriva dal professor Stephen Buchmann, associato del Dipartimento di Ecologia e Biologia evoluzionistica dell’università di Tucson, in Arizona (Stati Uniti), e autore del recente volume La personalità dell’ape (Edizioni Ambiente). Buchmann ha passato la vita a studiare gli insetti, approfondendone anche gli aspetti, per così dire, psicologici.

    “Il cambiamento climatico sta avendo impatti significativi sulle popolazioni di api a livello mondiale” rileva. “Aumento delle temperature, siccità e inondazioni sono i fattori principali che influenzano la sopravvivenza e il comportamento degli sciami”. Come quelle in Emilia-Romagna nel 2023, che ha spazzato via migliaia di alveari, aumentando i costi per le aziende e costringendole a imbastire una nutrizione di soccorso imprevista. Non va meglio, spiega Buchmann, quando il termometro sale. “Temperature più calde possono sconvolgere il naturale ciclo di vita delle api” prosegue l’accademico statunitense. “Esistono studi che hanno mostrato come lo stress indotto dal climate change sta riducendo la longevità di questi insetti, che nel giro di cinquant’anni si sarebbe addirittura dimezzata”. Non solo. Le temperature in aumento “hanno accresciuto la necessità di acqua per le api, aggravando ulteriormente lo stress sulle colonie, specialmente nelle aree che sperimentano siccità”.

    Non bastasse, “cambiamento climatico e inquinamento stanno compromettendo la capacità delle api di riconoscere le fragranze floreali, rendendo più difficile per loro individuare le fonti di cibo”. Le conseguenze non sono solo economiche: il ruolo delle api nella conservazione della biodiversità è noto, e – sottolinea il docente – insostituibile.

    I fattori di mercato
    “Poi ci sono i fattori di mercato”, riprende Verrascina. “La contrazione dei consumi negli ultimi anni post-covid è stata drammatica. Ma un colpo duro arriva anche dalla continua e costante importazione di mieli provenienti da Europa orientale e Asia, spesso adulterati, di pessima qualità, preparati con sciroppi di zucchero, e che non hanno certo le proprietà qualitative del miele italiano”.

    Il settore, spiega l’esperta, vive quello che può essere definito un vero e proprio caso di coscienza: “Il prezzo all’ingrosso è crollato anche per la comparsa sugli scaffali di altri mieli, provenienti da strane triangolazioni con Paesi come l’Ucraina. È chiaro che in questo momento stiamo assistendo alla necessità di incentivare gli scambi commerciali per fornire supporto a un Paese in guerra”, sottolinea. “Ma nondimeno, si tratta di una concorrenza che gli apicoltori italiani subiscono; abbiamo certamente il dovere di fornire il sostegno necessario a Kiev, ma il settore italiano così viene danneggiato”.

    Secondo Verrascina, il sostegno del governo, con l’esecutivo precedente e anche quello attuale, “fortunatamente si sente: di questa partita si occupano i sottosegretari, che hanno ben presente la questione e l’importanza della filiera italiana, oltre al fatto che il miele nazionale non è solo una questione economica, ma di tutela della biodiversità. Il Masaf negli ultimi anni sta conducendo un’operazione egregia, mettendo a disposizione risorse, ascolto e investimenti: anche sulla Pac (la Politica agricola comune di Bruxelles) l’Italia si è distinta rispetto altri Paesi per gli investimenti sugli impollinatori”. Insomma, “un buon lavoro, di cui il settore è soddisfatto”.

    Adesso, spiega Verrascina, “è necessario lavorare molto sulla comunicazione e sul ruolo del consumatore, che, con le sue scelte, si ripercuote sul mercato”. L’approvazione di un sistema di qualità nazionale va in questo senso: “L’etichetta del miele italiano è ben fatta e ricca di informazioni. Meglio consumare un po’ meno, ma privilegiare la qualità delle nostre produzioni” conclude la ricercatrice. LEGGI TUTTO

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    Quanti rifiuti elettronici produrrà l’intelligenza artificiale entro il 2030? La stima: circa 5 milioni di tonnellate ogni anno

    A volte potremmo forse avere l’idea che l’intelligenza artificiale, in tutte le sue variegate forme, sia immateriale. Niente di più sbagliato: i sistemi di AI sono fin troppo concreti, e il loro impatto sulla salute del pianeta rischia di essere una ulteriore minaccia. Su Nature computational science, infatti, è appena uscito uno studio che invita a considerare il rischio, annunciando che di qui al 2030 potremmo accantonare 5 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici solo per “colpa” dell’AI. Cifre considerevoli, dato che la produzione di rifiuti elettronici annuali supera già da tempo 60 milioni di tonnellate all’anno. Ma ci sono ampi margini perché questo non succeda, avvertono al contempo gli autori.

    Economia circolare

    Ancora troppi rifiuti elettronici finiscono nella raccolta indifferenziata

    di Sara Carmignani

    15 Ottobre 2024

    Le previsioni del team guidato da Peng Wang della Chinese Academy of Sciences sono simili – concettualmente- a quelle che vengono eseguite negli studi sui cambiamenti climatici. Ovvero, gli effetti di quello che potremmo osservare in futuro dipendono ovviamente dalle nostre azioni, tanto dalle attività di utilizzo e produzione di beni e servizi, quanto dalle attività di mitigazione degli effetti che quei beni e servizi producono sull’ambiente. Così, procedendo con questa logica, i ricercatori hanno stimato gli effetti di utilizzi più o meno intensivi di servizi di intelligenza artificiale in termine di produzione di rifiuti elettronici. In questo modo, scrivono, hanno cercato di colmare un gap nel campo: spesso infatti si tende a stimare gli effetti dell’AI sull’ambiente limitandosi a calcolare emissioni e consumi energetici, senza prestare adeguata attenzione ai rifiuti elettronici. Problematici soprattutto perché gran parte di questi non viene smaltita correttamente, con rischi per l’ambiente ed enorme spreco di materiali preziosi, avvertono da tempo gli esperti nel campo.

    Per avere un’idea della mole di rifiuti potenzialmente prodotti nel prossimo futuro, gli scienziati guidati da Wang hanno calcolato il flusso di materiali collegati all’AI generativa, concentrandosi sui sistemi per i large language model (LLM). E se da una parte, come anticipato, le loro previsioni parlano di notevoli aumenti nella produzione di rifiuti elettronici, molto è anche quello che possiamo fare. Entrando nel merito delle loro stime, i dati mostrano che – ovviamente – i consumi maggiori si avrebbero per gli utilizzi più estensivi delle tecnologie di AI. In questo caso questo equivale a circa 2,5 milioni di tonnellate nel 2030, equivalente per avere un’idea, scrivono i ricercatori, a circa 13 miliardi di iPhone.

    Nello scenario più conservativo avremmo circa 0,4 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici (solo due miliardi di iPhone in tal caso). Le aree che più contribuiranno saranno – anche qui con poca sorpresa – Nord America (da solo quasi il 60%), seguita da Asia Orientale ed Europa.

    Tecnologia

    Smarthphone ricondizionati: il mercato sostenibile che vale un miliardo di euro

    di Antonio Piemontese

    08 Agosto 2024

    Ci sono però ampi margini di miglioramento. Usare più a lungo dispositivi e componenti, aumentare le capacità di riciclo e riutilizzo, e magari incrementare l’efficienza dei chip, sono azioni che potrebbero ridurre i rifiuti elettronici dal 16% all’86%, puntualizzano gli esperti. Ciò a testimonianza che se i trend da un lato appaiono abbastanza chiari, non mancano neanche le possibilità di contenerne le conseguenze. I dati snocciolati dai ricercatori vanno interpretati con cautela. Sono diverse infatti le incertezze – sia al ribasso che al rialzo, legate a diverse efficienze dei dispositivi o modalità di utilizzo dei sistemi di AI – ma a incidere saranno anche le condizioni geopolitiche e la conseguente disponibilità di componenti e materiali (in primis dei superconduttori), concludono gli autori. LEGGI TUTTO

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    Palma di areca: cura, esposizione e innaffiatura

    L’areca è un genere di piante che appartiene alla famiglia delle arecacee, le cui origini sono da ricercare tra la Malesia e le Filippine, sebbene siano presenti in aree calde (e umide) di Asia ed Africa. Nell’ambiente naturale, l’areca raggiunge dimensioni tipiche di un albero. Alle nostre latitudini, però, la sua coltivazione è possibile solo in vaso, dove la pianta si sviluppa solitamente fino ad un paio di metri di altezza, con una crescita lenta. L’areca si caratterizza per il suo cespo con piccoli fusti, nonché per le foglie pennate dal colore verde brillante.

    Dove posizionare la pianta
    Per quanto la coltivazione in vaso dell’areca ne limiti in modo importante lo sviluppo, ricordiamoci che le foglie della palma possono superare i 100-150 centimetri di lunghezza. È quindi importante scegliere un luogo in cui la pianta possa essere sistemata, senza che il transito costante di persone o altre esigenze possano richiederne uno spostamento. Scegliamo un ambiente particolarmente luminoso, dove l’areca possa trovare tutta la luce di cui ha bisogno per crescere, ma non esponiamola ai raggi solari diretti. È anche importante che il luogo sia ventilato al punto giusto, ma senza correnti d’aria. L’areca vegeta in modo ottimale quando la temperatura media si colloca attorno ai 20-25 gradi.

    Quale terreno utilizzare per la coltivazione
    L’areca non richiede una specifica tipologia di terriccio per la sua coltivazione. Un aspetto al quale dobbiamo prestare attenzione è piuttosto la capacità di drenaggio del terreno, poiché l’areca non tollera il ristagno di acqua a livello radicale. Per rendere più drenante il terriccio, possiamo aggiungere della sabbia grossolana e dell’argilla espansa. Un’altra accortezza che possiamo adottare è la classica sistemazione di cocci sul fondo del vaso. Infine, ricordiamoci che l’areca necessita di un rinvaso solo nel momento in cui le radici hanno esaurito lo spazio a loro disposizione per svilupparsi.

    Guida alla cura efficace della palma di areca
    L’areca richiede un’annaffiatura costante, tale da mantenere il terreno sempre umido. Per avere sempre il giusto livello di umidità, durante i mesi estivi, nebulizziamo le foglie. In alternativa, possiamo anche aggiungere un po’ di ghiaia nel sottovaso e lasciare sempre un dito di acqua: in questo caso, controlliamo che le radici rimangano sempre asciutte. L’acqua dell’irrigazione dovrebbe essere preferibilmente piovana, o comunque, con un basso contenuto di calcio. Per la concimazione dell’areca, possiamo aggiungere del fertilizzante liquido all’acqua di innaffiatura, almeno un paio di volte al mese. La concimazione non dev’essere eseguita al di fuori del periodo compreso tra primavera-estate. La palma di areca non ha particolari esigenze di potatura: eliminiamo però le foglie in via di disseccamento o che presentano segni di danneggiamento, in modo tale da prevenire gli attacchi dei parassiti. Infine, ricordiamoci di pulire le foglie della pianta con l’ausilio di un panno morbido inumidito.

    Malattie e parassiti
    L’areca non è soggetta a particolari avversità, giacché nella maggior parte dei casi i sintomi di malessere della palma sono da ricondurre ad errori nella coltivazione. Ad esempio, quando le foglie dell’areca tendono ad avere le punte secche, significa che abbiamo annaffiato in modo eccessivo la pianta. L’unico rimedio adottabile in questo caso, è l’eliminazione della parte secca della foglia: non abbiamo infatti un altro modo per ovviare alla problematica.

    Se l’areca sembrasse crescere a stento, dovremmo sincerarci che non si sia verificata la problematica del marciume radicale. Leviamo la pianta dal vaso e tastiamo le radici: se non sono sode, procediamo ad asportare le porzioni molli e, in seguito, usiamo un fungicida. Aspettiamo una settimana prima di bagnare nuovamente l’areca. Se il lato inferiore delle foglie presentasse delle macchie scure, la pianta potrebbe essere stata attaccata dalla cocciniglia: per eliminarla, usiamo un batuffolo di ovatta con dell’alcool. Se le foglie avessero dei segni gialli, potremmo avere a che fare col ragnetto rosso: in questo caso, dovremmo nebulizzare dell’acqua, oppure, fare ricorso ad un prodotto contro gli acari. LEGGI TUTTO

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    Tonno in scatola contaminato dal mercurio: “Trovate tracce nel 100% dei campioni analizzati”

    Quanto mercurio c’è in una scatoletta di tonno? Perché purtroppo questo metallo pesante, sostanza nociva per la salute è ancora presente nel tonno come in altre specie marine. La conferma arriva da una ricerca commissionata da due Ong, Bloom e Foodwatch, dopo aver analizzato confezioni provenienti da cinque paesi europei, tra cui l’Italia. Ora in […] LEGGI TUTTO

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    Le batterie bidirezionali delle auto elettriche possono far risparmiare 100 miliardi in Europa e alimentare l’energia delle nostre case: lo studio

    Se all’inizio ci alimentavi una macchinetta del caffè, ora grazie alle nuove tecnologie si può persino pensare – grazie alle batterie dell’auto – di fornire elettricità a una casa per un paio di giorni. Le cariche bidirezionale dei veicoli elettrici, quelle che permettono non solo di ricaricare il proprio veicolo ma anche di restituire energia alla rete, sono oggi nel mirino di sempre più produttori che stanno implementando questa tecnologia nei modelli di auto e in futuro, svela un nuovo report di Transport&Environment, potrebbero persino diventare il quarto fornitore di energia in Europa. C’è persino una stima, quella di un possibile risparmio “di oltre 100 miliardi in 10 anni” grazie allo sviluppo delle ricariche bidirezionale, che permetterebbero ai proprietari di veicoli elettrici “fino al 52% di risparmio sulla bolletta elettrica annuale”, in pratica “riduzioni fino a 780 euro all’anno, a seconda di fattori quali la localizzazione geografica, la presenza o meno di pannelli solari in casa e le dimensioni della batteria del veicolo”.

    Mobilità

    Con l’auto elettrica si risparmia metà delle emissioni di CO2

    di Nicolas Lozito

    07 Ottobre 2024

    Lo studio realizzato dagli istituti di ricerca Fraunhofer ISI e ISE per T&E, che stima i possibili risparmi tra il 2030 e il 2040, racconta sia l’importanza delle ricariche bidirezionali “che possono agire come batterie su ruote”, ma anche le criticità di una tecnologia che senza precisi standard, rischia di non trovare lo sviluppo necessario e positivo per l’ambiente e per le tasche dei consumatori. Come ricordano gli esperti, le auto elettriche dotate di sistemi bidirezionali di ricarica assorbendo elettricità nei momenti di eccesso di offerta possono restituirla quando la domanda è maggiore “ma il loro potenziale potrebbe non essere sfruttato, in assenza di standard comuni dell’Ue che garantiscano l’interoperabilità, cioè di uno standard unico di dialogo diretto tra tutti i veicoli elettrici e tutte le colonnine di ricarica” spiegano da T&E.

    La tecnologia per risparmiare costi ed energia, c’è già, perché grazie al V2G (vehicle-to-grid) le batterie delle auto elettriche possono scambiare elettricità con la rete e secondo il report questo uso potrebbe ridurre “nel 2030 il costo totale annuo del sistema elettrico dell’Ue di più del 5%, ovvero di oltre 9 miliardi di euro, per arrivare a 22 miliardi di euro di risparmi annui nel 2040 (in Italia 3,6), ovvero l’8%. Per il decennio tra il 2030 e il 2040, i risparmi potrebbero ammontare a oltre 100 miliardi di euro”.

    Mobilità

    La classifica europea delle capitali con i mezzi di trasporto più green, l’Italia fuori dalla top10

    di  Paolo Travisi

    07 Ottobre 2024

    Inoltre, ricordano da T&E, fondamentale è l’integrazione con le energie rinnovabili: se collegate a casa o al lavoro le vetture elettriche potranno infatti ridurre il fabbisogno dei sistemi di accumulo, per immagazzinare energia quando si verifica un eccesso di produzione di eolico o solare, fino al 92% al 2040. Solo in Italia “potrebbero arrivare a rappresentare la quasi totalità della capacità di accumulo necessaria per stoccare la produzione rinnovabile in eccesso. Con il V2G, la rete europea potrebbe integrare fino al 40% in più di capacità solare fotovoltaica (in Italia il 47%)” fanno sapere gli esperti. Un potenziale che farebbe diventare i veicoli elettrici dell’Ue di fatto “il quarto fornitore di elettricità d’Europa” dato che “immagazzinando l’energia rinnovabile in eccesso, che altrimenti andrebbe persa, la flotta europea di veicoli elettrici potrebbe contribuire fino al 9% del fabbisogno energetico annuale dell’Ue al 2040 (il 18% in Italia). In questo modo i veicoli elettrici diventerebbero il quarto ‘fornitore’ di elettricità dell’Ue e il secondo in Italia, riducendo la necessità di ulteriore capacità di generazione”.

    Dunque è tempo, sostengono da Transport & Environment, non solo di guardare all’elettrico come fattore chiave – come già vuole l’Europa – per la decarbonizzazione dei trasporti su strada, ma anche come player dell’energia perché “la ricarica bidirezionale offrirà una enorme e capillare rete di sistemi di accumulo, riducendo la necessità di costruirne di nuovi per stoccare l’energia eolica e solare in eccesso” spiega Andrea Boraschi, direttore di T&E Italia. Ricordando un altro potenziale della ricarica bidirezionale, ovvero il fatto che può allungare la vita delle batterie (con una durata prolungata fino al 9% rispetto alle ricariche standard), Boraschi spiega infine che per centrare questa rivoluzione in cui si raccolgono davvero i benefici della tecnologia V2G servono standard chiari e univoci a livello europei.

    “Il V2G – conclude il direttore di T&E Italia – può decollare solo se garantiamo che tutti i veicoli elettrici potranno funzionare con tutti i sistemi di ricarica. I legislatori possono sbloccare il potenziale di questa tecnologia decidendo gli standard Ue per la ricarica bidirezionale. Sarà una vittoria per i consumatori e l’ambiente, facilitando il progresso verso gli obiettivi dell’Ue in materia di clima ed energia”. LEGGI TUTTO

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    Scienziati in allarme per il rischio di blocco delle correnti marine atlantiche

    In una lettera aperta (qui il .pdf) 44 scienziati e scienziate dai centri di ricerca più importanti al mondo sul clima e sulla oceanografia e rivolta al Consiglio Nordico (Nordic Council), l’organismo per la cooperazione interparlamentare dei Paesi nordici, avvertono che la circolazione oceanica nell’Atlantico, soprattutto nelle regioni polari, è a rischio di alterarsi al punto di “avere impatti devastanti e irreversibili soprattutto per i Paesi nordici, ma anche per altre parti del mondo”.

    Gli esperti avvertono che studi scientifici degli ultimi anni indicano che questo rischio è stato finora ampiamente sottovalutato e mandano un appello alla leadership dei Paesi nordici nel sostenere politiche climatiche più ambiziose.

    A rischio è la AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation): un sistema di correnti ampio e profondo (fino a 3.000 metri) che coinvolge lo scambio di acqua calda e fredda tra diverse regioni dell’oceano Atlantico. Nel suo ultimo tratto, prima di giungere nell’Artico, include la Corrente del Golfo.

    Da un punto di vista climatico ha un’influenza globale e regola il clima in tutto il pianeta, anche se, come si legge nella lettera, un suo indebolimento o perfino un suo arresto avrebbero ripercussioni soprattutto nelle regioni del Nord Europa, e sulle coste orientali degli Stati Uniti.

    Questo è il meccanismo dominante del trasporto di calore verso nord, e sembra che stia per incepparsi. “Rischia sempre più di superare un punto di svolta”, ovvero un punto di non ritorno di un ingranaggio del sistema climatico, avverte il mondo scientifico. “Il rischio di un punto di svolta è reale e può verificarsi nell’intervallo climatico di 1,5-2 °C previsto dall’Accordo di Parigi. Attualmente il mondo si sta dirigendo ben oltre questa fascia ( > 2,5 °C)”.

    Abbiamo chiesto a Giuliana Panieri, geologa specializzata in biogeochimica marina e studi sul cambiamento climatico e professoressa presso l’Università Artica della Norvegia a Tromsø la portata di questo rischio: “Firmerei anche io questa lettera, perché ritengo sia fondamentale sensibilizzare l’opinione pubblica e i decisori politici su temi così importanti come i cambiamenti che stiamo vivendo”.

    Cosa rende l’artico una regione cruciale per il funzionamento della AMOC?
    “Nell’Artico il raffreddamento e l’aumento della salinità delle acque marine favoriscono il loro affondamento, un processo chiave per il mantenimento della circolazione. Mi spiego: durante l’inverno, le acque superficiali nei mari Artici si raffreddano e aumentano di salinità a causa della formazione di ghiaccio marino. Questa acqua fredda e salata diventa più densa e tende a sprofondare, contribuendo alla circolazione profonda dell’oceano.”

    Sui media leggiamo talvolta di indebolimento, talvolta di collasso della AMOC. Che differenza c’è?
    “L’indebolimento della AMOC indica una riduzione della sua forza, ma la circolazione continua a funzionare, seppur a ritmi ridotti. Un collasso, invece, suggerisce un arresto quasi completo, con cambiamenti climatici più drastici e immediati.”
    E quindi, qualcosa sta avvenendo, ci sono insomma delle misure e osservazioni o sono piuttosto delle previsioni?
    “Ci sono studi che mostrano un indebolimento della AMOC basati su osservazioni dirette e indirette, i modelli che prevedono un collasso sono ancora oggetto di dibattito scientifico. La tempistica e la probabilità di tali eventi variano molto tra gli studi. Qualche mese fa hanno pubblicato uno studio su Nature che confermava un indebolimento della AMOC, ma riportava anche che l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) suggerisce che un collasso non è probabile nel 2100.”

    Quindi c’è un indebolimento, ma un collasso è ancora in discussione?
    “Ricordiamoci che i modelli usati dall’IPCC non considerano la componente della fusione dei ghiacciai artici, per questo probabilmente sottovaluta l´indebolimento di queste correnti. Ricordiamoci poi che un collasso della AMOC non è un evento che si verifica ‘dal giorno alla notte’. È più probabile che avvenga gradualmente su decenni o secoli, se dovesse verificarsi”.

    Come mai il riscaldamento globale potrebbe causare un raffreddamento in Europa? E questo potrebbe quindi mitigare il riscaldamento globale o almeno in Europa?
    “Il riscaldamento globale potrebbe paradossalmente portare a un raffreddamento in alcune parti dell’Europa, e questo anche a causa dei cambiamenti nella circolazione oceanica. Questo non significa mitigare il riscaldamento globale, ma è piuttosto una ridistribuzione dei suoi effetti, con potenziali nuovi rischi, ancora da valutare. La AMOC trasporta acque calde tropicali verso il nord, riscaldando l’Europa settentrionale. Il nord Europa potrebbe avere così un clima più freddo, influenzando l’agricoltura, la biodiversità, e le condizioni di vita di tutti. Ma questo raffreddamento non mitigherebbe il riscaldamento globale in senso stretto, ne altererebbe invece localmente i suoi effetti. Il Mediterraneo ad esempio continuerebbe a riscaldarsi, con estati più calde e secche. La differenza tra il raffreddamento al nord e il riscaldamento al sud accentuerebbe i contrasti climatici in Europa, aumentando la probabilità e la severità di eventi meteorologici estremi.”
    È difficile districarsi con i limiti temporali presentati negli studi: alcuni dicono entro il 2100, altri avvertono che potrebbe già accadere nella metà di questo secolo, altri ancora invitano alla cautela perché potrebbe non avvenire mai o comunque ben oltre il 2100, come si legge nel rapporto numero 6 dell’IPCC.
    “Il sistema climatico terrestre è estremamente complesso e interconnesso. Le previsioni devono considerare tante variabili e interazioni che possono influenzare i risultati in modi non sempre prevedibili. Alla domanda quando? è difficile dare una risposta adesso. È fondamentale continuare la ricerca e l’osservazione, così come adottare un approccio precauzionale nella gestione delle politiche climatiche per mitigare i rischi associati a cambiamenti imprevisti nella circolazione oceanica.”

    E questo è un punto chiave della lettera. Gli scienziati firmatari parlano in termini di “rischio serio”, con “impatti devastanti e irreversibili”.
    “Gli scienziati non vogliono allarmare la società e creare panico ingiustificato. Sono affermazioni invece basate su evidenze scientifiche che considerano i possibili effetti di un cambiamento drastico nella AMOC. A mio avviso noi scienziati abbiamo la responsabilità di informare la società e i decisori politici sui rischi associati ai cambiamenti climatici. Questo serve a sottolineare l’importanza di prendere decisioni informate e tempestive per prevenire o mitigare gli effetti negativi di un clima che cambia.”

    Sempre nella lettera si insiste molto, come unica soluzione proposta, quella di insistere per restare vicino all’aumento di 1.5 °C perché?
    “Mantenere l’aumento della temperatura globale vicino ai 1.5°C è considerato essenziale per minimizzare i rischi climatici estremi, inclusi quelli associati a cambiamenti nella AMOC. Seguendo queste indicazioni si potrebbero anche limitare eventi estremi, come ad esempio ondate di calore, inondazioni e uragani e la loro frequenza. Poi non dobbiamo dimenticare che limitare il riscaldamento è anche una questione di equità globale. Le regioni più vulnerabili e meno capaci di adattarsi agli impatti climatici sono spesso quelle che hanno contribuito meno alle emissioni di gas serra. Mantenere l’obiettivo di 1.5°C è quindi anche un impegno verso la giustizia climatica.”

    Non sarebbe più realistico pensare a come adattarsi?
    “L’adattamento ai cambiamenti climatici è essenziale e dovrebbe procedere parallelamente agli sforzi di mitigazione. Prepararsi significa essere meno vulnerabili.” LEGGI TUTTO

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    Green deal europeo: giusto il fine, da rivedere mezzi e modalità

    Che qualcosa sia da correggere è ormai evidente. Ma la strada è stracciata e non si può tornare indietro. È quanto emerge dal dibattito sul Green Deal europeo dal titolo “Transizione green, investimenti e strategie”, organizzato da Adnkronos. Esperti, rappresentanti del Governo, delle istituzioni e del mondo imprenditoriale hanno cercato di rispondere alle domande più urgenti su come cambiano le politiche nazionali per consentire una migliore ed armonica attuazione del Green Deal, sullo stato dell’arte del processo di transizione ecologica, sul contributo delle aziende nel contrasto al cambiamento climatico.

    Tanti ancora i punti da sviluppare e molte le incertezze sollevate dai Governi di alcuni stati che sono in ritardo nell’adozione di politiche e iniziative legislative in linea con quanto indicato dalla Commissione UE. L’obiettivo finale di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 è irrinunciabile. Ma a che punto siamo? E soprattutto cosa resta del Green Deal europeo?

    La cronaca degli ultimi giorni che ha registrato il dissenso di una parte dell’industria automotive e le proteste dei lavoratori rappresenta un primo e importante segnale di quanto la visione ottimistica europea non corrisponda pienamente alle singole realtà nazionali, sia a livello politico sia a livello industriale. E una conferma, seppure non con valore statistico, arriva anche da una rilevazione effettuata da Adnkronos tra i propri utenti web e social: per il 65% il Green deal europeo andrebbe addirittura eliminato, per il 23% migliorato e solo per il 12% è una priorità. Dati rafforzati dalla percezione, secondo il 75% degli utenti intervistati, che così come viene realizzata la transizione danneggia l’economia (75%). Per fare qualche esempio specifico, sull’acquisto delle auto elettriche, il 46% segnala il costo ancora elevato e il 38% la carenza di colonnine per la ricarica. Se è vero che sui social si avverte spesso una polarizzazione verso risposte negative, è altrettanto vero che il dibattito sull’argomento in Italia è molto acceso. Come dire, “il sogno” che si scontra con la realtà e che richiede interventi correttivi.

    Enrico Giovannini, direttore scientifico ASviS, ha parlato dell’Agenda 2030 e degli obiettivi da raggiungere: “Tra pensieri, parole e azioni c’è una divergenza piuttosto impressionante. L’Italia purtroppo non sta facendo quello che i ministri ci hanno detto. Il Piano strutturale di Bilancio avrebbe dovuto definire riforme e investimenti su 5 temi: transizione digitale ed ecologica, attuazione della legge europea sul clima, pilastro sociale dei diritti europeo, resilienza economica e sociale, difesa. Nel Piano strutturale di bilancio c’è poco di tutto questo”.

    “Qual è la vera prospettiva che l’Italia vuole conseguire?, si chiede Giovannini, aggiungendo: “La paura è che l’idea sia quella di ridiscutere questi obiettivi, sia al 2030 sia al 2050”. Le risorse per proseguire nel lavoro verso gli obiettivi, ragiona Giovannini, “si possono trovare: ci sono 30 miliardi di sussidi all’anno dannosi per l’ambiente che il governo si è impegnato a smantellare nei prossimi anni”. Quanto al Green Deal europeo, Giovannini chiarisce: “Il green non è stato toccato di una virgola, c’è tutto e lotta insieme a noi. L’approccio ideologico non è mai esistito. E’ sempre stato pensato non come una politica ambientalista ma come una politica di sviluppo economico”.

    Stesse preoccupazioni sono state espresse anche dai rappresentati del Governo intervenuti al convegno: il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin ha introdotto la strategia del Governo: “L’attenzione del governo è su più fronti: il lavoro in corso sui settori in cui è più difficile carbonizzare, gli incentivi per le CER, l’avanzamento delle misure al PNRR e diverse altre azioni normative semplificatorie. Sono convinto che il rinnovamento delle istituzioni europee ci permetterà di affrontare con maggiore pragmatismo anche quelle norme del green deal che si sono dimostrate molto ma molto sbilanciate”.

    “L’Italia non ha mai lavorato per distruggere – ha precisato il ministro Fratin – Ha voluto piuttosto migliorare, anche riuscendo, direttive e regolamenti che rischiano di lasciare indietro interi settori dell’economia. Non c’è più posto in Europa per approcci che non tengano conto di quelle che sono le evidenze scientifiche e di contesti nazionali differenti tra i 27 paesi europei. Credo che su questa linea si possa lavorare nel nuovo parlamento, nella commissione e consiglio europei. Come già fatto al G7 clima, energia e ambiente così a COP 29, che si apre tra pochi giorni, porteremo con responsabilità la voce del sistema paese espressione di valore e di eccellenza”.

    Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, ha spiegato che “in questa fase, sul settore automotive, insieme alla Repubblica Ceca, il nostro Paese si è fatto promotore di un non paper che sarà presto discusso in Commissione al fine di riesaminare le modalità che porteranno allo stop ai motori endotermici nel 2035. La transizione deve esserci ma occorrono le condizioni per raggiungerla. Il processo va sostenuto con una forte immissione di risorse pubbliche a oggi fuori dalla portata dei bilanci pubblici non solo dell’Italia ma di tutti i Paesi europei. Non solo: serve un approccio basato su evidenze empiriche e non su posizioni ideologiche, che guardi con favore alla neutralità tecnologica e all’inserimento dei biocarburanti tra le modalità per raggiungere l’abbattimento di CO2. Per questo chiediamo di anticipare alla prima metà del prossimo anno il Rapporto di valutazione previsto per fine 2026”.

    “Il Governo – ha concluso il ministro Urso – è consapevole che l’obiettivo della decarbonizzazione non può essere messo in discussione, ma occorre un confronto aperto su quale sia la modalità corretta per raggiungerlo”. LEGGI TUTTO