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    Nasce allo stadio dell’Udinese la prima Comunità energetica rinnovabile nel calcio italiano

    La nascita di “Energia in Campo” rappresenta l’evoluzione naturale del progetto del parco solare installato sulla copertura del Bluenergy Stadium. L’impianto fotovoltaico, composto da 2.409 pannelli solari di ultima generazione, produce annualmente 1,1 MWh di energia pulita (ed evita l’emissione di 450 tonnellate di CO2 l’anno). Circa il 70% di questa energia viene utilizzata per soddisfare il fabbisogno energetico dello stadio, mentre il restante 30% viene messo a disposizione della comunità energetica.

    Alberta Gervasio, Amministratore Delegato di Bluenergy Group, ha sottolineato come questa iniziativa rappresenti “una naturale evoluzione del fotovoltaico, per usare l’energia che non sarebbe stata consumata dall’impianto”, evidenziando “l’attenzione al territorio e la responsabilità di restituire qualcosa”. LEGGI TUTTO

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    Il trasporto via nave responsabile del 3% delle emissioni globali di CO2

    Per il settore marittimo bisogna disporre una roadmap realistica che minimizzi i rischi per gli investitori e fornisca soluzioni economicamente efficienti per l’intera industria. E’ quanto sostengono Eni, Fincantieri e Rina, che hanno illustrato uno studio per accelerare il percorso di decarbonizzazione del settore del trasporto marittimo in linea con il target al 2050 di Net Zero. Alla luce dell’analisi, il settore marittimo è responsabile di circa il 3% delle emissioni globali di CO2 e punta a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Lo studio, presentato alla presenza del ministro per l’Ambiente e la Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, si inserisce nel contesto dell’accordo siglato nel marzo del 2024 da Eni, Fincantieri e Rina per sviluppare un Osservatorio globale sulle prospettive di evoluzione delle soluzioni di decarbonizzazione sostenibili nel medio-lungo periodo.

    Dal rapporto è emerso che attualmente, il settore marittimo dipende prevalentemente dai combustibili tradizionali che costituiscono il 93% del consumo complessivo. L’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050 sta generando un cambiamento significativo nell’industria, con una crescente adozione di diverse fonti di propulsione. Già nel 2023, circa il 50% degli ordini di nuove navi è stato indirizzato verso combustibili alternativi, con una tendenza verso una maggiore sostenibilità. I porti stanno iniziando a rispondere a queste nuove esigenze, sviluppando infrastrutture per supportare diverse opzioni tecnologiche e di combustibili.

    L’analisi offre per la prima volta una panoramica globale delle opzioni percorribili per ciascun segmento di naviglio nelle diverse regioni del mondo e combina una valutazione dei volumi con un’analisi integrata dei costi per gli armatori e degli investimenti che il comparto logistico e portuale richiede. I vettori energetici in grado di ridurre, nel breve termine, le emissioni di CO2 sono principalmente il gas naturale liquefatto e i biofuel come HVO e FAME. Nel lungo termine poi, anche grazie all’ingresso di BioGNL e Biometanolo, i biocarburanti continueranno ad essere la soluzione prevalente del segmento mercantile.

    Sul tema, il ministro Pichetto è chiaro: ”Per il trasporto marittimo non ci sono soluzioni facili o automatiche. Non possiamo elettrificare, quindi dobbiamo affrontare la questione con una base scientifica certa e solida. Abbiamo la necessità di ridurre le emissioni e decarbonizzare, certamente i biocarburanti sono importanti per arrivare in futuro all’idrogeno, che si sta sviluppando velocemente”. Un valido supporto può arrivare dal nucleare, ” che può essere un percorso rilevante per il trasporto marittimo”, sottolinea il ministro che assicura pieno appoggio del governo. Per quanto riguarda i porti ci sarà poi da rivedere il sistema degli Ets, su cui Pichetto ha già fatto pressioni in Ue alla vicepresidente Teresa Ribera: “Il Mediterraneo è un unico mare – sintetizza il ministro – se una nave si ferma a Gioia Tauro non può pagare il 50% in più, mentre se va a Tangeri non lo paga”. Su questo punto, assicura Pichetto, “la vicepresidente Ribera ha dato disponibilità per fare un approfondimento”.

    Da parte loro, Eni, Fincantieri e Rina proseguono l’azione congiunta, con una sinergia ritenuta fondamentale per trasformare l’innovazione in soluzioni concrete. “Come sostenuto anche a livello comunitario – sottolinea Giuseppe Ricci, direttore operativo Trasformazione Industriale di Eni – è ormai condiviso che i biocarburanti, in particolare quelli già disponibili e utilizzabili in purezza come l’HVO, sono attualmente tra le migliori soluzioni adottabili per ridurre le emissioni GHG anche del comparto marittimo”. Secondo Pierroberto Folgiero, amministratore delegato e direttore generale di Fincantieri, la decarbonizzazione del trasporto marittimo “è una sfida che richiede visione industriale e capacità di trasformare l’innovazione in soluzioni concrete. Questo studio rappresenta un passo strategico in questa direzione”.

    Fincantieri, inoltre, con l’obiettivo Nave Net Zero al 2035, punta ad anticipare il futuro, guidando il cambiamento e integrando tecnologia e sostenibilità per garantire competitività. Secondo Carlo Luzzatto, amministratore delegato e direttore generale di Rina, “il trasferimento di competenze è un fattore chiave per accelerare la transizione energetica. La nostra capacità di mettere a fattor comune know-how ed esperienze maturate in settori diversi – come l’energia e il navale, che presidiamo da tempo – ci permette di sviluppare soluzioni efficaci per la decarbonizzazione”. LEGGI TUTTO

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    Coltiviamo l’olivo da 3mila 700 anni

    Il primo olio in Italia è stato prodotto quasi quattromila anni fa in Sicilia a partire da piante selvatiche. Testimonianze ancestrali di quella che oggi chiamiamo coltivazione dell’albero dell’olivo risalgono a 3.700 anni fa, nel pieno dell’età del Bronzo. Poi, verso il 1200 a.C. l’albero svanisce per quasi nove secoli per essere recuperato solo nel […] LEGGI TUTTO

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    Bonus per i Gruppi di autoconsumo e le Comunità energetiche rinnovabili: costi e benefici

    C’è ancora tempo per presentare al GSE la domanda per gli incentivi per i Gruppi di autoconsumo e per le Comunità energetiche. È stato infatti spostato dal 31 marzo al 30 novembre il termine ultimo per richiedere il contributo del 40% per l’installazione degli impianti a servizio dei Gruppi o delle CER nei comuni con meno di 5.000 abitanti. Gli impianti dovranno comunque essere in attività entro il 30 giugno 2026.
    Nuovi impianti e potenziamenti
    Il bando, finanziato con i fondi del PNRR, mette a disposizione 2,2 miliardi di euro per la concessione di contributi a fondo perduto pari al 40% dei costi per impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili e inseriti in configurazioni di Comunità energetiche rinnovabili (CER) o di Gruppo di autoconsumatori che si trovino in Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti. L’incentivo punta a sostenere la realizzazione di una potenza complessiva pari almeno a 2 GW, ed una produzione indicativa di almeno 2.500 Gwh/anno. Prima dell’invio della richiesta di accesso al contributo PNRR, le CER e i Gruppi di autoconsumatori dovranno essere già stati costituiti. È possibile chiedere un anticipo del contributo per avviare i lavori.

    Come creare un Gruppo di autoconsumo
    Per costituire una CER occorre seguire un iter burocratico complesso. Per i Gruppi di autoconsumo, invece, è tutto molto più semplice: è sufficiente, infatti che ci sia un unico impianto al servizio di più utenze che si trovano all’interno dello stesso edificio. Si può costituire un Gruppo a livello condominiale o anche semplicemente in una villetta bifamiliare. Gli impianti fotovoltaici ammessi al contributo possono essere installati sull’edificio, presso altri siti nella disponibilità di uno o più clienti finali del Gruppo di autoconsumo, oppure si può utilizzare l’impianto di un produttore esterno. Il contributo a fondo perduto si può ottenere sia per gli impianti di nuova costruzione che in caso di potenziamento di impianto esistente. Dovrà avere comunque una potenza non superiore a 1 MW. È anche possibile installare sistemi di accumulo, in quanto l’incentivo finanzia l’energia condivisa e consumata da parte di chi si associa alla configurazione.

    La tariffa incentivante erogata dal GSE
    Una volta entrato in funzione l’impianto, infatti, il GSE pagherà una tariffa incentivante per ogni MWh prodotto e condiviso. Si tratta di un importo che varia in funzione della grandezza dell’impianto, e vai dai 60 euro per gli impianti più grandi agli 80 euro per quelli più piccoli, ossia fino ai 200kw. È prevista inoltre una maggiorazione di 4 euro nelle regioni del centro (Lazio, Marche, Toscana, Umbria, Abruzzo) e di 10 euro nelle regioni del nord (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta e Veneto). La tariffa incentivante verrà riconosciuta per 20 anni. All’importo va aggiunto l’ulteriore corrispettivo ARERA di valorizzazione per l’energia autoconsumata, il cui importo viene definito annualmente.

    L’incentivo è riconosciuto per intero in assenza del contributo PNNR, mentre per chi ha ottenuto le somme a fondo perduto per realizzare l’impianto l’importo è ridotto in proporzione.

    Come verificare costi e benefici
    Per verificare l’effettiva convenienza alla creazione del Gruppo di autoconsumo il GSE ha messo a disposizione un simulatore che consente la pianificazione degli interventi e l’analisi della loro convenienza economica sulla base delle caratteristiche dell’impianto, facendo riferimento a soluzioni che il GSE ha già incentivato. È sufficiente individuare l’indirizzo dell’edificio o del sito dove realizzare l’impianto o uno degli impianti e inserire i dati di consumo e la superficie degli immobili dei clienti finali che intendono associarsi. LEGGI TUTTO

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    Addio fossili, l’energia per le industrie si accumula con la sabbia

    Produrre calore sfruttando il potere di accumulo della sabbia, una materia prima facilmente reperibile. E’ ciò che fanno le batterie di sabbia brevettate dal gruppo Magaldi, azienda campana, che a breve si apprestano a poter essere sfruttate per uso industriale, fornendo una soluzione concreta per decarbonizzare i processi industriali termici. “In particolare le nostre batterie sono adatte per le imprese che utilizzano energia termica tra i 150 e i 400 gradi, come l’industria alimentare, quella della carta e del legno”, ci spiega Letizia Magaldi, vicepresidente sviluppo corporate e business dell’impresa guidata dal padre Mario in cui lavorano anche i suoi due fratelli, Raffaello e Paolo Magaldi. Ma facciamo un passo indietro. “Per spiegare il concetto partiamo dai castelli di sabbia che si fanno in spiaggia: se riempi il secchiello con la sabbia bagnata, quando lo rovesci la torre resta in piedi. Se invece la sabbia è asciutta scorre via come fosse acqua, ma è dotata di una sorprendente proprietà: quella di conservare il calore anche ad altissime temperature”. In questa fluidificazione della sabbia si trova l’innovazione della tecnologia messa a punto da Magaldi, azienda nata a Buccino (in provincia di Salerno) nel 1901, oggi con 250 dipendenti, metà dei quali ingegneri, con sedi negli Usa, in Messico, a Dubai e in India. Semplificato in ‘Batterie di sabbia’, il sistema di accumulo si chiama col nome tecnico MGTES, Magaldi Green Thermal Energy Storage, che dopo un periodo di test e una serie di prototipi, nel mese di maggio entrerà nella fase operativa presso lo stabilimento IGI che produce grassi e oli alimentari per la Ferrero, sempre a Buccino. “Siamo gli unici a utilizzare la sabbia silicea. Si tratta di uno dei materiali più comuni sulla Terra”.

    Prodotte da Magaldi Green Energy, startup del gruppo Magaldi (con 55 brevetti) nata nel 2021, le batterie innovative si basano sulla tecnologia del letto di sabbia fluidizzato che accumula e restituisce energia termica. Nella pratica, si tratta di una batteria di acciaio che contiene la sabbia riscaldata che permette di conservarne l’energia per giorni e per settimane. La scelta della sabbia non è stata casuale, ma punta a usare una materia prima disponibile in tutta Italia e non soggetta ai rischi legati alle catene di fornitura e alla scarsità di materiali.

    Magaldi, ci spiega il concetto della batteria di sabbia in parole semplici?
    “MGTES è un sistema per l’accumulo di energia termica ad alta temperatura basato su un letto di sabbia fluidizzata all’interno di un grande contenitore di acciaio. È un sistema power to heat: viene caricato con energia elettrica rinnovabile e rilascia energia termica ad alta temperatura su richiesta. È pertanto definibile come un accumulo di lunga durata. Può fornire energia termica tra 120-400°C a diversi tipi di industrie, come: food & beverage, carta, tessile, plastica, farmaceutica e prodotti chimici. Sostituisce completamente l’utilizzo di gas e combustibili fossili. E, allo stesso tempo, consente di affrontare l’intermittenza delle rinnovabili rappresentando, di fatto, uno strumento di stabilizzazione e bilanciamento per la rete elettrica”.

    Come funziona?
    “La sabbia, grazie al fotovoltaico, arriva a scaldarsi fino a 1000 gradi e funge da serbatoio di calore. Il minerale viene frantumato fino a rendere i granelli inferiori a 150 micron per fluidificare il sistema. La sabbia viene poi versata in un grande modulo metallico isolato, dove viene scaldata fino a 600. Il prototipo può contenere circa 40 tonnellate di sabbia, quello che entrerà in funzione a maggio ne contiene, invece, 70 che consentono una capacità di accumulo fino a 7,5 MWh termici. Quando serve l’energia, il calore accumulato viene rilasciato per alimentare processi industriali o per generare vapore. Il tutto a basso impatto ambientale, tanto che viene chiamato vapore verde, footprint zero. La temperatura prodotta varia, naturalmente, in relazione alla materia: la pasta della carta si raffina a 160-170 gradi, mentre il petrolchimico ha bisogno di vapore continuo a 350 gradi”.

    Quali sono i benefici?
    “Riduzione dei consumi di gas naturale di circa il 15%, con un risparmio di 550 tonnellate di anidride carbonica all’anno. Vogliamo affrontare così due grandi sfide: l’intermittenza delle fonti rinnovabili, sia solare che eolica, e l’ottimizzazione dell’uso dell’energia nei processi industriali”.

    Quando sarà operativo l’impianto di accumulo, e dove?
    “Dopo una serie di prototipi, a maggio entrerà in funzione l’impianto di accumulo su scala industriale, realizzato in collaborazione con Enel X e cofinanziato dall’Unione Europea, per lo stabilimento IGI che produce grassi e oli alimentari per la Ferrero, sempre a Buccino, in Campania”.

    L’idea nasce da un’intuizione di suo padre. Ci racconta com’è andata?
    “Mio padre – Mario Magaldi – prese spunto da un sistema per accumulare energia utilizzando blocchi di grafite, quella delle matite, che può raggiungere i 2500 gradi di temperatura. Tornato dall’Australia, decise di sperimentare la frammentazione della grafite e, nel 2015, la società vinse un primo bando utilizzando un sistema di specchi per mantenere il calore. Dopo anni di ricerca si è giunti alla batteria attuale, con sabbia silicea al posto della grafite e il fotovoltaico al posto degli specchi”. LEGGI TUTTO

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    Birra sostenibile, un brevetto del Cnr per produrla con meno emissioni

    Anche la birra può essere più sostenibile. Stiamo parlando del metodo di produzione, finito sotto la lente dell’Istituto per la bioeconomia del Cnr che ha dimostrato l’utilità di una tecnica specifica che eliminerebbe un passaggio centrale nella fase produttiva. La birra, infatti, ha bisogno della bollitura del mosto, uno step che ha dei consumi elevati a livello energetico, e che richiede un tempo standard. Ebbene lo studio italiano, pubblicato sulla rivista Beverages, potrebbe aver trovato una soluzione alternativa alla tradizionale produzione industriale brassicola, per la realizzazione di una delle bevande più consumate e popolari.

    Lo studio ha fatto ricorso ad una tecnica chiamata cavitazione idrodinamica, che consente di scaldare il mosto ad una temperatura di 94°C, quindi al di sotto dei 100 gradi centigradi, che sono quelli in cui il liquido comunemente va in bollitura, e che deve essere mantenuta per un’ora e mezza. La cavitazione idrodinamica è un processo fisico in cui la variazione di pressione nei liquidi genera microbolle di vapore che implodono rilasciando energia. Questo fenomeno è già utilizzato in diversi settori industriali, e sta trovando applicazione anche nella produzione della birra, in particolare nella fase di bollitura del mosto. Dunque, questo passaggio, conserva tutte le caratteristiche chimiche, ma abbattendo consumi e costi. I ricercatori del Cnr di Firenze stimano l’abbattimento di oltre l’80%, ma non è tutto.

    La cavitazione, infatti, elimina il precursore del dimetilsolfuro, lo S-methylmethionine, riducendo il suo tempo fino al 70% senza l’uso di additivi chimici. Inoltre, questa tecnica migliora l’isomerizzazione degli acidi alfa del luppolo, che sono responsabili dell’amaro della birra, anche a temperature inferiori ai 100°C; si tratta di un processo chimico in cui una molecola cambia la sua struttura senza modificare la sua composizione chimica. Con il calore questi acidi (alfa) si trasformano in una forma più solubile che contribuisce al sapore amaro della birra, ma nel caso specifico, il dimetilsolfuro è subito espulso dal mosto della birra e alla fine del processo, l’amaro di luppoli si trasferisce al mosto, modificandone il colore.

    L’esperimento

    A Singapore la birra è fatta con le acque reflue e sa di miele

    Giacomo Talignani

    01 Luglio 2022

    “Soltanto attraverso la cavitazione idrodinamica, che concentra un grande quantitativo di energia, è stato possibile ottenere questi risultati”, sottolinea Francesco Meneguzzo, primo ricercatore del Cnr-Ibe e coordinatore dello studio per la birra sostenibile. Tra i principali vantaggi di questa tecnologia, oltre alla riduzione del consumo energetico, che potrebbe essere implementanto se la produzione fosse alimentata da fonti rinnovabili, c’è anche il miglioramento della qualità della birra, in quanto la tecnologia permette di mantenere intatte le caratteristiche organolettiche del prodotto e inoltre la cavitazione idrodinamica potrebbe essere applicata ad altre bevande vegetali, come succhi di frutta. Dunque si prefigura la possibilità di un utilizzo su scala industriale, che renderebbe la birra sostenibile e più economica. Grazie alla riduzione delle perdite di calore e all’uso efficiente delle risorse, questa tecnologia potrebbe essere adottata dai grandi birrifici che pur essendo radicati nella tradizione, sostengono soluzioni sempre più innovative per una produzione ecologica.

    Ora, la notizia nella notizia, è che questo studio potrebbe essere talmente importante per il settore brassicolo, che già nel 2016 il Cnr ha depositato il brevetto dello studio condotto con la cavitazione idrodinamica, che in questi quasi 10 anni ha continuato a sperimentare e migliorare. “Fin dall’inizio abbiamo sostenuto con convinzione lo sviluppo delle ricerche relative a questo brevetto e i risultati raggiunti ci danno ragione. La possibilità di utilizzare soltanto energia elettrica, potenzialmente generata da fonti rinnovabili, rappresenta una svolta e un impulso concreto alla decarbonizzazione di uno tra i settori alimentari più energivori”, le parole di Maria Carmela Basile, responsabile dell’Unità valorizzazione della ricerca del Cnr, che gestisce e tutela la proprietà intellettuale dell’Ente, mentre il brevetto è stato già acquistato da un’azienda che a suo tempo aveva finanziato le ricerche.

    Restano però, alcune “criticità” da affrontare, tra cui il controllo della schiuma generata dal processo che richiede ulteriori studi per ottimizzare le condizioni operative. Inoltre, la standardizzazione del metodo per garantire una qualità costante della birra è un aspetto cruciale su cui i ricercatori stanno ancora lavorando LEGGI TUTTO

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    Guida alla manutenzione di un’auto elettrica: costi e consigli

    Silenziose, efficienti e sempre più accessibili, le auto elettriche rappresentano una scelta sostenibile per chi vuole ridurre l’impatto ambientale e abbattere i costi del carburante. Tuttavia, la manutenzione di un veicolo elettrico è diversa da quella di un’auto tradizionale. Vediamo quali sono i costi da considerare e i migliori consigli per mantenerla sempre al meglio delle sue funzionalità.
    Quanto costa la manutenzione di un’auto elettrica
    Uno dei principali vantaggi delle auto elettriche è la riduzione dei costi di manutenzione rispetto ai veicoli a combustione interna. Questo avviene per diversi motivi:

    Meno componenti soggetti a usura: le auto elettriche non hanno frizione, cambio manuale, candele o olio motore da sostituire periodicamente. Il loro motore è più semplice e richiede meno interventi di manutenzione.
    Frenata rigenerativa: il sistema di recupero dell’energia cinetica riduce l’usura dei freni, diminuendo la frequenza con cui devono essere sostituiti i dischi e le pastiglie.
    Batteria e sistema di gestione termica: sebbene la batteria sia uno degli elementi più costosi, i produttori garantiscono durate che possono superare anche i 200.000 km. Inoltre, alcuni marchi offrono garanzie fino a 8 anni o 160.000 km.

    Costi medi della manutenzione di un’auto elettrica: un risparmio tangibile
    Secondo alcune stime, la manutenzione di un’auto elettrica può costare fino al 50% in meno rispetto a un veicolo tradizionale. Ad esempio, per il controllo batteria e software, i costi si aggirano dai 50 ai 150 euro per check-up periodici, mentre per la sostituzione dei freni si parla di circa un 30% in meno rispetto a un’automobile a benzine e/o diesel. Da considerare anche la revisione, obbligatoria: qui i costi sono pressoché identici a quelli di un’auto tradizionale; quindi, in Italia la cifra si aggira attorno ai 79/80 euro. Infine, la batteria, ossia il fattore che più “preoccupa” chi si approccia alle auto elettriche per la prima volta. In realtà, la questione è piuttosto semplice: se fuori garanzia, la sostituzione può variare dai 5.000 fino ad arrivare a decine di migliaia di euro a seconda del modello. Tuttavia, il calo dei prezzi sta sicuramente rendendo questo intervento sempre più accessibile.

    Consigli per la manutenzione dell’auto elettrica
    Per garantire una lunga durata e prestazioni ottimali alla propria auto elettrica, sarebbe molto utile seguire alcune semplici regole. La prima da tenere in considerazione riguarda l’ottimizzazione della ricarica della batteria. È importante evitare di scaricare completamente la batteria; sarebbe meglio mantenerla tra il 20% e l’80% della carica per prolungarle la vita. Inoltre, si consiglia (quando è possibile) la ricarica lenta a quella rapida per ridurre lo stress sulle celle.

    Un’altra azione da svolgere con periodicità riguarda il controllo della pressione degli pneumatici. Quelli delle auto elettriche, infatti, tendono a usurarsi molto più rapidamente a causa del peso della batteria e della coppia istantanea del motore. Un controllo regolare della pressione si rivela molto efficace per il miglioramento dell’efficienza e soprattutto per una questione di sicurezza.

    Quanto è importante effettuare gli aggiornamenti del software? Molto, tant’è che diversi produttori rilasciano aggiornamenti software che migliorano le prestazioni del veicolo e ottimizzano il consumo energetico. È necessario verificare a cadenza periodica la disponibilità di nuove versioni: un piccolo promemoria che può davvero rivelarsi essenziale.

    Un altro grande consiglio per la manutenzione dell’auto elettrica concerne la cura del sistema di raffreddamento. Alcune auto elettriche, infatti, utilizzano un liquido di raffreddamento per mantenere la temperatura ottimale della batteria. In questi casi è fondamentale seguire le indicazioni del produttore per eventuali sostituzioni o rabbocchi. Infine, ma non per importanza, tornano utili sia l’attenzione ai cavi e alle prese di carica, sia la pulizia del sistema di frenata rigenerativa.

    Nel primo caso, l’azione da svolgere è molto semplice e prevede il controllo periodico dello stato del cavo di ricarica e delle prese onde evitare danni che possano compromettere la sicurezza e l’efficienza della ricarica. Nel caso del sistema di frenata, invece, sebbene sia meno soggetto a usura, è comunque doveroso controllare periodicamente il funzionamento; questo serve per evitare accumuli di polvere e detriti che potrebbero comprometterne la corretta funzionalità.

    La manutenzione di un’auto elettrica è generalmente più economica e semplice rispetto a quella di un veicolo a combustione interna. Seguendo pochi accorgimenti e pianificando controlli periodici, è possibile prolungare la vita del veicolo e massimizzare i risparmi. Con l’aumento dell’offerta di veicoli elettrici e il miglioramento della tecnologia, il futuro della mobilità sostenibile appare sempre più conveniente e accessibile. LEGGI TUTTO

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    Alla scoperta del “dry garden”, il giardino degli antichi egizi che fioriva anche nel deserto

    Sono oasi parlanti, pietrificate nella memoria polverosa del deserto. Tra sabbia, vento e sole a picco si nascondevano protette da mura piscine con ninfee blu, vigneti e aiuole ornamentali. All’ingresso delle tombe, nelle abitazioni nobiliari o nei templi. Gli antichi Egizi avevano un’autentica vocazione per la botanica e per i giardini che declinavano in tutti gli habitat del regno: dalle sponde del Nilo fino alle aree più aride. Una dimostrazione di Dryland Farming, ovvero di coltivazione in condizioni di siccità costante, valida ancora oggi dopo quattromila anni. Selezionavano le specie più adatte e irrigavano con sistemi che oggi sarebbero definiti sostenibili. Ogni pianta poi aveva più di una funzione: alimentare, estetica, religiosa e non si buttava via niente. Corteccia, fiori, radici venivano riciclate in una versione preistorica dell’economia circolare. Il giardino non aveva mai un unico scopo. Quella tra minerale e vegetale è una simbiosi inedita della civiltà delle piramidi e oggi viene raccontata per la prima volta da Divina Centore, archeologa del Museo egizio di Torino e autrice del volume Faraoni e fiori. La meraviglia dei giardini dell’antico Egitto (il Mulino, 2025).

    “Per risparmiare acqua gli antichi egizi adottavano una tecnica di coltivazione a griglia quadrata, oggi conosciuta come Waffle Garden. – spiega l’egittologa oggi impegnata in una campagna di scavi – Il terreno, di solito composto da limo prelevato dalle rive del Nilo, era diviso in piccoli vasetti all’interno dei quali crescevano piante con esigenze idriche molto diverse. Un esempio di questo genere è il giardino funerario annesso a una tomba nobiliare (1539 a.C. -1292 a.C.) ritrovato nel 2017 da una missione spagnola a Dra Abu el Naga”. L’area, di neanche dieci metri quadrati, precede l’entrata nel sepolcro ed è frazionata in 23 quadrati di 30 centimetri di lato separati da pareti spesse circa otto centimetri. Gli studi archeobotanici hanno rivelato la presenza di piante di coriandolo, fiori simili alle margherite (della famiglia delle Asteraceae) alberi di tamerice e una varietà oggi molto rara di melone verde che sopravvive, nella sua forma moderna, solo più in Sudan.

    Un modello simile di Waffle Garden è ancora praticato oggi sotto forma di agricoltura tradizionale nelle comunità indigene nei deserti del sudovest americano. Mentre riproduzioni dei giardini egizi si trovano nel compresso degli Hamilton Gardens in Nuova Zelanda, al Museo dell’Agricoltura del Cairo e sul rooftop del Museo Egizio di Torino. LEGGI TUTTO