Sopraffatti dall’urgenza dettata dalla crisi climatica e impauriti dai tassi velocissimi con cui perdiamo biodiversità, rischiamo di dimenticarci un gigantesco problema: la plastica. Sappiamo bene come oggi questo materiale non solo rischia di impattare sulla salute degli ecosistemi, uccidendo migliaia di specie, ma è anche sempre più presente – attraverso le microplastiche – negli organi umani, con conseguenze ancora poco chiare sul futuro della nostra salute.
Dal 1950 ad oggi la produzione di plastica mondiale è aumentata di oltre 200 volte, arrivando quasi a 460 milioni di tonnellate all’anno. Di questo ritmo, senza un freno alla produzione di plastica vergine e a una migliore gestione di questo materiale, si teme addirittura che entro il 2040 la quantità di plastica immessa nell’ambiente ogni anno raddoppierà rispetto al 2022. A lungo termine si prevede addirittura che l’uso della plastica potrebbe triplicare a livello globale entro il 2060, con i maggiori incrementi previsti nell’Africa subsahariana e in Asia.
Sempre nel 2060 la metà dei prodotti plastici finirà in discarica e meno di un quinto sarà davvero riciclato. Una dimensione che il mondo naturale potrebbe non essere in grado di reggere.
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Le divisioni che ostacolano l’intesa sul trattato
Per questo è importantissimo – dopo la Cop16 sulla Biodiversità e la Cop29 sul Clima appena terminata a Baku – discutere e trovare un accordo internazionale, che sia giuridicamente vincolante, sulla gestione della plastica. L’occasione è, dal 25 novembre al 1 dicembre, il summit di Busan in Corea del Sud dove si stanno incontrando in queste ore i delegati di 175 Paesi che prenderanno parte al quinto round di colloqui volti a trovare un’intesa per un Trattato globale sulla plastica, un sistema per ridurne l’inquinamento in maniera concreta.
Dal precedente ciclo di colloqui svolti ad Ottawa del Comitato intergovernativo di negoziazione delle Nazioni Unite (INC-5), così si chiama il gruppo che sta portando avanti i lavori, non si era arrivati a una soluzione per limitare la produzione di plastica, perché a pesare sono le divisioni tra Paesi. Lo scopo finale delle trattative è arrivare a un trattato giuridicamente vincolante che sia in grado di prendere in considerazione l’intero ciclo di vita del materiale, dalla “nascita” sino alla sua gestione finale dopo l’uso.
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Il problema principale nella gestione della plastica finora è legato, nonostante spesso ci sia stata venduta come una possibile soluzione sostenibile, al reale riciclo e recupero di questo prodotto: in media a livello mondiale si riesce a riciclare appena il 10%. Nel frattempo però continua la produzione, con stime che parlano per ogni anno di quasi 20 milioni di tonnellate di plastica che finiscono in ambiente naturale. Motivo per cui a Busan la speranza di trovare una intesa mondiale per porre fine a questo circolo vizioso è alta. Alcuni Paesi però si oppongono a schemi e firme per una riduzione della produzione di plastica vergine, in particolare quelli legati ai combustibili fossili, come Arabia Saudita, Iran oppure Russia, ma anche in parte la Cina. Altri invece spingono per “livelli sostenibili di produzione”, in linea con le richieste di mercato ma anche con il potenziale impatto ambientale: fra questi ci sono circa 40 nazioni tra cui quelle dell’Ue (Italia compresa), ma anche Svizzera, Fiji e altri che hanno firmato una dichiarazione d’intenti chiamata “Bridge to Busan”.
Gli Stati Uniti, in attesa dell’insediamento di Donald Trump, nonostante siano un Paese fortemente impattante per produzione mondiale di plastica (17%) non hanno firmato la dichiarazione, ma hanno parlato apertamente della necessità di ridurre la produzione di plastica vergine. Il problema è che con le politiche annunciate da Trump, fortemente basate su petrolio e fossile, si teme che gli Usa possano veleggiare d’ora in poi in direzione contraria rispetto ad un trattato globale.
La speranza, per molti Paesi, è dunque che la Cina cambi nel tempo posizione e si faccia avanti per trainare una nuova intesa, “dando vita a uno strumento efficace, altrimenti sarà molto difficile ottenerlo” dicono i negoziatori. Per il presidente del Comitato intergovernativo di negoziazione delle Nazioni Unite, Luis Vayas Valdivieso, c’è bisogno di fiducia e speranza per una intesa perché “senza interventi significativi, si prevede che entro il 2040 la quantità di plastica immessa nell’ambiente ogni anno raddoppierà. Si tratta dunque dell’umanità che si prepara ad affrontare una sfida esistenziale”.
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Inoltre, per la riuscita dell’intesa, Inger Andersen – direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) – ha esortato i delegati divisi sulla riduzione dei prodotti e delle sostanze chimiche nella plastica plastica a trovare un meccanismo di finanziamento per gestire i rifiuti di plastica e per “una produzione e un consumo sostenibili di plastica adottando un approccio basato sul ciclo di vita”.
Serve una imposta sulla plastica vergine?
Altro punto da discutere saranno poi delle possibili imposte. Alla Cop29, Francia, Kenya e Barbados per esempio hanno proposto di istituire una serie di imposte globali su determinati settori – plastica compresa – che potrebbero contribuire ad aumentare la quantità di denaro da mettere a disposizione dei Paesi in via di sviluppo per affrontare le sfide ambientali. L’idea prevede una tariffa di 60-70 dollari a tonnellata sulla produzione primaria di polimeri, con un potenziale di raccolta fondi fra 25-35 miliardi di dollari all’anno. Imposta che però è già stata respinta dalle associazioni industriali di categoria che di tasse non vogliono sentir parlare.
Un “no” che si inserisce naturalmente nel grande blocco divisivo fra chi vuole un ragionamento forte sull’intero ciclo di vita della plastica – come circa 60 Paesi guidati da Ruanda e Norvegia e riuniti sotto il cappello “high ambition” – e chi invece non vuole limiti alla produzione, come i Paesi produttori di combustibili fossili.
A inizio dicembre sapremo quale delle due opposte visioni riuscirà a prevalere e se, nel mezzo, ci sarà davvero spazio per un accordo. Nel frattempo, per tenere alta l’attenzione sul trattato, a Busan Greenpeace ha issato davanti alla sede dei negoziati una grande bandiera raffigurante un gigantesco occhio, un’opera artistica realizzata con ritratti di migliaia di volti di attiviste e attivisti di tutto il mondo, un modo per chiedere un “trattato ambizioso”. “Inizia la fase cruciale dei negoziati per il trattato sulla plastica e i governi devono agire per tutelare le persone e il Pianeta anziché preservare gli interessi delle aziende dei combustibili fossili e dell’industria petrolchimica – chiosa Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia -. Un trattato debole sarebbe un fallimento. Abbiamo bisogno di un accordo ambizioso e legalmente vincolante per ridurre la produzione di plastica ed eliminare la plastica monouso, per proteggere la nostra salute, le nostre comunità, il clima e il Pianeta”.
Il WWF avverte che se i governi non riusciranno a trovare un accordo su misure specifiche e vincolanti a livello globale, difficilmente riusciranno a mantenere la promessa fatta due anni fa di creare uno strumento forte ed efficace in grado di porre fine all’inquinamento da plastica. “Per proteggere le generazioni presenti e future da un mondo sopraffatto dall’inquinamento da plastica e dal peso iniquo che questo impone alle comunità più vulnerabili, abbiamo bisogno di regole globali vincolanti. I negoziatori hanno il sostegno non solo da parte della comunità scientifica, ma anche della maggioranza dei governi, dei cittadini e delle imprese: un Trattato globale con obblighi giuridicamente vincolanti è l’unico modo per affrontare la crisi globale dell’inquinamento da plastica. Bisogna dare priorità alle misure più urgenti e dirimenti per affrontare il problema alla radice e creare un trattato forte e incisivo”, ha dichiarato Eva Alessi, Responsabile Sostenibilità del WWF Italia. LEGGI TUTTO