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    La maggior parte dei pesci negli acquari marini viene catturata in natura

    Quasi tutti i pesci venduti per allestire gli acquari marini vengono catturati in natura. A lanciare l’allarme è stato un nuovo studio dei ricercatori dell’Università di Sydney, secondo cui appunto il 90% circa dei pesci degli acquari d’acqua salata venduti dai rivenditori online negli Stati Uniti provengono direttamente dall’oceano Pacifico occidentale e dall’oceano Indiano. Un dato, quindi, che solleva non poche preoccupazioni sul commercio ittico non regolamentato che minaccia così la sostenibilità degli ecosistemi delle barriere coralline e aumenta ulteriormente il rischio di estinzione per le specie già in pericolo. Lo studio è stato pubblicato su Conservation Biology.

    I pesci catturati in natura
    Nel nuovo studio, i ricercatori hanno preso in esame i dati di 4 importanti rivenditori online di acquari con sede negli Stati Uniti. Dalle loro successive analisi sono emersi dati a dir poco sorprendenti: su 734 specie di pesci disponibili per la vendita, ben 655 specie provenivano esclusivamente da popolazioni selvatiche, mentre solo 21 specie erano disponibili solamente tramite acquacoltura. Ma non finisce qui: il team ha scoperto anche che 45 specie identificate nello studio sono definite di interesse conservazionistico, di cui 20 classificate come minacciate e 25 con una popolazione in declino, secondo l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iunc). Di queste 45 specie, secondo la nuova analisi, 38 provenivano esclusivamente dall’ambiente selvatico.

    La pesca sostenibile
    Molte specie comunemente commercializzate, tra cui i labridi (Labridae), i pesci pagliaccio e altri pesci damigella della famiglia Pomacentridae, e i ghiozzi (Gobiidae), vengono catturate nelle barriere coralline tropicali, spesso nell’Indo-Pacifico, e possono rappresentare un’importante fonte di reddito per le comunità da cui provengono, aree dove sono state documentate pratiche di pesca non sostenibili, tra cui l’utilizzo del cianuro. Allo stesso tempo, commentano gli autori, ospitano anche attività di pesca sostenibili che fungono da esempio per un commercio responsabile per gli acquari marini.

    “Abbiamo urgente bisogno di una maggiore tracciabilità e di una supervisione normativa più rigorosa per garantire che i pesci d’acquario provengano da fonti responsabili”, ha commentato l’autore Bing Lin, del Thriving Oceans Research Hub presso la School of Geosciences dell’Università di Sydney. “Gli acquirenti non hanno un modo affidabile per sapere se il pesce che acquistano è stato pescato in modo sostenibile”.

    Il costo, un ulteriore deterrente
    Un dato particolarmente interessante per il mercato emerso dal nuovo studio è che i pesci d’acquario allevati in acquacoltura costano in media il 28,1% in meno rispetto ai pesci catturati in natura. “Il fatto che i pesci d’acquacoltura siano spesso più economici di quelli pescati in natura suggerisce che le alternative sostenibili non solo sono possibili, ma anche redditizie”, ha evidenziato Lin. Tuttavia, la stragrande maggioranza dei pesci sul mercato statunitense proviene ancora oggi da popolazioni selvatiche, e ciò evidenzia la necessità di strategie sostenibili e di una migliore conservazione, oltre al fatto che la natura spesso non regolamentata delle catene di approvvigionamento del pesce catturato in natura rappresenta un rischio sostanziale per gli sforzi di conservazione.

    “Ci auguriamo che le nostre scoperte motivino i responsabili politici, gli stakeholder del settore e i consumatori a collaborare per salvaguardare le specie vulnerabili delle barriere coralline, promuovere pratiche commerciali sostenibili e sostenere le comunità costiere il cui sostentamento dipende da questo settore”, ha concluso Lin. LEGGI TUTTO

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    Joseph Aschbacher (Esa): “Esploriamo lo Spazio per proteggere il nostro pianeta”

    Cercare esopianeti lontani, provare a tornare sulla Luna, corteggiare Marte. Ma, soprattutto, prendersi cura della Terra: il primo pensiero dei programmi spaziali europei è per il nostro pianeta. Lo dice chiaramente la dichiarazione di intenti contenuta nella “Strategy 2040” dell’Agenzia spaziale europea (Esa), il documento programmatico che ridisegna le ambizioni spaziali comunitarie per i prossimi quindici anni, ponendo come obiettivo principale, per l’appunto, la tutela della Terra e del suo clima. Un cambio di paradigma che mette la sostenibilità, terrestre e orbitale, al centro di ogni futura missione dell’Agenzia. Sono tante le strategie già in atto per riuscirci, dalla raccolta dati di programmi come Copernicus e Osservazione della Terra alla creazione di “gemelli digitali” del nostro pianeta per simulare gli impatti del riscaldamento globale, fino alla “caccia” ai detriti spaziali. Eppure, per Joseph Aschbacher, dal 2021 alla guida dell’Agenzia spaziale europea, tutto questo è solo l’inizio.

    Editoriale

    Un satellite ci salverà

    di Federico Ferrazza

    07 Ottobre 2025

    Lo abbiamo incontrato a Vienna, a margine del “Living Planet Symposium”, la più importante conferenza mondiale sull’osservazione della Terra, e ci ha raccontato la prospettiva di un futuro in cui lo Spazio diventa lo strumento principale per comprendere e preservare il mondo.

    La protezione del Pianeta e la lotta alla crisi climatica sono gli obiettivi prioritari dell’Agenzia. Qual è lo scenario attuale?
    “L’Europa può essere molto orgogliosa di quello che ha raggiunto. Abbiamo il gold standard dei dati e delle infrastrutture di osservazione della Terra. Le immagini e i dati di Sentinel, per esempio, che abbiamo sviluppato attraverso il programma Copernicus, o quelli di satelliti come Biomass, da poco lanciato nell’ambito del programma di Osservazione della Terra, non hanno paragoni nel misurare il polso del nostro pianeta. Abbiamo satelliti meteorologici di altissimo livello, sia geostazionari che in orbita solare; abbiamo sviluppato satelliti più piccoli, le cosiddette Scout Missions, per testare nuove tecnologie come, per esempio, l’elaborazione delle immagini direttamente nello Spazio grazie a chip con intelligenza artificiale. Naturalmente, per avere un valore reale, questi dati e misurazioni devono trasformarsi in servizi ai cittadini: per questo motivo, negli ultimi trent’anni abbiamo costruito un sistema per monitorare parametri relativi all’atmosfera, agli oceani, alla superficie del Pianeta, alle regioni polari, per capire insomma come funziona il “sistema Terra” dal punto di vista geofisico. Contemporaneamente, abbiamo messo a punto un flusso robusto per la distribuzione dei dati: ne disseminiamo gratuitamente 350 terabyte ogni giorno, informazioni utilizzate per l’agricoltura, per la silvicoltura, per le risorse naturali, per la gestione dei disastri, per la pianificazione urbana, per il controllo del traffico aereo e navale e molto altro”.

    Cosa ci aspetta nei prossimi anni?
    “Il meglio deve ancora venire. Lanceremo sei nuove famiglie di satelliti Sentinel per misurare l’anidride carbonica, per il monitoraggio della massa di ghiaccio, per immagini iperspettrali, e molto altro. Ma non solo: l’Intelligenza artificiale ci assisterà sempre di più nell’elaborazione dei dati e nella costruzione dei cosiddetti “gemelli digitali”, delle “copie” del nostro pianeta con le quali potremo simulare scenari climatici e chiederci, per esempio, cosa accadrebbe se la temperatura aumentasse di 1,5, 2,5 o 4 gradi. Quali sarebbero le conseguenze per l’innalzamento del livello del mare, per la siccità, per le migrazioni? E quale sarebbe l’impatto sociale? Che effetto avrebbero le eventuali contromisure? Sono informazioni preziose per poter intervenire in modo efficace. C’è poi un secondo elemento, che riguarda la protezione da minacce come gli asteroidi: stiamo sviluppando missioni per monitorarli e capire come deviarli in caso di pericolo”.

    La ricerca spaziale può guidare concretamente la transizione ecologica in settori come l’agricoltura o la gestione idrica. In che modo?
    “C’è molto che possiamo fare. Abbiamo lanciato un progetto pilota in Austria chiamato “Green Transition Information Factory”: uno strumento basato su dati spaziali che fornisce informazioni su dove installare i pannelli fotovoltaici analizzando l’esposizione al Sole dei tetti, dove posizionare le pale eoliche, qual è l’impatto della transizione verso le auto elettriche o della decarbonizzazione dell’industria. È un esempio perfetto di come la combinazione di dati satellitari, modelli, IA e approccio simulativo possa aiutare un Paese a prendere le decisioni giuste”.

    La sostenibilità non riguarda solo la Terra, ma anche lo Spazio stesso. Come state lavorando per rendere le missioni più sostenibili e affrontare il problema dei detriti spaziali?
    “È un punto che naturalmente ci sta molto a cuore. Più satelliti lanciamo, più inquiniamo le orbite. Oggi abbiamo circa 11 mila satelliti attivi, e il rischio di collisione è enorme. Per questo la nostra agenzia ha elaborato la Zero Debris Charter, la Carta per i Zero Detriti, dove abbiamo chiesto agli stakeholder di sottoscrivere volontariamente alcuni principi fondamentali. Il primo, e più importante, è che alla fine della vita di un satellite ci impegniamo a portarlo fuori dall’orbita, perché non lasci detriti in orbita o sul nostro pianeta: vuol dire progettare fin dall’inizio le missioni con abbastanza carburante per la deorbitazione e in modo che brucino completamente al rientro nell’atmosfera, senza che nessun detrito arrivi a terra. La Carta, al momento, è un impegno volontario, ma il fatto che la abbiano già sottoscritta grandi industrie e Paesi, anche extra-europei, è un segnale molto buono. Ovviamente, nel prossimo futuro, tutto questo dovrà essere regolamentato in modo molto più rigoroso”.

    Per realizzare tutto questo bisogna anche guardare al portafogli: come pensate di rimanere competitivi con l’ingresso di attori privati e ben sovvenzionati, specie negli Stati Uniti?
    “Oggi, circa il 60% dei fondi pubblici globali per lo Spazio è negli Stati Uniti, mentre l’Europa ha solo il 10%. Eppure con così poco siamo riusciti a “catturare” il 22% del mercato commerciale globale, grazie a un programma di commercializzazione molto efficiente. Ma non basta: servono più fondi pubblici per creare le condizioni di sviluppo giuste, altrimenti rischiamo che le migliori aziende e i migliori talenti lascino l’Europa. Ricordo che SpaceX è diventata quello che è oggi soprattutto grazie ai fondi pubblici stanziati da Nasa e Space Force: l’Europa potrebbe fare lo stesso. Abbiamo già il talento, l’expertise e la conoscenza necessari”.

    L’ultimo obiettivo della vostra Strategia è “Ispirare l’Europa”. Qual è il messaggio di speranza che vuole lanciare l’Agenzia spaziale per il futuro?
    “Lo Spazio è, per definizione, fonte di ispirazione per tutti. Tutti sognano lo Spazio. Vorrei che questa ispirazione arrivasse anche ai bambini, fin dall’infanzia, attraverso il sistema educativo. A ispirare gli adulti sono la portata e le ambizioni dei nostri progetti: i razzi Ariane e Vega, i programmi faro Copernicus e Galileo, Ers, una nuova costellazione per la resilienza dallo spazio, e Iris, l’equivalente europeo di Starlink per le comunicazioni sicure. C’è però una debolezza che ancora dobbiamo superare: pur portando avanti una ricerca d’eccellenza e avendo a disposizione tecnologia dirompente e all’avanguardia, in Europa però produciamo ancora pochi satelliti. Dobbiamo fare un passo ulteriore, passare alla produzione di massa, costruendo costellazioni di centinaia, se non migliaia di satelliti, come fanno in Cina e negli Stati Uniti. È il percorso che stiamo cercando di seguire: nel momento in cui saremo davvero competitivi anche sotto questo aspetto, l’Europa potrà davvero essere leader nel mondo”. LEGGI TUTTO

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    30 beluga rischiano la morte ma il Canada vieta il trasferimento

    C’è Xavier, il “nerd” del gruppo, quello che non smette mai di apprendere nuove informazioni. E poi Odin, anche chiamato mister popolarità, amato da tutti. E ancora Acadia, la mamma di Yukon e Tank, oppure Cleopatra, una delle femmine più iconiche del gruppo descritta come anima dalla straordinaria personalità. Tutti loro e molti altri sono i beluga del parco acquatico di Marineland, trenta cetacei che rischiano di essere uccisi per un incredibile e assurdo ingorgo di leggi, crisi economiche e perfino divergenze scientifiche.

    Biodiversità

    La maggior parte dei pesci negli acquari marini viene catturata in natura

    di Marta Musso

    08 Ottobre 2025

    Impossibile sfamarli e nemmeno trasferirli
    La storia dei beluga del Marineland di Niagara Falls, in Ontario, Canada, è una storia di fallimenti. Dopo quasi sessant’anni di attività il centro sta attraversando una crisi economica profonda, tanto che è chiuso da un anno e sta smantellando. Vive un collasso totale, aumentato anche dopo aver ricevuto accuse di vario genere – soprattutto dal mondo animalista – per la morte di almeno una ventina fra beluga e delfini dal 2019 ad oggi. Con il centro che chiude ed è in profondo rosso la sorte dei trenta beluga tenuti in cattività rimane appesa a un filo: senza più fondi è impossibile perfino sfamarli. Così per prima cosa si è tentato di trasferirli altrove. C’erano due possibilità: portarli in un centro marino in Nuova Scozia o traslocare gli animali addirittura in Cina.

    Entrambe le opzioni sembrano però essere fallite: nel primo caso sarebbero state rilevate acque inquinate in Nuova Scozia, tanto da declinare questa possibilità; nella seconda ipotesi invece – ovvero il trasferimento nel Chimelong Ocean Kingdom, parco a tema che vorrebbe acquistare i cetacei – è direttamente il governo a voler impedire il trasloco perché violerebbe leggi nazionali che vietano il fatto che i beluga possano ancora essere usati per scopi di intrattenimento (si potrebbe solo a scopi scientifici).

    Sierra, uno dei trenta beluga a rischio eutanasia  LEGGI TUTTO

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    Non solo gruppi, i contributi per l’autoconsumo vanno anche ad utenti individuali

    Non solo Gruppi di autoconsumo. Chi ha un pannello solare già installato a casa, o sta pensando di metterlo, e ha più utenze intestate ha la possibilità di accedere ai contributi dell’autoconsumo. Esiste infatti, anche se non è tra le più conosciute, la configurazione dell’autoconsumatore individuale a distanza, che consente di accedere alla Tariffa Incentivante del GSE e al Corrispettivo di Valorizzazione ARERA. In pratica si abbattono le bollette e si guadagna. Unica condizione quella di avere tutte le utenze intestate che fanno capo alla stessa cabina primaria.

    L’autoconsumo a distanza
    Il quadro normativo nazionale (Decreto CACER e Testo Integrato Autoconsumo Diffuso, TIAD) prevede diverse configurazioni incentivabili: accanto a CER e Gruppi troviamo appunto l’autoconsumatore individuale “a distanza”. Tecnicamente questa configurazione richiede almeno due punti di connessione distinti: uno collegato all’impianto di produzione (fotovoltaico) e uno o più collegati alle utenze di consumo che facciano capo allo stesso intestatario. Inoltre tutte le utenze e l’impianto devono far capo alla stessa cabina primaria (il limite fisico che definisce l’area di autoconsumo virtuale). Considerando che una cabina primaria può coprire aree significative (in media più quartieri in città e ampie porzioni di territorio rurale), le possibilità di sfruttare questo sistema sono concrete.

    Il pannello in ufficio che “serve” anche casa
    Ad esempio chi non può installare l’impianto al servizio diretto della propria casa, ad esempio per vincoli nel palazzo o problemi condominiali, ma possiede un altro immobile idoneo su cui installarlo, ufficio, negozio, o anche un box, può installare l’impianto su uno solo di questi immobili e collegare virtualmente tutti gli altri. L’importante è che l’impianto venga posto al servizio di più utenze, perché solo in questo modo si massimizza il volume di energia prodotta e virtualmente “condivisa”e si può quindi accedere agli incentivi. E più si consuma più si guadagna.

    Vantaggi che si sommano
    In questa configurazione, infatti, i benefici si sommano in quanto si ottiene innanzitutto un risparmio per l’energia consumata direttamente nell’immobile dove è installato l’impianto, che è oggi stimato attorno ai 28 c€/kWh. Poi per l’energia prodotta e consumata virtualmente tra le utenze a distanza, si ha diritto ad incassare sia la Tariffa Incentivante GSE che il Corrispettivo di Valorizzazione ARERA (Contributo TIAD). La Tariffa incentivante ha un importo di circa 80 €/MWh, pari a 8 c€/kWh, più una componente variabile in riferimento alla taglia dell’impianto e alla sua localizzazione geografica. L’importo viene erogato dal GSE per 20 anni. Ha la stessa durata anche il contributo ARERA che è un rimborso di alcune componenti tariffarie (corrispettivo unitario forfettario, oggi attorno a 1-1,2 c€/kWh) che premia la riduzione delle dispersioni di rete. Il meccanismo di calcolo è orario: il GSE riconosce gli incentivi sulla quota di energia prodotta e contemporaneamente consumata dai punti di prelievo facenti parte della configurazione. Più alti sono i consumi nelle ore di produzione dei pannelli, maggiore è l’incentivo. Anche l’utilizzo di sistemi di accumulo è ammesso, e l’energia immagazzinata e successivamente autoconsumata contribuisce a massimizzare l’incentivo.

    Niente tasse sulle somma incassate
    Entrambi i contributi sono cumulabili con la detrazione fiscale del 50% per l’installazione dei pannelli sulla prima casa, o al 36% per gli altri immobili. Inoltre non sono soggetti a tassazione. L’accesso al servizio per l’Autoconsumo Diffuso e la richiesta degli incentivi (Tariffa Incentivante e Corrispettivo di Valorizzazione) deve essere presentata tramite l’Area Clienti del GSE. Sul sito anche le “Regole Operative” che descrivono in dettaglio la documentazione necessaria e i requisiti tecnici per l’ammissibilità, nella nella sezione “Servizi per te” del sito GSE, sotto la voce “Autoconsumo”. Portale di Accesso (Area Clienti GSE): https://areaclienti.gse.it LEGGI TUTTO

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    Verso Cop30, a Venezia la Dolomite Conference sul clima

    Veniamo da una estate attraversata da ondate di calore mortali, da mesi di incendi che hanno devastato Canada e penisola iberica, da alluvioni che hanno sconvolto Asia ed Europa e i mari, tutt’ora, sono talmente caldi da lasciarci presagire nuovi ed impattanti fenomeni meteo estremi futuri sui nostri territori. Anche se è un tema che appare oscurato dalle politiche negazioniste di Donald Trump o dimenticato davanti all’urgenza dei conflitti e le tensioni politiche mondiali, la crisi del clima è sempre presente e avanza senza sosta, ricordandoci l’impellenza di agire. L’ultimo appello per provare a trovare accordi internazionali per governarla ha un data precisa: l’11 novembre in Brasile, nel cuore dell’Amazzonia a Belém, inizia la Cop30, la grande conferenza delle parti sul clima. Come si arriva a questo incontro? Cosa si può ancora fare per trovare una visione comune e soluzioni utili ad arginare l’avanzata del riscaldamento globale? E come si può riaccendere il necessario dibattito sul cambiamento climatico?

    Tutte domande che proveranno ad avere una prima risposta in Italia, a Venezia, dal 16 all’18 ottobre quando si terrà la quarta edizione della Dolomite Conference su “Global Governance del Climate Change and Sustainability – Venice Edition: da Venezia le idee per ripensare e rendere più forte l’agenda sul cambiamento climatico e sulla sostenibilità”. Una tre giorni internazionale che, coinvolgendo esperti, professori, politici e anche studenti, proverà a tracciare un cammino di risposte in vista della Cop30, proponendo anche soluzioni concrete.

    La conferenza è organizzata dal think tank Vision che da anni, nonostante “il dibattito sul cambiamento climatico sia oggi sospeso tra le reazioni politiche contrarie e l’accelerazione di una crisi che sta colpendo più duramente il cosiddetto sud globale”, tenta di mettere in cima all’agenda delle priorità la questione climatica. La nuova edizione della Dolomite Conference si terrà quest’anno sull’isola di San Servolo e, tra i tanti partecipanti attesi c’è anche il presidente della Cop30, André Corrêa do Lago, così come Izabella Teixeira dell’International Advisory Board at CEBRI ed ex ministra dell’Ambiente del Brasile, e Ibrahima Cheikh Diong dell’UN Fund for Responding to Loss and Damage) e poi l’ex sindaco di Bergamo ed europarlamentare Giorgio Gori, l’ex ministro Renato Brunetta, oggi presidente del Venice Sustainability Foundation, il professor Carlo Carraro della Ca’ Foscari University e autore dei working group dell’IPCC e molti altri.

    Nella Venezia simbolo del cambiamento climatico che combatte da anni contro l’innalzamento dei mari proponendo anche soluzioni pragmatiche come il Mose, la conferenza darà un ruolo centrale anche alle imprese che puntano ad aumentare la loro sostenibilità come leva strategica dell’economia. Inoltre, uno dei punti chiave sarà la presentazione di soluzioni concrete sviluppate da studenti universitari dopo mesi di lavoro e di webinar dedicati, un progetto che passa attraverso i sei gruppi di lavoro chiamati PSSG nati per parlare di agrifood, riciclo, mobilità sostenibile, città del futuro, transizione energetica e loss and damage (il fondo perdite e danni per i Paesi meno sviluppati). Da quest’ultimo impegno degli studenti nascerà poi, come nelle edizioni passate, un elaborato chiamato Venice Manifesto che verrà discusso anche alla Cop30 in Brasile nel cuore dell’Amazzonia.Infine, diversi panel della Dolomite Conference saranno dedicati al ruolo dell’Europa e all’attuale stallo del Green Deal, ma anche alla contrapposizione, per esempio, fra le politiche climatiche di Usa e Cina.

    Per Francesco Grillo, direttore del think tank Vision, “l’esistenza del cambiamento climatico non avrebbe, in realtà, neppure, bisogno della scienza. Basta un termometro e l’esperienza che tutti – da Venezia a Los Angeles, da Cervia a Shanghai – ne facciamo. Un mondo sostenibile è nell’interesse delle giovani generazioni ed è un’urgenza che già attraversa confini e settori produttivi diversi, dalle assicurazioni all’agricoltura, passando per l’edilizia. È evidente però che quest’agenda ha bisogno di linguaggi, di incentivi, di misurazioni diverse. E l’uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi rende il cambiamento climatico l’occasione per ripensare al modo in cui governiamo la globalizzazione”.

    L’evento, dal 16 al 18 ottobre a San Servolo, è organizzato da Vision in collaborazione con il CEBRI (Centro Brasileiro de Relações Internacionais) , diverse Università (tra cui Bocconi, Politecnico di Milano, Luiss e le varie università di Venezia) e tanti partner sia del mondo dell’industria che dei media internazionali (tra cui The Conversation e Illuminem e GEDI e RAI che trasmetteranno alcuni contenuti e copriranno l’evento). L’idea finale della Conferenza, per tutti i partecipanti, è comune: fornire idee e stimoli, nella battaglia alla crisi climatica, direttamente a tutti i leader e i Paesi che si riuniranno l’11 novembre in Brasile per la conferenza delle parti sul clima targata Onu. LEGGI TUTTO

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    “Siccità, alluvioni, inquinamento dell’acqua: alto il prezzo pagato dall’Italia”

    Siccità, alluvioni e inquinamento costano cari all’Italia. Dietro l’immagine dei boschi devastati dagli incendi, dei laghi e i fiumi in secca, si nasconde un prezzo altissimo che l’Italia sta pagando e che rischia di crescere nei prossimi anni. Secondo la Banca Centrale Europea, solo la siccità 2025 costerà una perdita complessiva di 6,8 miliardi di euro che salirà 17,5 miliardi nel 2029. Cifra a cui vanno aggiunti 210,5 milioni di euro già pagati per gli inadempimenti rispetto alla Direttiva europea Acque reflue e altri 300 milioni da sborsare, per le multe che scadranno alla fine 2030 riguardanti sempre la gestione della risorsa idrica nel nostro Paese. I calcoli sono esatti visto che arrivano direttamente dai magistrati della Corte dei Conti.

    Lo studio

    Entro il 2100 carenze idriche gravi nelle aree siccitose

    a cura della redazione di Green&Blue

    23 Settembre 2025

    Ma non si potevano spendere tutti questi soldi per migliorare ad esempio l’efficienza idrica, proteggere il ciclo dell’acqua, mitigare gli effetti della siccità e della crisi del clima, magari perfino rafforzare il controllo e il monitoraggio sugli scarichi agricoli e industriali? È quanto si domandano i ricercatori di Legambiente che hanno deciso di dedicare la VII edizione del Forum Acqua organizzato oggi a Roma al costo economico provocato da siccità, alluvioni e inquinamento. Un report dal titolo “La resilienza idrica in Italia” pieno di dati e grafici che fotografa la situazione dalla Val d’Aosta a Pantelleria a tre mesi dall’adozione da parte della Commissione europea (il 3 giugno scorso) della Strategia per la Resilienza Idrica. Obiettivo della Ue per il 2030: non solo rafforzare la gestione dell’acqua nell’Unione in risposta ai rischi legati alla scarsità idrica, inondazioni e inquinamento delle falde, ma anche costruire una economia “water-smart” con la costruzione di infrastrutture verdi e soprattutto garantire l’accesso all’acqua potabile ed economica a tutti i cittadini. Vista dall’Italia, la situazione appare molto complicata. Anche perché entro dicembre 2025 anche noi dovremmo spiegare a Bruxelles cosa stiamo facendo sul fronte della risorsa idrica, visto che per quella data è stato già programmato il Water Resilience Forum che avrà cadenza biennale.

    Riscaldamento globale

    Agosto 2025 il terzo più caldo mai registrato per gli oceani

    a cura della redazione di Green&Blue

    04 Settembre 2025

    “La resilienza idrica al centro dell’agenda politica”
    Per Stefano Ciafani presidente di Legambiente non ci sono dubbi: “La resilienza idrica deve essere messa al centro dell’agenda politica italiana, con i principi fondamentali richiamati dalla Strategia europea di ridurre i consumi e migliorare l’efficienza. Da qui il nostro appello al Governo Meloni al quale indirizziamo 10 proposte che indicano una direzione chiara da intraprendere per rendere il ciclo integrato e resiliente delle acque uno dei pilastri su cui costruire il Clean Industrial Deal made in Italy”. Queste le dieci proposte di Legambiente divise in tre capitoli.

    Governance
    La resilienza idrica deve essere al centro dell’agenda politica italiana, dando piena implementazione della Direttiva Quadro Acque e tutte le normative collegate alla gestione della risorsa e all’adattamento ai cambiamenti climatici. Anche la priorità finanziaria deve essere data alla tutela del territorio e della risorsa idrica.
    È necessario varare una volta per tutte Piani anti-alluvione e Piani per la gestione della siccità che vanno condivisi tra istituzioni e comunità locali, integrando buone pratiche, competenze scientifiche ed eccellenze tecnologiche. È necessario inoltre definire chiaramente ruoli e responsabilità.
    Conoscenza, trasparenza e comunicazione per coinvolgere attivamente i cittadini, imprese e istituzioni locali in una governance collaborativa e multilivello. Accelerare sulla costruzione dei bilanci idrici, fornendo informazioni sulla quantità e la qualità dell’acqua per gestire le risorse idriche e soprattutto allocare le risorse in maniera più equa e sostenibile. Introdurre una tariffazione progressiva e trasparente.
    La gestione della risorsa idrica deve tenere conto della sua natura di diritto fondamentale per la vita. Necessario gestire il ciclo globale dell’acqua come un bene comune globale, da proteggere. La crisi climatica e la sua gestione poco sostenibile è un problema che, seppur abbia ricadute gravi in aree del mondo già vulnerabili, riguarda tutti i paesi, anche l’Italia.

    Tutorial

    Dalla doccia alla lavastoviglie, i 10 consigli per non sprecare acqua

    di Paola Arosio

    11 Ottobre 2025

    Qualità ed efficienza idrica
    Ridurre i consumi e migliorare l’efficienza idrica, sono i principi che devono tornare alla base dell’approccio all’uso della risorsa idrica in Italia. Serve mantenere il giusto equilibrio tra approvvigionamento idrico e domanda di acqua di adeguata qualità. Improrogabile ridurre le perdite, utilizzare dispositivi efficienti dal punto di vista idrico e aumentare il riutilizzo dell’acqua.
    Protezione e ripristino del ciclo dell’acqua e degli ecosistemi, dalla qualità dipende anche la quantità dell’acqua a disposizione. Priorità alle Soluzioni Basate sulla Natura per migliorare la ritenzione idrica dei suoli e mitigare gli effetti di siccità e alluvioni: ricarica delle falde, nuovi accumuli, rinaturalizzazione degli alvei, ripristino delle zone umide e drenaggio sostenibile urbano. Garantire il deflusso ecologico e impedire la sottrazione delle risorse al ciclo naturale.
    Ogni comparto produttivo deve contribuire alla sostenibilità idrica, a partire da quelli maggiormente idrovori, riducendo la richiesta e aumentando l’efficienza. In agricoltura occorrono pratiche irrigue efficienti, formazione e supporto tecnico alle imprese agricole e la diversificazione colturale in funzione del rischio idrico. Nelle produzioni industriali è fondamentale integrare la resilienza idrica nelle decisioni aziendali: la gestione sostenibile dell’acqua deve essere considerata al pari della neutralità climatica, dell’assorbimento delle emissioni e della capacità di mantenere la competitività. Anche il settore dell’edilizia deve includere misure sistematiche, all’interno delle regolamentazioni, finalizzate al risparmio e al riuso dell’acqua.
    Promuovere una strategia di mitigazione delle immissioni di inquinanti, ad esempio a livello agricolo, relativamente all’inquinamento da FPAS proseguendo i lavori verso il bando universale. Rafforzare l’applicazione del principio “Chi inquina paga”, anche agli scarichi agricoli e industriali, e accelerare sulle bonifiche dei siti di interesse nazionale e delle aree contaminate da PFAS in Veneto.

    Politiche green

    Così la siccità ci mette tutti a rischio

    di Giacomo Talignani

    07 Agosto 2025

    Investimenti e infrastrutture
    Rafforzare controllo e monitoraggio sull’uso e sugli scarichi nei settori agricolo, industriale ed edilizio. Investire nell’innovazione tecnologica per il monitoraggio in tempo reale della qualità e della quantità usata di acqua.
    Rilanciare a livello nazionale e su scala locale la costruzione e la messa in regola dei sistemi fognari e di depurazione. Promuovere il riutilizzo delle acque reflue, grazie al Decreto del Presidente della Repubblica di prossima promulgazione, ampliando l’applicazione per agricoltura, industria e usi civili non potabili (lavaggi stradali, antincendio, verde urbano) ove possibile, senza compromettere il deflusso ecologico.

    Alluvione in Emilia Romagna (2023)  LEGGI TUTTO

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    Le emissioni di gas serra legate agli stili di vita sono 7 volte superiori gli obiettivi climatici

    L’Accordo di Parigi rimane la bussola che indica la direzione alle politiche climatiche. Ma la maggior parte dei Paesi viaggia su una rotta che, almeno nel breve termine, va in un’altra direzione. L’ultima conferma arriva da un rapporto (A Climate for Sufficiency: 1.5-Degree Lifestyles) secondo il quale le emissioni medie globali di gas serra, legate agli stili di vita, sono 7 volte superiori all’obiettivo di tenere, nel 2035, il riscaldamento entro 1,5 gradi in più rispetto all’era preindustriale. Se poi si considerano Paesi ad alto reddito, come Stati Uniti, Australia e Canada, la loro impronta carbonica arriva a essere anche 17 volte superiore ai livelli auspicabili. Il che, oltre a rappresentare un serissimo problema per il raggiungimento degli obiettivi climatici, segnala anche enormi disparità tra aree ricche e aree povere del Pianeta.

    Gli analisti del think tank Hot or Cool Institute, che ha sede a Berlino, hanno preso in considerazione 25 Paesi, dalla Nigeria agli Usa, stimando le emissioni derivanti dagli stili di vita dei loro abitanti. “L’impronta di carbonio media legata allo stile di vita è di 7,1 tonnellate di CO2 equivalenti per persona per anno”, si legge nel rapporto , “ben al di sopra delle 1,1 tCO2 e per persona/anno compatibili con l’obiettivo di 1,5 °C entro il 2035. Ciò richiede una riduzione media delle emissioni dell’85% nel prossimo decennio”.

    Se poi si considerano società con alto tenore di vita il divario cresce. Primi incontrastati in questa classifica delle emissioni sono gli Usa con 18,1 tonnellate di CO2 equivalenti per persona per anno, a causa “della dipendenza dall’auto, dei frequenti viaggi aerei, dell’elevato consumo di carne e da case di grandi dimensioni”. Seguono l’Australia (13,2) e il Canada (11,3). Un po’ staccati dal podio, la Corea del Sud (8,9) e, a sorpresa l’Italia che conquista il quinto posto con 8,6 tonnellate di CO2 equivalenti per persona per anno, riconducibili all’uso dell’auto, ai viaggi aerei, al consumo di carne bovina, suina e formaggio, al riscaldamento ad alto consumo di combustibili fossili. Quindi 8 volte superiore all’obiettivo: per allinearsi, le emissioni in Italia dovrebbero diminuire dell’88% entro il 2035. Il nostro Paese supera dunque la Germania (8,1), il Regno Unito (7,8) e la Francia (7).

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    E i grandi inquinatori asiatici? Se si fanno i calcoli delle emissioni pro capite, evidentemente scendono in classifica. La Cina si colloca al 18esimo posto (5,5 tCO2 e per persona/anno) e l’India al 22esimo (3,2 tCO?e per persona/anno). Perfino Paesi a basso reddito come la Nigeria e il Kenya sono al di sopra dell’obiettivo, anche se di pochissimo: rispettivamente 1,4 e 1,5 volte. Ma, fanno notare da Hot or Cool, “ciò è dovuto in gran parte per l’accesso limitato all’energia e ai beni di consumo, piuttosto che per scelte consapevoli”.

    Uno scenario che, alla viglia di Cop30, pone i governanti di fronte a un dilemma: come garantire nel breve termine l’attuale stile di vita delle persone (o incrementarlo nel caso dei Paesi in via di sviluppo) evitando al tempo stesso che su tempi più lunghi l’innalzamento delle temperature globali mette in crisi i modelli economici correnti.

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    03 Ottobre 2025

    L’Hot or Cool Institute, per allineare gli obiettivi climatici alle esigenze di benessere delle persone, raccomanda un “approccio di sufficienza”, incentrato sul soddisfacimento dei bisogni umani senza eccessi. “I governi devono impegnarsi con urgenza a tornare alla soglia di 1,5 °C, con piani concreti, verificabili e vincolanti dal punto di vista giuridico, che includano riduzioni obbligatorie per le imprese”, auspica Lewis Akenji, direttore esecutivo dell’Istituto e autore principale del rapporto. “Sono necessarie misure più radicali di quelle attuate finora per garantire un futuro equo, sicuro e prospero per tutti entro la soglia di 1,5 °C”. LEGGI TUTTO

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    Oxccu, la startup che trasforma la CO2 in carburante per aerei

    Gli aerei moderni inquinano. Avere aerei che volano utilizzando al posto del cherosene l’anidride carbonica di scarto, è l’ultima innovazione della startup OXCCU. Nata nel 2021 da uno spin off del Dipartimento di Chimica dell’Università di Oxford, questa giovane impresa ha brevettato un processo rivoluzionario per convertire CO2 e idrogeno verde direttamente in carburante sostenibile per l’aviazione, a costi decisamente inferiori rispetto ai metodi attuali. Una notizia cruciale per un settore, quello aereo, che vede nel SAF (Sustainable Aviation Fuel – carburante per aviazione sostenibile prodotto da materie prime rinnovabili e di scarto) uno strumento chiave per la propria decarbonizzazione.

    Andrew Symes, Ceo di OXCCU  LEGGI TUTTO