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    Il caso Madrid e le ondate di calore in città: quali sono i quartieri più a rischio

    Soprattutto in città, le ondate di calore sono un pericolo crescente per la nostra salute. Ma quali sono i quartieri più a rischio? E quali lo saranno in futuro? La risposta arriva da un gruppo internazionale di ricercatori che ha utilizzato Madrid come caso di studio per individuare le zone più vulnerabili all’aumento delle temperature. Lo studio – pubblicato su Earth’s Future – mostra che il livello di vulnerabilità alle ondate di calore può variare in modo sostanziale all’interno dei centri urbani: un elemento che dipende dalla distribuzione di specifici sottogruppi della popolazione come anziani, donne e persone con basso status socio-economico.

    Crisi climatica

    Cosa possono fare le città per combattere il caldo estremo

    di Giacomo Talignani

    16 Agosto 2023

    “Per capire come distribuire e dove concentrare le azioni di lotta e mitigazione del cambiamento climatico nelle città è fondamentale avere informazioni dettagliate a livello locale, su singole aree e quartieri”, spiega Raya Muttarak, professoressa al Dipartimento di Scienze Statistiche “Paolo Fortunati” dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. “Per questo – aggiunge Iulia Marginean, ricercatrice di CICERO (Center for International Climate Research, Oslo, Norway), prima autrice dello studio – abbiamo sviluppato un metodo che, a partire da una serie di dati spaziali e demografici, permette di prevedere i livelli di vulnerabilità alle ondate di calore con un’elevata risoluzione geografica”.

    Crisi climatica

    Cosa possono fare le città per combattere il caldo estremo

    di Giacomo Talignani

    16 Agosto 2023

    Oggi sappiamo che l’aumento delle temperature e delle ondate di calore è associato a un aumento delle malattie e delle morti premature. Sappiamo che più di un terzo dei decessi legati alle alte temperature (nel 2023 sono stati oltre 47 mila solo in Europa) può essere attribuito al cambiamento climatico causato dall’uomo. E sappiamo anche che le città sono più calde delle aree rurali circostanti. Se a tutto questo aggiungiamo che le aree urbane diventeranno sempre più popolose e che la popolazione diventerà sempre più anziana, è evidente la necessità di adottare misure efficaci per contrastare gli effetti del cambiamento climatico.

    Per capire quali sono e quali saranno le zone più a rischio, gli studiosi hanno preso in considerazione le principali caratteristiche socio-demografiche connesse a una maggiore vulnerabilità alle temperature elevate. Tra queste, emergono in particolare l’età avanzata, il sesso femminile e un basso status socio-economico. Il modello è stato poi applicato al caso di Madrid: la Spagna è infatti uno dei paesi europei con il più elevato tasso di mortalità connessa alle alte temperature e la sua capitale è stata colpita anche quest’anno da prolungate ondate di calore.

    Clima

    Basta poco per rendere più fresche le nostre città

    di Viola Rita

    12 Settembre 2024

    “Dalla nostra analisi è emerso che ci sono importanti differenze nel livello di vulnerabilità all’aumento delle temperature tra diverse aree della città e anche tra zone diverse di singoli quartieri”, dice Muttarak. “Le popolazioni più vulnerabili si trovano già oggi nelle aree più svantaggiate della città e la loro condizione è destinata a peggiorare nei prossimi anni se non arriveranno interventi mirati per promuovere una traiettoria di sostenibilità in grado di ridurre le dinamiche di vulnerabilità a favore di un cambiamento più uniforme e resiliente”. Dall’analisi è emerso ad esempio il caso di El Goloso, quartiere periferico a nord di Madrid abitato per il 73% da persone con più di 65 anni: un dato che rende l’area la più vulnerabile alle alte temperature rispetto al parametro dell’età. Se si considera invece lo status socio-economico, sono i quartieri nell’area sud-est della città, ad esempio Villa de Vallecas, i più vulnerabili.

    “Per ridurre la vulnerabilità alle ondate di calore è fondamentale seguire un percorso di sviluppo sostenibile che punti a una rapida diminuzione delle emissioni”, conclude Marginean. “In questo contesto, le soluzioni più efficienti sono quelle che coinvolgono in modo mirato i gruppi sociali più colpiti dagli effetti negativi del cambiamento climatico e aumentano la loro capacità di resilienza”, conclude Muttarak.

    Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Earth’s Future con il titolo “High-resolution Modelling and Projecting Local Dynamics of Differential Vulnerability to Urban Heat Stress”. Per l’Università di Bologna ha partecipato Raya Muttarak, professoressa al Dipartimento di Scienze Statistiche “Paolo Fortunati” e Principal Investigator del progetto ERC-Consolidator POPCLIMA – Population Dynamics under Global Climate Change. LEGGI TUTTO

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    Perché le pompe di calore convengono al portafogli e all’ambiente

    Il futuro del riscaldamento in Europa è elettrico, e le pompe di calore in prospettiva dovranno essere l’unica tipologia di impianto da installare nel rispetto della direttiva “case green”. Le pompe di calore, infatti, sono in grado di contribuire in maniera significativa alla riduzione delle emissioni di CO2, e per questo saranno ulteriormente incentivate mentre dal 2025 scatta lo stop agli incentivi fiscali per le caldaie a gas e il divieto di utilizzo dal 2040. Per fare il punto sulle potenzialità delle pompe di calore in funzione di transizione energetica è stata istituita per il 21 ottobre la prima Giornata Mondiale delle Pompe di Calore (Heat Pump Day), coordinata dall’EHPA, l’European Heat Pump Association. Emanate dalla Commissione Ue anche le linee guida per gli incentivi.

    Pompe di calore e riduzione delle emissioni
    Secondo i dati dell’EHPA, ci sono attualmente 24 milioni di pompe di calore installate in Europa, Complessivamente evitano il consumo di 5,5 miliardi di metri cubi di gas e di 45 megatonnellate di emissioni di anidride carbonica ogni anno. Gli impianti di questo tipo, infatti, si basano su un sistema di scambio di calore con l’ambiente esterno, sfruttando non solo l’energia elettrica. Le prestazioni sono misurate dai parametri COP e EER. Il COP, Coefficient Of Performance, indica l’efficienza elettrica di un climatizzatore mentre funziona in riscaldamento ed è dato dal rapporto tra resa termica (calore ceduto al mezzo da riscaldare) ed energia elettrica consumata, mentre l’EER, Energy Efficiency Ratio indica l’efficienza elettrica di un climatizzatore mentre funziona in raffreddamento. Un climatizzatore con valori di EER e COP uguali a 4 produrrà quattro unità di energia termica per ogni unità di energia elettrica prelevata dalla rete, in quanto le altre tre unità vengono dal prelievo dall’ambiente esterno.

    Fisco verde

    Riscaldamento, tapparelle, elettrodomestici e pannelli solari: come risparmiare in casa entro fine anno

    di  Antonella Donati

    25 Settembre 2024

    La rete e i combustibili da fonti rinnovabili
    Proprio in vista delle novità in vigore dal 1° gennaio 2025 la Commissione Ue ha varato le linee guida agli Stati membri per la graduale eliminazione degli incentivi finanziari per le caldaie alimentate solo da combustibili fossili, lasciando la possibilità di mantenere, in via transitoria, solo quelli per gli impianti ibridi. Quando si tratta di caldaie con un solo generatore di calore, il documento specifica che rientrano in questa categoria solo gli impianti che al momento della loro installazione vengono alimentati dalla rete locale con un mix di combustibili che provengono anche da fonti rinnovabili come biometano e idrogeno verde. Ossia i combustibili verdi debbono già essere presenti nella rete, mentre non si deve tener conto delle potenzialità future.

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    Riscaldamento, torna il bonus per rinnovare l’impianto con biomassa o pompa di calore

    di Antonella Donati

    11 Settembre 2024

    Impianti ibridi con gli incentivi ma solo se la quota di rinnovabili è rilevante
    Maggior favore, invece, può essere riservato agli impianti autonomi che abbinano una caldaia a gas con pompe di calore e/o solare termico, ossia che presentano due generatori di calore in grado di attivarsi indipendentemente. La caldaia a gas in questo caso interverrà solo a fronte di temperature troppo basse per garantire un funzionamento ottimale della pompa di calore. L’incentivo per l’installazione potrà comunque essere ancora consentito solo se la quota di energia rinnovabile utilizzata è rilevante. Spetta ai singoli Stati fare i conteggi in merito alla quota in questione, ma comunque poiché l’obbiettivo finale della direttiva è quello di eliminare l’uso di combustibili fossili nelle caldaie, i sistemi di riscaldamento ibridi dovrebbero essere incentivati ??solo come soluzione transitoria. Per questo il documento della Commissione invita a prevedere incentivi proporzionali alla quantità di energia rinnovabile utilizzata, prevedendo le agevolazioni più significative solo per quelli basati al 100% su energia rinnovabile, ossia a quelli che si basano solo sulle pompe di calore. LEGGI TUTTO

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    Un nuovo tessuto con polimero e lana ci salverà dal caldo riflettendo le radiazioni

    Le temperature globali continuano a crescere e la fetta di popolazione mondiale esposta alle ondate di calore, che investono con particolare forza le aree urbane, aumenta ogni anno. Secondo uno studio pubblicato nel 2019 su The Lancet Planetary Healtg dal 2000 al 2019 in tutto il mondo si sono verificati circa 489 mila decessi all’anno a causa del caldo. In questo contesto è importante agire per risolvere il problema a monte, riducendo cioè le emissioni di gas serra. Dall’altro lato, prosegue la ricerca per la messa a punto di materiali e capi di abbigliamento che aiutino a disperdere il calore corporeo e, magari, anche quello degli ambienti interni di case, uffici e altri luoghi di lavoro.

    Cambiamento climatico

    Copernicus: “Dopo settembre, probabile che il 2024 sia l’anno più caldo di sempre”

    08 Ottobre 2024

    Secondo uno studio pubblicato su Science Bulletin, un gruppo di ricercatori della Zhengzhou University (Cina) e della University of South Australia ha descritto una nuova stoffa pensata proprio per riflettere i raggi solari e disperdere in modo efficace il calore. “A differenza dei tessuti convenzionali che trattengono il calore, questi tessuti sono composti da tre strati progettati per ottimizzare il raffreddamento”, spiega Yangzhe Hou, uno dei coordinatori dello studio. Lo strato più esterno, spiegano ancora i ricercatori, è fatto di fibre di polimetil pentene, un polimero che aiuterebbe a disperdere efficientemente il calore.

    Unione Europea

    Pfas, le nuove regole Ue sulle sostanze pericolose per l’ambiente e la salute

    di  Cristina Bellon

    24 Settembre 2024

    Come funziona
    Lo strato intermedio, costituito da nano-fibre di argento, è stato invece pensato per riflettere le radiazioni del sole e ridurre quindi la quantità di calore che raggiunge il corpo. Infine, lo strato più interno è fatto di lana, un materiale utilizzato anche in alcuni tipi di abbigliamento tecnico e che dovrebbe permettere la traspirazione della pelle senza trattenere una quantità eccessiva di calore.

    “Nel nostro esperimento – prosegue Hou -, se posizionato verticalmente, il tessuto è risultato più fresco di 2,3°C rispetto ai tessuti tradizionali e fino a 6,2°C rispetto all’ambiente circostante se utilizzato come rivestimento orizzontale”. Attualmente, spiegano i ricercatori, il processo di produzione di questa stoffa è abbastanza costoso e saranno necessarie ulteriori indagini per verificare la durata a lungo termine del materiale prima che possa essere commercializzato.
    Non solo abbigliamento
    Recentemente, un altro studio pubblicato su Science, un altro gruppo di ricercatori aveva proposto un materiale con uno scopo simile. In entrambi i casi, l’obiettivo futuro degli autori dei due studi sarebbe quello di implementare anche versioni leggermente modificate di questi materiali, che possano essere utilizzate non solo nel contesto dell’abbigliamento, ma anche per esempio nella costruzione di edifici, automobili o nel settore del packaging alimentare. Con lo scopo appunto di ridurre il calore all’interno di uffici e abitazioni o la necessità di refrigerazione per il trasporto di alimenti sensibili al calore. LEGGI TUTTO

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    Piante da siepi, le migliori sempreverdi

    Belle, folte, resistenti, versatili e di facile manutenzione. Sono queste le caratteristiche che contraddistinguono le piante da siepi, grazie alle quali creare oasi verdi e dal profumo inebriante. Per realizzare delle siepi funzionali e d’impatto la scelta delle piante da impiegare gioca un ruolo fondamentale: tra le varie possibilità spiccano quelle sempreverdi, apprezzate in particolare per la loro capacità di non perdere le foglie, abbellendo il giardino tutto l’anno.

    I vantaggi delle piante da siepi
    Le siepi possono essere impiegate per delimitare specifiche aree, ma anche per ricavare ambienti riservati e intimi, isolandoli dalla vista di sguardi indiscreti, e per abbellire gli spazi con il loro fogliame e le loro fioriture spettacolari. Inoltre, le siepi danno vita a barriere contro il vento e sono catalizzatori per gli insetti impollinatori. Tendenzialmente, le piante da siepi devono essere piantate ad almeno 50 cm di distanza l’una dall’altra, ma non a più di 70 cm per evitare di avere dei buchi. Se si desidera realizzare un muro protettivo rigoglioso tutto l’anno, un’opzione ottimale è rappresentata dalle piante da siepi sempreverdi le cui foglie, a differenza delle piante caducifoglie, non cadono neanche durante il periodo invernale. Ciò significa che la loro bellezza resta inalterata stagione dopo stagione e, pertanto, sono perfette per creare siepi anche in luoghi dai climi freddi. Altri pregi sono la loro notevole resistenza e il fatto che non richiedono cure particolari.

    Le migliori piante sempreverdi da impiegare per le siepi
    Dando uno sguardo al panorama delle piante da siepi sempreverdi più diffuse spicca il bosso, appartenente alla famiglia delle Buxaceae. Si tratta di un arbusto dalla crescita lenta, originario dell’Europa, che fiorisce da marzo a maggio. Per quanto riguarda la sua altezza può raggiungere i 5 metri, aspetto che lo rende particolarmente adatto per proteggere la privacy nei giardini. Dai fiori piccoli, profumati e di un color bianco crema, il bosso presenta un portamento compatto e molto elegante, prestandosi alla perfezione per abbellire giardini e bordure. Resistente e longeva, questa pianta è presente in molteplici varietà: per le siepi le migliori sono per esempio la rotundifolia e il handsworthiensis, dalla crescita rigogliosa e molto resistenti al gelo. Per la coltivazione del bosso si deve creare una buca di impianto profonda tra i 25 e i 30 centimetri e che, rispetto alla zolla radicale, sia più larga di 15 centimetri.

    Per creare siepi d’impatto è molto popolare l’edera, pianta sempreverde, consistente in un rampicante perenne della famiglia delle Araliaceae. Nota per la sua capacità di espandersi in modo considerevole e per la notevole resistenza, tollera anche il freddo, adattandosi a molteplici contesti, crescendo sia al sole, sia all’ombra. Pianta velenosa, va maneggiata con cura, ma non richiede una manutenzione particolare. Dal nome botanico Hedera helix, per la sua coltivazione è necessaria una profondità di semina di 2-3 centimetri.

    Quali piante sempreverdi si prestano per le siepi da recinzione
    In caso di siepi da recinzione, grazie alle quali decorare gli spazi e proteggere la propria privacy, una soluzione ottimale è il cipresso di Leyland, (Cupressocyparis leylandii) conifera dalla grande resistenza al freddo con cui ottenere siepi funzionali, d’impatto, dense e fitte. Se si è alla ricerca di una pianta sempreverde da siepi economica, il cipresso di Leyland è un’ottima soluzione: comprando delle piante più basse si spende meno e in tempi rapidi si potrà già usufruire di una barriera verde, alta e folta grazie alla sua crescita rapida. Pianta rustica dal folto fogliame, usata in particolare per delimitare i giardini, mantiene il suo aspetto inalterato nel corso dell’anno. Per la sua messa a dimora ci vuole molto spazio, dovendo creare una buca profonda 80 centimetri e che abbia un diametro di 150 cm.

    Il ligustro ovale è un’altra pianta ottimale per siepi da recinzione, dalla crescita rapida e dotata di fiori. Estremamente robusta, fiorisce da giugno ad agosto: contraddistinta da un ottimo rapporto qualità prezzo, deve essere piantata scavando una buca di 60 cm di profondità e di larghezza. Il ligustro ovale si adatta alle diverse tipologie di substrato e vive tutto l’anno all’aperto, resistendo al freddo, al vento, al caldo e alla salsedine. La pianta sopporta le forme geometriche e consente di creare delle siepi compatte non solo di grande impatto, ma anche semplici dal punto di vista della manutenzione e della potatura.

    Altre piante adatte per creare siepi rigogliose
    Una possibilità largamente impiegata per dare vita a graziose siepi con i fiori è il Rhyncospermum jasminoides, detto anche falso gelsomino: si tratta di un rampicante, che richiede una struttura su cui appoggiarsi, come per esempio una rete, un muro oppure una ringhiera. Pianta rustica, fiorisce nel periodo di maggio ed è ideale per recinzioni non troppo spesse oppure in giardini di piccole dimensioni. Per mettere a dimora una siepe con il falso gelsomino è necessario collocare le piante in una buca profonda 40/50 centimetri, distanziandole di 80-100 centimetri l’una dall’altra.

    Per dare vita a delle siepi basse un’ottima opzione è il Viburnum tinus, pianta sempreverde dalla chioma molto folta, resistente e dalla crescita lenta. Questo arbusto è compatto e per essere coltivato come siepe richiede una profondità di semina di 40 centimetri. La pianta fiorisce da novembre a marzo con fiori spettacolari dapprima rosa e poi bianchi ai quali seguono delle bacche blu-violacee. Originaria del Mediterraneo e parte della famiglia delle Caprifoliaceae, è semplice da coltivare, sopporta la siccità e cresce sia al sole che nelle zone di mezz’ombra e di ombra. LEGGI TUTTO

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    Il caffé a “deforestazione zero”, in Ecuador si coltiva il futuro

    “In Ecuador anche la più piccola pianta è una responsabilità collettiva“, spiega Patricio Almeida, agricoltore ecuadoriano, a capo di PROAmazonía, la rete di piccoli produttori che coltivano caffé 100% senza deforestazione. “Le nostre piante non sono solo una fonte di sostentamento, ma anche la chiave per garantire prodotti sostenibili e di qualità per tutti. L‘Ecuador si trova nel cuore del mondo ed esporta frutta, verdura e chicchi di caffé ovunque”. Il progetto è nato nel 2019 e coinvolge oggi centinaia di piccoli produttori, che hanno visto i loro guadagni aumentare senza che il loro lavoro abbia intaccato le risorse naturali. In una parola: sostenibilità. Su tutti i fronti: ambientale, economico e sociale, raggiunta grazie a una una collaborazione tra agricoltori locali, governi e organizzazioni internazionali. Almeida dà i numeri dell’iniziativa: “Il 34% delle coltivazioni sono fianco a fianco con la foresta, il 90% delle aziende è a conduzione familiare, il 26% dei lavoratori è donna”. Lanciato cinque anni fa, il programma è frutto di una partnership tra il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), il governo ecuadoriano e la Fondazione Lavazza, con l’obiettivo di proteggere la foresta amazzonica e garantire prosperità alle comunità locali. Sono già stati salvati dalla deforestazione 16 mila ettari. Proprio nella sede di Lavazza, a Torino, in occasione dell’evento per i 20 anni della Fondazione, si sono ritrovati i principali attori coinvolti nel progetto.

    Il paese con la Natura nella Costituzione
    “L’Ecuador, piccolo ma importante Paese dell’America Latina, ospita una delle aree di foresta amazzonica più vulnerabili”, spiega il ministro dell’Ambiente Danilo Palacios. “Ogni anno grandi aree vengono sacrificate a favore di coltivazioni intensive, spesso per produrre beni destinati ai mercati internazionali”. La pressione agricola e la deforestazione costituiscono una minaccia non solo per la biodiversità, ma anche per la capacità di queste comunità di prosperare e proprio le piccole comunità indigene sono maggiormente a rischio. “L‘Ecuador è stato il primo Paese al mondo a riconoscere i diritti della Natura nella sua Costituzione, nel 2008”. Questo cambiamento legislativo ha rivoluzionato la visione del paese riguardo alla protezione dell‘ambiente, riconoscendo che la Natura ha diritti propri e inalienabili. “Le politiche pubbliche ecuadoriane, infatti, mirano a bilanciare lo sviluppo economico con la conservazione dell‘ambiente, puntando sulla resilienza delle comunità che dipendono dalle risorse naturali”. Il ministro spiega che il rispetto per la natura non è calato dall’alto al basso, ma che la riforma della Costituzione è nata per la spinta dei cittadini. “La foresta però è ancora minacciata”, spiega, citando i casi delle miniere illegali, della criminalità e dello sfruttamento delle risorse senza autorizzazione.

    Deforestazione, l’Ue vuole rinviare la legge. Esultano le imprese, la rabbia degli ambientalisti

    di  Giacomo Talignani

    04 Ottobre 2024

    Il caffè “deforestation free”
    Dal 2019, la Fondazione Lavazza ha collaborato con oltre 50 produttori di caffè in Ecuador per garantire che il loro caffè sia prodotto senza abbattere alberi e distruggere habitat preziosi. Attraverso programmi di formazione e supporto tecnico, gli agricoltori hanno imparato tecniche di coltivazione sostenibile e hanno ottenuto certificazioni che attestano la loro produzione come “deforestation-free”. Per garantire l’efficacia e la trasparenza del progetto, l’Undp ha sviluppato un protocollo rigoroso. La certificazione si basa su un attento monitoraggio delle piantagioni, con verifiche periodiche condotte da enti indipendenti per assicurare che non venga praticata alcuna forma di disboscamento. I produttori devono rispettare linee guida precise che includono l’uso di tecniche agroforestali, che favoriscono la biodiversità e proteggono il suolo dall’erosione. Questo approccio non solo preserva le foreste, ma migliora anche la qualità dei raccolti e la resilienza delle colture. Questo protocollo, che ha anticipato le normative europee in materia di deforestazione, è oggi considerato un modello a livello globale. “Grazie a queste collaborazioni pubblico-private, siamo riusciti ad aumentare i nostri guadagni del 60% e a ridurre la deforestazione del 95%“, ha spiegato Cristina Recalde, vice ministra della Transizione Energetica dell‘Ecuador. “È fondamentale avere sempre politiche pubbliche chiare che supportino i piccoli e medi produttori, così che possano competere sul mercato globale”.

    Il costo del cambiamento climatico
    Nonostante questi progressi, il cambiamento climatico resta una sfida cruciale per l‘Ecuador e per i suoi agricoltori. Gli eventi meteorologici estremi stanno diventando sempre più frequenti e sempre più imprevedibili. Il ciclo delle piogge è mutato, con periodi di siccità alternati a piogge più intense della media storica. Negli ultimi due anni il riscaldamento globale si è sommato al fenomeno ciclico de El Niño, che ha provocato inondazioni sulla costa e siccità nelle regioni orientali e settentrionali.

    Negli ultimi anni, il cambiamento climatico ha avuto un impatto devastante sulle risorse naturali dell‘Ecuador. “Le temperature sono state le più basse degli ultimi 61 anni e le risorse idriche per le centrali idroelettriche sono state colpite duramente”, ha affermato Danilo Palacios, sottolineando la necessità di una gestione più resiliente delle risorse naturali. Eventi come le tempeste tropicali Ota e Iota del 2020 hanno devastato vaste aree di coltivazioni di caffé, riducendo drasticamente la produzione. La coltivazione del caffè dipende da un equilibrio climatico preciso e fragile. Secondo le proiezioni dell’Onu, entro il 2025, l’Ecuador potrebbe perdere fino a 5,6 miliardi di dollari a causa di eventi meteorologici estremi. Per questo motivo, è fondamentale rafforzare la resilienza delle comunità locali: nei programmi di formazione offerti dalle istituzioni ci sono anche specifici corsi su come reagire alle variazioni del clima.

    La collaborazione tra pubblico, privato e Onu
    Uno dei principali ostacoli affrontati dai produttori è l’investimento iniziale richiesto per adattarsi alle pratiche sostenibili. Tuttavia, attraverso il supporto tecnico e i finanziamenti offerti dal progetto, molti agricoltori sono riusciti a superare queste difficoltà. La formazione ricevuta ha permesso loro di applicare tecniche come l’uso di fertilizzanti organici e l‘agroforestazione, una tecnica che prevede la convivenza tra diverse piante, fondamentale per il caffè che necessita di alberi che ne garantiscano l‘ombra. L’iniziativa del caffè libero da deforestazione ha prodotto un risultato significativo anche per noi che stiamo dall’altra parte del mondo. In commercio troviamo un’edizione speciale della linea ¡TIERRA! di Lavazza con chicchi di arabica certificata “deforestation-free“. Come spiega Michelle Muschett, direttrice dell’area latino-americana dell’UNDP: “Quando vediamo i risultati concreti, sappiamo che stiamo andando nella giusta direzione“. La collaborazione tra pubblico e privato ha infatti permesso di coniugare la qualità di un prodotto pensato per il mercato internazionale e un impegno concreto verso la salvaguardia delle foreste.

    Un modello esportabile
    L‘impatto positivo del programma in Ecuador ha suscitato l‘interesse di altri Paesi produttori di caffè. Attualmente, sono in corso discussioni per esportare questo modello di produzione sostenibile in paesi come Colombia e Honduras, dove il caffè rappresenta una risorsa economica fondamentale. Ma l‘iniziativa non si limita all‘America Latina. “Pensiamo di replicare questo modello anche in Africa, dove diversi Paesi sono grandi produttore di caffé”, ha aggiunto Muschett. Questa visione globale dell’iniziativa riflette la consapevolezza crescente dell‘importanza di proteggere non solo le foreste amazzoniche, ma anche altri ecosistemi sensibili nel mondo. “Le lezioni apprese in Ecuador possono essere utilizzate come punto di partenza per promuovere un modello di sviluppo che ponga la natura e le persone al centro”, spiega Muschett. Il progetto del caffè a deforestazione zero è solo un primo passo. “La chiave, alla fine, è semplicissima: se mettiamo lo sviluppo umano sostenibile al centro delle nostre priorità, possiamo davvero fare la differenza“. Il passo più importante per ripensare il nostro futuro. LEGGI TUTTO

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    Start Cup Puglia 2024, vince Beadroots e il suo sistema per combattere la siccità

    Continua la competizione delle finali tra le Start Cup regionali 2024. Con un’idea per combattere la siccità attraverso l’utilizzo di polimeri superassorbenti naturali, la startup Beadroots è la vincitrice della Start Cup Puglia 2024 – Premio regionale per l’Innovazione.
    Gli idrogel, applicati alle radici delle colture, permettono un forte risparmio idrico e, degradandosi, hanno un effetto biostimolante sulle piante aumentandone la produttività e rigenerando il suolo grazie all’aumento di batteri benefici. Il team composto da Angela Bonato, Valerio Vincenzo De Luca, Paolo Pezzolla è stato il più votato tra i dieci progetti in gara durante la Finale della 17esima edizione che si è svolta presso lo Spazio Murat a Bari lo scorso 16 ottobre. La competizione tra nuove iniziative imprenditoriali innovative è organizzata da ARTI, Agenzia regionale per la tecnologia e l’innovazione, in collaborazione con Regione Puglia, Comitato Promotore e PNI, Premio nazionale per l’Innovazione.

    Menzione speciale Green&Blue a NeoGeo
    La menzione speciale Green&Blue offerta dal Gruppo Gedi, media partner del PNI, per il miglior progetto di impresa ad impatto sul cambiamento climatico, è stata vinta da NeoGeo, progetto che combatte il contrasto all’erosione costiera, attraverso due tecnologie brevettate: il masso artificiale “RICCIO” per dighe foranee portuali e la barriera antierosione e ripascente “WaVe Filter” per spiagge sabbiose ad alta valenza turistica. Il team è composto da Sergio Sozzo, Elisabetta Pellegrino, Maria Barbara Galati, Daniele Mazzotta, Dario Golia, Tommaso Elia.

    Tutti i vincitori

    A conquistare il secondo posto è QSENSATO che ha progettato chips atomico-fotonici e sensori atomici integrati per soddisfare la crescente richiesta di applicazioni in sensoristica e metrologia quantistica. Il team è composto da Vito Giovanni Lucivero, Annalisa Volpe, Domenico Tulli, Vincenzo Mazzilli, Sabino Sernia.
    Terzo classificato B-ME Biobased Materials for Energy che intende sviluppare materiali ed elettrodi per una nuova generazione di dispositivi elettrochimici per l’accumulo di energia. Il team è composto da Chiara Mongiovì, Lorenzo De Giovanni, Massimo Trotta, Alberto Perrotta, Matteo Grattieri, Paolo Stufano.
    Quarto posto infine per Cranial Device, un dispositivo diagnostico medico innovativo e non invasivo progettato per misurare con precisione la mobilità cranica. Il team è composto da Michele Genga, Nina Marangi, Simone Bennani, Vito Nobile, Massimo Rosato.

    I quattro vincitori di questa 17esima finale della Start Cup Puaglia si sono aggiudicati premi in denaro rispettivamente di 10mila, 7mila, 5mila e 3mila euro oltre all’accesso di diritto al PNI, il Premio nazionale dell’innovazione in programma il 5 e 6 dicembre a Roma.
    Al vincitore assoluto della Start Cup 2024 anche la menzione speciale di “Premio regionale per l’innovazione” .

    Prossimi passi della competizione
    Ma le sfide per i vincitori pugliesi non finiscono qui. Dopo la Start Cup Puglia, i quattro vincitori e il vincitore del Premio Green&Blue partecipano al PNI – Premio nazionale per l’innovazione che quest’anno si svolge a Roma il 5 e 6 dicembre. Prima dell’appuntamento del PNI, inoltre, i vincitori della Start Cup parteciperanno ad un’altra competizione, questa volta per la regione Campania: l’Innovation Village Award (il 15 novembre). Soddisfatto per il valore delle idee presentate in questa 17esima edizione il commissario straordinario di ARTI Cosimo Elefante che ha commentato: “La competizione della Start Cup Puglia non è solo un palco per lanciare nuove idee innovative, ma una vera e propria fucina di startup di successo, che anno dopo anno continua a valorizzare le idee e i progetti più promettenti a livelli e con risultati sempre più alti, supportando startupper o aspiranti imprenditori nel trasformare le loro visioni in realtà. Oggi abbiamo premiato l’innovazione, la creatività e l’imprenditorialità della nostra regione attraverso i futuri innovatori della Puglia”.

    Le startup pugliesi Preinvel e Foreverland
    La Start Cup Puglia ora prosegue con il bootcamp dei finalisti in preparazione della sfida del PNI dove l’anno scorso la Puglia si è aggiudicata due premi nazionali su quattro categorie: Cleantech & Energy per Preinvel, startup che si pone l’ambizione obiettivo di risolvere il problema dell’inquinamento industriale attraverso una tecnologia di filtraggio fluidodinamico brevettato ad aria. La sua innovativa tecnologia si rivolge ad aziende che producono emissioni in atmosfera come acciaierie, termovalorizzatori, cementifici, etc. Il sistema può essere usato anche per la purificazione di aree urbane ed in campo militare per decontaminare aree bombardate da armi chimiche o batteriologiche. Il team è composta da: Angelo di Noi, Francesco Ribezzo, Rocco Rizzo, Gaetano Di Bari, Gioele Rampinelli, Laura Aquaro.

    Il premio Industrial è stato vinto da Foreverland, startup fondata a Conversano, in provincia di Bari, a maggio 2023 da Massimo Sabatini, Riccardo Bottiroli, Giuseppe D’Alessandro e Massimo Brochetta, impegnata nel democratizzare il cioccolato creando alternative sostenibili e rispettose del pianeta, senza alcun compromesso sul gusto. Ha infatti creato Choruba, un ingrediente rivoluzionario a base di carrube italiane, che offre un’alternativa eco-consapevole al cioccolato tradizionale e protetta da due brevetti. Choruba viene venduta in gocce o liquido, in diverse varianti ed applicazioni, ad aziende del settore alimentare e già nei prossimi mesi saranno in commercio prodotti che utilizzano l’ingrediente innovativo.
    Foreverland ha da poco concluso un round di investimento da 3.4 milioni di euro che permetterà all’azienda la realizzazione del primo impianto produttivo in Puglia, a Putignano (BA), operativo da gennaio, e la commercializzazione del suo ingrediente innovativo, Choruba. LEGGI TUTTO

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    Così la microalga bioluminescente sopravvive negli abissi

    Per mare si viaggia in tanti modi. Tralasciando i motori, pinne, muscoli e tentacoli la fanno da padrone. Ma chi non ha niente di tutto questo si deve ingegnare a chiedere un passaggio, affidarsi alle correnti o a trovare altre soluzioni. La microscopica Pyrocystis noctiluca, una specie di fitoplancton (un’alga non mobile, nel dettaglio), ci […] LEGGI TUTTO

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    Uno studio rivela: i delfini respirano microplastiche

    Sono ovunque: sull’Everest e nella neve artica, nella placenta e, naturalmente, nei nostri mari, in quantità stimate in quasi due milioni di tonnellate all’anno. Ora, però, per la prima volta le microplastiche compaiono nel respiro dei delfini, che finiscono fatalmente con inalarle quando salgono in superficie. Con conseguenze potenzialmente nocive sulla loro salute. È quanto certificato da uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Plos One. I delfini non sono gli unici animali a “respirare” microplastiche.

    Ricerche precedenti, in Giappone, ha certificato la presenza di microplastiche nei polmoni degli uccelli selvatici. Ma sono proprio i cetacei, che popolano i mari di tutto il mondo, a toccare anche le aree costiere più trafficate: per questo sono considerati dai ricercatori un potenziale indicatore importante sull’inquinamento da plastica.

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    Nello studio in questione, Leslie B. Hart, co-direttrice del Center for Coastal Environmental and Human Health presso il College of Charleston, nella Carolina del Sud, ha raccolto – insieme alla biochimica Miranda K. Dziobak, campioni di aria espirata da undici tursiopi nella baia di Sarasota, in Florida, e nella baia di Barataria, in Louisiana. Per farlo hanno posizionato una capsula di Petri, piccolo recipiente di forma cilindrica, sullo sfiatatoio di ciascun esemplare, durante la fase dell’espirazione. Alla ricerca ha collaborato il Brookfield Zoodi Chicago, che conduce da anni studi sulla salute dei delfini, in particolare quelli catturati e poi rilasciati.

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    La ricerca ha preso le mosse da alcune evidenze emerse in studi precedenti, che avevano rivelato – nei delfini della baia di Sarasota – la presenza di ftalati, sostanze chimiche utilizzate nella plastica, interferenti endocrini dagli effetti nocivi per la salute umana. Una presenza attestata su livelli sensibilmente superiori a quelli riscontrati negli esseri umani. Forse, naturalmente, il sospetto che si trattasse degli effetti del marine litter, l’inquinamento da plastica.

    I delfini più esposti dell’uomo

    E il campionamento ha confermato in pieno l’ipotesi: l’analisi da laboratorio ha infatti rilevato particelle di microplastica nel respiro di tutti i delfini testati, con presenza di più tipi di polimeri plastici, tra i quali il polietilene tereftalato (PET) e il poliestere, uno dei polimeri più comuni utilizzati nel campo dell’abbigliamento. “E in effetti per ogni bucato i nostri vestiti rilasciano milioni di minuscole fibre di plastica, in grado di viaggiare facilmente nell’acqua e nell’aria”, spiega Dziobak. Fatale che gli animali, come l’uomo, vi siano esposti: “Proprio così. – annuisce Hart – E i delfini, secondo la nostra ipotesi, li respirano in superficie, mentre vengono disperse dalle onde”.

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    Di più: “l’apnea prolungata dei tursiopi li renderebbe più esposti dell’uomo, in virtù della grande capacità polmonare, all’assunzione involontaria delle microplastiche condotte dall’aria”, annota ancora Hart.

    Quanto alle conseguenze, le microplastiche sarebbero collegate a potenziali infiammazioni e danni a livello cellulare. E, soprattutto, veicolerebbero sostanze chimiche a loro volta direttamente nocive. Ma – spiegano i ricercatori – sono necessari ulteriori studi per comprendere meglio l’entità delle microplastiche inalate, nonché per esplorarne con maggiore precisione gli impatti, dati i potenziali rischi per la funzionalità polmonare e la salute.Non mancano, nel recente passato, studi sull’inalazione di microplastiche da parte dell’uomo. Che potrebbe respirare circa16,2 frammenti all’ora, l’equivalente di una carta di credito in una settimana, secondo studio condotto dai ricercatori della University of Technology Sydney, della Western Sydney University, della Urmia University, della Islamic Azad University, della University of Comilla e della Queensland University of Technology, pubblicato sulla rivista Physics of Fluids.

    La sfida è comprendere con quali conseguenze, a breve e lungo termine, si muovano nel sistema respiratorio, degli esseri umani come degli animali, delfini compresi. La plastica come vettore di agenti nocivi“Il problema della diffusione delle microplastiche, e in generale delle plastiche, è – con i cambiamenti climatici e la distruzione diretta degli habitat, una delle tre grandi questioni che minacciano la biodiversità. – spiega Antonio Terlizzi, che da direttore del Dipartimento di Ecologia Marina Integrata della Stazione zoologica Anton Dohrn si occupa quotidianamente degli effetti dell’impatto antropico sugli organismi marini –

    Nel Mediteranneo stimiamo un quantitativo di 500 milioni di tonnellate di plastica, l’85% dei quali a noi invisibili, trovandosi soprattutto nei fondali. E troviamo costantemente microplastiche nei mammiferi, nei pesci e in diversi invertebrati, per esempio crostacei, spugne ed echinodermi: le nostre preoccupazioni non sono legate solo agli effetti diretti della plastica ingerita o respirata, quanto a quelli indiretti. Gli animali, delfini compresi, che ingeriscono o respirano microplastiche hanno a che fare con quello che in gergo definiamo ‘carrier’, vale a dire portatori di agenti chimici e sostanze tossiche che penetrano negli organismi attraverso la plastica e influiscono negativamente sulla salute degli animali”. LEGGI TUTTO