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    Perché l’overtourism sta diventando un problema: crescono le emissioni globali

    Il turismo è il settore industriale in maggiore espansione e, leggendo i dati appena presentati in uno studio pubblicato su Nature si sarebbe tentati di chiudere ogni altro settore produttivo e puntare tutto su questo giro di affari. Nel 2023 ha prodotto un giro per 9.000 miliardi di dollari (quasi il 10% del GDP globale) ed è stato uno dei settori in più rapida crescita al mondo per dieci anni consecutivi. La sua crescita inarrestabile ha però un costo ambientale. Nel rapporto si legge che tra il 2009 e il 2019 le emissioni di gas serra per questo settore sono cresciute a un tasso annuo del 3,5%. E oggi al turismo si devono almeno l’8% delle emissioni globali.

    Spiega Ya-Yen Sun, della Università del Queensland (Australia), tra gli autori dello studio: “Dal 2009 al 2019 le emissioni globali sono cresciute ad un tasso dell’1,5% all’anno. Anche le emissioni dovute al turismo sono aumentate, ma il loro tasso di crescita è stato del 3,5% all’anno. In altre parole le emissioni di questa industria sono aumentate a un ritmo doppio rispetto al resto dell’economia mondiale”. LEGGI TUTTO

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    Nuovi scarichi nell’area protetta di Gaiola: la protesta contro l’inquinamento di Bagnoli

    Cronaca di un disastro annunciato per il mare di Napoli. Ogni volta che piove forte, quando arrivano grandi alluvioni che con la crisi del clima sono sempre più intense, a Napoli scatta il sistema del “troppo pieno”: le fogne napoletane non presentano divisione tra acque nere ed acque bianche e quando per la pioggia l’acqua nelle condotte va oltre un livello di guardia, per evitare che le strade si allaghino, gli scarichi del sistema fognario finiscono direttamente in mare senza passare dal depuratore di Cuma. Il risultato – e basta osservare le immagini diffuse in rete sia nel 2022 sia nel 2023 dai cittadini – è eloquente: oltre alle acque nere, rifiuti di ogni tipo galleggiano nel tratto di costa che è considerato il più prezioso dal punto di vista ambientale e storico, ovvero tra Nisida e l’Area marina protetta di Gaiola, quella che ospita uno dei parchi sommersi archeologici più importanti di Italia. Per questo, da anni, a Gaiola i responsabili della Amp e delle associazioni ambientaliste chiedono di porre fine allo scempio, di trovare un altro sistema per evitare quegli scarichi che fuoriescono dal collettore di Cala Badessa e, dalla spiaggia di Coroglio, arrivano poi grazie alle correnti fino a tutta l’Area marina protetta, ricca di posidonia e coralligeno, impattando sull’intera area della Zona speciale di conservazione (Zsc).

    Per tutta risposta, il governo e la Commissione Pniec del Ministero dell’Ambiente, anziché decidere di intervenire su questo tipo di situazione, hanno scelto di raddoppiare lo scarico fognario a mare per permettere la riqualificazione in programma dell’area di Bagnoli. Il piano è avallato sia dal Comune di Napoli che dal governo nazionale e, dovendo correre con i tempi per garantirsi i fondi Pnrr, il doppio scarico è stato ufficialmente approvato: i lavori potrebbero già iniziare nel 2025, come si legge nel Piano di risanazione di Bagnoli, il Praru. Un raddoppio di scarichi che, come sintetizza a Green&Blue il direttore dell’Area Marina Protetta di Gaiola, Maurizio Simeone, potrebbe significare la fine non solo per gli ecosistemi di Gaiola, ma anche per il turismo e per l’intero indotto economico dell’area.

    Su spinta di decine di associazioni guidate da Marevivo e riunite nel Coordinamento Tutela Mare “Chi Tene o’ Mare” è stata lanciata una petizione – sottoscritta da quasi 10mila persone – per chiedere lo stop al progetto. Appelli, per un ripensamento, sono stati promossi anche da attori di Gomorra e dal cantante Liberato sui social. “Allo stato attuale c’è già uno scarico di troppo pieno che serve una superficie della città grande quanto una cittadina media. Uno scarico che fu costruito nel 2001, prima dell’Area marina protetta o della Zsc. All’epoca si aveva meno conoscenza dei nostri ecosistemi e purtroppo si decise per uno scarico proprio in quel punto della costa. Negli anni successivi però, oltre alla Amp, l’area è stata inserita nella rete Natura2000 per i suoi habitat preziosissimi, dalle grotte sino ai coralli o la posidonia, ai quali va aggiunto il patrimonio culturale archeologico, i vincoli paesaggistici e tanto altro. Per cui noi mai ci saremmo aspettati che proprio lì si parlasse di raddoppio degli scarichi, anzi, al contrario speravamo in una modifica di quelli attuali. Siamo stati presi in totale contropiede”.

    Quando nel 2016 si fecero i primi passi per la riqualificazione di Bagnoli, le associazioni ambientaliste dissero che era l’occasione giusta per rivedere il sistema di scarichi, “qualcosa che oggi comporta 100 metri cubi al secondo di liquami che vanno a finire in acqua quando ci sono le piogge”. Invece con la decisione presa “ora si arriverà addirittura a 206 metri cubi. All’acqua di scarico delle fogne si mischiano altre acque urbane, spesso inquinate con idrocarburi o metalli pesanti. Si mischia tutto e va finire in mare. Quando arrivano le alluvioni e avvengono gli scarichi, si chiudono i lidi sino a Napoli. Ci immaginiamo cosa succederà con un raddoppio dello scarico nelle prossime estati?” sostiene Simeone. Un impatto su turismo, ecosistemi, ma “anche piccola pesca o allevamento di mitili”, spiega.

    Con il nuovo progetto le sole acque nere triplicheranno, passando da 215 litri al secondo a 728 litri al secondo.”Tutto ciò è davvero paradossale e fa rabbia che non siano state prese alternative per evitare un disastro ambientale. Abbiamo il depuratore di Cuma che fuziona, perché non migliorare le condotte e pensare di far passare le acque reflue da lì?”. Secondo il direttore tutte le singole comunità biologiche di Gaiola potrebbero avere un fortissimo impatto negativo se il doppio scarico entrerà in funzione. “Spero vivamente che si rendano conto che è stato un grande abbaglio, che il Ministero ritiri tutto, perché davvero qui non ci si rende conto del disastro che potrebbe essere”, aggiunge. Gli elementi per valutare e capire che si tratta di una scelta sbagliata, sostiene infine il direttore, ci sono tutti: dai report presentati dalla Amp ai documenti con oltre cento obiezioni al progetto avanzate da decine di ricercatori ed esperti della Federico II e dai biologi della Stazione Dohrn. Non solo: anche a livello economico ci sono stime sul possibile impatto della piccola pesca costiera, così come del turismo, che in quella zona cresce. “Se si farà il progetto si distruggerà tutto ciò che di buono è stato fatto negli ultimi 20 anni” conclude Simeone. Anche per Rosalba Giugni, presidente di Marevivo, associazione che si sta battendo per fermare il piano, è necessario fare di tutto per bloccare questo sfregio. “Marevivo ha impiegato oltre 10 anni per ottenere l’istituzione di Area marina protetta della Gaiola, un luogo straordinario, unico. Oggi ci troviamo nella condizione di dover tornare a lottare per salvare questo posto e il mare di Napoli: ciò che vogliono fare è anche uno sfregio alle nostre istituzioni, alla rete Natura2000, all’Europa e alle tante leggi a tutela di questi luoghi. Che altro dobbiamo fare per proteggerlo?”. LEGGI TUTTO

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    “Cronache d’acqua”, immagini dal Sud: così il clima cambia i paesaggi d’Italia

    Immersi nelle Cronache d’Acqua. Alle Gallerie d’Italia di Torino, polo museale del gruppo Intesa Sanpaolo, ci si potrà tuffare nell’acqua che manca, mettendo in crisi gli agricoltori e intere comunità. In quella che arriva inaspettata e violenta, inondando e distruggendo. In quella simbolo di vita che zampilla (o zampillava) da fontane monumentali. E in quella che non basta mai, oggetto di un consumismo che colpisce non solo le merci ma anche le risorse primarie.

    Dal 12 dicembre al 12 gennaio i dieci reportage fotografici della seconda edizione del progetto, questa volta dedicato alle “Immagini dal sud Italia”. Il progetto è protagonista di un numero speciale di Green&Blue in edicola mercoledì 11 dicembre in allegato con Repubblica e di un longform digitale a cura di GEDI Visual con i racconti di dieci scrittori: Carmine Abate, Mariolina Venezia, Lorenzo Marone, Djarah Kan, Nicola Ravera Rafele, Daniele Rielli, Stefania Auci, Maura Gancitano, Marcello Fois, Flavio Soriga.Le immagini saranno proiettate nella sala immersiva del museo che si affaccia su Piazza San Carlo (aperture: tutti i giorni dalle 9,30 alle 19,30, il mercoledì dalle 9,30 alle 22,30. Giorno di chiusura: il lunedì).

    Sarà anche possibile seguire in diretta streaming l’inaugurazione della mostra, martedì 11 dicembre alle 18.30 su Green&Blue, partner del progetto, e sulle piattaforme del Gruppo GEDI (Repubblica, la Stampa, HuffPost Italia). A presentare il progetto sarà Michele Coppola, direttore di Gallerie d’Italia. Poi l’incontro con quattro dei cinque fotografi che hanno realizzato i dieci reportage di questa edizione 2024. Il tarantino Cosimo Calabrese, che ha raccontato con i suoi scatti la crisi della Fiumara Amendolea, in Aspromonte e l’economia delle acque minerali in Basilicata. La napoletana Eleonora D’Angelo, che ha ritratto i suoi concittadini e le fontane monumentali del capoluogo campano, ma anche una Capri in cui l’overtourism mette a dura prova perfino la gestione delle risorse idriche. LEGGI TUTTO

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    L’albedo si riduce e con meno nuvole il pianeta si riscalda

    I conti non sempre tornano e a volte può essere utile rifarli. I conti in questo caso sono quelli sull’aumento delle temperature che stiamo osservando negli ultimi anni. La comunità scientifica è concorde nel ritenere che stiamo assistendo a una pericolosa impennata delle temperature, ed è necessario conoscere appieno le ragioni dietro questi innalzamenti. E scovando si scopre che esistono fattori non sempre considerati a dovere nel conto totale. È questo lo spirito che ha guidato il lavoro dei ricercatori dell’Alfred Wegener Institute e dell’European Centre for Medium-Range Weather Forecasts, in Germania, secondo i quali le temperature eccezionali dello scorso anno sono state dovute in parte – precisamente per un 0.2°C – a cambiamenti nella capacità del nostro pianeta di riflettere la radiazione solare. La Terra sarebbe stata meno abile a riflettere la luce del sole, e dunque più calda, anche per questo.

    Al centro del lavoro di Helge Goessling e colleghi si trova infatti proprio questo scarto di 0.2°C, definito dal ricercatore, esperto di analisi climatiche al computer, come una delle questioni più discusse in chi si occupa di questi temi. Il punto è questo: 0.2°C è la differenza tra l’aumento delle temperature osservato e quello atteso. Nel dettaglio, raccontano i ricercatori dalle pagine di Science, considerati gli effetti di fattori quali le emissioni di gas serra, di El Niño, e la lunga coda delle emissioni di vapore acqueo del vulcano Tonga—Hunga Ha’apai, si arriva a spiegare un massimo dell’aumento di circa 1,3°C dei 1,5°C invece osservati lo scorso anno.

    Inquinamento

    Le microplastiche trasformano le nuvole e il clima

    di redazione Green&Blue

    12 Novembre 2024

    Rianalizzando i dati i ricercatori sono convinti di riuscire a spiegare la discrepanza osservata: la quota mancante è dovuta a una spiccata riduzione dell’albedo della Terra. Il dato emerge dalle misure e dai modelli effettuati a partire dai satelliti del progetto Clouds and the Earth’s Radiant Energy System (CERES), che si occupa proprio di indagare le relazioni tra radiazione e nuvole (che come il ghiaccio riflettono parte della luce del sole, soprattutto per le nubi più basse, ricordano gli esperti).

    La riduzione dell’albedo planetario è un trend, avviato da tempo ma che lo scorso anno ha raggiunto un minimo, spiegano gli esperti in una nota dell’dell’Alfred Wegener Institute. Aver risposto a questa prima domanda, però, non ha fatto altro che stimolare la curiosità degli scienziati nel cercare di risalire all’origine del fenomeno osservato. Secondo i loro modelli e le loro ricostruzioni, la riduzione dell’albedo avrebbe una causa chiara: la diminuzione delle nubi basse, specialmente alle medie latitudini nell’emisfero settentrionale e ai tropici. Di una quota pari proprio allo scarto dello 0,2°, scrivono: “L’aumento dell’assorbimento di radiazioni a onde corte da dicembre 2020 dovuto alla riduzione dell’albedo può spiegare lo scarto di 0,22°C dell’anomalia di temperatura del 2023, incluso la quota di 0,03°C dalle regioni polari dove la riduzione dell’albedo è dominata dal ritiro del ghiaccio marino e della neve”.

    Lo studio

    In città piove più che in campagna, colpa del riscaldamento globale

    di Sara Carmignani

    14 Settembre 2024

    La conseguenza diretta della perdita di queste nubi basse – forse per una diminuzione degli aerosol di origine antropica che fungono da nuclei di condensazione o forse per effetto dei cambiamenti climatici – farebbe perdere al nostro pianeta uno scudo riflettivo per la radiazione solare, e così la capacità di raffreddamento, ha spiegato Goessling. Considerata la posta in gioco, vale la pena impegnarsi a comprendere meglio tutto questo, facendo e rifacendo i conti, concludono gli autori. LEGGI TUTTO

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    Mondiali 2026, i calciatori ad “alto rischio di stress da calore estremo”

    Aumento delle temperature, maggior frequenza e maggior intensità degli eventi catastrofici, innalzamento del livello del mare, desertificazioni, inondazioni e siccità, nuove malattie, nuovi poveri, nuove migrazioni. Tra i tanti e tragici effetti dei cambiamenti climatici, fino a questo momento, pochi avevano considerato quelli sullo sport: ebbene, un gruppo internazionale di scienziati tedeschi e olandesi ha appena fatto notare che il riscaldamento del pianeta avrà molto probabilmente un impatto considerevole anche sui campionati mondiali di calcio 2026, che si svolgeranno in Canada, Stati Uniti e Messico, e sottoporrà gli atleti a “un rischio molto elevato di subire stressa da calore estremo” in almeno 10 dei 16 stadi che ospiteranno le partite della competizione. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Scientific Reports.

    L’allarme degli scienziati: “Rivedere il calendario degli eventi sportivi”

    “Il nostro lavoro”, scrivono gli autori, “esamina il rischio di grave stress da calore e le potenziali perdite di liquidi nei calciatori professionisti, considerando anche la concentrazione di ossigeno nell’aria inalata dagli atleti che parteciperanno al Campionato mondiale di calcio Fifa del 2026. Abbiamo calcolato, per tutti e 16 gli stadi della competizione, i valori orari degli indici biometeorologici, tra cui l’indice climatico termico universale aggiustato (Utci), la perdita di acqua (Sw) e il volume di ossigeno (Ov)” scoprendo che “dieci stadi sono ad altissimo rischio di causare condizioni di stress termico estremo”.

    Caldo e sforzo fisico

    In particolare, il caldo e lo sforzo fisico intenso potrebbero costringere i calciatori a sopportare temperature percepite superiori a 49,5 °C negli stadi di Arlington e Houston (Stati Uniti) e di Monterrey (Messico). La questione non riguarda solo il prossimo campionato di calcio, ma probabilmente anche quelli del futuro: “Vale la pena”, ha affermato Marek Konefal, uno degli autori dello studio, esperto della Worklaw University of Health and Sport Sciences, in Polonia, “riconsiderare i calendari di tutti gli eventi sportivi d’ora in avanti”.

    Cos’è la “temperatura di bulbo umido”
    Probabilmente, servirà anche un adattamento delle norme che definiscono la “giocabilità” di un dato incontro. Al momento, la Fifa ha disposto che si debbano effettuare pause di raffreddamento nel caso in cui la cosiddetta “temperatura del bulbo umido” superi i 32 °C. La misurazione della temperatura di bulbo umido è una tecnica che si usa per valutare l’effetto combinato di temperatura e umidità dell’aria: si ottiene avvolgendo un termometro in un panno bagnato e facendolo ventilare: l’acqua evapora dal panno e, mentre lo fa, raffredda il termometro. La temperatura che si legge è la temperatura di bulbo umido, e la misura aiuta a comprendere per esempio quanto il corpo umano riesce a raffreddarsi attraverso il sudore: quando l’umidità è più alta, l’evaporazione del sudore è più difficile e la temperatura di bulbo umido si avvicina alla temperatura reale. Se la temperatura di bulbo umido supera i 30-35 °C per troppo tempo, il corpo umano potrebbe non riuscire più a raffreddarsi, portando a colpi di calore anche in condizioni di riposo, e pertanto questo tipo di misurazione è un indicatore usato per valutare il rischio di stress termico, soprattutto in ambienti caldi e umidi.

    Gli autori del lavoro appena pubblicato, però, temono che questo parametro sia insufficiente, perché considera solo calore e umidità “esterni”: “Durante un’intensa attività fisica”, ha spiegato Katarzyna Lindner-Cendrowska, climatologa alla Polish Academy of Sciences e co-autrice dello studio, “i muscoli degli atleti producono enormi quantità di calore, il che aumenta il carico di calore complessivo sul corpo”. Per questo, i ricercatori hanno eseguito simulazioni più realistiche, che tengono conto anche della velocità, dei livelli di attività e degli indumenti indossati dai calciatori, scoprendo che lo stress maggiore sarebbe avvertito tra le 14 e le 17 negli stadi sopra menzionati, e che potrebbe essere così pesante da poter indurre colpi di calore e perfino collassi: uno scenario certamente da scongiurare, per il successo del campionato ma soprattutto per la salute dei calciatori. LEGGI TUTTO

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    Clima, il 2024 sarà l’anno più caldo di sempre

    Ora è ufficiale: il 2024 supera il 2023 e passa alla storia (per ora) come l’anno più caldo da quando si fanno questo tipo di misurazioni. L’annuncio è del Copernicus Climate Change Service, emanazione del Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio raggio: l’istituzione ormai riconosciuta a livello globale come la più autorevole nel monitorare l’andamento delle temperature del Pianeta. Nel suo bollettino mensile l’agenzia europea si concentra sul mese di novembre appena trascorso: è stato il secondo più caldo a livello globale, dopo quello del 2023, con una temperatura media dell’aria superficiale di 14,10°C, di 0,73°C superiore alla media di novembre del periodo 1991-2020. Con un novembre così è ormai certo che l’intero 2024 sarà da record, indipendentemente dalle temperature che si registreranno a dicembre: la temperatura media globale sarà superiore di oltre 1,5°C rispetto alla media del livello preindustriale. LEGGI TUTTO

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    Calicanto invernale, l’arbusto resistente al freddo che viene dalla Cina

    Il calicanto invernale (Chimonanthus praecox) è una specie di pianta arbustiva che appartiene al genere chimonanthus, a sua volta facente parte della famiglia delle calicantacee. La pianta è originaria dell’Asia e, in particolare della Cina, dove cresce spontaneamente soprattutto nelle foreste temperate con latifoglie. Il calicanto invernale si sviluppa come un cespuglio, raggiungendo circa i tre metri di altezza. Le foglie hanno una forma ovale, un colore verde di tonalità piuttosto chiara e sono caduche. I fiori sono solitamente di color giallo paglierino (o comunque chiaro), sebbene possano avere anche sfumature violacee o tendenti al rosso-marrone. Il calicanto invernale non è velenoso: la specie con questa particolare caratteristica è invece la floridus, che è facilmente riconoscibile dai suoi fiori rossi.

    Calicanto invernale: l’esposizione consigliata
    Il calicanto invernale è una pianta particolarmente rustica, che sopporta senza alcun problema delle temperature minime attorno ai -15 gradi. Nelle aree climaticamente calde del nostro paese, il luogo ideale per piantarlo è in penombra: in questo modo, il soleggiamento estivo intenso non farà soffrire la pianta. Nelle regioni più fredde, invece, possiamo metterlo a dimora in aree in cui è esposto al sole diretto. Ricordiamoci infine che la pianta non ama l’esposizione alle correnti d’aria.

    Il terreno ideale per la sua coltivazione
    Per coltivare il calicanto invernale possiamo scegliere un terreno fertile e fresco, che può essere acido o alcalino, poiché la pianta non è particolarmente esigente in tal senso. Il calicanto invernale si adatta anche a crescere nei terreni argillosi, ma la caratteristica che non deve mai mancare è l’ottimo drenaggio. La pianta non sopporta il ristagno idrico a livello radicale: per questo motivo, se necessario, dobbiamo prevedere l’aggiunta di sabbia al terreno di coltivazione.

    L’innaffiatura, la concimazione e la potatura
    Il calicanto invernale richiede una certa regolarità nell’innaffiatura soltanto durante i primi anni di vita. Gli esemplari giovani devono essere annaffiati soprattutto durante il periodo estivo o, comunque, in caso di prolungata siccità. In seguito, la pianta si accontenta principalmente dell’acqua piovana, sebbene si debba prestare attenzione ai lunghi periodi senza piogge, soprattutto se in concomitanza col caldo intenso. Per la concimazione del calicanto invernale possiamo scegliere il tipico concime granulare a lenta cessione, che possiamo distribuire ai piedi della pianta durante l’autunno e la primavera. Il calicanto invernale si può potare soprattutto per orientarne la crescita ed evitare che tenda a svilupparsi eccessivamente verso l’alto. Non potiamo invece la parte bassa del calicanto invernale, poiché ospita tutti i nuovi polloni basali che la pianta continua a sviluppare nel tempo. Ricordiamoci di eliminare i rami secchi o danneggiati, evitando di sfilacciarli, usando sempre utensili puliti. Il momento ideale per eseguire la potatura è attorno agli inizi della primavera, non appena la fioritura è giunta a conclusione.

    Fioritura del calicanto invernale
    Come suggerisce il nome stesso, il calicanto invernale regala una particolarissima fioritura nel cuore della stagione fredda. Quando la pianta sembra spoglia e secca, coi suoi rami legnosi che sembrano riposare, all’improvviso iniziano a spuntare i germogli e, poi, tanti fiori gialli di una tonalità tenue. La fioritura del calicanto invernale avviene solitamente tra i mesi di gennaio e febbraio, anche quando le temperature minime sono particolarmente basse. Quando la fioritura giunge alla conclusione, la pianta inizia a produrre le prime foglie e riprende il suo ciclo vitale.

    Come propagare la pianta
    Il calicanto invernale può essere moltiplicato tramite i semi, le talee, le margotte (cioè, il tentativo di far radicare un ramo che non è stato separato dalla pianta) o i polloni. Nei primi tre casi, dobbiamo attendere il periodo a cavallo tra la conclusione dell’estate e l’inizio dell’autunno. Per la moltiplicazione tramite polloni dobbiamo invece aspettare la primavera, separando un pollone dalla pianta.

    I parassiti che lo colpiscono comunemente
    Il calicanto invernale può essere attaccato dagli afidi, che di solito infestano i nuovi germogli causando importanti danni. Per contrastare l’azione di questi parassiti dobbiamo utilizzare un sapone insetticida o altro prodotto adeguato. La pianta risente abbastanza facilmente degli eccessi di acqua di irrigazione, che possono provocare il temuto marciume radicale e il deperimento dei rami, oppure, la comparsa di foglie secche sul calicanto. In questo caso, sospendiamo le annaffiature ed attendiamo che la nostra pianta si sia ripresa prima di darle altra acqua. Viceversa, durante la stagione estiva il calicanto invernale può soffrire a causa dell’intensità del caldo e la prolungata assenza di piogge, coi rami che tendono a deperire. In questo caso specifico, dobbiamo aumentare l’umidità ambientale, evitando però di bagnare le foglie nelle ore più calde, perché potrebbero bruciarsi a causa del soleggiamento LEGGI TUTTO