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    Un nuovo materiale per padelle antiaderenti senza Pfas

    Dai tessuti impermeabili agli utensili da cucina: le superfici capaci di respingere liquidi e oli sono onnipresenti. E, di conseguenza, onnipresenti sono diventate le sostanze chimiche che conferiscono queste proprietà: i composti perfluoroalchilici, o Pfas. Peccato che i Pfas siano noti per essere agenti chimici perenni, che tendono a rimanere nell’ambiente e ad accumularsi negli organismi viventi, e sembra siano nocivi anche per la salute umana. Nel tentativo di trovare un’alternativa, un team dell’Università di ingegneria di Toronto ha sviluppato un materiale che, sebbene non li sostituisca del tutto, riduce in modo considerevole il loro impiego, risultando quindi più green e salutare. Ecco di cosa si tratta.

    Pfas, difficili da sostituire
    La repellenza all’acqua e all’olio è una caratteristica ricercata in molti ambiti dell’attività umana: serve per rivestimenti protettivi, per i materiali anti-macchia e per le superfici autopulenti utilizzate in campi come l’elettronica, il settore sanitario e quello tessile. I Pfas conferiscono queste proprietà e sono molto difficili da sostituire se non si vuole perdere in prestazioni. Tuttavia, trovare un’alternativa oggi sta diventando una necessità. Diversi Paesi, compresa l’Unione europea, infatti, hanno ristretto l’utilizzo di Pfas, in particolare di quelli a catena lunga, considerati i più pericolosi.

    Ricerca

    Olio di semi di cotone per tessuti idrorepellenti senza Pfas né formaldeide

    di Sara Carmignani

    21 Agosto 2025

    Un “pennello” repellente
    Il lavoro del team di Toronto si è concentrato proprio sulla ricerca di un nuovo materiale che risultasse ugualmente efficace ma più sicuro. L’attenzione è ricaduta sul polidimetilsilossano (Pdms), un materiale a base di silicone, già noto per la sua biocompatibilità e infatti impiegato anche per la realizzazione di dispositivi medici. Il problema è che, così com’è, il Pdms non può competere con le prestazioni dei Pfas.

    Per superare questo limite, i ricercatori canadesi hanno ideato un metodo originale chiamato nanoscale fletching. Questa tecnica consiste nel creare una struttura superficiale simile a setole microscopiche di brevi catene di Pdms, a ciascuna delle quali viene poi attaccata una molecola di Pfas a catena molto corta, costituita da appena un atomo di carbonio e tre di fluoro. La disposizione su scala nanometrica ricorda le piume stabilizzatrici poste sulla coda di una freccia, da cui deriva il nome della tecnica.

    Salute e ambiente

    Pfas nel vino 100 volte superiori rispetto all’acqua potabile

    di Paola Arosio

    30 Maggio 2025

    Performance elevate e rischio ridotto
    Per convalidare la loro scoperta, il gruppo ha ricoperto un tessuto con il nuovo materiale ibrido e vi ha versato sopra diversi oli, raggiungendo un punteggio di 6 sulla scala di valutazione dell’American Association of Textile Chemists and Colorists – un risultato equivalente a quello conseguito da molti rivestimenti standard basati su Pfas.

    È vero, non ci si è liberati del tutto dei Pfas, ma secondo gli esperti le catene chimiche impiegate sono così corte da non avere lo stesso potenziale di accumulo negli ambienti e negli organismi. Il rischio, insomma, sarebbe nettamente più basso rispetto ai materiali antiaderenti tradizionali.

    Questo nuovo materiale ibrido, secondo i suoi ideatori, può rappresentare un avanzamento fondamentale per i settori industriali che mirano a eliminare gli elementi chimici tossici mantenendo alti standard prestazionali. L’équipe è disponibile a collaborare con i produttori per commercializzare il processo e sta già studiando opzioni ancora più sicure. L’obiettivo finale è sviluppare un materiale che superi le prestazioni del teflon ma sia completamente privo di Pfas. LEGGI TUTTO

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    “La giustizia climatica è un obbligo giuridico, non un principio politico”

    “Disinvestire dalla guerra – Investire nella transizione giusta!”. È questo il motto che ha accompagnato la Settimana di azione globale per la Pace e la Giustizia Climatica, rilanciata in Italia dalla Rete Italiana Pace e Disarmo. Un appuntamento che ha riunito reti pacifiste, ambientaliste, associazioni, giovani e comunità locali, nato dalla consapevolezza che pace e clima sono due dimensioni inscindibili della stessa sfida. E tra le voci emerse, una è diventata sempre più urgente: la giustizia climatica non è solo un principio politico. È un obbligo giuridico.

    Il parere della Corte Internazionale di Giustizia
    A sancirlo, lo scorso luglio, è stato il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite: gli Stati hanno l’obbligo legale di agire per prevenire i danni del cambiamento climatico, proteggere i diritti fondamentali e cooperare attivamente per la mitigazione della crisi. Un principio che, secondo l’avvocato Daniele Marra, esperto di diritto della salute ambientale, si innesta pienamente nel nostro ordinamento. “L’articolo 38 dello Statuto della Corte Internazionale considera la consuetudine tra le fonti giuridiche vincolanti” spiega Marra. “E se è vero, ed è vero, che una consuetudine si forma attraverso una pratica costante e la convinzione che sia obbligatoria, allora l’obbligo di difendere il clima esiste da tempo”. Il parere della Corte sottolinea, ad esempio, che l’impegno a ridurre le emissioni previsto dal Protocollo di Kyoto — pur riferito al periodo 2013/2020 — continua ad avere effetto giuridico. “L’assenza di un nuovo periodo temporale” si legge nel testo, “non priva quel trattato della sua validità legale”.

    Ambiente

    Gli attivisti esultano per la sentenza della Corte dell’Aja: “Trionfo per la giustizia climatica”

    24 Luglio 2025

    Le radici dell’obbligo dello Stato
    Secondo Marra, il parere mostra chiaramente come le norme sul clima si siano stratificate nel tempo, fino a delineare un obbligo vero e proprio per gli Stati. Dalla Conferenza ONU di Stoccolma del 1972 al Rapporto Brundtland del 1984, fino alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite del 1992 e l’Accordo di Parigi del 2015 emerge un dovere di cooperazione e un’obbligazione di risultato: garantire ai cittadini un ambiente salubre. “È evidente la presenza dei due elementi che definiscono una norma consuetudinaria” osserva Marra. “La pratica costante degli Stati e la convinzione della sua obbligatorietà. Questo rende l’obbligo di difendere il clima vincolante, anche in assenza di un trattato formale”. È un dovere che prevale perfino sulla sovranità statale, come dimostra un caso del 1941 tra Canada e Stati Uniti: lì, una sentenza arbitrale stabilì per la prima volta che nessuno Stato può usare il proprio territorio in modo da danneggiare un altro Stato. “Già allora, si riconosceva l’obbligo di agire contro l’inquinamento transfrontaliero, riducendo la sovranità del singolo stato inquinante” aggiunge.

    La legge del clima è già scritta
    Oggi, quel principio vale anche per la crisi climatica e può e deve essere fatto valere anche nei tribunali italiani. “I magistrati hanno già oggi le basi giuridiche per riconoscere l’obbligo dello Stato a difendere il clima come parte del diritto consuetudinario, e dunque pienamente applicabile, anche in Italia. Lo prevede l’articolo 10 della nostra Costituzione, che impone il rispetto delle norme internazionali generalmente riconosciute”. Anche la giurisprudenza nazionale si sta muovendo in questa direzione. Con l’azione nota come Giudizio Universale, lo Stato italiano è stato portato in tribunale per inazione climatica. Recentemente, nella causa intentata da Greenpeace e ReCommon contro ENI e altri soggetti pubblici e privati — la cosiddetta Giusta Causa — la Corte di Cassazione ha riconosciuto, nel luglio 2025, che è possibile promuovere azioni civili contro comportamenti che violano obblighi climatici internazionali. Un precedente che potrebbe aprire le porte a un contenzioso strutturato anche in Italia. “Se il diritto a un ambiente salubre è già riconosciuto sia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sia dall’articolo 37 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, allora già oggi i giudici italiani possono applicare quel principio, riconoscendo che lo Stato ha il dovere giuridico di proteggere il clima” ribadisce l’avvocato romano. La giustizia climatica, insomma, non è più un’utopia. È un obbligo che ha già varcato le soglie dei tribunali. Ora, chiede solo di essere applicato. LEGGI TUTTO

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    Entro il 2100 carenze idriche gravi nelle aree siccitose

    Entro il 2100 il rischio di gravi carenze idriche dovute ai cambiamenti climatici interesserà quasi tre quarti (74%) delle regioni soggette a siccità. Lo rivela una ricerca pubblicata su Nature Communications. Si tratta della prima stima pubblicata di questo tipo. Gli autori riportano che in questo decennio e nel prossimo emergeranno probabilmente focolai di scarsità […] LEGGI TUTTO

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    I ghiacciai italiani pieni di contaminanti e metalli pesanti, che finiscono nei fiumi e in mare

    Per decenni abbiamo congelato i nostri “problemi” ma adesso, per via del surriscaldamento generato dalle nostre stesse attività, stanno per essere “liberati”. I ghiacciai italiani sono infatti pieni di contaminanti: metalli pesanti, DDT, PCB e inquinanti vari sono rimasti congelati negli anni sulle vette ma la crisi del clima che pone gli stessi ghiacciai sempre più in sofferenza oggi amplifica il rilascio di queste sostanze destinate ad arrivare fino ai fiumi e poi ai mari, impattando direttamente sugli ecosistemi da cui dipendiamo.

    Cambiamento climatico

    Alaska, il ghiacciaio si scioglie e emerge una nuova isola

    di Fiammetta Cupellaro

    18 Settembre 2025

    La prima mappa su ampia scala dello stato di contaminazione dei ghiacciai italiani è stata realizzata dall’Università Statale di Milano insieme a One Ocean Foundation che in un articolo pubblicato sulla rivista Archives of Environmental Contamination and Toxicology mettono proprio in evidenza lo stato di inquinanti e la connessione fra sistemi montani e marini.

    Finora, hanno ben documentato gli scienziati in tutto il mondo, i ghiacciai globali hanno mostrato caratteristiche di sofferenza comune: stanno arretrando, diventano più scuri e meno riflettenti e accelerano, con la fusione la perdita delle riserve idriche di ogni Paese aumentando così parallelamente l’innalzamento del livello dei mari. Un nuovo rischio però, ricorda la ricerca italiana, è alle porte: lo scioglimento può infatti comportare il rilascio di tutta una serie di sostanze inquinanti – soprattutto di natura antropica – che sono rimaste congelate per lunghissimo tempo. LEGGI TUTTO

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    Bonus per le auto elettriche: tutto quello che c’è da sapere

    Conto alla rovescia per il bonus per l’acquisto di auto elettriche. Dal 23 settembre lo portello online è operativo per i venditori, e non appena sarà chiusa questa prima fase fase alla piattaforma dovranno registrarsi gli acquirenti. Chi ha i requisiti potrà ottenere un voucher da utilizzare al momento dell’acquisto per ottenere lo sconto sul […] LEGGI TUTTO

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    Al via la Climate Week di New York, senza l’inviato italiano per il clima

    L’Italia e l’Europa si presentano zoppicanti alla Climate Week di New York, uno degli eventi più importanti nel panorama della diplomazia climatica. Organizzato tradizionalmente in concomitanza con l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, quest’anno di svolge dal 22 al 28 di questo mese, ospitando tra i relatori personaggi del calibro si Simon Stiell, responsabile Onu per il clima e Teresa Ribera, vicepresidente della Commissione europea con delega alla Transizione giusta e pulita. E mercoledì 24 settembre il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ospiterà un Summit sul Clima, nell’ambito della settimana dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

    “Entro la Cop30, tutte le Parti dell’Accordo di Parigi dovranno presentare nuovi Contributi Determinati a Livello Nazionale (Ndc) che riflettano azioni coraggiose per il prossimo decennio”, ricorda Guterres. “Questi piani aggiornati rappresentano un’opportunità per sfruttare i benefici di un futuro giusto, resiliente e a basse emissioni di carbonio”.

    L’appuntamento di martedì vuole essere un piattaforma in cui i leader potranno presentare i loro nuovi Ndc. C’è molta attesa per il previsto intervento del presidente cinese Xi Jinping, mentre non ci si fa illusioni sull’Amministrativo Trump che, in patria e all’estero, sta smontando le politiche climatiche Usa. Iscritti a parlare 80 capi di Stato e di governo, ma non ci sarà la premier Giorgia Meloni.

    E, appunto, l’Italia? E l’Europa? Il nostro Paese arriva a New York con le idee confuse sugli obiettivi e acque agitatissime all’interno del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica. Della delegazione partita da Roma nelle scorse ore non fa parte l’Inviato speciale per il clima Francesco Corvaro, nonostante nella Grande Mela diversi appuntamenti prevedano la partecipazione degli Special Envoy delle nazioni partecipanti. La decisione di lasciare a casa Corvaro è riconducibile ad Alessandro Guerri, Direttore generale Affari Europei, Internazionali e Finanza Sostenibile del Mase, che non ha autorizzato la missione a New York. Il conflitto è spiegabile certamente con una “incompatibilità caratteriale” tra i due, come dice chi le conosce. Ma anche con la genesi e la gestione, tutte all’italiana, della figura dell’Inviato speciale per il clima. Il suo battesimo risale al governo Draghi. Dopo un lungo braccio di ferro tra l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il collega di governo Roberto Cingolani (Transizione ecologica) si scelse un compromesso: una figura di secondo piano, scelta dalla Farnesina (gli Inviati speciali sono una sua prerogativa) ma incardinata nel ministero di via Colombo e quindi sotto il controllo di Cingolani. Niente a che vedere quindi con figure di grande spessore e potere decisionale come John Kerry per l’Amministrazione Biden o Jennifer Morgan nel governo tedesco guidato dal socialdemocratico Olaf Scholz. Morgan, per esempio, dopo essere stata per anni leader globale di Greenpeace, aveva a Berlino lo status di sottosegretario di governo.

    Da noi invece, per il primo Inviato speciale clima la scelta (gennaio 2022) cade sul diplomatico Alessandro Modiano, oggi ambasciatore in Messico. Ma l’esecutivo di Giorgia Meloni non può tenere al suo posto una figura, per quanto tecnica, di nomina Cinque Stelle. E così, per riempire una casella che ormai esiste ma che non interessa davvero e che comunque un governo di destra non può cancellare senza scatenare polemiche e accuse di negazionismo climatico, si individua un sostituto (agosto 2023): Francesco Corvaro, professore di Fisica tecnica e “vicino” al governatore Fdi delle Marche Acquaroli. Proprio la sua provenienza accademica fa però di Corvaro un corpo estraneo nei corridoi del ministero. E nessuno, né al Mase né alla Farnesina, si è preoccupato di riempire di contenuti un ufficio che pure esiste in tutti i governi occidentali: “Non gli è mai stato detto cosa doveva fare o non fare, con il rischio di sovrapporsi ad altri se non proprio di pestare i piedi”, dice un suo collega.

    La decisione di Guerri di lasciare a Roma l’Inviato speciale italiano per il clima mentre a New York è in corso la kermesse più importante del mondo, se si escludono le conferenze Onu sul clima, sembra essere la rottamazione definitiva non tanto e non solo di Corvaro ma alla figura stessa dell’Inviato: chi non c’è non serve. Il problema è che il nostro Paese arriva all’appuntamento americano non solo senza il suo Inviato speciale, ma anche senza alcuna idea precisa sui tagli alle emissioni di gas serra che si impegnerà a fare in prossimi anni (i famosi Ndc di cui parla Guterres). Perché è l’intera Unione a non avere le idee chiare è bucare l’occasione newyorkese per assumere, magari insieme alla Cina, il ruolo di leader climatico dopo il vuoto lasciato dagli Stati Uniti.

    La scorsa settimana i ministri dell’Ambiente europei non hanno trovato un accordo sugli Ndc e hanno rimesso la decisione ai capi di Stato e di governo che si riuniranno il 22 e 23 ottobre per il Consiglio europeo, troppo tardi per l’evento Onu di dopodomani e a pochi giorni dall’inizio di Cop30 a Belém, in Brasile. È stata però partorita una “dichiarazione di intenti” da leggere nel Palazzo di Vetro mercoledì prossimo. Probabilmente, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel suo intervento la impugnerà per dire che se è vero che la Ue sta ancora discutendo, lo sta facendo all’interno di una forbice di valori tra cui decidere, valori che comunque dimostrano come l’Europa non voglia tornare indietro rispetto all’Accordo di Parigi. Tra liti interne al Mase e difficoltà a livello europeo c’è da chiedersi quale potrà essere il contributo della delegazione italiana alla Cop30. Per ora c’è solo una certezza: i nostri negoziatori non hanno accora un alloggio prenotato nella città brasiliana che ospiterà l’evento, mentre il ministero degli Esteri li rassicura: stiamo trattando con Costa Crociere per riservarvi delle cabine su una delle loro navi che sarà ormeggiata nel porto di Belém. LEGGI TUTTO

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    La raffineria texana che produce biocarburante dai bovini, contribuendo alla deforestazione

    Se per ridurre l’impatto di emissioni inquinanti nei trasporti su strada, auto e camion, si sta puntando sull’elettrificazione, nell’aviazione il discorso è più complesso. E le batterie non ne fanno parte. Allo stato attuale sia Stati Uniti che Europa stanno puntando sul SAF, acronimo di Sustainable Aviation Fuel, un carburante prodotto da fonti sostenibili, come olii vegetali, grassi animali, rifiuti agricoli, ma anche alghe o anidride carbonica catturata. Il SAF può ridurre le emissioni di gas serra fino all’80% rispetto ad un aereo alimentato con carburante tradizionale, nel corso del suo ciclo di vita. Una riduzione che include le emissioni derivanti dalla produzione, dal trasporto e dalla combustione del carburante. Purtroppo, ancora oggi le percentuali di SAF impiegato per l’aviazione sono molto basse.

    Il caso

    Amazzonia in crisi: tra deforestazione e una COP30 piena di guai

    di Giacomo Talignani

    05 Settembre 2025

    A livello mondiale, gli Stati Uniti sono il maggior produttore mondiale. Nel 2023, si stima che la produzione americana di SAF abbia toccato quota 190 milioni di litri, ma siamo a meno dell’1% del carburante per aereo totale consumato dal paese. Mentre il mercato globale del carburante per jet, seppur piccolo, vale circa 2,9 miliardi di dollari nel 2025 secondo la società di analisi SkyQuest Technology Group, rispetto al mercato globale di 239 miliardi di dollari per il carburante per aviazione convenzionale.

    All’interno di questa filiera produttiva, che nonostante i numeri esigui, riguarda miliardi di dollari di fatturato, s’inserisce una vicenda dai contorni torbidi, che lega un’azienda produttrice del Texas alla Foresta Amazzonica. Stavolta gli alberi non fanno parte di questa storia, ma il bestiame di bovini. Dicevamo, infatti, che una delle fonti per produrre il SAF è il grasso animale. L’agenzia di stampa Reuters, attraverso un’accurata inchiesta ha scoperto che una raffineria texana che vende il carburante verde alle compagnie aeree statunitensi avrebbe acquistato il grasso proveniente dal bestiame allevato su terreni illegalmente disboscati in Amazzonia.

    Il nome dell’azienda è Diamond Green Diesel, che ha investito centinaia di milioni di dollari in una raffineria a Port Arthur, nello stato del Texas, che trasforma il sego – questo il nome del grasso bovino – nel carburante “pulito” per gli aerei. L’affare scotta ancor di più perché questa azienda, nel 2022 ha raccolto la considerevole cifra di 3 miliardi di dollari in crediti d’imposta per la produzione di biocarburanti. L’inchiesta ha svelato che dietro al sego ci sono due fabbriche brasiliane che hanno fornito migliaia di tonnellate di grasso, a loro volta comprato da macelli che avrebbero acquistato animali da allevamenti illegalmente disboscati nella foresta pluviale amazzonica. Insomma un circolo vizioso non da poco.

    Anche perché i vettori aerei, che a loro volta comprano SAF, ottengono dei crediti per la riduzione delle loro emissioni, perché l’impianto di Diamond Green Diesel è certificato sulla base di un accordo che coinvolge le Nazioni Unite. Come dire che tutti gli attori in gioco ci guadagnano, ma in modo sporco. O comunque poco trasparente, a danno, ancora una volta del povero polmone verde del mondo, in cui l’industria bovina brasiliana è coinvolta in modo importante.

    Intanto, in Brasile le autorità giudiziarie hanno acceso i riflettori sulla faccenda. ”Le aziende che traggono profitto da materie prime provenienti da una catena di approvvigionamento che implica la deforestazione, sono anche responsabili di queste illegalità”, ha detto a Reuters, Ricardo Negrini, procuratore federale brasiliano che ha aperto una serie di indagini sull’industria bovina; per contro le aziende coinvolte non avrebbero rilasciato commenti alle domande dettagliate sulla catena di approvvigionamento del sego brasiliano.

    Se le compagnie aeree, per raggiungere gli obiettivi di riduzione ed azzeramento di emissioni di CO? entro il 2050, sono sotto pressione dei rispettivi enti competenti per ciascun paese (come avviene per l’industria dell’auto), è altresì vero che il SAF o comunque il carburante sostenibile per l’aviazione per ottenere il certificato d’idoneità ai crediti, non deve provenire da biomassa di terreni deforestati dopo il 2008 o da aree protette secondo gli accordi internazionali.

    A spingere le compagnie aeree verso net zero è CORSIA, acronimo di Carbon Offsetting and Reduction Scheme for International Aviation, meccanismo basato sul mercato, sviluppato e gestito dall’International Civil Aviation Organization, l’agenzia delle Nazioni Unite che sovrintende alle convenzioni sull’aviazione civile internazionale. Se in questa fase l’adesione delle compagnie è ancora su base volontaria, dal 2027 sarà d’obbligo per poter riscattare i crediti compensativi legati alle emissioni di CO2.

    E l’uso di SAF è un pilastro fondamentale di CORSIA. Infatti, secondo alcuni esponenti che hanno partecipato alla stesura di CORSIA, sentiti da Reuters, la produzione di sego per SAF non provocherebbe un aumento diretto della produzione di bestiame, quindi della deforestazione in Amazzonia, perché si parte dal presupposto che il bestiame sarebbe comunque allevato per la carne, e il sego è semplicemente un risultato inevitabile e secondario di quel processo. LEGGI TUTTO

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    Equinozio d’autunno 2025: cos’è, quando cade e alcune curiosità

    L’estate 2025 sta ufficialmente per concludersi. Nonostante il rialzo delle temperature degli ultimi giorni, la stagione delle vacanze al mare, dei tramonti e delle giornate senza fine, non tarderà a salutarci. Infatti, l’equinozio d’autunno, ossia il momento simbolico che segna il passaggio alla nuova stagione, è vicinissimo. Nel 2025 cadrà lunedì 22 settembre e da quel preciso momento ci sarà un cambio temporale-stagionale importante: nell’emisfero boreale si entrerà ufficialmente nella stagione autunnale, mentre in quello australe inizierà la primavera.
    Ma che cos’è esattamente l’equinozio? Perché non cade sempre lo stesso giorno? E quali significati, scientifici e spirituali, porta con sé questo appuntamento che da millenni affascina culture di ogni parte del mondo?

    Che cos’è l’equinozio d’autunno e che cosa avviene
    La parola “equinozio” deriva dal latino aequus nox, ossia “notte uguale”. Si tratta del momento in cui il Sole si trova esattamente sopra l’equatore celeste e i raggi solari colpiscono la Terra in modo perpendicolare. In teoria, questo comporterebbe una perfetta parità tra ore di luce e ore di buio in tutto il pianeta. In realtà, le cose sono un po’ più complesse: a causa della rifrazione atmosferica, che fa apparire il Sole all’orizzonte qualche minuto prima che emerga davvero, e del calcolo ufficiale dell’alba (legato al primo raggio visibile), la giornata dell’equinozio regala sempre qualche minuto in più di luce.
    Il vero giorno in cui il bilancio è perfettamente equilibrato si chiama “equilux” e cade pochi giorni dopo.

    Quando cade l’equinozio d’autunno 2025
    L’equinozio non è un’intera giornata, ma un istante preciso. Nel 2025 la data da segnare in calendario è lunedì 22 settembre. L’orario? Le 18:19 UTC, che corrispondono alle 20:19 ore italiane. Sarà in quell’esatto momento che diremo addio all’estate, accogliendo a braccia aperte la stagione del foliage, dell’odore di cannella e dell’accorciarsi delle giornate. C’è chi ama tutto questo e chi, invece, vorrebbe rimanere in estate per sempre. LEGGI TUTTO