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    Sotto attacco dall’ultra fast fashion, la moda italiana difende la sostenibilità

    VENEZIA — “Il sistema moda e tessile italiano ed europeo è sotto attacco”. Non usa mezzi termini Luca Sburlati, presidente Confindustria moda, nel suo intervento al Venice Sustainable Fashion Forum, curato da TEHA Group con il contributo di Sistema Moda Italia e Confindustria Veneto Est.
    Più o meno felice che sia di questi tempi la metafora bellica, i numeri snocciolati da Sburlati sono eloquenti: export -4,5%, import +4,3%, un dato questo del tutto inaspettato e con un solo “colpevole”: la Cina, che da sola ha fatto registrare un +9%. Ma è soprattutto il modo che preoccupa: le piattaforme innovative e la vendita punto a punto, che si traduce nell’alluvione di centinaia di migliaia di pacchi sotto i 150 euro al giorno nelle nostre case.
    “Pacchi che non pagano dazi, né dogane e, spesso, neppure l’Iva” denuncia Sburlati.

    Luca Sburlati, presidente Confindustria Moda.  LEGGI TUTTO

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    Stapelia, come prendersene cura: attenti a freddo e troppa acqua

    Fascino e resistenza si fondono nella Stapelia, splendida pianta succulenta che si fa notare con i suoi fiori colorati e dall’odore intenso, donando un tocco esotico in qualsiasi ambiente. Originaria del Sudafrica e della Tanzania, è apprezzata non solo per la sua bellezza, ma anche per la sua straordinaria capacità di adattamento e la semplice coltivazione. Ottenere una sua crescita rigogliosa non è impegnativo: con poche azioni mirate è possibile prendersene cura facilmente, garantendole uno sviluppo ottimale.

    Stapelia: fioritura ed esposizione
    Appartenente alla famiglia delle Apocynaceae, la Stapelia è famosa per i suoi fiori spettacolari e insoliti, caratterizzati da un profumo intenso e pungente, capace di attirare gli insetti impollinatori: proprio per il suo odore forte è nota anche come pianta carogna e pianta stella di cadavere.

    Nonostante il suo profumo particolare, la stapelia è considerata un gioiello dalla rara bellezza, in particolare grazie alle sue sfumature vivaci. I suoi grandi fiori a forma di stella possono raggiungere un diametro di 20 centimetri e sono resi unici dai petali carnosi, colorati da nuance vibranti, che vanno dal viola al giallo fino al rosso scuro. Spesso arricchiti da macchie o striature, il loro aspetto richiama un tessuto vellutato, aumentando il fascino della pianta. Altra peculiarità di questa succulenta sono gli steli lunghi, appiattiti e angolari.

    Questa meravigliosa pianta perenne sorprende non solo per i suoi fiori inconfondibili, ma anche per la sua versatilità e la notevole resistenza, che le permettono di adattarsi ai nostri climi. Presente in numerose varietà, tra queste le più conosciute sono la Stapelia variegata, nota per i fiori colorati e i fusti striati, e la Stapelia hirsuta, caratterizzata dalla presenza di peluria sui fusti. Per quanto riguarda la sua fioritura, questa varia a seconda del clima, ma tendenzialmente avviene tra l’estate e l’autunno, da luglio a settembre.

    La coltivazione della Stapelia è semplice, richiedendo tuttavia alcune accortezze. Nonostante la sua capacità di adattamento, la pianta predilige un terreno ben drenato, dovendo evitare quelli troppo compatti: è sempre bene arricchire il substrato con della sabbia e del terriccio per cactus in modo da aumentare il drenaggio e scongiurare i ristagni idrici che sono responsabili del marciume radicale.

    Quanto all’esposizione, la Stapelia ama il Sole, preferendo la luce indiretta o il sole filtrato: nelle giornate molto calde è consigliato posizionarla in una zona parzialmente ombreggiata, per evitare che i fusti si scottino. In caso sia troppo in ombra cresce più lentamente e può non fiorire.

    Per svilupparsi al meglio, la Stapelia richiede temperature tra i 18 e 26 gradi e un clima caldo e asciutto, mentre mal tollera il freddo, dovendo essere protetta dal gelo, tenendo conto che sotto i 10 gradi potrebbe danneggiarsi in modo irreversibile. Per mantenerla rigogliosa e sana è necessario garantirle una corretta circolazione dell’aria.
    Coltivazione in vaso e giardino della Stapelia
    La Stapelia può essere seminata all’aperto in caso di clima caldo, ma tendenzialmente viene coltivata in serre o come pianta da appartamento. Se piantata in vaso negli interni, va posizionata vicino a una finestra soleggiata, evitando però la luce solare diretta nelle ore centrali della giornata. Il contenitore scelto non deve essere troppo grande e dotato di fori di drenaggio, per prevenire i ristagni idrici. Il vaso va riempito con un substrato drenato e leggero e i semi vanno posti sulla superficie, visto che necessitano di luce per germinare. Questi possono essere premuti leggermente sul terriccio oppure collocati appena sotto, nebulizzando poi il substrato.

    Pur potendo essere coltivata in giardino, nella maggior parte dei casi è preferibile far crescere la Stapelia in vaso, visto che teme il freddo e durante l’inverno deve essere sempre spostata in un luogo riparato. Anche se coltivata in piena terra, i semi vanno collocati in superficie oppure appena sotto, al massimo a 1-2 millimetri di profondità, per garantire una corretta illuminazione durante la germinazione. Oltre che per seme, la Stapelia può essere moltiplicata per talea.
    Cura della Stapelia
    La cura della Stapelia è semplice e, con le giuste accortezze, è possibile mantenerla in salute senza grandi sforzi. Per quanto riguarda l’irrigazione, questa non deve essere abbondante: annaffiature eccessive possono provocare ristagni idrici, causa del marciume radicale. Il terreno deve essere mantenuto leggermente umido e le irrigazioni devono essere sporadiche in inverno, aumentandole in caso di clima secco. Durante la primavera e l’estate è necessario che le annaffiature siano regolari.

    La concimazione della Stapelia va svolta tra la primavera e l’estate, all’incirca una volta al mese, ricorrendo a del fertilizzante per cactus in modo da stimolare una fioritura rigogliosa e una crescita ottimale. Ogni anno è necessario rinvasare la pianta, durante la stagione primaverile, ricorrendo a un contenitore più grande. In merito alla potatura questa operazione non è necessaria, dovendo limitarsi a rimuovere le parti secche che potrebbero essere veicolo per l’insorgere di parassiti.
    Manutenzione della Stapelia: altri consigli utili
    Nella manutenzione della Stapelia è fondamentale non trascurare alcuni segnali che possono indicare come la sua salute sia in pericolo, dovendo intervenire tempestivamente. Se la pianta diventa alla base nera e molla, è un chiaro sintomo di marciume radicale: in questo caso è necessario ridurre le irrigazioni, eliminare i fusti compromessi e verificare che il terreno sia ben drenato. Al contrario, se i fusti risultano raggrinziti agli apici, la causa potrebbe essere una carenza idrica, dovendo potenziare le irrigazioni, senza però esagerare, evitando sempre che il terreno diventi eccessivamente bagnato.

    La Stapelia può essere soggetta all’attacco di parassiti, in particolare da parte della cocciniglia farinosa, che si riconosce per la presenza di macchie bianche sui fusti. Per contrastarla si possono effettuare dei lavaggi della pianta oppure ricorrere a un batuffolo di cotone imbevuto di alcool con cui rimuovere i parassiti manualmente o a un prodotto specifico. Nel caso in cui questa succulenta non dovesse fiorire, si può intervenire stimolando la fioritura con del fertilizzante ricco di potassio e fosforo. LEGGI TUTTO

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    La foresta come cappotto termico: l’esempio di Poggio Tre Cancelli

    L’ultimo taglio di un albero nella foresta di Poggio Tre Cancelli in Toscana risale alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso. Oltre vent’anni dopo è designata riserva statale integrale, un’area naturale dove non si può nemmeno passeggiare ma dove piante e animali si evolvono in assenza di disturbo umano. È la seconda del genere […] LEGGI TUTTO

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    Rapporto ASviS 2025: “L’Italia e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile” – La diretta

    Si terrà oggi, mercoledì 22 ottobre, dalle 10:00 alle 13:30, presso l’Aula dei Gruppi Parlamentari della Camera dei Deputati a Roma, l’evento di presentazione del Rapporto ASviS 2025 “L’Italia e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile”. Il documento analizza il posizionamento del nostro Paese rispetto agli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) a dieci anni dall’adozione dell’Agenda […] LEGGI TUTTO

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    Il Bisfenolo A e la minaccia silenziosa della plastica nelle nostre vite

    “Attenzione, la plastica del biberon è cancerogena”, “Il veleno nel biberon”. Questi titoli, apparsi su quotidiani nazionali alla fine del 2000, non erano semplice allarmismo. Bensì l’apice di una battaglia scientifica e politica durata un decennio, che ha portato fino alla messa al bando di una delle sostanze più onnipresenti del ‘900: il Bisfenolo A (BPA), minaccia silenziosa che si nasconde nel cuore della nostra quotidianità. La sua storia è un manuale di come l’evidenza scientifica, spesso contrastata, possa fare da fulcro di un cambiamento epocale.

    Ma facciamo un passo indietro.

    Sintetizzato per la prima volta nel 1891 dal chimico Aleksandr Pavlovich Dianin, passano circa quarant’anni prima che si comincino a valutarne i primi ambiti di applicazione. Il BPA viene inizialmente studiato come estrogeno sintetico. Scartato poi in ambito medico, trova nuova vita nell’industria delle plastiche degli anni ’50, come componente del policarbonato a cui conferisce trasparenza, resistenza e indistruttibilità. Il BPA entra così in ogni casa, ovunque nel mondo: biberon, bottiglie d’acqua, stoviglie, scatolette di tonno o pelati in forma di rivestimento, giocattoli, persino nella carta termica degli scontrini.

    La scoperta che cambia tutto
    Negli anni ’90, il ricercatore David Feldman scopre che il BPA rilasciato dai contenitori in plastica può imitare gli ormoni naturali, alterando la crescita cellulare. Poco dopo, Frederick vom Saal dimostra che dosi minime di BPA — fino a 50 volte inferiori alla soglia considerata sicura — sono sufficienti per simulare l’effetto degli estrogeni naturali e interferire con il sistema endocrino dei topi. Le gabbie di policarbonato usate nei laboratori rilasciavano quantità di BPA capaci di provocare anomalie al sistema riproduttivo sfidando il principio tossicologico secondo cui “la dose fa il veleno”.

    Il caos
    L’industria reagisce. L’American Chemistry Council e i principali produttori contestano le metodologie delle ricerche di Vom Saal e minimizzano i rischi dietro lo scudo retorico “Non ci sono prove conclusive sull’uomo”. Ma il danno d’immagine era ormai compiuto. Nel 1996 la FDA – U.S. Food and Drug Administration- pubblica la sua prima valutazione sull’esposizione degli americani al BPA, legata al consumo di alimenti in scatola. Gli esperti sottolineano subito un punto cruciale: la contaminazione non dipendeva dal cibo in sé, ma dai rivestimenti interni delle lattine, realizzati con materiali contenenti BPA. Mentre l’industria si attarda a dibattere sulle soglie di sicurezza, il Bisfenolo A compie una silenziosa contaminazione globale, accumulandosi negli animali selvatici, persino in quelli che vivono in ambienti remoti e isolati.

    Le idee

    Il frutto della discordia: l’olio di palma e la forza delle nostre scelte

    di Eva Alessi*

    17 Ottobre 2025

    Il ruolo di ONG e comunità scientifica
    La comunità scientifica, insieme a numerose ONG, tra cui il WWF, contribuisce ad ampliare le ricerche sugli effetti del BPA. Uno studio del 2005 pubblicato su Environmental Science & Technology rivela che le foche del Nord Europa, esposte a livelli elevati di Bisfenolo A e altri interferenti endocrini attraverso la catena alimentare, mostravano un’incidenza maggiore di malformazioni ossee e uterine . Studi successivi ipotizzano un legame tra l’esposizione a queste sostanze e il crollo delle popolazioni di orche e delfini, predatori apicali che agiscono come veri e propri concentratori di inquinanti. Nel Mediterraneo, capodogli e balenottere accumulano BPA trasmesso lungo la catena alimentare nel tessuto adiposo, con effetti sul sistema immunitario e sulla riproduzione. Nell’Artico, il BPA raggiunge persino gli orsi polari, compromettendone il sistema endocrino, la fertilità e la salute generale. Tracce di BPA sono state rilevate anche nei pesci dei laghi più isolati e negli uccelli marini delle coste più remote, spesso associate ad anomalie nello sviluppo e a una ridotta fertilità. Questi sono solo alcuni esempi: le prove si moltiplicano, tracciando un quadro sempre più inquietante e globale.

    Il punto di svolta
    La fauna selvatica diventa sentinella della salute del Pianeta, lanciando un allarme chiaro e inconfutabile: l’inquinamento chimico da plastica è ormai ovunque e l’essere umano non ne è immune. Nell’uomo, infatti, il BPA è associato a problemi riproduttivi, alterazioni dello sviluppo cerebrale nei bambini, obesità, diabete e malattie cardiovascolari. La principale via di esposizione? Gli alimenti, contaminati dalla migrazione del BPA dagli imballaggi in plastica, soprattutto se riscaldati o riutilizzati.

    La pressione pubblica gioca qui un ruolo decisivo. Dopo il clamore suscitato dai biberon, il mercato risponde con prodotti “BPA-Free”, e le istituzioni seguono. Il Regolamento UE 10 del 2011 vieta il BPA nei prodotti per l’infanzia, mentre il Regolamento REACH lo inserisce tra le sostanze estremamente preoccupanti. Nel 2023, l’EFSA propone una riduzione drastica della dose giornaliera tollerabile di BPA: 20.000 volte più bassa rispetto al limite precedente. Nel 2024, l’UE ne vieta l’uso nei materiali a contatto con alimenti, segnando una svolta normativa storica.

    Eppure, la battaglia non è finita. I sostituti del BPA, come il Bisfenolo S e F, sollevano preoccupazioni simili poiché potrebbero agire allo stesso modo sul sistema endocrino. Serve un cambio di paradigma: non basta vietare una molecola alla volta. Occorre regolamentare intere classi di sostanze, affrontando il problema alla radice.

    Cosa abbiamo imparato
    La storia del BPA ci insegna che la sicurezza chimica è una corsa ad ostacoli. Le istituzioni devono essere agili, la scienza ascoltata anche quando scomoda, e il potere dei consumatori responsabili, può essere il motore più potente del cambiamento. A trasformare l’allarme in consapevolezza collettiva ci hanno pensato anche realtà come il WWF, che hanno saputo tradurre la complessità scientifica, informare il grande pubblico e mobilitare l’opinione pubblica.

    La storia del bisfenolo A non è solo quella di una molecola, ma il simbolo di un problema più vasto: la dispersione incontrollata della plastica. Come il WWF ha denunciato e denuncia da anni, decenni di inefficienze nella gestione dei rifiuti hanno permesso a microplastiche e sostanze chimiche di infiltrarsi in tutti gli ecosistemi, dai fiumi alle profondità oceaniche, fino ai poli. Il BPA ci ha insegnato una lezione chiara: ciò che disperdiamo in Natura non scompare, rientra nei cicli biologici, contaminando animali e persone. E la storia rischia di ripetersi con i nuovi materiali e i sostituti del BPA, se non sapremo affrontare il nodo cruciale. La plastica non è mai davvero ‘usa e getta’: ciò che abbandoniamo oggi, ci raggiunge domani, trasformato in minaccia persistente.
    “Storie di sostenibilità” è la nuova rubrica del WWF nell’ambito della campagna Our Future
    (*Eva Alessi è responsabile sostenibilità del WWF Italia) LEGGI TUTTO

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    Sbarcano sulla spiaggia rosa a Budelli, multati due turisti

    È accaduto di nuovo e chissà quante volte succede senza che nessuno se ne accorga. Due turisti inglesi a bordo di uno yacht sono sbarcati sulla spiaggia rosa di Budelli. La loro presenza sull’arenile, soggetto a protezione integrale all’interno del Parco Nazionale dell’Arcipelago di La Maddalena, è stata segnalata alla Capitaneria di Porto da un […] LEGGI TUTTO

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    E se la Luna diventasse una miniera?

    C’è un tesoro nascosto sulla Luna. Il satellite che gira intorno alla Terra non è più solo un simbolo romantico nella notte, oppure il ricordo delle missioni spaziali Apollo, ora è anche un obiettivo strategico per la scienza, l’industria e la politica spaziale. “Se negli anni ‘50 e ‘60, andare sulla Luna faceva parte di una sfida politica fine a se stessa, solo una competizione ideologica e tecnologica tra potenze – spiega la professoressa Michèle Lavagna, docente al Politecnico di Milano e coordinatrice del team di ricercatori impegnati nella progettazione di impianti per l’estrazione di risorse naturali dalla Luna – oggi è un luogo dove è possibile non solo fare ricerca, ma è anche fonte di interessi economici. Le multinazionali impegnate nella ricerca sui super computer (i pc quantistici) hanno bisogno, per elaborare la nuova tecnologia, di risorse naturali che qui scarseggiano. Come l’elio-3. La roccia lunare ne ha in abbondanza e potrebbe colmare il divario. Bisogna capire però come estrarla, lavorarla e portarla sulla Terra”. La possibilità dell’estrazione mineraria dalla Luna è un campo non solo affascinante, sta diventando un affare su cui investono le aziende impegnate nelle tecnologie emergenti. Come la finlandese Bluefors, produttrice di sistemi di refrigerazione ultrafredda, fondamentali per i computer quantistici, che ha speso 300 milioni di dollari per accaparrarsi fino a 10 mila litri di elio-3 all’anno provenienti dalla Luna, tramite la società spaziale Interlune fondata da ex dirigenti di Blue Origin e da un astronauta dell’Apollo. Consegna: tra il 2028 e il 2037. LEGGI TUTTO