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    Fotovoltaico, incentivi anche agli “autoconsumatori virtuali”

    Non solo CER e Gruppi di autoconsumo. Anche chi installa un impianto fotovoltaico sulla propria casa può accedere agli incentivi gestiti dal GSE a patto di avere due utenze elettriche intestate in due immobili diversi e di “collegarle” allo stesso pannello. In questo caso infatti si rientra nella configurazione dell’Autoconsumatore virtuale a distanza e diventa possibile ottenere due benefici: il risparmio in bolletta per l’utenza direttamente collegata al pannello, e l’incasso della Tariffa incentivante per il consumo della seconda utenza. Per questa configurazione non è possibile accedere al contributo PNNR a fondo perduto per l’installazione dell’impianto ma si può usufruire del bonus fiscale del 50% o 36%, a seconda che si tratti di prima o seconda casa.

    Due case un pannello
    Tecnicamente l’autoconsumatore virtuale a distanza è un soggetto titolare di almeno due punti di connessione distinti: uno collegato a un’utenza di consumo e uno a cui è collegato un impianto di produzione che si deve trovare in una zona diversa ma nell’ambito di una stessa cabina primaria (snodo della rete verso le cabine secondarie e di qui verso singole utenze). In città una cabina primaria può coprire fino a quattro quartieri, e nei centri rurali fino a quattro comuni, questo significa che ci sono molte possibilità di approfittare dei vantaggi economici offerti da questo sistema. In pratica chi è intestatario di due utenze, ad esempio casa e ufficio, casa e negozio, casa e box in un altro condominio, può installare un impianto unico e costruirsi una rete virtuale di consumo condiviso e ottenere i benefici del risparmio diretto e l’incentivo su quello virtuale.

    Quanto vale l’incentivo
    Il meccanismo di calcolo da parte del GSE, infatti, è lo stesso per tutte le configurazioni, per cui la Tariffa incentivante viene riconosciuta sulla quota complessiva di consumi registrata alla stessa ora da tutti i punti di prelievo presenti nella configurazione rispetto alla produzione oraria dell’impianto. Così ad esempio posta una produzione di 100 e un consumo di 70 sommando tutte le utenze, ossia quella collegata direttamente e quelle che fanno parte della rete virtuale dell’autoconsumatore a distanza, l’incentivo sarà su 70, mentre la quota in eccesso potrà essere venduta tramite il sistema del Ritiro dedicato.

    Incentivi anche in caso di accumulo
    In pratica quando ci si trova nell’immobile dove sono installati i pannelli, l’energia solare viene co-consumata direttamente, generando il massimo risparmio possibile sulla bolletta elettrica. Negli orari in cui il proprietario si trova nell’altro immobile, invece, l’energia prodotta dai pannelli viene “condivisa” virtualmente attraverso la rete elettrica e si ottiene in termini economici un beneficio maggiore rispetto alla vendita diretta. Per l’energia “condivisa” virtualmente si ottiene la tariffa incentivante GSE (10,4 c€/kWh) più il contributo ARERA (0,8 c€/kWh). E’ anche possibile installare batterie di accumulo e anche l’energia immagazzinata contribuisce al conteggio, in quanto l’obbiettivo degli incentivi è appunto quello di favorire l’autoconsumo.

    Come presentare la domanda
    La richiesta per ottenere la Tariffa incentivante si presenta esclusivamente online attraverso il portale del GSE, utilizzando le proprie credenziali SPID o quelle fornite dal gestore. La procedura è completamente digitale: dopo aver caricato la documentazione richiesta – schema elettrico dell’impianto, verbali dei contatori e titoli di proprietà degli immobili – il sistema genera automaticamente la dichiarazione da firmare digitalmente. A differenza di altri incentivi che hanno finestre temporali limitate, per l’Autoconsumatore a distanza è possibile fare richiesta in qualsiasi momento dopo l’installazione dell’impianto. L’istruttoria del GSE dura al massimo sessanta giorni. Gli incentivi percepiti per l’energia condivisa sono integralmente esenti da imposte per l’intera durata ventennale del riconoscimento. LEGGI TUTTO

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    “Liberare il mare”: 800 chili di reti fantasma recuperate con i pescatori

    Sono una delle principali minacce agli ecosistemi marini. Nemici invisibili soprattutto per pesci e tartarughe. Sono le reti da pesca fantasma, perse dai pescatori accidentalmente o volontariamente abbandonate sul fondo del mare. Ci sono però due luoghi in Sicilia dove cittadini, amministrazione, pescatori e gli uomini della Guardia Costiera tutti insieme stanno facendo qualcosa di concreto per risolvere il problema. Almeno in parte. Siamo a Siracusa e a Terrasini, comune costiero in provincia di Palermo affacciato sul golfo di Castellamare. Grazie al progetto “Liberare il mare, Destinazione Rifiuti Zero Sicilia” sono state recuperati 800 chili di reti da pesca abbandonate in due aree di elevato pregio naturalistico e turistico: tra lo Scoglio del Corallo e Cala Rossa a Terrasini, e al largo della Baia di Ognina a Siracusa. Entrambe le iniziative, realizzate in collaborazione con Abyss Clean Up, associazione specializzata nella rimozione di rifiuti marini e reti fantasma, con il supporto scientifico del Cnr e resa possibile grazie al sostegno di TUI Care Foundation. Liberati anche diversi animali marini ancora in vita trovati intrappolati nelle reti, tra cui stelle marine una specie protetta.

    Una fase del progetto “Liberare il mare” al largo di Terrasini e Siracusa (per gentile concessione di Sicily Environment Fund)  LEGGI TUTTO

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    Pittura al grafene per scaldare gli appartamenti: più efficiente dei termosifoni

    La pittura al grafene si candida a diventare il sistema di riscaldamento per appartamenti più innovativo e minimal di questa fase storica. Nel rispetto dei principi di sostenibilità, BeDimensional spin-off dei Graphene Labs dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), ha recentemente completato lo sviluppo di un pigmento capace di generare calore tramite alimentazione elettrica. Il risultato è un sistema di riscaldamento radiante unico al mondo, per di più “sottile, integrabile e privo di componenti meccaniche”. In pratica si parla di una vera e propria vernice, che una volta stesa su una superficie e collegata a semplici elettrodi di rame, genera calore grazie all’effetto Joule – il classico effetto termico generato dal passaggio della corrente attraverso un conduttore. L’emissione è una radiazione a bassa energia e non nociva, che non viene dispersa nel riscaldamento dell’aria, ma agisce direttamente sul corpo, generando una sensazione di benessere termico.

    Sostenibilità

    Lavori green, il bioarchitetto: “Costruiamo secondo le leggi della natura”

    di Marco Angelillo

    28 Marzo 2025

    “Abbiamo concluso con successo la fase sperimentale in ambienti reali, dimostrando l’efficienza, la sicurezza e la facilità d’uso della tecnologia. Inoltre i primi potenziali partner per strutturare l’industrializzazione e la distribuzione su scala ci sono, anche perchè il prodotto è pronto per la commercializzazione”, ha confermato a Green&Blue, Vittorio Pellegrini, Ceo di BeDimensional.

    Il segreto del grafene
    Ovviamente è “semplice” il risultato percepito – il calore appunto – ma gli elementi giocati dai ricercatori appartengono alla sfera delle complessità. Prima di tutto il grafene è un materiale formato da un singolo strato di atomi di carbonio, a loro volta disposti come le maglie di una rete da pesca. Un’ipotetica visione dall’alto regalerebbe l’immagine di una sorta di gigantesca arnia d’api, composta da esagoni perfetti. Dato che si tratta di file di atomi, quindi con uno spessore infinitesimale, è considerato un materiale bidimensionale dalle proprietà molto speciali. Di base è caratterizzato da altissima resistenza, grande flessibilità, trasparenza e altre qualità. Ma l’ulteriore valore aggiunto è che se ne possono modificare le caratteristiche per ottenere specifiche prestazioni. Nel caso della vernice BeDimensional si ottiene una soluzione a elevatissima conducibilità termica che consente addirittura il riscaldamento di superfici murarie e di conseguenza di ambienti.

    Tutorial

    Dall’A alla Z, il vocabolario della casa green

    di Paola Arosio

    04 Aprile 2025

    Consuma fino al 40% in meno di un radiatore
    Lo sviluppo della vernice ha richiesto a BeDimensional e ai suoi partner industriali oltre tre anni di lavoro. Ma questo impegno ha consentito poi di certificarne le prestazioni raggiunte, grazie al lavoro svolto da BuildTech, un altro spin-off dell’IIT che però si occupa di trasferire tecniche e prodotti innovativi nel mondo della progettazione e della riqualificazione, “allo scopo di realizzare spazi esterni e interni efficienti e confortevoli con un impatto ambientale positivo”. I test tecnici e le simulazioni hanno confermato non solo l’altissima conducibilità termica raggiunta, ma anche una grande efficienza.
    I tecnici hanno riscontrato una riduzione media dei consumi fino al 40% rispetto ai radiatori tradizionali e un leggero vantaggio anche rispetto al riscaldamento a pavimento basato su pompe di calore, con l’ulteriore plus di ridotti costi di installazione, di esercizio e manutenzione. Si calcola che a pieno regime, con una stesura ipotetica sul soffitto, si può ottenere una temperatura superficiale superiore ai 110 °C con un consumo medio di soli 35 Watt su metro quadrato.

    Tutorial

    Come migliorare la qualità dell’aria in casa con le piante

    a cura della redazione di Green&Blue

    09 Giugno 2025

    Compatibile con gli impianti e i contratti esistenti
    La pittura al grafene, a detta dei tecnici, diffonde calore per irraggiamento in modo omogeneo e senza il minimo rumore – anche se in effetti è collegata all’impianto elettrico. Il sistema si accende e si spegne secondo necessità e prevede l’integrazione con minime modifiche degli impianti elettrici. Inoltre l’inerzia termica è così ridotta che permette una regolazione precisa e puntuale della temperatura, anche via termostato o sistemi domotici. Insomma è progettato per essere compatibile con i tradizionali contratti elettrici da 3 kW, a seconda della superficie da riscaldare. Nelle stagioni calde poi semplicemente non viene attivato.
    La vernice può essere applicata analogamente a una tradizionale, quindi impiegando ad esempio un rullo o la tecnica a spruzzo. E anche per i materiali non vi sono limiti: è compatibile persino con cartongesso, pannelli sandwich in PVC e poliuretano. Questo dovrebbe tradursi in grande versatilità quindi si possono immaginare applicazioni nelle nuove costruzioni, in progetti di ristrutturazione relativi ad ambiti residenziali, commerciali e industriali.
    In ambienti critici come bagni, cucine o locali seminterrati può prevenire la formazione di condensa e muffe. Non sono da escludere anche applicazioni modulari, l’edilizia prefabbricata e le costruzioni leggere a bassa inerzia. BeDimensional sottolinea che “questa innovazione si allinea perfettamente agli obiettivi europei e nazionali di transizione energetica e riduzione delle emissioni, confermando l’impegno di nella strategia di decarbonizzazione e sviluppo industriale sostenibile”. LEGGI TUTTO

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    Polemica per le marmotte di plastica in montagna. Il Cai: “Un simbolo per riflettere”

    Una marmotta gigante rosa shocking o blu elettrico, in alta quota, visibile da lontano, nel silenzio, all’ingresso di un rifugio, davanti ad un ghiaccio. Il progetto si chiama “Soul of the mountain” ed è promosso dal Cai di Biella insieme al collettivo artistico Cracking Art e al Museo di Scienze Naturali della Val d’Aosta “Efisio Noussan”. Iniziativa che ha scatenato una polemica tra gli ambientalisti e il mondo dell’escursionismo. “Anche se è arte, si tratta sempre di plastica in montagna”, questa è più o meno la critica rivolta ai promotori dell’iniziativa accusati di snaturare l’ambiente naturale.

    Non a tutti sono piaciute
    L’obiettivo in realtà non è di voler installare opere d’arte in montagna. Come spiegano gli artisti di Cracking Art: “Si tratta di una sorta di ‘bestiario fantastico’ rappresentativo del nostro tempo, pensato per suscitare emozione e stimolare una riflessione sui temi ambientali contemporanei. Per questo abbiamo utilizzato forme e colori che creano empatia”. Le installazioni – ce ne sono 23 esemplari – prendono spunto dalla marmotta preistorica emersa dal ghiacciaio del Lyskamm sul Monte Rosa nel 2024 risalente a 6 mila anni fa considerata un simbolo del cambiamento climatico e della memoria del territorio. L’idea nasce da lì. Ora le marmottone colorate troneggiano davanti sui rifugi: al Coda e Rivetti nel Biellese, al Quintino Sella e al Vittorio Sella in Valle d’Aosta. Ma non a tutti sono piaciute.

    La marmotta della Cracking Art colora Saint-Pierre in Valle d’Aosta  LEGGI TUTTO

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    Trattato globale sulla plastica: a Ginevra ripartono i negoziati Onu

    Nel Palais des Nations a Ginevra va in scena l’ultima sfida per un trattato globale contro l’inquinamento da plastica. Si apre il 5 agosto l’ultima e decisiva fase dei negoziati delle Nazioni Unite (cominciati nel 2022) per cercare di definire un trattato globale e giuridicamente vincolante. Si tratta del quinto ciclo di negoziati e durerà dieci giorni. Più di 170 delegazioni internazionali sono attese a Ginevra con l’obiettivo di mettere nero su bianco un accordo su un testo condiviso. Il trattato potrebbe segnare un punto di svolta normativo, simile all’accordo di Parigi. Ma la strada è ancora in salita.

    Pressioni dall’industria petrolifera
    I negoziati fanno seguito alla risoluzione adottata nel 2022 dall’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente, che ha richiesto un approccio globale capace di affrontare l’intero ciclo di vita della plastica: dalla produzione alla progettazione, fino allo smaltimento. L’ultima, svoltasi a dicembre 2024 a Busan, in Corea del Sud, avrebbe dovuto concludere i lavori, ma i delegati dell’industria petrolchimica mondiale presenti ai negoziati con i rappresentanti dei propri Paesi sono riusciti a bloccare i tentativi di limitare la produzione, causando lo stallo del processo. Le trattative sono quindi state aggiornate e si è deciso di proseguire i lavori con una seconda parte del quinto round negoziale, chiamata ufficialmente “Intergovernmental Negotiating Committee (INC) – 5.2”. L’Onu intanto avverte: senza interventi la produzione mondialedi plastica raddoppierà entro il 2050. Ogni anno infatti ne vengono prodotte oltre 460 milioni di tonnellate di cui il 75% finisce tra i rifiuti invadendo oceani e ecosistemi in tutto il mondo. Se le cose non cambiano nel giro di breve tempo, la produzione annuale, diventerà di 884 tonnellate. Ogni anno.

    Ambiente

    L’Everest sempre più simile ad una discarica d’alta quota: droni per ripulire la vetta

    di Paolo Travisi

    06 Agosto 2025

    La posta in gioco
    Il punto di partenza dei colloqui sarà il cosiddetto “Testo del Presidente”, un documento preliminare scaturito dalle precedenti sessioni che raccoglie circa 300 punti ancora oggetto di disaccordo. L’obiettivo è trovare un’intesa su questi nodi entro il 14 agosto. Giornate intense di incontri per colmare un vuoto normativo da cui dipendono i rischi non solo per salute dell’ambiente, ma anche per quella umana. Recentemente, un gruppo di 27 scienziati internazionali ha lanciato l’allarme sulle microplastiche – sono state scoperte perfino nella placenta – invitando i negoziatori a considerare i dati sanitari: la plastica è infatti legata, hanno spiegato, a malattie importanti come la cardiopatia e il cancro, con danni economici stimati in 1,5 trilioni di dollari in 38 paesi. La posta in gioco è dunque alta. Ma il contesto rimane complesso soprattutto a casa del blocco di Paesi produttori di petrolio. «Vogliamo un trattato efficace che copra l’intero ciclo della plastica», ha dichiarato nei giorni scorsi Felix Wertli, capo della Divisione affari internazionali dell’UFAM ( l’Ufficio Federale dell’Ambiente).

    Inquinamento

    Più gli animali vengono esposti a microplastiche, più vogliono mangiarle

    di Giacomo Talignani

    05 Luglio 2025

    Ginevra: ultima chiamata
    L’Unione europea che tratta a nome dei Ventisette, intende affrontare la questione con un approccio transnazionale, ossia superando l’ottica in cui ogni Paese decide autonomamente quali regole darsi, dato che l’inquinamento non si ferma ai confini statali. Non solo. Va cambiato anche l’approccio. Attualmente, gli impegni internazionali si concentrano soprattutto sulle azioni che riguardano il ciclo di vita dei prodotti già immessi nel mercato, come la gestione e smaltimento dei rifiuti contenenti sostanze plastiche. Alcuni Paesi stanno adottando misure per ridurne il consumo e aumentare il riciclaggio, oppure stanno intervenendo per rimuovere direttamente alcuni prodotti dal mercato, come i contenitori monouso. Ma bisogna andare oltre.
    L’Ue vorrebbe invece focalizzare gli sforzi su una regolamentazione più organica che coinvolga anche l’intero processo di produzione. Per quanto gli interventi downstream rimangano centrali, occorre mettere mano anche a tutte le fasi che vanno dalla scelta stessa di creare un prodotto fino al design, l’assemblaggio, il packaging, fino alla spedizione e la commercializzazione.

    Giornata Mondiale dell’Ambiente 2025: la plastica è ovunque, alleanza globale contro l’inquinamento

    di Loredana Diglio

    05 Giugno 2025

    “Chi inquina paga”
    Riuscire a introdurre degli impegni chiari e assicurarne il rispetto permetterà, secondo la Ue, anche alle aziende di muoversi all’interno di un quadro normativo prevedibile capace di garantire parità di condizioni anche a livello economico. Per questo uno dei princìpi guida, dovrebbe essere per Bruxelles, quello per cui “chi inquina paga“. Da parte sua, la delegazione elvetica porterà al tavolo proposte per eliminare gradualmente i prodotti più problematici e garantire che l’accordo sia applicabile anche nei Paesi con risorse limitate, grazie a meccanismi di sostegno finanziario. Tra le proposte svizzere figura anche la candidatura di Ginevra a sede del segretariato del futuro accordo, in competizione con Nairobi, che aveva ospitato il terzo round di negoziati. Vedremo. LEGGI TUTTO

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    Tillandsia, come coltivare la “pianta dell’aria”

    Sospese tra cielo e terra, le tillandsie crescono dove il suolo non arriva. Le si incontra sulle cime degli alberi, abbracciate ai rami, oppure ancorate alle rocce. Piante epifite, sì, ma anche poetiche, capaci di nutrirsi di umidità e luce grazie a una strategia evolutiva raffinata: i tricomi. Minuscole strutture sull’epidermide che si aprono quando la pianta ha sete e si richiudono quando ha raccolto abbastanza. Le foglie – talvolta strette, altre carnose, a volte color smeraldo, altre d’argento – sono uno spettacolo cangiante a seconda della specie. I fiori, spesso esplosivi nelle tinte, spuntano tra brattee come lampi di viola, rosa o rosso e, in alcune varietà, si riuniscono in infiorescenze dalla forma quasi architettonica.

    Le principali varietà di tillandsia
    Ne esistono oltre 600 specie, tutte appartenenti alla famiglia delle Bromeliaceae, ma possiamo dividerle in due grandi gruppi a seconda dell’habitat e dell’aspetto.
    Tillandsie atmosferiche (o aeree)
    Queste vivono letteralmente “nell’aria”, senza bisogno di suolo, assorbono acqua e nutrienti attraverso i tricomi delle foglie e hanno un aspetto più argentato, grazie alla peluria che le protegge dal sole e conserva l’umidità. Tra le specie più note ci sono:
    Tillandsia ionantha: piccola, compatta, con foglie verdi che diventano rosse in fioritura;
    Tillandsia caput-medusae: dalla forma bizzarra, foglie contorte che ricordano i serpenti di Medusa;
    Tillandsia tectorum: una delle più scenografiche, tutta bianca e “soffice”, sembra coperta di neve;
    Tillandsia xerographica: la regina delle tillandsie, con foglie larghe e arrotolate, perfetta per composizioni di design.

    Tillandsie mesiche (o da ambiente umido)
    Vivono in zone più umide, come le foreste pluviali. Le foglie sono più verdi, lisce, meno “pelose”, e si sviluppano spesso a rosetta. Le specie di questa categoria? Principalmente tre:
    Tillandsia cyanea: nota anche come “fiore rosa” è tra le poche che si coltivano anche in vaso. Bellissimo il fiore blu-viola su brattee rosa;
    Tillandsia lindenii: simile alla cyanea, ma con foglie più lunghe e fiori più grandi;
    Tillandsia flabellata: dalla fioritura rossa brillante, molto apprezzata per l’effetto decorativo.

    Come coltivare le tillandsie: le regole da seguire
    La tillandsia vuole luce, ma non troppa; umidità, ma senza eccessi. È una pianta che premia chi sa osservare e rispettare i suoi ritmi. Non richiede terra, ma attenzione. Per lei niente vasi, ma un supporto a cui aggrapparsi: che sia un pezzo di legno, un sasso levigato o un vetro soffiato non importa, purché sia a tutti gli effetti un sostegno, non un contenitore a terra.

    Luce e temperatura: l’esposizione ideale
    Questa particolare pianta ama la luce, ma non quella diretta del sole. Collocarla vicino a una finestra orientata a est o a sud-est è l’ideale; resiste bene alle alte temperature, ma non sopporta il freddo. Fate sempre molta attenzione all’oscillare dei gradi: sotto i 10°C, ad esempio, la tillandsia inizia a soffrire e, nel peggiore dei casi, persino morire. Nel caso in cui si decida di tenerla all’esterno, fate sempre molta attenzione ai cali di temperatura bruschi: un telo protettivo potrà salvarla.

    Acqua e umidità: quando e come annaffiare la tillandsia
    Se coltivata in esterno, la tillandsia non richiede l’acqua, perciò l’innaffiatoio non servirà. In questi casi, infatti, la pianta dell’aria si vaporizza e assorbe l’umidità notturna e l’acqua piovana. Dunque, a meno che non si trovi in una zona dal clima molto arido e secco, le irrigazioni di cui avrà bisogno saranno molto poche. Basteranno due spruzzate al giorno (una al mattino e una alla sera), per garantirle il giusto benessere e la giusta idratazione. Nei mesi freddi l’irrigazione si può ridurre, ma attenzione a non lasciarla troppo a secco. Si consiglia l’uso di acqua piovana, demineralizzata o, in alternativa, acqua di rubinetto bollita e raffreddata con qualche goccia di aceto: il calcare non è da considerare un alleato. Se coltivata in interno, invece, la pianta dell’aria va annaffiata con regolarità durante la stagione fredda, mentre nei mesi più caldi dovrà essere irrigata con una maggiore frequenza: come? Nebulizzando l’acqua direttamente sulle foglie. Ci sono casi, perlopiù estremi, in cui la tillandsia richieda la necessità di essere innaffiata con il metodo dell’immersione. Questo consiste nell’irrigare la pianta con un’abbondante quantità di acqua a temperatura ambiente e farlo con l’uso di una bottiglia.

    Concimazione leggera e mirata
    Durante la bella stagione, da aprile a settembre, una concimazione ogni due settimane con un fertilizzante liquido diluito può favorire la fioritura della tillandsia. In autunno e inverno, invece, sarà sufficiente una volta al mese. Attenzione sempre all’esagerazione: troppo fertilizzante può bruciare le foglie.

    Parassiti e malattie: meglio prevenire
    Le Tillandsie sono resistenti, ma non invulnerabili. Se si dovessero iniziare a notare foglie secche o dall’aspetto malato, la prima cosa da fare sarebbe controllare esposizione e umidità. Troppa luce diretta o troppo poco vapore, infatti, possono metterle in crisi. E se compaiono macchie bianche o piccole formazioni farinose? Potrebbero essere cocciniglie. In quel caso, si agirà con delicatezza: un batuffolo imbevuto d’alcol o una spugna e acqua saponata. Gli afidi, più rari, si combattono con antiparassitari naturali, ma sempre con cautela.

    Tillandsia in vetro: l’eleganza della leggerezza
    Collocata in una sfera trasparente o in un cilindro sospeso, la tillandsia diventa un complemento d’arredo che unisce l’essenzialità dell’aria al minimalismo estetico. Perfetta per chi ama il verde ma non vuole rinunciare a ordine e pulizia. È una pianta altamente versatile, che permette di integrarle in contesti decorativi eterogenei, come:
    Supporti naturali: possono essere fissate su pezzi di legno, rocce o conchiglie, creando composizioni uniche;
    Terrari e globi di vetro: per un tocco sofisticato e super moderno;
    Installazioni sospese: utilizzando fili di nylon o supporti specifici, è possibile creare giardini aerei che donano leggerezza e movimenti agli spazi circostanti. Oltre al loro indiscutibile valore estetico, le tillandsie offrono vantaggi ecologici significativi. Grazie ai tricomi, non solo assorbono umidità, ma catturano e metabolizzano agenti inquinanti presenti nell’aria, contribuendo a migliorare la qualità dell’ambiente domestico. Coltivare una tillandsia regala soddisfazioni. LEGGI TUTTO

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    Il tagete, come coltivare la pianta dalla fioritura lunghissima

    Colorato, resistente, generoso. Il tagete è tra i fiori più amati da chi coltiva con passione giardini, balconi e orti. Ma dietro i suoi petali infuocati si nasconde un alleato prezioso anche per l’agricoltura sostenibile. Scopriamo insieme tutto quello che c’è da sapere su questa pianta: dal nome scientifico alla semina, dalla cura alla fioritura.

    Qual è il nome scientifico del tagete?
    Il tagete, conosciuto anche come “garofano d’India”, appartiene alla famiglia delle Asteraceae e il suo nome scientifico è Tagetes spp., una sigla che comprende numerose specie, le più note delle quali sono Tagetes erecta, Tagetes patula e Tagetes tenuifolia. Originario delle Americhe, il tagete deve il suo nome al mitologico Tages, figura etrusca simbolo di sapienza e divinazione. E non è un caso: questa pianta, oltre ad abbellire con la sua palette tra il giallo oro e l’arancio bruciato, vanta proprietà sorprendenti. È infatti utilizzata anche come repellente naturale contro parassiti e nematodi, ed è una presenza fissa negli orti sinergici e nelle coltivazioni bio.

    Le principali varietà di tagete
    Di varietà di tagete ne esistono diverse, ma se dovessimo fare una lista delle più conosciute (e selezionate), sicuramente inseriremmo:
    Tagetes erecta: il più alto e imponente, noto anche come “African marigold”, con fiori doppi e corposi;
    Tagetes patula: il più diffuso nei giardini europei, compatto, con petali screziati e forma cespugliosa;
    Tagetes tenuifolia: più delicato, dai fiori piccoli e aromatici, spesso usato come bordura.

    Quando seminare il tagete
    La semina del tagete è un rito semplice ma pieno di promesse. È la porta d’ingresso alla stagione del colore e della luce. Il periodo ideale per seminare il tagete va da marzo a maggio, a seconda delle temperature locali. È una pianta che ama il sole e teme il gelo: per questo motivo, se si abita in zone dal clima ancora incerto in primavera, si consiglia sempre di partire con una semina in semenzaio o addirittura al chiuso, per poi trapiantare all’aperto una volta scongiurate le gelate notturne. Nei climi più miti, invece, si può seminare direttamente in piena terra o in vaso già ad aprile.

    Come seminare il tagete
    I passaggi da seguire per completare la semina del tagete in modo corretto non sono molti e non sono neanche complicati. Per prima cosa, è importante preparare un terriccio leggero e ben drenato e solo successivamente interrare i semi a una profondità di circa 1 cm (anche 0,5 cm basterebbe). Per quanto riguarda invece la distanza tra i semi e le piantine, sarebbe meglio lasciare almeno 25 cm (20 cm per il tagete nano); in questo modo si darà il giusto spazio alla pianta di crescere libera e nel modo più naturale possibile (ed evitare anche il propagarsi di malattie fungine, nemiche di ogni pianta). Una volta posizionati i semi va tenuta d’occhio l’umidità del terreno, che non deve mai essere troppo bagnato. Questa operazione sarebbe meglio seguirla fino alla germinazione, che di solito avviene in 5-10 giorni dalla semina. Quando le piantine avranno almeno 2-3 foglie, si potrà procedere con il trapianto in piena terra o in contenitori più grandi: ogni azione richiede il suo tempo.

    Cura del tagete: una pianta facile ma non banale
    Il tagete è spesso definito una pianta “per tutti”, anche per chi ha il pollice meno verde. Eppure, anche se resiliente ha bisogno di cure ed attenzioni. Ad esempio, questa pianta dai colori accesi ama il sole in tutte le sue forme e temperature, anche quello più alto. Più luce riceve, più fiorisce; per questo la sua esposizione ideale è in pieno sole. Se coltivato in vaso, occhio a non lasciarlo per troppo tempo all’ombra, perché potrebbe soffrire.

    Irrigazione e concimazione
    Il tagete non è particolarmente esigente: meglio una terra un po’ asciutta che troppo bagnata. Innaffia con regolarità, ma solo quando il terreno è asciutto al tatto. L’eccesso d’acqua può favorire il marciume radicale e non è quello che vogliamo per il benessere della pianta. Anche sulla concimazione pochi consigli ma precisi: il tagete preferisce terreni ben drenati, anche poveri, ma risponde bene a una leggera concimazione mensile durante il periodo di crescita. Un fertilizzante organico a basso contenuto di azoto favorisce la fioritura, ma prestate sempre attenzione alla quantità, specialmente sulle foglie della pianta.

    Il tagete va potato? Consigli utili sulla potatura
    Anche il tagete necessita di una leggera potatura al bisogno. Questa pratica si rivela particolarmente utile per stimolare nuove fioriture e rendere la pianta sempre rigogliosa e bellissima. Come si esegue la potatura del tagete? Intanto, rimuovendo regolarmente i fiori appassiti, ma in autunno si consiglia proprio di tagliare la pianta alla base. Spesso, nei climi miti, torna a germogliare spontaneamente nella stagione successiva. Inoltre, é anche possibile raccogliere i semi e lasciarli seccare direttamente sui fiori, per poi utilizzarli in una semina futura.

    Fioritura del tagete
    La pianta di tagete inizia a fiorire già da maggio/giugno e continua fino ai primi freddi, regalando un caleidoscopio di sfumature giallo-arancio che rallegra aiuole, orti e balconi. Alcune varietà, se ben curate, possono proseguire anche fino a ottobre inoltrato. Impossibile non innamorarsi dei suoi colori; sono un vero e proprio regalo per la vista e donano vivacità a ogni ambiente. Come tutti i fiori, anche quelli del tagete attraggono vite: api, vespe e altri insetti impollinatori non vedono l’ora di farvi capolino LEGGI TUTTO

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    Tessuti sostenibili: quali sono e come sceglierli

    Spesso si parla della necessità di rendere l’industria della moda più sostenibile, tenendo conto che è una delle più inquinanti al mondo. Se da un lato le aziende e i designer devono fare la loro parte, riducendo l’impatto delle produzioni, anche noi consumatori dobbiamo prestare una maggiore attenzione agli acquisti. Un punto di partenza per valutare la sostenibilità di un capo è il tessuto con cui è realizzato. Proprio per questo, è importante essere a conoscenza di quali siano i tessuti sostenibili e come sceglierli.

    Tessuti sostenibili: cosa sono
    Un capo è ritenuto sostenibile quando è durevole, prodotto con materiali naturali, riciclabili o riciclati (evitando l’uso di fibre sintetiche) e con una filiera tracciabile ed etica e sulla sua etichetta riporta certificazioni che ne garantiscono la trasparenza. A determinare la sostenibilità di un indumento è quindi il tessuto con cui è creato: questo è sostenibile se limita l’impatto ambientale nel corso di tutto il suo ciclo di vita. Il materiale deve essere biodegradabile o facilmente riciclabile, realizzato con processi a basso consumo, fibre naturali, rinnovabili o riciclate, senza l’uso di pesticidi, riciclando l’acqua e garantendo condizioni lavorative eque. Bisogna sottolineare tuttavia come ogni tessuto, per quanto naturale, può avere un impatto sull’ambiente, a seconda di come viene trattato e pertanto è importante puntare su fibre riciclate, biologiche o cruelty-free.

    Quali sono i tessuti più sostenibili
    Canapa biologica
    Tra i tessuti più eco-friendly, la canapa biologica si distingue per le sue caratteristiche ecologiche. Questa fibra naturale, la cui coltivazione è a basso impatto ambientale, cresce velocemente senza l’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici, migliorando la qualità del suolo, senza impoverirlo. Rispetto al cotone, la canapa biologica richiede molta meno acqua ed è carbon-negative, ciò significa che assorbe più CO2 di quanta ne emetta la sua coltivazione. Resistente e durevole, è totalmente biodegradabile e diventa più morbida a ogni lavaggio. La canapa biologica racchiude proprietà ipoallergeniche, antibatteriche e antifungine e una protezione naturale dai raggi UV, risultando ideale per le pelli sensibili. Estremamente versatile, si presta sia per gli abiti, ma anche per la biancheria e l’arredamento.

    Lino
    Proveniente dall’omonima pianta, il lino è una fibra tessile tra le più sostenibili, soprattutto se coltivato biologicamente. A differenza del cotone, richiede risorse esigue, necessitando di poca acqua, non avendo bisogno di pesticidi e fertilizzanti chimici e adattandosi anche ai terreni poco fertili. Capace di assorbire CO2, la pianta può essere riutilizzata in tutte le sue parti. Dalla fibra di lino si tesse un materiale leggero, traspirante, durevole e resistente, che se non è tinto con coloranti è interamente biodegradabile. Questa fibra, contraddistinta da capacità antimicrobiche e antibatteriche, è adatta per le pelli sensibili ed è capace di mantenerci al fresco se indossata in estate.

    Cotone organico
    Il cotone è una delle fibre naturali più conosciute al mondo, derivante dalla bambagia, la peluria soffice che avvolge i semi del Gossypium. La sua coltivazione convenzionale comporta di norma grandi quantità di acqua e pesticidi, soprattutto quando si parla di tessuto in denim, che richiede trattamenti chimici altamente inquinanti. Se coltivato in modo biologico, il cotone è considerato un tessuto sostenibile, non avendo bisogno di pesticidi, prodotti chimici e di grandi quantità d’acqua. Dal cotone biologico si ricavano capi morbidi, confortevoli e dalle proprietà traspiranti. Una delle forme più eco-friendly del cotone è quello riciclato, ricavato dai rifiuti tessili e che richiede molte meno risorse rispetto al cotone vergine: biodegradabile, si decompone più velocemente se puro, tenendo conto che però spesso è impiegato insieme a fibre diverse.

    Bambù
    Fibra naturale di cellulosa, il bambù cresce rapidamente e non necessita di molta acqua, pesticidi e fertilizzanti. Totalmente biodegradabile, è molto apprezzato per le sue proprietà antibatteriche e antiodore, garantite dalla presenza al suo interno del bamboo kun, agente antimicrobico naturale. Termoregolatore, comodo, morbido, resistente e traspirante, un tessuto in bambù assicura freschezza alla pelle ed è facile da mantenere, visto che non si restringe e asciuga velocemente. Di contro, però, la lavorazione di questa fibra non è così regolamentata e monitorata: per essere sicuri che un capo sia davvero sostenibile è quindi necessario puntare sul bambù organico e controllare la filiera del marchio che lo ha prodotto.

    Lyocell
    Negli anni il lyocell si è affermato come tessuto sostenibile semisintetico molto apprezzato. Come la rayon-viscosa, è ricavato dalla cellulosa, ma con un processo decisamente più green. Derivante dalla pasta di legno degli alberi di eucalipto, gestendo le foreste in modo ecologico, la sua produzione richiede meno acqua ed energia rispetto alla viscosa. Nonostante implichi l’uso di un solvente chimico, N-ossido di N-metilmorfolina, a renderlo sostenibile è il processo a sistema chiuso con cui viene lavorato, che vede il solvente riciclato e riutilizzato più e più volte. Il lyocell è biodegradabile, morbido, resistente, traspirante e antibatterico, arrivando ad assorbire fino al doppio dell’umidità rispetto al cotone ed essendo particolarmente indicato per capi sportivi, costumi e biancheria. In commercio si trova spesso indicato con il marchio di Tencel, brevettato dall’azienda austriaca Lenzing, che ne garantisce la trasparenza della filiera.

    Qmonos
    Tra i tessuti sostenibili più innovativi spicca il Qmonos, seta di ragno sintetica. Si tratta di nuovo materiale giapponese realizzato senza sfruttare i ragni, la cui produzione è cruelty-free e si basa su microrganismi geneticamente modificati, grazie ai quali si producono proteine molto simili alla componente principale della seta, la fibroina. Ultraleggero, biodegradabile, flessibile e resistente ricorda la seta e il nylon: pur non essendo molto diffuso, alcuni marchi attenti alla sostenibilità lo hanno fatto entrare nelle loro collezioni. Oltre al comparto moda, si presta per applicazioni di ingegneria aerospaziale e medicina.

    Piñatex
    Innovazione tecnologica e sostenibilità si incontrano in Piñatex, tessuto creato dalla startup londinese Ananas Anam, partendo dalla fibra delle foglie d’ananas, recuperando così un sottoprodotto agricolo di solito scartato oppure bruciato. Trattato con resine ecologiche, Piñatex è vegano e cruelty-free, rappresentando un’alternativa alla pelle tradizionale, rispettando l’ambiente e supportando le comunità agricole locali. Tra i suoi punti di forza spiccano la resistenza, la traspirabilità e la leggerezza. Questo straordinario materiale viene impiegato nella moda, ma anche nei settori dell’arredamento e dell’automotive.

    Come scegliere i tessuti sostenibili
    Scegliere di indossare un tessuto sostenibile significa ridurre il proprio impatto ambientale, sia in termini di anidride carbonica generata, che di consumo di acqua, e supportare filiere trasparenti e il lavoro equo. Inoltre, un capo prodotto in modo ecologico fa bene anche alla pelle, visto che i tessuti sostenibili sono molto spesso delicati, traspiranti e ipoallergenici. Per scegliere capi creati con tessuti che siano davvero eco-friendly, conoscere le diverse tipologie esistenti è quindi fondamentale, ma rappresenta solo una parte di tutto il processo. Infatti, è anche importante verificare la presenza di certificazioni riconosciute che attestino il rispetto di standard sociali e ambientali, come per esempio la Global Organic Textile Standard (GOTS), che garantisce almeno il 70% di fibre da agricoltura biologica e il rispetto di criteri ambientali e sociali delle filiera, e la OEKO-TEX® Standard 100, con cui si certifica l’assenza di sostanze nocive. Per compiere scelte di acquisto più sostenibili, è poi imprescindibile informarsi sulla trasparenza della filiera produttiva e sul produttore e leggere sempre con attenzione l’etichetta dei capi che si acquistano. LEGGI TUTTO