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    Virus dell’aviaria, il salto di specie che fa paura. “Rischio basso ma attenzione alta sui bovini”

    Un virus che da anni “prova a fare il salto e arrivare a noi, al contagio uomo-uomo, ma per fortuna non c’è ancora riuscito. Però dobbiamo tenere alta la guardia perché quello che è successo negli Stati Uniti con i bovini è preoccupante”. Così il professor Nicola Decaro, direttore del Dipartimento di medicina veterinaria dell’Università di Bari, presidente dell’European College of Veterinary Microbiology (ECVM) e membro della task force del Ministero della Salute sull’aviaria, sintetizza a Green&Blue la grande sfida che abbiamo davanti in questo 2025 appena iniziato nell’affrontare il virus H5N1, l’influenza aviaria. La prestigiosa rivista scientifica Science ha inserito la lotta al virus dell’aviaria come tema centrale, quest’anno, dopo i recenti fatti che hanno messo in allarme gli Stati Uniti e il mondo.

    Scienza

    Dal clima alle pandemie, cosa ci aspetta nel 2025 secondo “Science”

    di  Giacomo Talignani

    04 Gennaio 2025

    Negli States, dove in Louisiana pochi giorni fa è deceduto un paziente contagiato, ma che aveva malattie pregresse, dopo anni di stragi di pollame legate alla diffusione del virus oggi l’allarme è concentrato soprattutto sui bovini e sul latte. Si contano oltre 700 allevamenti in diversi Stati dove è presente il virus e l’amministrazione Biden ha già previsto 1 miliardo di investimenti per fronteggiare l’emergenza.In Italia, come altrove, per ora sono da escludere rischi di passaggio del virus fra gli esseri umani ma, essendo stati registrati dalla Lombardia al Veneto casi di influenza aviaria tra gli uccelli, l’attenzione “deve restare alta” dice Decaro, sia per evitare contagi fra animali sia per i possibili impatti e danni economici al mondo dell’agroalimentare.

    Come si sta evolvendo il virus H5N1?
    “In maniera sorprendente e mi riferisco al caso dei bovini. Per ora l’epidemia dei bovini riguarda solo gli Stati Uniti, ma dobbiamo tenere gli occhi ben aperti. Questo perché parliamo di un virus che da parecchi anni sta tentando di passare anche all’uomo: finora, se non in casi limitati, non c’è riuscito e ricordiamo che non si è ancora mai verificato un passaggio da uomo a uomo. Questo perché rimane un virus degli uccelli, anche se ultimamente ha dimostrato di adattarsi e sapere conquistare nuove nicchie ecologiche: in questo il caso dei bovini è stato eclatante. Nessuno si aspettava che H5N1 potesse fare un salto di specie così importante. È stata una sorpresa per tutti”.

    C’è correlazione fra la morte del cittadino statunitense contagiato e il passaggio di H5N1 ai bovini?
    “No. Attualmente ci sono tanti virus H5N1 ad alta patogenicità in circolazione, ma quello dei bovini è un genotipo diverso da quello che ha causato la morte dell’uomo negli Usa o di altri uccelli selvatici. Non c’è correlazione fra la morte della persona e i bovini. Nel 2024 negli Stati Uniti, anche se si tratta di casi assolutamente non letali, ci sono stati 64 contagi umani legati ai bovini”.

    Chi è a rischio contagio?
    “Sia con i bovini che con il pollame anche se basso il rischio contagio esiste ma è quasi sempre legato a professioni, a malattie professionali, per esempio a allevatori, macellatori, cacciatori, veterinari o comunque a una esposizione diretta a animali infetti dato che non c’ è mai stato nessun rischio agroalimentare, intendo legato all’assunzione di cibi, e come detto mai nessun caso da uomo a uomo. Per i bovini oggi l’elemento di maggior preoccupazione è il latte, quello non pastorizzato, crudo, che veicola alte quantità di virus. Da noi questo latte non c’è e non ci poniamo il problema, ma bisogna essere informati. In generale l’importante è tenere alta l’attenzione a livello di sorveglianza”.

    In Italia il livello di sorveglianza è alto?
    “Sì. Proprio nelle ultime ore è arrivata una nota del Ministero della Sanità che invita tutte le Regioni e i sistemi sanitari veterinari a rafforzare la sorveglianza negli uccelli selvatici, nel pollame e nei carnivori selvatici che sono recettivi a H5N1. Il sistema veterinario italiano negli ultimi anni è stato molto potenziato e rappresenta una garanzia per un monitoraggio elevato. Sono sicuro che qualora il virus dell’influenza aviaria dovesse interessare i nostri allevamenti di bovini in Italia ci sarebbe un sistema di allerta molto precoce grazie alla rete nazionale, che funziona”.

    Ci sono casi di influenza aviaria in Italia fra gli uccelli? Come arriva il virus?
    “Sì, molti casi. E ce ne saranno sicuramente ancora altri. Il virus arriva nel pollame soprattutto a causa degli uccelli migratori che arrivano infetti in Italia seguendo le rotte migratorie. Avendo ormai preso piede negli avicoli selvatici, dalle anatre fino ai gabbiani che sono vettori di infezione, ci aspettiamo ulteriori coinvolgimenti di allevamenti di polli. Se entra negli allevamenti si ha una mortalità notevole e bisogna intervenire prontamente con l’abbattimento di tutti gli animali”.

    I rischi attuali sono legati soprattutto al comparto alimentare?
    “Esatto, il rischio principale è quello, soprattutto per il pollame domestico, così come c’è un rischio minimo anche per i cacciatori che possono entrare in contatto con animali selvatici infetti. Attenzione però: per contrarre il virus le persone devono venire a contatto con alti carichi virali dato che questo virus, anche se sta facendo ripetuti tentativi di passare all’uomo e in qualche caso ci riesce, non è adattato bene alla specie umana. Si parla di un virus che riconosce recettori che sono aviari, ma non si è adattato a quelli umani. L’uomo ha recettori simili a quelli aviari solo nelle vie respiratorie profonde: il virus sta nei polmoni, ma non riesce ad andare nei sistemi respiratori delle alte vie. Dunque per infettarsi bisogna davvero essere ‘bombardati’ da cariche virali molto elevate”.

    Negli allevamenti intensivi c’è una possibilità di maggiore di contagi?
    “Diciamo che la questione allevamenti intensivi è a doppia faccia. Nell’allevamento intensivo in caso di contagi la diffusione è esponenziale e dunque questo tipo di strutture possono rappresentare un problema, ma l’aviaria è più tipica di allevamenti familiari, piccoli, dove la biosicurezza – a differenza degli impianti intensivi – solitamente è minore. Dunque per l’affollamento in quelli intensivi il rischio è grande, però c’è anche maggiore sicurezza rispetto ad allevamenti famigliari all’aperto dove c’è uno scambio più facile per esempio con uccelli selvatici. I bovini contagiati negli Usa molto probabilmente erano in strutture all’aperto e sono stati contagiati da uccelli migratori”.

    Nel malaugurato caso che il virus riesca ad adattarsi all’uomo, siamo pronti a contrastarlo?
    “Abbastanza pronti direi, dato che ci sono addirittura tre vaccini prepandemici messi a punto per H5N1 proprio nel caso dovesse adattarsi all’uomo, cosa che ovviamente non ci auguriamo. Per ora non c’è bisogno di vaccini, ma è bene averli conservati e pronti perché potrebbero servire”.

    Infine, come giudica l’attuale livello di rischio legato all’aviaria nel nostro Paese?
    “Se parliamo di contagi umani per ora ancora decisamente basso, lo abbiamo sintetizzato anche nei documenti della task force ministeriale pubblicati a luglio. Ma, ripeto, teniamo comunque gli occhi ben aperti”. LEGGI TUTTO

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    Antartide, raggiunto il ghiaccio più antico: risale a 1,2 milioni di anni fa

    I ricercatori di dodici istituzioni scientifiche europee hanno raggiunto il punto esatto dove la terra conserva un archivio straordinario sulla storia climatica della Terra. Un luogo che contiene informazioni dirette sulle temperature atmosferiche e le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’arco di 1,2 milioni di anni. Probabilmente anche più remote. È accaduto nell’altipiano centrale Little Dome C, in Antartide, dove un team di scienziati di dieci Paesi, impegnati nella campagna di perforazione del progetto europeo Beyond EPICA-Oldest Ice sono arrivati ad una profondità di 2.800 metri, dove la calotta glaciale antartica incontra la roccia. Una scoperta arrivata dopo oltre 200 giorni di perforazioni e analisi delle carote di ghiaccio, lavorando con una temperatura medi di meno 35° C.

    Crisi climatica

    La fusione dello strato di ghiaccio sull’Artico potrebbe influenzare le correnti oceaniche

    di Sara Carmignani

    01 Novembre 2024

    “In ogni metro informazioni su 13 mila anni di storia climatica”
    “Dalle analisi preliminari condotte sul sito, abbiamo forti indicazioni che in un solo metro di ghiaccio si trovano compresse informazioni su ben 13mila anni di storia climatica”, afferma Julien Westhoff, responsabile scientifico sul campo e ricercatore all’Università di Copenaghen. Secondo gli scienziati le carote di ghiaccio del progetto Beyond EPICA offriranno informazioni senza precedenti sulla Transizione del Medio-Pleistocene, un periodo compreso tra 900.000 e 1,2 milioni di anni fa, quando i cicli glaciali rallentarono da intervalli di 41.000 anni a 100.000 anni. Le ragioni di questo cambiamento rimangono uno dei misteri più complessi delle scienze climatiche.

    Il lavoro dei ricercatori impegnati nel progetto in Antartide  LEGGI TUTTO

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    Un quarto degli animali d’acqua dolce a rischio estinzione

    Inquinamento, dighe, agricoltura intensiva, specie invasive. E così rischiamo di perdere la bellezza di 23mila specie che vivono negli ecosistemi d’acqua dolce, quasi un quarto del totale. Sarebbe un duro colpo alla biodiversità: a lanciare l’allarme è un gruppo di scienziati della International Union for Conservation of Nature (Iucn), un’organizzazione non governativa internazionale con sede in Svizzera, in uno studio appena pubblicato sulle pagine della rivista Nature. Gli autori auspicano che i risultati del loro lavoro spronino e aiutino i decisori a intraprendere al più presto tutte le azioni necessarie a preservare la biodiversità delle acque dolci e scongiurare il pericolo di estinzione delle specie a rischio.

    Biodiversità

    Le specie aliene “emigrano” per evitare l’estinzione

    di  Pasquale Raicaldo

    12 Dicembre 2024

    “Gli ecosistemi di acqua dolce”, scrivono i ricercatori nello studio, “sono ricchissimi di biodiversità e rappresentano un mezzo di sussistenza e di sviluppo economico per molte popolazioni umane, e sono attualmente sottoposti a uno stress molto elevato”. La maggior parte delle valutazioni finora compiute sulle specie a rischio di estinzione, però, non si erano concentrate su quelle che vivevano nelle acque dolci, e ciò ha parzialmente condizionato le politiche di conservazione.“Finora, le politiche ambientali e le definizioni delle priorità di conservazione sono state stabilite soprattutto sulla base dei dati relativi ai tetrapodi terrestri. Abbiamo le prove che questi dati non sono sufficienti a rappresentare le esigenze delle specie di acqua dolce né a raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati in fatto di biodiversità”. Tutelare questa biodiversità è particolarmente importante: le acque dolci ospitano, infatti, oltre il 10% di tutte le specie viventi conosciute, e molte di esse svolgono un ruolo fondamentale per il ciclo dei nutrienti, per il controllo delle inondazioni e per la mitigazione dei cambiamenti climatici.

    Le idee

    Per prevenire i disastri climatici ridiamo spazio ai fiumi

    di WWF ITALIA

    21 Ottobre 2024

    Nel loro studio, gli scienziati, coordinati da Catherine Sayer, si sono quindi concentrati sulle specie di acqua dolce inserite nella Red List of Threatened Species (Lista rossa delle specie a rischio) del Iucn: si tratta, in particolare, di 23.496 specie che comprendono pesci, crostacei decapodi (come granchi, gamberi e gamberetti) e odonati (insetti acquatici come libellule e damigelle). In questo modo, hanno evidenziato che quasi un quarto di queste specie è a rischio estinzione; a correre il pericolo maggiore sono i decapodi, per i quali quasi una specie su tre è a rischio estinzione, rispetto al 26% dei pesci d’acqua dolce e al 16% degli odonati. Tra le minacce principali spicca, al primo posto, l’inquinamento (che mette a rischio il 54% delle specie considerate), seguito dalla presenza di dighe e dall’estrazione idrica (39%), dal cambiamento di uso del suolo per scopi agricoli (37%) e da specie invasive e malattie (28%). Tutti fattori riconducibili prevalentemente all’attività umana, insomma. “I nostri risultati”, concludono gli autori, “evidenziano la necessità urgente di affrontare queste minacce per prevenire un ulteriore declino e la perdita di specie”. LEGGI TUTTO

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    Greenpeace: in Italia mancano dati sulla pericolosa contaminazione da TFA

    Nuova denuncia di Greenpeace Italia sulla contaminazione TFA, l’acido trifluoroacetico, la molecola che appartiene al gruppo più ampio di sostanze conosciute come “inquinanti eterni” del gruppo PFAS (di origine industriale altamente tossici). Si tratta di una molecola in uso da decenni e ben nota alla comunità scientifica internazionale, ma solo negli ultimi anni è emerso che il TFA sia di gran lunga il PFAS presente in maggiori quantità ovunque venga cercato: nelle acque minerali e potabili, nella polvere domestica perfino nel sangue umano.

    Ambiente

    Pfas nei cinturini degli smartwatch in fluoroelastomero: meglio sceglierli in silicone

    di  Simone Cosimi

    05 Gennaio 2025

    Eppure, denunciano ora gli esperti di Greenpeace nel nostro Paese, al contrario che in altri stati europei, non esistono dati pubblici e mappe sulla possibile contaminazione da TFA nelle acque sia superficiali che di falda, sia negli alimenti che nel corpo umano. “Improbabile ipotizzare che a differenza di gran parte delle nazioni europee, dove viene misurato, il nostro Paese sia immune da questa contaminazione”, scrive Greenpeace. E forse non è un caso, spiegano che “gli unici dati pubblici disponibili sull’inquinamento da TFA nel nostro Paese sono quelli ufficiali di ARPA Veneto riguardo i monitoraggi sulla presenza di PFAS ultracorti nelle falde sottostanti l’industria farmaceutica FIS di Montecchio Maggiore (VI), dove furono registrate concentrazioni superiori ai 100 mila nanogrammi per litro”.

    Acque senza veleni

    Questa molecola – costituita da due atomi di carbonio che può essere sintetizzata artificialmente o derivare dalla degradazione di circa duemila PFAS – è presente in molti settori: in alcuni gas refrigeranti, nei polimeri fluorurati (le sostanze plastiche altamente resistenti utilizzate dall’industria automobilista fino alla produzione di utensili da cucina); nei pesticidi, perfino nei farmaci e nelle schiume antincendio. Per stilare la prima mappa della contaminazione da PFAS – TFA incluso – nelle acque potabili di tutte le regioni italiane, lo scorso ottobre Greenpeace Italia, nell’ambito della sua campagna Acque senza veleni, ha raccolto campioni in oltre 240 città su tutto il territorio nazionale. Il prossimo 22 gennaio l’organizzazione ambientalista pubblicherà gli esiti delle analisi indipendenti realizzate.

    Salute

    Pfas, dalla carta da forno all’acqua: indistruttibili e (quasi) inevitabili

    di  Pasquale Raicaldo

    07 Novembre 2024

    “Gli scienziati trovano il TFA ovunque lo cerchino”

    “Così, mentre gli scienziati trovano il TFA ovunque lo cerchino, parallelamente, emergono prove inconfutabili circa la contaminazione irreversibile che origina e la continua esposizione degli esseri umani. Nonostante ciò, in Italia non sappiamo quanto sia ampia la diffusione di questa pericolosa sostanza”, dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. Non solo. Nel settembre dello scorso anno, l’Unione europea ha aggiornato il Regolamento delle sostanze chimiche introducendo una nuova restrizione all’uso del PFAS e dei suoi derivati soprattutto nel settore delle calzature, dei tessuti, cosmetici, nella carta e cartone utilizzati a contatto con gli alimenti, nelle schiume antincendio. Restrizione dovuta proprio al fatto che queste sostanze sono state valutate come “molto persistenti”, mobili nell’acqua e “associate a potenziali effetti nocivi sull’ambiente e la salute umana”. Anche se, secondo la tabella di marcia decisa a livello europeo, alle aziende che ne fanno uso è stato concesso un periodo di transizione tra i 18 mesi e i 5 anni a seconda dei settori coinvolti. Tempo che servirà per trovare alternative chimiche più pulite e sostenibili. E comunque partiranno solo dal 2026.

    “Nei succhi di frutta”
    L’associazione chiede dunque “interventi urgenti per limitare le emissioni in natura prima che gli impatti sugli esseri umani e sull’ambiente diventino ancora più evidenti e irreversibili”. “Negli ultimi anni, numerose ricerche hanno evidenziato il TFA non solo nelle acque potabili, ma anche in dieci marchi di acqua minerale e di sorgente venduti in Europa. Pure in succhi di frutta, puree di frutta e verdura, nella birra, nel tè, in numerose specie vegetali tra cui il mais, con concentrazioni simili a quelle delle sostanze bioaccumulabili. Questo perché è persistente e indistruttibile: per le sue stesse caratteristiche, non può essere rimossa dai più comuni trattamenti delle acque potabili”.

    Attenzione ai Pfas: che cosa sono e perché sono pericolosi per la salute

    di  Paola Arosio

    17 Dicembre 2024

    “Una storia che si ripete”
    Pur non avendo un quadro chiaro circa gli impatti sanitari, sempre secondo Greenpeace: “Potremmo essere all’inizio di una storia che si ripete: come già accaduto per i PFAS oggi noti per essere cancerogeni, fino a pochi anni fa non avevamo informazioni esaustive. Oggi sappiamo che il TFA è sicuramente una molecola a cui siamo continuamente esposti (e potremmo esserlo per l’intera nostra esistenza), può essere incorporato in molecole biologiche come le proteine, causare danni al fegato, essere trasmesso facilmente dalla madre al feto attraverso la placenta, e, infine, alcune prove indicano che sia tossico per lo sviluppo embrionale nei mammiferi. In base a queste evidenze, la Germania ha già chiesto all’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) di verificare se possa essere classificato come tossico per la riproduzione umana”. Chiede l’associazione ambientalista: “A causa della contaminazione da PFAS e delle insufficienti risposte della politica, le persone che nel nostro Paese vivono nelle zone più esposte al rischio stanno già pagando un prezzo elevato. Quando il governo e i ministeri competenti intenderanno attivare controlli e misure urgenti per tutelare l’ambiente e la nostra salute?”. LEGGI TUTTO

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    L’appello di Papa Francesco: “Non abbiamo diritto di restare indifferenti all’emergenza climatica”

    “Non possiamo rimanere indifferenti a tutto ciò! Non ne abbiamo il diritto! Piuttosto, abbiamo il dovere di esercitare il massimo sforzo per la cura della nostra casa comune e di coloro che la abitano e la abiteranno”. Lo ha detto papa Francesco nel discorso di inizio anno al corpo diplomatico, letto da monsignor Filippo Ciampanelli a causa di un raffreddore, sottolineando che “siamo di fronte a società sempre più polarizzate, nelle quali cova un generale senso di paura e di sfiducia verso il prossimo e verso il futuro”.

    In un ampio passaggio del discorso, dedicato anche ai rischi di guerre mondiali, fake news e conflitti polarizzati che affliggono l’umanità, Borgoglio è tornato sul tema dell’emergenza climatica a lui caro. “Siamo tutti prigionieri, perché siamo tutti debitori: lo siamo verso Dio, verso gli altri e anche verso la nostra amata Terra, dalla quale traiamo l’alimento quotidiano”.

    “Sempre più la natura sembra ribellarsi all’azione dell’uomo, mediante manifestazioni estreme della sua potenza”, osserva papa Francesco, pensando alle alluvioni che si sono verificate in Europa centrale e in Spagna, come pure ai cicloni che hanno colpito in primavera il Madagascar e, poco prima di Natale, il Dipartimento francese di Mayotte e il Mozambico.

    Il debito ecologico tra il Nord e il Sud del mondo
    Poi, il riferimento all’importanza dei finanziamenti ai Paesi vulnerabili e ai necessari investimenti contro per affrontare la crisi del clima. “Nel corso della Cop29 a Baku – scrive il Papa – sono state adottate decisioni per garantire maggiori risorse finanziarie per l’azione climatica. Mi auguro che esse consentano la condivisione delle risorse a favore dei molti Paesi vulnerabili alla crisi climatica e sui quali grava il fardello di un debito economico opprimente. In quest’ottica, mi rivolgo alle nazioni più benestanti perché condonino i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Non si tratta solo di un atto di solidarietà o magnanimità, ma soprattutto di giustizia, gravata anche da una nuova forma di iniquità di cui oggi siamo sempre più consapevoli: il ‘debito ecologico’, in particolare tra il Nord e il Sud. Anche in funzione del debito ecologico, è importante individuare modalità efficaci per convertire il debito estero dei Paesi poveri in politiche e programmi efficaci, creativi e responsabili di sviluppo umano integrale. La Santa Sede è pronta ad accompagnare questo processo nella consapevolezza che non ci sono frontiere o barriere, politiche o sociali, dietro le quali ci si possa nascondere”.

    Giù in occasione della Cop29 di Baku il Papa aveva lanciato un appello per la riuscita della conferenza Onu sul clima, ricordando i tre anni della piattaforma Laudato si’, nata dalla sua enciclica del 2015 e volta alla diffusione di una cultura della salvaguardia della “casa comune” e della ecologia integrale che metta al centro le persone. LEGGI TUTTO

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    Trump e l’eredità green di Biden: cosa cambierà negli Usa per le politiche ambientali

    Le intemerate del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump su Groenlandia, Panama, Hamas hanno oscurato una serie di esternazioni, apparentemente minori, sulle questioni energetiche e climatiche. Nella recente conferenza stampa dalla sua residenza di Mar-a-Lago in Florida, Trump ha confermato che fin dal primo giorno della sua presidenza, il prossimo 20 gennaio, rimuoverà il bando a nuove trivellazioni petrolifere in 625 milioni di acri lungo le coste degli Stati Uniti, bando appena varato dal presidente uscente Joe Biden. Ha esaltato il gas naturale come fonte di energia pulita, facendo finta di ignorare che come combustibile fossile dà un notevole contributo alle emissioni di CO2 e quindi al surriscaldamento del Pianeta. Ha definito le energie rinnovabili “convenienti” solo per le aziende che prendono sussidi pubblici per costruite campi eolici e fotovoltaici. Ha annunciato che durante la sua Amministrazione non si installeranno più pale eoliche negli States. Affermazioni che sommate all’annuncio, subito dopo la vittoria elettorale, di voler portare gli Usa fuori (per la seconda volta) dall’Accordo di Parigi, proiettano una ombra lunghissima sulle politiche globali per il contenimento delle temperature sulla Terra. Il tutto mentre il presidente uscente vara, invece, una serie di misure ambientali: l’istituzione di nuovi monumenti nazionali, un taglio record delle emissioni di CO2 entro il 2035, lo stop alle trivellazioni in mare e in Alaska… Provvedimenti che Trump ha definito, storpiando il Green New Deal dem, green new scam: nuova truffa verde.

    Di fronte a questo braccio di ferro tra presidente uscente e presidente entrante, c’è da chiedersi: le decisioni dell’ultim’ora di Biden sono solo simboliche? Un modo per passare alla storia come l’inquilino più green nella storia della Casa Bianca? O avranno una reale efficacia e applicazione nei prossimi anni, nonostante Trump si dica pronto a rinnegarle al giorno uno del suo mandato?

    Il bando alle trivellazioni
    Il divieto di trivellazione offshore di Biden affonda le sue radici in una legge vecchia di 72 anni, che concede alla Casa Bianca ampia autorità per proteggere in modo permanente le acque statunitensi dalle concessioni di petrolio e gas senza fornire esplicitamente ai presidenti successivi la possibilità di ritirare queste tutele una volta stabilite. Per annullare il divieto sarebbe probabilmente necessario un atto del Congresso, che ora è guidato da una maggioranza repubblicana esigua e divisa. Si spiega anche così la reazione rabbiosa di Trump, che ha attaccato il bando delle trivellazioni, accusando i democratici di stare lavorando per rendere il passaggio di poter il più complicato e costoso possibile. Se fosse bastata una sua firma il prossimo 20 gennaio per rimuovere lo stop alle perforazioni non si sarebbe dato pena. Resta il fatto che con questa mossa, Biden passerà alla storia per aver messo sotto protezione più terre e acque statunitensi di qualsiasi altro presidente.

    Il taglio delle emissioni al 2035
    A metà dicembre Biden ha anche impegnato gli Stati Uniti a ridurre, entro il 2035, le emissioni di gas serra del 61-66% rispetto ai livelli del 2005. La comunicazione all’Onu degli Ndc (i contributi determinati a livello nazionale) fa parte della procedura prevista dall’Accordo di Parigi. Ma Trump ha ripetutamente annunciato di voler uscire dall’Accordo, come fece nel corso del suo primo mandato. E allora che valore ha l’impegno preso da Biden? In realtà sfilarsi da un accordo internazionale richiede tempi tecnici, almeno un anno. Ma aldilà delle questioni procedurali, c’è da tener conto che negli Stati Uniti le politiche green e le regolamentazione delle emissioni competono soprattutto ai governatori dei singoli Stati. Molti dei quali (quelli democratici ma non solo) si sono già riuniti in una coalizione che intende proseguire nella riduzione delle emissioni di gas serra, indipendentemente dal volere della Casa Bianca, che può incidere solo sulle norme federali.

    L’Infaction réduction act
    Nell’agosto del 2022 l’Amministrazione Biden ha approvato il più grande investimento sul clima della storia americana: 2mila miliardi di dollari dalle casse federali per spingere il settore delle energie green nel prossimo decennio. Ora Trump può anche scagliarsi contro la politica dei sussidi pubblici, ma a beneficiare di questa pioggia di denaro sono e saranno anche cittadini e imprenditori che fanno parte della sua base elettorale. Se il nuovo presidente dovesse fare marcia indietro e chiudere i rubinetti, molti sono pronti a scommettere che il suo consenso precipiterebbe. Per questo l’Ira potrebbe sopravvivere alla nuova era Trump, nonostante i suoi proclami.

    Le fonti rinnovabili
    Uno dei ritornelli di Donald Trump in campagna elettorale è stato “drill, baby grill”: trivellate pure, ragazzi. Gli Stati Uniti sono ricchissimi di gas e petrolio e sarebbe un suicidio politico ed economico rinunciarci: questo, in sostanza, il pensiero energetico di The Donald. La lobby dell’oil&gas ha generosamente finanzialo la sua campagna elettorale e la passione per i combustibili fossili del neopresidente sembra essere la giusta ricompensa. Ma, si chiedono gli analisti, la volontà politica vincerà sul mercato? Perché già ora c’è tanto, troppo petrolio rispetto alla domanda. Produrne ancora comporterebbe un ulteriore calo dei prezzi, come successe durante la pandemia da Covid, quando addirittura le quotazioni andarono sotto zero. Sarà cruciale ciò che accadrà in Cina: grazie al boom delle rinnovabili, all’elettrificazione dei trasporti e all’efficientamento energetico, il colosso asiatico, finora uno dei maggiori acquirenti di greggio, potrebbe averne sempre meno bisogno, già a partire dal 2025. E i prezzi del barile potrebbero oscillare paurosamente verso il basso. Insomma la presidenza Trump, depurata dalle dichiarazioni del suo interprete, potrebbe essere meno drammatica del previsto per il clima. C’è chi arriva a dire che, per i motivi di cui sopra, il 67esimo presidente degli Stati Uniti non riuscirà a invertire la marcia di una transizione energetica ormai inarrestabile a livello globale. Il problema è che gli Stati Uniti, pur non facendo reali passi indietro, nei prossimi quattro anni non saranno certamente protagonisti di passi in avanti della lotta al riscaldamento globale. LEGGI TUTTO

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    Siepe o mini alberello: i consigli per coltivare la piracanta

    La siepe della piracanta è una pianta appartenente alla famiglia delle rosacee ed è originaria dell’Asia minore e dell’Europa meridionale. È un esemplare sempreverde da coltivare in giardino durante l’intero anno.
    La siepe della piracanta
    Chiunque fosse alla ricerca di una siepe sempreverde può decidere di coltivare nel proprio giardino la piracanta. Si tratta di una pianta che è caratterizzata dalla presenza di molto fogliame fitto, con foglie di dimensioni ridotte di colore verde scuro. La particolarità di questa pianta, però, sta nella presenza di spine appuntite e di numerosi fiorellini di colore bianco che, in un certo senso, potrebbero ricordare il biancospino. Durante la stagione autunnale, la pianta si anima grazie alla comparsa delle bacche: le stesse possono essere di diverso colore, rosse, arancioni o gialle. Questo dettaglio cambia a seconda della varietà che si decide di coltivare.

    La piracanta è una pianta che può raggiungere i 3 metri di altezza, specie se trova condizioni favorevoli per la sua crescita. Inoltre, è un sempreverde che riesce ad adattarsi alla perfezione anche ai climi più rigidi: sopporta addirittura temperature fino ai -20°C, ma anche il caldo torrido che si può percepire in prossimità di aree marine.

    La messa a dimora in vaso e in piena terra
    Se si vuole creare una bella siepe, è importante considerare la corretta distanza tra le varie piante di piracanta. In piena terra è utile organizzare le piante distanziandole di 50 centimetri le une dalle altre. Se, invece, si preferisce coltivare in fioriera è consigliato sistemare al massimo 2 piante, con un contenitore profondo almeno 40 centimetri e lungo 100 centimetri.

    La piracanta senza spine
    Come abbiamo accennato in precedenza, la siepe è caratterizzata dalla presenza di spine e, dunque, non è possibile selezionare per il proprio spazio verde una piracanta senza spine. In alternativa, però, si può decidere di adottare una pyracantha red star: si tratta di una sempreverde contraddistinta da meno spine e da una presenza maggiore di bacche rosse che compaiono intorno al mese di settembre.

    La piracanta nana o bonsai
    Chi fosse alla ricerca di una proposta di dimensioni inferiori a quella che può raggiungere i 3 metri di altezza, può optare per l’esemplare della piracanta nana o navaho. Questo arbusto raggiunge al massimo i 200 centimetri di altezza ed è comunque caratterizzato da fiori e numerose bacche di colore arancione. È senz’altro una pianta decorativa da sistemare nel balcone di casa, ma anche per bordure del giardino. I più creativi potranno anche dare vita a una piracanta bonsai: basterà munirsi di un paio di forbici pulite e dare la forma desiderata al mini alberello.
    Qual è il terreno suggerito per la sua coltivazione?
    La scelta del terreno per la piracanta non è difficile, poiché la pianta si adatta a qualunque condizione. La piracanta non ha particolari esigenze tanto che si può usare un terreno universale, a patto però che sia ben drenante, anche se povero. Infatti, la piracanta riesce ugualmente a sopportare questa caratteristica del terriccio.
    Le annaffiature della pianta
    La piracanta ha una grande resistenza alla siccità e preferisce un terreno privo di ristagni idrici. Durante i primi mesi dalla messa a dimora è necessario annaffiare la siepe in maniera regolare. Successivamente, nei mesi di maggiore siccità è sempre meglio dare con regolarità l’acqua alla pianta. In questo modo, si evita di danneggiare la fioritura.
    La concimazione
    Con l’arrivo della bella stagione si può utilizzare il concime per prendersi correttamente cura della siepe. Si può utilizzare concime di tipo granulare a rilascio lento da sistemare sulla terra. In alternativa, si possono anche acquistare concime liquidi specifici per le piante da fiore da somministrare nell’acqua, sempre in primavera oppure in autunno.

    La potatura
    La piracanta richiede una potatura annuale: in seguito all’impianto in piena terra, ci si può dedicare all’eliminazione dei rami secchi e danneggiati. In questo modo, si stimola la crescita di quelli nuovi, mantenendo una dimensione ideale per una siepe. È importante svolgere la potatura della piracanta alla fine dell’inverno e comunque prima della fioritura così da favorire anche la produzione delle coloratissime bacche.

    La propagazione
    È possibile propagare la pianta attraverso una talea, mentre per seme è molto più difficile. La talea va fatta a fine estate, con l’arrivo del mese di settembre, con la cima di un rametto privo di bacche: è necessario sistemare un rametto della pianta in un vaso con terriccio umido e leggero. Mi raccomando, è importante mantenere al massimo 2-3 foglie sulla cita, eliminando quelle poste alla base.

    Le malattie e i parassiti
    La piracanta è una pianta che, come tutte le altre, può essere colpita da malattie e tra le più note vi è quella della macchia fogliare. In pratica, il fogliame inizia a mostrare delle macchie marroni e la motivazione è da imputarsi principalmente all’assenza dell’aria intorno alla pianta. È importante evitare questo problema sistemando correttamente le piante ed evitando le annaffiature eccessive. Anche se è molto resistente, la siepe può incorrere anche nella ruggine, oidio e afide lanigero, problematiche dovute per l’appunto alla presenza di un terreno eccessivamente umido. LEGGI TUTTO

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    Batterie al sale: l’idea di BatterIT per trovare un’alternativa al litio

    “La nostra idea si concentra su un’area ancora poco battuta, ma che cela grandi opportunità: l’utilizzo delle batterie al sale nel settore del trasporto elettrico come alternativa al litio per combattere la crisi climatica”, a parlare sono Andrea Berti fisico della materia e Andrea Miotto esperto di analisi e marketing, entrambi ventiseienni originari di Quartier del Piave, un paese sulle colline in provincia di Treviso. Sono gli ideatori di BatterIT, un progetto che sviluppa un motore ibrido basato sulla tecnologia delle batterie ai sali fusi: sistemi che accumulano energia sotto forma di calore. Vantaggi? Una ridotta dipendenza da materiali rari, come il litio, in modo da rendere ancora più sostenibile la mobilità elettrica. BatterIT di Andrea & Andrea, lo scorso dicembre si è classificato tra i migliori dieci progetti al mondo nell’ambito della finale di Red Bull Basement 2024, la competizione globale pensata per sostenere una nuova generazione di innovatori e aiutarli a sviluppare e lanciare idee tecnologiche che abbiano l’obiettivo di migliorare la qualità della vita delle persone e del pianeta. A concorrere quest’anno circa 110 mila candidature.

    Energia

    Batterie al sodio, l’alternativa al litio: pro e contro

    di  Paola Arosio

    18 Dicembre 2024

    Come funzionano
    BatterIT prevede un motore ibrido che combina una batteria al sale e un motore a combustione. Spiegano i due ricercatori: “La diversa struttura delle celle, costituita anche da un elettrodo di sodio liquido, conferisce alla batteria al sale alcuni vantaggi rispetto alle batterie agli ioni di litio, usate per il trasporto elettrico. Ad esempio, in termini di sicurezza e stabilità: sebbene le batterie al sale richiedano un’alta temperatura di esercizio di circa 300° Celsius, non possono né bruciare né esplodere. Grazie ad un meccanismo di protezione. Per questo siamo convinti che rappresentano una svolta innovativa nel campo dell’accumulo di energia, promettendo di trasformare il nostro modo di immagazzinare e utilizzare l’elettricità. Tra l’altro, l’Italia è un paese ricco di saline, il che le consentirebbe di rendersi quanto più autonoma nella creazione dei motori energetici”.

    Innovazione

    Encubator, le startup pronte ad accelerare la transizione ecologica

    di  Gabriella Rocco

    09 Ottobre 2024

    L’alternativa al litio
    Le batterie al sale, spiegano ancora Berti e Miotto, possono dunque essere un’alternativa credibile alle tradizionali tecnologie al litio che sollevano molte questioni ambientali cruciali e che riguardano soprattutto la loro produzione e lo smaltimento. “L’estrazione dei materiali necessari, come il litio, può avere impatti negativi sull’ambiente e sulle comunità locali, mentre il recupero delle batterie usate rimane una sfida tecnologica e logistica. Non solo. A differenza delle batterie al litio, sono realizzate con materiali che si trovano in maniera abbondante e a basso costo, sono riciclabili, non infiammabili e non tossiche per l’uomo pur mantenendo la loro efficienza per un periodo di vita più lungo (circa vent’anni)”.

    Mobilità

    “La mobesity non aiuta l’ambiente. Serve una tassa sui SUV elettrici”

    di  Dario D’Elia

    18 Settembre 2024

    Obiettivo: trasporto elettrico più sostenibile
    “È per noi fondamentale affrontare queste sfide per costruire un sistema di trasporto più sostenibile. Partendo da questi benefici, il nostro progetto vuole aprire la strada a soluzioni più ecologiche, sicure e durature nel settore del trasporto elettrificato, portando ulteriori migliorie anche grazie all’integrazione dell’intelligenza artificiale”, così i due amici veneti spiegano più nel dettaglio le declinazioni del loro progetto. “Il nostro obiettivo principale rimane quello di ridurre la dipendenza dell’Italia dall’approvvigionamento dei materiali rari per una produzione domestica del sale, e quindi rendere più sostenibile la mobilità elettrica. Riducendo la dipendenza da materiali critici, costosi e inquinanti, non solo rendono più accessibile l’energia verde ma permettono di ottenere anche una significativa riduzione delle emissioni di CO2 durante i processi di produzione ed estrazione”. LEGGI TUTTO