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    Scomparsa delle zone umide, in 300 anni l’Italia ne ha perse più del 75%

    Salvare le zone umide e gli ecosistemi acquatici. Perché sono un vero e proprio hotspot di biodiversità. E possono diventare strategiche nella lotta al cambiamento climatico. Ma non se la passano bene, anzi. Alla vigilia della Giornata mondiale delle zone umide, in programma domenica 2 febbraio con visite guidate in oasi e riserve di tutta Italia, arriva una fotografia con più ombre che luci. La scatta Legambiente attraverso il focus “Ecosistemi acquatici 2025”: negli ultimi 300 anni – dal 1700 al 2000 – lo Stivale ha del resto già perso il 75% delle zone umide, 57 quelle d’importanza internazionale in Italia, distribuite – piuttosto omogeneamente – in 15 Regioni. E il trend non autorizza ottimismo. A rischio scomparsa, anche in virtù del progressivo e inesorabile innalzamento dei mari, è l’85% delle zone umide, e con loro 4.294 specie su 23.496 animali d’acqua dolce iscritti nella Lista Rossa IUCN, tra cui il 30% dei crostacei decapodi (gamberi, granchi, gamberetti), il 26% dei pesci d’acqua dolce e il 16% degli odonati (libellule, damigelle). Futuro a rischio, complice l’innalzamento del livello del Mediterraneo, aree come le lagune costiere alto-adriatiche (Delta del Po, Laguna di Venezia, Lagune di Grado-Marano e Panzano), il Golfo di Cagliari e la costa fra Manfredonia e Margherita di Savoia. E l’incremento dei periodi di siccità può riflettersi in un declino importante delle aree in Toscana, Umbria e Marche.

    Parco del delta del Po a Comacchio  LEGGI TUTTO

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    Microplastiche nella placenta, livelli più alti nei bimbi nati prematuri

    Si trovano ovunque vengano cercate. Sono le microplastiche (inferiori a 5 millimetri che arrivano dalla degradazione di oggetti come le bottiglie e gli imballaggi) che, oltre ad accumularsi nell’ambiente e nel nostro corpo, sono state trovate persino nella placenta. Un recente studio presentato nei giorni scorsi al meeting annuale della Society for Maternal-Fetal Medicine a Denver e pubblicato su The Guardian ha infatti scoperto che la percentuale di particelle di microplastiche e nanoplastiche è significativamente più alta nelle placente da nascite premature rispetto a quelle portate a termine. Apparentemente una sorpresa. I ricercatori si aspettavano infatti che un tempo più lungo avrebbe causato un maggiore accumulo. Invece.

    Trovate microplastiche anche nel cervello umano

    a cura di redazione Salute

    29 Novembre 2024

    Il legame con la placenta
    Per gli esperti quello derivante dalle nanoplastiche era già considerato un tipo di inquinamento preoccupante per la salute umana, ma questa volta l’indagine scientifica è partita mentre i ricercatori erano impegnati a studiare le possibili cause delle nascite pretermine, “considerata la principale causa di morte infantile in tutto il mondo”, ha spiegato il dottor Enrico Barrozo, del Baylor College of Medicine in Texas, negli Stati Uniti. Ed è durante questi studi che è stato scoperto il legame tra l’inquinamento atmosferico e le nascite premature e a convicere il team di ricerca ad approfondire il ruolo che hanno le microparticelle da plastica. La domanda successiva è stata: la microplastica mentre viaggia attraverso la placenta può raggiungere il bambino tramite il cordone ombelicale? Al momento non c’è una risposta certa.

    Ambiente e Salute

    Inquinamento da farmaci: una ricerca svela l’impatto dell’ibuprofene sugli ecosistemi marini

    di redazione Green&Blue

    13 Gennaio 2025

    Il nuovo studio dimostra solo un’associazione tra microplastiche e nascite premature. Sono necessarie ulteriori ricerche su colture cellulari e modelli animali per determinare se il legame è causale. È noto che le microplastiche causano infiammazione nelle cellule umane e l’infiammazione è uno dei fattori che spinge l’inizio del travaglio.
    La ricerca
    I ricercatori hanno analizzato 100 placente da nascite a termine (37,2 settimane, in media) e 75 da nascite pretermine (34 settimane), tutte provenienti dall’area di Houston. L’analisi con spettrometria di massa altamente sensibile ha rilevato 203 microgrammi di plastica per grammo di tessuto (?g/g) nelle placente premature, oltre il 50% in più rispetto ai 130 ?g/g nelle placente a termine. Sono stati rilevati dodici tipi di plastica, con le differenze più significative tra la placenta del parto completo e quella pretermine che riguardano il PET, utilizzato nelle bottiglie di plastica, PVC, poliuretano e policarbonato.

    “Importante aumentare la consapevolezza”

    Hanno spiegato i ricercatori. Alcune madri sono a più alto rischio di nascite pretermine, a causa della loro età, etnia e status socioeconomico. Ma un forte legame tra le particelle di plastica e la nascita prematura rimaneva anche quando si prendevano in considerazione questi fattori.

    “Questo studio ha mostrato un’associazione e non una causalità”, ha detto Barrozo. “Ma penso che sia importante aumentare la consapevolezza delle persone sulle microplastiche e sulle loro associazioni con potenziali effetti sulla salute umana”.
    Anche l’efficacia delle azioni per ridurre l’esposizione delle persone alle microplastiche necessita di studi urgenti, ha affermato. “Questi interventi devono essere studiati per dimostrare che c’è un vantaggio nell’evitare queste plastiche”.

    Longform

    Tutto quello che sappiamo sulle microplastiche e quanto inquinano

    di Paola Arosio

    18 Luglio 2024

    Cosa sono
    Le microplastiche, scomposte dai rifiuti plastici, hanno inquinato l’intero pianeta dalla cima del Monte Everest fino ai fondali degli oceani. È noto che le persone ingeriscono le minuscole particelle attraverso il cibo e l’acqua, oppure attraverso l’inalazione: in grado dunque di attraversare i fluidi digestivi e venire assorbita attraverso intestino e polmoni. Sono state rilevate per la prima volta nella placenta nel 2020, ma sono trovate anche nello sperma e nel latte materno, nel cervello, fegato e nel midollo osseo dei neonati indicando un’elevata contaminazione a il corpi. “Il nostro studio suggerisce la possibilità che l’accumulo di plastica possa contribuire al verificarsi di parto pretermine”, ha detto al The Guardian il professor Kjersti Aagaard, dell’ospedale pediatrico di Boston negli Stati Uniti. “In combinazione con altre ricerche recenti, questo studio si aggiunge al crescente corpo di prove che dimostrano un rischio reale derivante dall’esposizione alla plastica sulla salute umana e sulle malattie”. LEGGI TUTTO

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    Londra accelera sulla riduzione delle emissioni: giù dell’81% rispetto al 1990 entro 10 anni

    La decarbonizzazione accelera proprio lì dove tutto era cominciato: nella Gran Bretagna patria del carbone e della macchina a vapore. Due secoli e mezzo dopo l’avvio della Rivoluzione industriale, Londra annuncia un taglio delle emissioni di CO2 che, se rispettato, la metterebbe tra i Paesi più virtuosi nella lotta ai cambiamenti climatici. Poche ore fa il governo britannico ha infatti comunicato formalmente alle Nazioni unite i suoi nuovi Ndc (contributi determinati a livello nazionale), ribadendo il suo impegno a ridurre le emissioni dell’81% entro il 2035, rispetto ai livelli del 1990.

    In realtà, già lo scorso novembre a Baku nel corso di Cop29 il primo ministro britannico Keir Starmer aveva anticipato un taglio così drastico delle emissioni di gas serra. Ora la formalizzazione, in anticipo sulla scadenza prevista dall’Unfccc, l’organismo Onu che si occupa di cambiamenti climatici: tutte le nazioni aderenti all’Accordo di Parigi dovranno presentare entro febbraio i loro Ndc. L’obiettivo è arrivare alla Cop30 di Belem, in Amazzonia, il prossimo novembre, con un quadro chiaro degli impegni presi dai singoli governi, nella speranza che siano sufficienti a tenere il riscaldamento del Pianeta entro 1,5 gradi rispetto all’era pre-industriale, o comunque al di sotto dei 2 gradi. Il piano climatico del governo Starmer è molto ambizioso, perché promette di non estrarre più petrolio e gas. Ed è allineato con gli obiettivi globali di triplicare l’energia rinnovabile e raddoppiare l’efficienza energetica, come indicato dalla risoluzione finale della COP28 tenutasi a Dubai nel 2023.

    Entusiasta Simon Stiell, segretario esecutivo della Unfccc: “L’anno scorso nel Regno Unito sono stati investite più di un trilione di sterline in energia pulita. Il nuovo, audace piano per il clima significa che quel Paese è in grado di trarre ancora profitto dal boom dell’azione per il clima. Più posti di lavoro, più investimenti, più sicurezza energetica e più crescita economica fluiranno verso coloro che agiscono in fretta. Altri Paesi, nel G20 e in tutto il mondo, dovrebbero seguire l’esempio”. Non lo seguiranno certamente, almeno a livello di governo federale, gli Stati Uniti di Donald Trump, che hanno avviato le pratiche per uscire dall’Accordo di Parigi, nonostante Biden, nei suoi ultimi giorni da presidente, avesse promesso per il 2035 un taglio del 61-66%, rispetto ai livelli del 2005. La speranza è che i singoli Stati americani, sia democratici che repubblicani, mantengano gli impegni presi in fatto di decarbonizzazione.

    Cruciali saranno gli impegni della Cina, il più grande emettitore di gas serra del mondo. C’è chi auspica che possa ridurre del 30% le sue emissioni entro il 2035, in modo da rendere plausibile la promessa, fatta qualche anno fa, di diventare carbon neutral nel 2060 (mentre l’Occidente si è dato come tempo limite il 2050). E l’Unione europea? Non ha ancora presentato i nuovi Ndc e probabilmente non riuscirà a farlo entro la scadenza di febbraio. In ballo c’è un emendamento alla Legge europea sul clima per introdurre il target del 90% di riduzione al 2040 e appunto il target per il 2035. Resta l’obiettivo più ravvicinato, (ufficializzato da Bruxelles nel 2020) di ridurre di “almeno” il 55% le emissioni entro il 2030. LEGGI TUTTO

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    Droni, trovato un sistema per tenere lontani gli orsi dalle case

    Orsi animali protetti, qui in Italia come in tante altre parti del mondo, Stati Uniti compresi. Ed è proprio agli Stati Uniti che potremmo guardare (e imparare) quando si tratta di impostare strategie di convivenza con questi grandi mammiferi, che – inutile negarlo – possono costituire un pericolo. Spinti dalla fame o dalla pressione territoriale, possono avvicinarsi troppo ai centri abitati e alle attività umane. In uno studio durato sei anni, Wesley M. Sarmento del Montana Department of Fish, Wildlife and Parks ha sperimentato diversi strumenti di deterrenza per allontanare i grizzly delle Grandi Pianure da luoghi in cui erano indesiderati: la maggior parte si sono rivelati efficaci, ma è stato l’impiego dei droni a stupire l’operatore. Ecco i loro pro e contro.
    Come si allontana un orso
    Nell’articolo, pubblicato su Frontiers in Conservation Science, Sarmento racconta come, dopo aver raccolto le richieste della popolazione, abbia iniziato un’attività di monitoraggio dei grizzly e di interventi di allontanamento (in totale sono stati 163), raccogliendo dati per verificare l’efficacia di diversi strumenti non letali sia nell’immediato sia a lungo termine, ossia se gli orsi nel tempo imparassero a stare lontani da certi luoghi.

    Biodiversità

    I sentieri del trekking disturbano orsi e lupi

    di  Paola Arosio

    31 Gennaio 2025

    L’esperto ha iniziato da metodi tradizionali: ricevuta una segnalazione, si recava sul posto allontanando l’animale con inseguimenti dal proprio camion e/o sparando a salve o proiettili non letali. Il sistema era abbastanza efficace, ma Sarmento sottolinea diverse criticità che, a volte, lo hanno messo in pericolo. I veicoli, infatti, non arrivano ovunque: ci possono essere ostacoli o la tipologia di terreno può non consentire a un mezzo pesante di proseguire se non si vuole rimanere bloccati. Continuare a piedi muniti di fucili deterrenti, però, non è la via più sicura. Come ha sperimentato sulla propria pelle Sarmento, alcuni orsi, invece di fuggire spaventati, possono reagire attaccando. Un rischio non indifferente per l’incolumità dell’operatore, nonché un insuccesso dell’azione di deterrenza.

    Biodiversità

    Nepal, il governo: “Le tigri sono troppe e attaccano l’uomo”

    20 Gennaio 2025

    Dai cani da orso ai droni
    Per queste ragioni Sarmento ha cercato delle alternative che prevedessero una posizione di sicurezza per il personale umano. Uno di questi sistemi è stato adottare cani da orso, uno strumento che – come ammette l’esperto – per quanto pubblicizzato non è mai stato testato scientificamente. Ebbene, i cani da orso sono stati un po’ deludenti rispetto agli altri strumenti di deterrenza: i cani, infatti, molto spesso non riuscivano ad avvistare gli orsi a grande distanza o si lasciavano distrarre da altri stimoli, per esempio da altri animali selvatici. Neanche migliorare l’addestramento è servito a recuperare punti rispetto a metodi più tradizionali, e il loro mantenimento era un fattore da non trascurare in un’ottica costo-efficacia.

    L’alternativa tecnologica
    Sarmento ha così fatto ricorso a un drone. E i risultati, come riporta nell’articolo, sono stati molto soddisfacenti (91% di successi). Non solo l’efficacia di deterrenza è comparabile (anche un po’ superiore, ma servirebbero più dati per confermarlo) a quella dell’inseguimento con autoveicoli o ai proiettili non letali, ma il ricercatore ha riscontrato diversi vantaggi: grazie al drone gli orsi potevano essere avvistati anche a grande distanza, anche di notte, e l’elevata maneggiabilità ha consentito all’operatore di direzionare l’orso – forse spaventato dal ronzio o solo dalla novità (stabilirlo non è stato oggetto dello studio) – lontano dai luoghi abitati e dai pascoli, rimanendo in una posizione di sicurezza. In volo, poi, non ci sono problemi connessi alla tipologia di terreno o a eventuali ostacoli come recinti e canali. Tra i (pochi) contro riportati dall’autore, però, c’è l’impossibilità di utilizzare il drone come deterrente in condizioni meteorologiche avverse, oppure le difficoltà che si possono incontrare in aree molto alberate e boschive.

    Le idee

    M91 e la conservazione delle specie selvatiche attraverso l’invisibilità

    di Domenico Ridente

    12 Dicembre 2024

    Un altro pro del sistema di deterrenza coi droni, stando a quanto riferisce lo sperimentatore, è stato il condizionamento a lungo termine degli orsi: nel corso degli anni di osservazione, infatti, Sarmento ha registrato che gli interventi sono via via diminuiti e che orsi più anziani tendevano a fare meno incursioni nelle zone vicino ai centri abitati o ai pascoli.

    Evitare di filmarli
    Pur premettendo che ogni situazione è diversa e dovrebbero essere operatori esperti a definire la strategia più adeguata, Sarmento si dice convinto della bontà dell’impiego di droni per tenere lontani gli orsi dove sono indesiderati e raccomanda di integrare nei regolamenti per la convivenza con questi grandi mammiferi norme che vietino di avvicinarli con droni a fini diversi dalla deterrenza (solo per filmarli, per esempio), perché altrimenti gli animali potrebbero abituarsi allo stimolo e rendere vani i tentativi di allontanamento.
    Non solo, l’esperto suggerisce che i droni potrebbero essere modificati e resi più efficienti per questo uso specifico, magari rendendoli capaci di spruzzare spray deterrenti o di emettere altri suoni disturbanti oltre al ronzio delle pale, come urla umane o abbaiare di cani. Senza contare che in futuro potrebbe essere installata un’intelligenza artificiale in grado di riconoscere la fauna selvatica indesiderata e di agire in autonomia per scacciarla. LEGGI TUTTO

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    Il “bollino” che salva frutta e verdura dalla muffa ed evita lo spreco alimentare

    “Circa un terzo del cibo prodotto viene perso o sprecato, e questa percentuale sale al 50% nel caso dell’ortofrutta, una delle categorie alimentari più amate dagli italiani. Tuttavia, capita spesso di vedere frutti ammuffiti nei frigoriferi delle nostre case o addirittura già sugli scaffali dei supermercati, pensiamo ai limoni e alle fragole”. A parlare è Gustavo Gonzalez co-fondatore e Ceo di Agreenet startup torinese che ha sviluppato PìFresc, una tecnologia all’avanguardia, che offre vantaggi per produttori e distributori, raccogliendo la sfida della conservazione della frutta fresca. “Si tratta di un piccolo bollino biodegradabile, della dimensione di una moneta da un euro, che si inserisce nelle confezioni di frutta e verdura dove rilascia sostanze naturali che riducono la crescita di muffe”, continua Gonzalez. Facile da usare, si posiziona all’interno dell’imballaggio o della confezione dell’ortofrutta, senza necessità di investimenti aggiuntivi, per le aziende del settore. “Con la nostra monetina PìFresc assicuriamo così una maggiore durata della freschezza di prodotti come agrumi, uva, ciliegie, fragole e frutti di bosco, riducendo la necessità di trattamenti chimici dannosi per l’uomo”.

    Alimentazione e ambiente

    Pellicola per alimenti, quella sostenibile cambia colore se il cibo va a male

    di  Fiammetta Cupellaro

    11 Novembre 2024

    Migliorare la conservazione di frutta e verdura
    Nata a Torino nel 2022 dal desiderio di un gruppo di amici (Gustavo Gonzalez, Stefano Ferioli e Giulia Brogi) di contribuire in prima linea a ridurre gli sprechi alimentari e creare un sistema di approvvigionamento più efficiente e sostenibile, Agreenet è una startup che opera nella produzione di biomateriali innovativi per la conservazione e il confezionamento di alimenti freschi. Tre sono i pilastri su cui si fonda la sua missione: ridurre lo spreco alimentare durante la fase di approvvigionamento, ridurre l’uso di plastiche derivate dal petrolio nell’industria alimentare, e sensibilizzare maggiormente gli stakeholder per una catena di consumo più responsabile. Nello specifico, il team di Agreenet crea e produce materiali biodegradabili, biobased e bioattivi volti a migliorare la conservazione di frutta e verdura confezionate per aumentarne la shelf-life (la vita utile).

    Questi materiali si basano su una miscela di sostanze di origine vegetale e alimentare che possono essere regolate in base alle condizioni di confezionamento del prodotto fresco e alle esigenze del cliente. I prodotti che propone Agreenet sono realizzati con una tecnologia innovativa (oggetto di un deposito di brevetto) che riduce di almeno il 90% la proliferazione di agenti patogeni e microrganismi sulla superficie dei frutti. “La nostra proposta si basa sul fornire ai distributori di frutta e verdura fresca questi vantaggi: più protezione e più shelf-life per i loro prodotti ortofrutticoli, massimizzazione del profitto attraverso la distribuzione di prodotti che durano più a lungo. Non solo, con la nostra tecnologia è possibile raggiungere i mercati più lontani senza compromettere la qualità e/o l’integrità del prodotto, e diminuire la percentuale di reclami di prodotti distribuiti”.

    Imballaggi

    Il cibo confezionato usa troppa plastica e se ne spreca di più

    di  Giacomo Talignani

    07 Ottobre 2024

    I vantaggi del bollino salva spreco
    PìFresc è in grado di ritardare la comparsa della muffa di almeno sette giorni, riducendo lo spreco da deperimento e le relative perdite economiche fino al 74%, con un’efficacia estesa a oltre un mese, garantendo quindi benefici anche a casa del consumatore. “Essendo l’unica soluzione naturale per frutti non climaterici, PìFresc è indispensabile per una vasta gamma di prodotti, tra cui agrumi, uva da tavola, fragole, frutti di bosco e ciliegie, settori in cui l’Italia è uno dei maggiori produttori a livello mondiale”.

    Il Frescometro “per calcolare i benefici economici e ambientali”
    “A settembre scorso abbiamo rilasciato il Frescometro, un innovativo calcolatore online che permette alle aziende della filiera alimentare di stimare rapidamente e in maniera personalizzata i benefici economici e ambientali derivanti dall’uso di PìFresc per conservare frutta e verdura. Il Frescometro guida gli utenti attraverso nove semplici step per calcolare l’impatto di PìFresc. Il percorso prevede l’inserimento di informazioni come: il tipo di frutta, il volume movimentato in un anno, il prezzo medio di vendita, la tecnica di produzione, il tipo di contenitori utilizzati, il metodo di conservazione; la percentuale di perdite inventariali, la quantità di merce rifiutata dai clienti, e la destinazione della merce rifiutata. Una volta completati i passaggi, il calcolatore restituisce una serie di dati che mostrano i benefici concreti: quantità di frutta salvata, profitto aggiuntivo, litri d’acqua risparmiati e riduzione delle emissioni di CO2.Vogliamo diventare un punto di riferimento nel settore di packaging attivi per alimenti freschi. Infatti, il nostro team di Ricerca e Sviluppo è continuamente alla ricerca di nuove soluzioni e innovazioni nel campo seguendo le tendenze di consumo, regolamentare e di produzione”. Il team di Agreenet è composto da giovani under30 con esperienza nell’analisi degli alimenti, nello sviluppo di biomateriali, nell’agronomia e nella gestione di progetti complessi. Attualmente, la startup sta raccogliendo capitali da fondi di venture capital per avviare la produzione e la commercializzazione, oltre a sviluppare nuove tecnologie a supporto della filiera agroalimentare. Un approccio che conferma la filosofia di innovazione continua. LEGGI TUTTO

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    L’alloro, la pianta aromatica che rende più belli i giardini

    L’alloro, nome scientifico Laurus nobilis, è una pianta sempreverde ornamentale e aromatica, appartenente alla famiglia delle lauracee. Le sue origini sono da ricercare nel bacino del Mediterraneo e, in particolare, tra la Grecia, la Spagna, la Turchia e l’Italia. Nel suo habitat ideale la pianta può raggiungere anche i 10 metri di altezza: di solito, però, assume l’aspetto di un arbusto alto al massimo 5 metri. La pianta è caratterizzata solitamente da una folta chioma con foglie alterne di color verde brillante, dalla consistenza coriacea l’aspetto lanceolato. L’alloro tende a produrre una grande quantità di rami, sin dalla parte più bassa della pianta: per questo, di solito ha una sagoma allungata o tonda. La pianta sviluppa numerosi polloni e si allarga con facilità: per questo motivo, se non abbiamo molto spazio in giardino, possiamo coltivarla in vaso.

    L’esposizione
    Possiamo scegliere un luogo in pieno sole o in penombra per coltivare l’alloro: in entrambi i casi, la pianta si adatterà senza problemi. L’alloro ama gli ambienti ventilati, tuttavia non sopporta in alcun modo le correnti d’aria. Le temperature ideali per vegetare sono quelle tipiche dell’area mediterranea, soprattutto quelle comprese tra i 15 e i 25/30 gradi. Per brevi periodi, l’alloro può sopportare temperature minime fino a -10 gradi.

    Il terreno
    Per quanto la pianta non abbia esigenze particolari in fatto di terriccio, dovremmo sempre sceglierne uno ben drenante per evitare il ristagno idrico. Se decidiamo di coltivare l’alloro in vaso, preferiamo un terriccio soffice e sistemiamo dell’argilla espansa sul fondo per favorire il deflusso dell’acqua. Prevediamo il rinvaso della pianta ogni 2-3 anni: l’apparato radicale dell’alloro tende infatti a svilupparsi in modo significativo. Per la coltivazione in piena terra, ricordiamoci di scavare una buca che sia più o meno profonda e larga il doppio della zolla con le radici dell’alloro. Sul fondo, sistemiamo un po’ di concime organico per favorire lo sviluppo della pianta.

    L’innaffiatura, la concimazione e la potatura
    L’alloro non richiede un’annaffiatura particolarmente abbondante: tra la primavera e l’estate, bagniamolo solo quando il terreno è asciutto in superficie. Nel corso dell’autunno diradiamo le innaffiature e, in inverno, non annaffiamolo se la temperatura è al di sotto dei 10 gradi. Un eccesso idrico può provocare una colorazione marrone nelle foglie e, viceversa, la scarsità di acqua le fa ingiallire e poi cadere. Se notiamo uno dei due fenomeni, riduciamo o aumentiamo la frequenza dell’annaffiatura. Il miglior concime per l’alloro è quello che presenta una quota un po’ più alta di azoto, grazie alla quale la pianta sviluppa meglio il fogliame. Possiamo sfruttare un fertilizzante liquido: usiamo ogni due settimane, aggiungendolo all’acqua di irrigazione. Infine, il momento migliore per potare l’alloro è tra la fine di febbraio e la prima metà di marzo. Di solito, la potatura si concentra sullo sfoltimento della chioma, per «arieggiare» la pianta, e sull’eliminazione dei rami che rendono poco armoniosa la crescita.

    La fioritura e le bacche
    L’alloro è una pianta dioica, cioè con esemplari con soli fiori femminili ed altri che hanno solo i fiori maschili. In entrambi i casi, le infiorescenze sono composte da piccoli fiori che ricordano un ombrello, di colore bianco-giallo. Per individuare il genere della pianta, controlliamo l’infiorescenza: se ha numerosi stami, si tratta di un esemplare maschile. Un’altra differenza tra alloro maschio e femmina riguarda la produzione dei frutti. Solo gli esemplari femminili, nel corso della stagione autunnale, producono le classiche bacche nere che ricordano un po’ le olive.

    La moltiplicazione
    Per moltiplicare l’alloro, possiamo ricavare dalla pianta una talea oppure un pollone. Nel primo caso, il momento migliore per l’operazione è nella seconda metà dell’estate: tagliamo delle parti apicali dei rami, che siano lunghe al massimo tra i 10-15 centimetri, evitando di sfilacciarle. Eliminiamo le foglie basali e poi mettiamo le nostre talee in piccoli vasi con torba e sabbia, avendo cura di mantenere sempre umido il terreno e di ricoverare i contenitori in un luogo fresco e ombreggiato. Quando le talee producono i primi germogli, possiamo spostare i vasi in un ambiente più luminoso. Attendiamo che le nuove piantine si siano irrobustite prima di trapiantare o sostituire il contenitore. Per propagare l’alloro tramite pollone, possiamo scegliere tanto il periodo primaverile quanto quello autunnale. Con l’aiuto di una vanga, preleviamo un pollone con le sue radici e il pane di terra, separandolo dal resto della pianta. Possiamo poi metterlo a dimora nel terreno, vangando ad una profondità di 40 centimetri, oppure sistemarlo in un vaso di diametro adeguato.

    I parassiti che possono colpire la pianta
    L’alloro può essere colpito soprattutto dagli afidi, dalla cocciniglia, dal ragnetto rosso e dalla psilla. Nel caso della presenza dei pidocchi, sulle foglie notiamo una serie di piccole macchie di colore bianco-giallastro: per eliminarli, usiamo un prodotto fitosanitario. La cocciniglia si manifesta invece con tipiche macchie scure sul lato inferiore delle foglie. In questo caso, possiamo rimuoverla con un batuffolo di ovatta imbevuto di alcool oppure con un antiparassitario. Il ragnetto rosso provoca invece l’ingiallimento e l’accartocciamento delle foglie, che poi cadono. Per liberarci dalla presenza di questo parassita, dobbiamo aumentare il livello di umidità o, nel caso di piccoli esemplari, pulire il fogliame con una soluzione di acqua e sapone, avendo cura di risciacquare abbondantemente le foglie. Infine, se notiamo che le foglie più giovani tendono a deformarsi in modo incomprensibile, è probabile che la pianta sia stata attaccata dalla psilla. Per prevenire l’attacco da parte di questo insetto, manteniamo ben ariosa la chioma della pianta, affinché al di sotto della chioma non si sviluppi troppa umidità. Per rimuovere la psilla, potiamo le parti malate dell’alloro o eseguiamo un trattamento con un prodotto specifico. LEGGI TUTTO

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    È un ginepro e ha 1647 anni la pianta più vecchia d’Europa

    Non una robusta sequoia, né uno degli olivi millenari disseminati lungo le coste del Mediterraneo e la cui longevità è decisamente radicata nell’immaginario collettivo: la pianta più antica d’Europa è, a sorpresa, un ginepro comune (Juniperus communis L. il nome scientifico), fusto di appena 10 centimetri, che abita l’estremo nord, terre in cui gli alberi cedono il passo, da sempre, a specie vegetali arbustive di dimensioni più ridotte. La notizia arriva a margine di un lavoro di un team di ricercatori internazionale coordinati da Marco Carrer, ecologo forestale del dipartimento Territorio e Sistemi AgroForestali dell’Università di Padova. I risultati, pubblicati sulla rivista Ecology, “incoronano” un esemplare che abita la Lapponia finlandese (a Utsjoki, non troppo distante dalla stazione di ricerca di Kevo), individuato durante approfonditi studi della specie tra tundra artica e subartica, dalla Groenlandia agli Urali: ha raggiunto l’incredibile età di 1647 anni, almeno quattro secoli in più rispetto agli alberi più vecchi attualmente riconosciuti in Europa.

    “Un valore ecologico inestimabile”
    La scoperta sembra sfatare alcuni falsi miti. “Abbiamo soprattutto dimostrato che, nell’ambito delle piante legnose, il potenziale di vivere per secoli, o addirittura oltre i mille anni, non è esclusivo degli alberi. – spiega Carrer a Green&Blue – Nessuno, fino ad ora, avrebbe immaginato che anche gli arbusti potessero raggiungere una simile longevità. In questa nuova prospettiva, nonostante la loro statura ridotta, le comunità arbustive acquisiscono un valore ecologico inestimabile e dovrebbero essere considerate importanti quanto gli alberi: prosperano in condizioni ambientali estreme e, grazie al loro portamento prostrato, riescono a estendersi ben oltre i limiti latitudinali e altimetrici degli alberi. Fungono così da veri e propri avamposti delle piante legnose, dal caldo e arido Mediterraneo fino alle fredde regioni della tundra artica, dall’Alaska all’Etna, dal Giappone alla Scozia”. Un po’ ovunque, insomma: del resto il ginepro comune, specie celebre per gli utilizzi in cucina – come specie – o come ingrediente per la produzione del gin, vantava già il primato della specie legnosa più diffusa sul pianeta. LEGGI TUTTO