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    L’uragano Helene non risparmia il “paradiso del clima”, Asheville

    Un paradiso climatico che si trasforma in un inferno terreno in poche ore. Cavi elettrici che sembrano enormi spaghetti abbandonati su letti di strade che non ci sono più, case distrutte, scuole divelte, almeno cinquanta morti e altrettanti dispersi e poi l’acqua, la corrente e perfino il cibo che mancano.
    Così si è risvegliata, dopo il devastante passaggio dell’uragano Helene, la città di Asheville nel North Carolina. Una realtà, forse cambiata per sempre, che ci ricorda questo: nessuno è al riparo dal nuovo clima, nessuno è esente dagli impatti dei fenomeni meteo estremi dettati dal riscaldamento globale, nemmeno la città “paradiso del clima” come veniva definita quella realtà scelta – anche per le sue caratteristiche di sicurezza – per ospitare uno dei più importanti centri mondiali di raccolta sui dati relativi alla crisi climatica.

    Nessuno al riparo dal clima
    Seicento metri sul livello del mare e diverse centinaia di chilometri dalla costa, questa città di quasi 100mila abitanti, in costante crescita, ha un clima che fino a poche settimane fa era definito “un paradiso” da chi provava ad invitare nuovi cittadini ad aggregarsi alla comunità. Molti statunitensi, negli ultimi anni, si erano trasferiti ad Asheville proprio per “sfuggire alle condizioni meteorologiche estreme” ricorda anche la Cnn. Sembrava un luogo destinato a “resistere a tutto” racconta chi ci viveva, invece come è avvenuto anche in Florida, Georgia, South Carolina, Tennessee e Alabama, al passaggio dell’uragano Helene, il più devastante dai tempi di Katrina, tutto è venuto giù.

    Crisi climatica

    Boston, New Orleans, San Francisco: negli Usa 32 città costiere a rischio inondazione entro il 2050

    di Sandro Iannaccone

    08 Marzo 2024

    Colpito il Centro nazionale per l’informazione ambientale
    Ad essere colpito, danneggiato e ora chiuso, per tragico paradosso è anche il grande Centro nazionale per l’informazione ambientale, quello dove si raccolgono dati per contribuire a monitorare il riscaldamento della Terra. L’arrivo di Helene ha infatti messo offline il centro gestito dalla Noaa, la National Oceanic and Atmospheric Administration: lì venivano elaborate informazioni e modelli relativi alla crisi del clima con sistemi di monitoraggio che a causa dell’assenza di elettricità, poi ripristinata, sono stati interrotti. Alcuni siti web e sistemi del centro rimangono offline e i responsabili Noaa, nel fare la conta dei danni, hanno ricordato l’importanza del lavoro della sede di Asheville che raccoglie dati cruciali “per agricoltori, pescatori, aziende, assicuratori” e altri settori.
    Ovviamente poi i dati gestiti dal centro sono oggetto del lavoro e degli studi sul clima da parte di ricercatori di tutto il mondo, dato che sono spesso accessibili in maniera “open”. Proprio da quel centro arrivano per esempio larga parte delle informazioni che vengono utilizzate per raccontarci l’evoluzione del cambiamento climatico, come quelle che già oggi prevedono che il 2024 potrebbe essere – a livello mondiale – l’anno più caldo di sempre.

    Slittano i report utili alla Nasa e al Berkeley Earth
    Sia la Nasa che il Berkeley Earth usano le informazioni in arrivo da Asheville perchè cruciali per stilare i loro report: attualmente però, hanno raccontato al New York Times i due centri, gli stessi report potrebbero slittare e ritardare per via dei danni subiti.
    Proprio la Nasa di recente stava sviluppando metodi per rendere le strutture più resilienti alla crisi del clima ma, come afferma Gavin Schmidt, direttore del Goddard Institute for Space Studies dell’agenzia, “ciò che è accaduto ad Asheville sottolinea quanto possa essere difficile quando arriva un fenomeno come Helene”.

    Un’immagine del terribile uragano che si è abbattuto sul North Carolina  LEGGI TUTTO

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    Nel mondo ci sono almeno ancora 100mila piante da scoprire: ecco dove potrebbero essere

    Vale per le profondità dell’oceano, vale per le foreste del mondo: c’è ancora una marea di specie che gli esseri umani non conoscono. Se parliamo di piante vascolari – quelle con radici, fusto e foglie – gli scienziati stimano che esistano almeno 100mila specie di piante non ancora scoperte. Tenendo conto dell’attuale perdita (costante) di biodiversità, riuscire a identificare dove queste piante potrebbero essere – in modo da studiarle e proteggere – un’azione cruciale, anche per preservare la varietà genetica che la natura ci offre. Già, ma dove bisogna cercare? A dircelo è uno studio internazionale portato avanti dai ricercatori del Royal Botanic Gardens di Kew.

    Attraverso l’analisi dei dati e grazie a test in grado di individuare le carenze di dettagli geografici e tassonomici, gli esperti hanno individuato 33 “darkspot”, sorte di zone oscure alla scienza che potrebbero essere ricche di diversità ma che non sono ancora state indagate. Queste aree potrebbero infatti contenere “la maggior parte delle specie non descritte e non ancora registrate”. La maggior parte di questi darkspot, scrivono i biologi, si trovano all’interno di Nuova Guinea, Colombia, Myanmar, Perù, Filippine e Turchia. In questi Paesi – con altri indicati come possibili che vanno dal Madagascar sino alla Bolivia – bisogna concentrare gli sforzi per “comprendere le carenze di conoscenza tassonomica e geografica, un atto fondamentale per dare priorità ai futuri sforzi di raccolta e conservazione”. Nel dettaglio gli esperti ricordano che molti di questi luoghi in cui cercare sono anche hotspot della biodiversità, ovvero aree del pianeta ricche di vita ma minacciate di distruzione. La maggior parte dei 33 darkspot si trova nell’Asia tropicale (in almeno 14 zone dal Vietnam fino all’Himalaya), 8 sono invece in Sud America e altre 8 nell’Asia temperata (dall’Iran al Kazakistan), 2 in Africa (Madagascar e province del Capo) e uno in Nord America (Messico sud-occidentale). Ci sono decine di specie ogni anno che vengono scoperte. Esemplari come la palma del Borneo che è in grado di fiorire sotto terra, oppure particolari orchidee, o ancora piante endemiche come quelle individuate lo scorso anno in Abruzzo o Sardegna.

    Biodiversità

    Dieci piante appena scoperte che rischiano di scomparire

    di Fabio Marzano

    12 Gennaio 2024

    Per trovarne altre, i botanici hanno però bisogno di indicazioni, proprio come quelle contenute nello studio pubblicato sulla rivista New Phytologist. Coordinate che potrebbero aiutare a individuare specie utili per esempio nel mondo della farmaceutica e la medicina, ma anche quello dell’energia (carburanti) o della cosmesi. “Dobbiamo proteggere il 30% del Pianeta entro questo decennio secondo gli attuali obiettivi delle Nazioni Unite, ma non sappiamo quali aree proteggere se non abbiamo le giuste informazioni” ha spiegato il direttore scientifico del Kew, il botanico Alexandre Antonelli. “Precedenti ricerche – aggiunge – hanno dimostrato che i biologi non sono stati particolarmente efficienti nel documentare la biodiversità. Siamo tornati negli stessi posti più e più volte e abbiamo trascurato alcune aree che potrebbero contenere molte specie”.

    Esplorazioni, quelle necessarie, che includono però una lotta contro il tempo: accelerare il tasso di scoperte delle piante è infatti necessario perchè all’attuale ritmo di identificazione molte specie, anche per gli impatti della crisi del clima e delle azioni antropiche, rischiano di estinguersi ancor prima di essere note alla scienza. Una corsa che – si spera – potrebbe essere rafforzata dalle decisioni che verranno prese prossimamente a Cali, in Colombia, dove si terrà la Cop16 sulla biodiversità. Come ricorda Samuel Pironon, docente di biologia alla Queen Mary University di Londra e autore dello studio, “tutti i Paesi hanno concordato di preservare e ripristinare la biodiversità, inclusa quella vegetale. Ma come possiamo farlo se non sappiamo di quali specie stiamo parlando o qual è la biodiversità e dove possiamo ripristinarla?”.

    Biodiversità

    I botanici “estremi”: in paramotore (al posto del SUV) per studiare le piante più rare nel deserto

    di  Fabio Marzano

    05 Ottobre 2024

    Ecco perché il nuovo studio, nella sua funzione di mappa che indica i darkspot, potrebbe risultare estremamente importante, anche se servirebbe una mano in più: quella dei cittadini. Secondo i biologi infatti chiunque, appassionato di natura, senza raccogliere le specie, può però segnalarle e fotografarle: condividere dati nelle tante piattaforme di citizen science è un gesto prezioso, “una grande opportunità per rafforzare le partnership tra scienziati e cittadini. Le persone scattano foto di piante che ritengono possano essere interessanti per il resto del mondo e gli scienziati sono fondamentali perché aiutano a identificare quelle specie” dice Pironon. LEGGI TUTTO

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    La classifica europea delle capitali con i mezzi di trasporto più green, l’Italia fuori dalla top10

    I trasporti, che siano di persone o merci, sono responsabili del 72% delle emissioni di CO2, lo sostiene l’Agenzia Europea per l’Ambiente, e l’inquinamento provocato dalle auto ha un ruolo considerevole: circa il 60%. È evidente che per raggiungere l’obiettivo net zero entro il 2050, serve un intervento netto sul taglio delle emissioni di gas serra, stimato in circa il 90% rispetto ai dati di oggi. Ma già entro i prossimi sei anni, l’obiettivo Ue impone una riduzione del 55% sulle emissioni delle auto. In questo contesto è fondamentale l’impulso di governi ed amministrazioni locali per favorire il ricorso a mezzi di trasporto sempre più ecologici, come bus elettrici o ibridi, mezzi in sharing e la diffusione capillare di colonnine di ricarica. Ovviamente a livello europeo si marcia a diverse velocità, come evidenzia uno studio condotto sulle capitali europee in attesa dello Smart City Expo World Congress, che si terrà a Barcellona dal 5 al 7 novembre.

    Il risultato del dossier è la top10 delle capitali d’Europa con i mezzi di trasporto più ecologici; diciamolo subito, l’Italia, purtroppo è fuori dalla classifica. Ma non così distante. Roma, infatti, è al 13° posto, subito dopo Dublino e Madrid. Prima di entrare nel dettaglio, c’è da dire che lo studio ha preso in considerazione diversi parametri, tra cui il volume di veicoli elettrici, il numero di autobus elettrici e il numero di stazioni di ricarica. Non solo, perché è stato calcolato il numero di aziende di noleggio bici e il numero totale di chilometri di piste ciclabili presenti in ciascuna città, per poi confrontare i dati acquisiti con i vari livelli di inquinamento.

    La classifica delle città con i mezzi di trasporto più green

    Londra (Andy Andrews/Getty Images)  LEGGI TUTTO

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    I botanici “estremi”: in paramotore (al posto del SUV) per studiare le piante più rare nel deserto

    I botanici, nel deserto costiero del Perù, arrivano dal cielo a bordo di un parapendio motorizzato. Raccolgono campioni di piante a rischio estinzione altrimenti irraggiungibili con il più resistente dei fuoristrada. Il primo abitato, in caso di soccorso, è a cinque giorni di viaggio. Se il SUV si insabbia, conservare il materiale è l’ultimo dei problemi. In caso di guasto meccanico lo stesso può accadere con il paramotore ma spostarsi in linea d’aria è molto più veloce e permette di sfruttare le finestre di visibilità e l’assenza di raffiche di vento. Tra giugno e agosto, nel picco dell’inverno, ma in generale durante tutto l’anno questo ambiente è spesso sotto una cortina di nebbia che risale dal Pacifico verso l’entroterra e vanifica qualsiasi tentativo di orientamento.

    (foto: Marcio Aita Junior)  LEGGI TUTTO

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    I colori del tagete e come coltivarlo

    Originario dell’America centrale, il Tagete è conosciuto anche come “calendula messicana”, “fiore dei morti” o “garofano indiano”. I suoi colori brillanti lo rendono esteticamente affascinante, ma sono la sua resistenza, la sua generosità e la sua incredibile fioritura duratura a fare di lui un fiore estremamente apprezzato. Pianta annuale o perenne, fa parte della famiglia delle Asteraceae e gode anche di importanti proprietà medicinali. Le sue foglie, infatti, diventano spesso parte di infusi volti a combattere l’insonnia e migliorare la digestione. In alcune culture il Tagete è simbolicamente associato a riti religiosi e spesso, proprio per questo, si utilizza durante i rituali funebri, ma non solo.

    Tagete, “il fiore dei morti”
    In apparenza così semplice, il Tagete nasconde una serie di caratteristiche che lo rendono unico e affascinante. Nasce nel Messico, dove è sempre stato utilizzato durante la nota celebrazione del Dia de los Muertos, ma i suoi usi non sono solamente “spirituali”, bensì anche curativi e, ovviamente, decorativi. Il suo spiccato adattamento a ogni tipologia di terreno fa del Tagete una pianta molto versatile e resistente: lo si può osservare fare capolino durante tutto l’anno sia in giardino, sia in terrazzo, in aiuole, fioriere o bordure. La sua composizione rende il fiore dei morti delicato ma allo stesso tempo vivace: le foglie sono setose, mentre i fiori, simili a garofani, colorati e molto duraturi: da maggio a ottobre è possibile osservarne la bellezza e conoscerne le sfumature.

    Dove, come e quando: coltivazione del Tagete
    Le destinazioni del Tagete sono diverse. Questo fiore, talvolta definito “gigante” quando raggiunge gli 80 cm di altezza, può essere coltivato sia in vaso, sia in giardino, ma anche direttamente in orto, dato che gode di importanti proprietà disinfettanti che allontano parassiti come afidi, mosche bianche e altiche. Se si ha a disposizione un semenzaio, invece, è consigliabile seminare il Tagete a partire da febbraio-marzo e quando le piantine saranno nate, travasarle in un vaso più grande verso aprile-maggio. In alternativa, sempre nel periodo tra aprile e maggio si può seminare direttamente in vaso o in giardino, facendo attenzione alla temperatura esterna. I semi del Tagete vanno posizionati a una profondità di 0,5 cm, mentre la distanza tra semi e piantine dovrebbe sempre mantenere i 25 cm (si scende a 20 per il Tagete nano); in questo modo si darà il giusto spazio alla pianta di crescere nel modo più corretto e naturale possibile.

    Come raccogliere i semi del Tagete
    Una delle curiosità che rendono il Tagete una pianta unica nel suo genere riguarda proprio i suoi semi. Di solito, infatti, quando i capolini dei fiori appassiscono, sarebbe meglio tagliarli per consentire una fioritura continua e rigogliosa durante tutta la stagione estiva. Tuttavia, ed è qui la bellezza del fiore, è possibile anche raccoglierne i semi, ma in questo caso bisogna lasciare i fiorellini appassiti sulle piante fino a quando non saranno ben secchi. I semini che si ottengono, una volta liberati completamente dalle parti essiccate, si potranno conservare in un sacchetto di carta in un luogo fresco e asciutto. Lo scopo? Seminarli nella nuova primavera!

    Esposizione e annaffiatura del Tagete
    Il Tagete conta almeno 50 varietà: può essere nano, può essere alto, annuale o perenne. Non importa quale sia la sua caratteristica, perché rimane una pianta che ama il caldo, motivo per il quale posizionarlo alla luce sarà sempre un’ottima scelta. Annaffiarlo regolarmente è importante, specie durante l’estate, quando le irrigazioni aumenteranno per consentire al terreno la giusta umidità. Come per la maggior parte delle piante, però, anche il Tagete teme i ristagni idrici, che possono provocare l’asfissia del fiore e fare marcire le sue radici. Il Tagete teme il freddo, ma teme anche il cosiddetto “male bianco”, malattia di origine fungina che tende a svilupparsi quando si bagnano foglie e chioma del fiore. Conclusa la stagione estiva e con l’arrivo di quella autunnale, le annaffiature diminuiranno e saranno più scaglionate nel tempo.

    Il Tagete in inverno
    I fiori ricordano le sfumature del Sole e forse è proprio per questo che il Tagete ama il caldo. È infatti risaputo che tutte le specie di questa rigogliosa pianta temono il freddo in inverno, quindi in caso di varietà perenni come il Tagetes lucida (fini medicinali e anche culinari), è importante adottare misure di protezione ad hoc contro i danni che il freddo può provocare. Intanto, l’esposizione: luoghi luminosi e freschi andranno benissimo, ma attenzione alla temperatura, che ovviamente non dovrà essere troppo bassa. A parte qualche varietà, la maggior parte dei Tagete seminati in vaso o in giardino sono annuali: in inverno il loro ciclo di vita si conclude.

    Come prendersi cura del Tagete
    Prendersi cura del Tagete non è così complesso. Questa pianta dai colori raggianti è adatta anche a chi si trova alle prime armi con il giardinaggio o a chi, invece, non ha molto tempo a disposizione per dedicarsi a questo hobby. Il fiore dei morti non ha particolari esigenze in merito al terriccio, tant’è che riesce a crescere molto bene anche su terreni sassosi. Importanti sono la semina, il rispetto delle distanze di semi e piantine, l’esposizione alla luce, la giusta dose di acqua e l’eventuale raccolta di semi appassiti da conservare. Il resto lo faranno i suoi colori, il suo profumo acre in grado di allontanare insetti sospetti e sfavorire la crescita delle erbacce e le sue innumerevoli proprietà antibatteriche. Beatitudine, capacità di comprendere e calore delle relazioni: con il Tagete ci sarà colore duraturo e una simbologia tutta da scoprire. LEGGI TUTTO

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    Deforestazione, l’Ue vuole rinviare la legge. Esultano le imprese, la rabbia degli ambientalisti

    I prezzi del caffè sono salvi (per ora), gli alberi invece un po’ meno. La nuova proposta della Commissione Europea di rinviare di un anno la dibattuta legge sulla deforestazione ha fatto esultare produttori e commercianti di prodotti come caffè, cacao, legname, olio da palma e carne bovina e contemporaneamente infuriare ambientalisti e associazioni che si battono contro la crisi del clima e la perdita di biodiversità. La legge sarebbe dovuta entrare in vigore il 30 dicembre di quest’anno: in sostanza il regolamento noto con la sigla EUDR imponeva ai produttori di determinate merci e materie prime collegabili alla deforestazione, di dimostrare che la loro produzione non avrebbe causato il taglio di alberi o che non fosse proveniente da zone deforestate e degradate.

    Cosa dice la legge
    Secondo la legge la mancata osservanza di questo principio comporta per i produttori il divieto di commerciare i propri prodotti nei mercati Ue. Seppur inizialmente apprezzata per il suo intento di voler porre freno al disboscamento e proteggere le foreste, oggi sempre più determinanti nella loro funzione di assorbimento della CO?, la legge è stata fin da subito fortemente criticata – soprattutto da Paesi esportatori come Brasile o Usa – per la sua difficile applicazione. Le aziende, secondo il regolamento, devono utilizzare infatti il monitoraggio satellitare e altri sistemi di controllo e tracciabilità per dimostrare che le loro merci non provengono da terreni deforestati e degradati dopo il 31 dicembre 2020.

    La Commissione: rinvio a dicembre 2025
    Molte aziende non erano affatto preparate a un cambiamento di tale portata, definito tra l’altro “difficile e molto costoso” e da mesi, anche tramite pressioni delle lobby e delle industrie, da parte di più settori veniva chiesto un rinvio o una revisione del regolamento. Mercoledì scorso la Commissione Ue ha ceduto, annunciando come richiesto dalle aziende l’intenzione di un rinvio di 12 mesi e dunque la proposta, se approvata dai ministri dell’UE e dal Parlamento europeo, dovrebbe portare la legge a entrare in vigore il 30 dicembre 2025 per le grandi imprese e il 30 giugno 2026 per le piccole imprese.

    Cacao, gomma, soia, legno, caffè
    Attualmente il regolamento Ue sui prodotti senza deforestazione (EUDR), applicato a metà anno scorso, era in un periodo di prova, una transizione di 18 mesi. Periodo che si sarebbe appunto concluso a fine anno con l’effettiva applicazione. Esportatori di cacao, bovini, gomma, soia, legno, olio di palma e caffè dal 1° gennaio, per poter continuare a commerciare in Europa, avrebbero dunque dovuto fornire una dichiarazione di due diligence con coordinate geografiche dei terreni di provenienza e spiegazioni dettagliate su tali informazioni.
    “Il regolamento che sarebbe dovuto entrare in vigore il 30 dicembre 2024 ci avrebbe fatto sprofondare in un caos irresponsabile. Molte delle condizioni per l’applicazione non sono chiare e molti paesi terzi si lamentano giustamente. I piccoli agricoltori , ad esempio in America Latina, hanno bisogno di molto più supporto e dobbiamo garantire un’implementazione non burocratica” ha affermato l’eurodeputato tedesco Peter Liese, responsabile della politica ambientale del PPE.

    Rischio di una deforestazione aggiuntiva
    Gli ambientalisti temono però che il rinvio, se approvato, possa causa una deforestazione aggiuntiva di 2.300 chilometri quadrati. “C’è uno sforzo cinico da parte di grandi aziende e governi che sono in combutta e lavorano a stretto contatto con attori più grandi e potenti. Stanno usando i piccoli proprietari come giustificazione per cercare di sottrarsi alle proprie responsabilità per la deforestazione zero nella loro catena di fornitura” ha risposto piccato Christian Poirier, direttore del programma per Amazon Watch.

    Gli attivisti
    Per Nicole Polsterer, attivista di Fern, “Ursula von der Leyen si è piegata alle pressioni costanti di aziende e paesi che sapevano da anni che la regolamentazione sarebbe arrivata ma non si erano preparati adeguatamente”. Greenpeace Ue sostiene che la nuova mossa dell’Ue sia un enorme passo indietro per le politiche del Green Deal. “Ursula von der Leyen avrebbe potuto benissimo maneggiare la motosega in prima persona – ha detto con rabbia Sébastien Risso, direttore delle politiche forestali di Greenpeace -.In Europa la gente non vuole che sugli scaffali dei supermercati siano presenti prodotti derivanti dalla deforestazione , ma questo rinvio glieli darà, per altri dodici mesi”.
    Per Virginijus Sinkevi?ius, eurodeputato lituano che è stato commissario all’ambiente, rinviare la regolamentazione rappresenta “un passo indietro nella lotta contro il cambiamento climatico” e alimenterebbe “il 15% delle emissioni globali di carbonio”, oltre che danneggiare l’Ue “nella sua credibilità di impegni climatici”.
    La lobby del caffè
    Al contrario secondo Cem Özdemir, ministro tedesco dell’Alimentazione e dell’Agricoltura, il ritardo è fondamentale per dare tempo alle aziende europee, alle imprese, agli stati membri e ai paesi produttori di “prepararsi adeguatamente” anche se “il contenuto della legge deve rimanere intatto”.
    Recenti affermazioni da parte dell’industria e delle lobby del caffè – considerando sia gli impatti della legge sia quelli dei cambiamenti climatici che in parte hanno causato il rialzo dei costi della materia prima – indicavano la possibilità che una tazzina di caffè, in Paesi come l’Italia, sarebbe presto arrivata a costare due euro. Un’ipotesi oggi forse scongiurata se ministri Ue e Parlamento europeo decideranno per il rinvio. Mentre la concreta salvaguardia delle foreste, a quanto pare, dovrà attendere ancora almeno per un anno. LEGGI TUTTO

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    Nucleare, Microsoft sigla un accordo per far ripartire la centrale “dormiente” Three Mile Island

    Nelle ultime ore se lo è chiesto anche l’autorevole Financial Times: “L’energia nucleare è la risposta a zero emissioni di carbonio per alimentare l’intelligenza artificiale?”. L’inchiesta del quotidiano economico della City di Londra prende il via dalla constatazione che “dopo decenni di stagnazione, i più grandi gruppi tecnologici e le banche del mondo stanno considerando un’opzione energetica alternativa” per sostenere la fame di elettricità dei data center che dovranno sorreggere la prevista esplosione degli algoritmi di intelligenza artificiale. Ma certamente la goccia che ha fatto traboccare il vaso è una notizia di due settimane fa: venerdì 20 settembre la Microsoft ha siglato un accordo con gli attuali proprietari, la società Constellation Energy, della centrale nucleare “dormiente” di Three Mile Island, in Pennsylvania. Il colosso informatico si è impegnato a comprare per i prossimi 20 anni il 100% dell’energia elettrica prodotta (835 megawatt, quanto basta per alimentare 800 mila case).

    Il peggior incidente nucleare negli Usa
    Three Miles Island fu teatro del peggior incidente nucleare nella storia degli Stati Uniti, il 28 marzo del 1979, con il rilascio di gas e iodio radioattivi, anche se studi epidemiologici successivi non hanno trovato alcun nesso di causalità tra l’incidente e un aumento dei tumori. Il nucleo del reattore incidentale fu rimosso e la chiusura definitiva della struttura è prevista per il 2052. L’altro, l’Unità 1, rimase in funzione ma con grosse perdite economiche, tanto che nel 2017 l’allora gestore, Exelon, dichiarò che avrebbe cessato le operazioni a causa degli elevati costi, a meno che non ci fosse un’azione da parte del governo della Pennsylvania. E così l’Unità 1 è stata ufficialmente chiusa a mezzogiorno del 20 settembre 2019, mentre il decommissioning sarebbe dovuto terminare nel 2079.

    “100% Rinnovabili Network”, scienziati e ambientalisti contro il ritorno del nucleare

    di Fiammetta Cupellaro

    12 Luglio 2024

    Investimento di 1,6 miliardi di dollari
    Ora però la nuova proprietà inverte la rotta, annunciando di voler investire 1,6 miliardi di dollari per riprendere la produzione di elettricità a partire dal 2028. Ma la Constellation Energy ha una simile disponibilità economica? No, e infatti, come racconta il Washington Post, cerca finanziatori e soprattutto una garanzia di prestito federale che convinca i finanziatori stessi ad allargare i cordoni della borsa. “Il prestito sostenuto dai contribuenti potrebbe dare a Microsoft e al proprietario di Three Mile Island, Constellation Energy, una spinta importante nel loro tentativo senza precedenti di indirizzare tutta l’energia da una centrale nucleare statunitense a un’unica azienda”, scrive il quotidiano della capitale Usa.
    La vicenda esemplifica uno dei principali problemi legati alla “seconda giovinezza” del nucleare civile, che tanti, anche in Italia, auspicano. Anche volendo sorvolare sulla sicurezza, i depositi di scorie, la carenza di uranio a livello globale e la dipendenza da chi lo detiene, il rischio di proliferazione di armi atomiche…., rimane comunque un grandissimo punto interrogativo alla fine della seguente domanda: chi si accolla i costi?

    Per sopravvivere a Chernobyl, gli uccelli hanno cambiato dieta

    di Ivo Albertucci

    04 Luglio 2024

    La discesa in campo delle big tech

    Perché il nucleare è costoso in tutte le sue fasi e finora è stato alimentato ovunque con robuste iniezioni di denaro pubblico. Non fa eccezione la storia passata di Three Mile Island. E quella futura? Con la discesa in campo le big tech, aziende ricchissime che hanno bisogno di tanta energia, possibilmente a emissioni zero di gas serra, almeno dal punto di vista economico poteva esserci la quadratura del cerchio: la rinascita del nucleare finanziata da capitali privati. E invece le cronache in arrivo da Washington ci dicono che non sarà così, almeno nel caso dell’accordo tra Microsoft e Costellation Energy.

    IA

    100 cose da sapere sull’intelligenza artificiale

    di Pier Luigi Pisa

    15 Giugno 2024

    “Una garanzia di prestito consentirebbe a Constellation di spostare gran parte del rischio di riapertura di Three Mile Island sui contribuenti. Il governo federale, in questo caso, si impegnerebbe a coprire fino a 1,6 miliardi di dollari in caso di inadempienza”, scrive il Post. LEGGI TUTTO

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    I cambiamenti climatici minacciano la vita dei bradipi

    Si muovono lentamente, ma potrebbero scomparire abbastanza velocemente. Se c’è un animale, icona delle foreste del Costa Rica, noto per la sua lentezza è proprio il bradipo: non è soltanto lento nei movimenti fra le volte arboree, ma è anche lento nel digerire. Proprio il suo basso metabolismo – se messo in relazione con la crisi del clima che porta all’aumento delle temperature – in un futuro prossimo potrebbe essere un serio problema per la sopravvivenza di questi straordinari animali.

    Il perché lo racconta una nuova ricerca pubblicata sulla rivista PeerJ Life & Environment, coordinata dagli esperti della Sloth Conservation Foundation. I ricercatori, dopo mesi di studi e raccolta dati, in particolare sulla temperatura corporea e l’ossigeno a disposizione dei bradipi, sostengono che con l’aumento delle temperature il mammifero più lento del mondo potrebbe rischiare, in determinate aree, l’estinzione entro fine secolo.

    Biodiversità

    Crisi climatica, nessun animale marino è al sicuro: una mappa per capire quali specie rischiano di più

    di  Anna Lisa Bonfranceschi

    18 Settembre 2024

    Per diversi fattori, clima compreso, negli ultimi decenni i bradipi sono diminuiti in habitat naturali come quelli del Costa Rica e delle foreste pluviali tropicali dell’America centrale e meridionale. Queste creature hanno un basso tasso metabolico: passano buona parte delle giornate quasi immobili e dormono tra le cime degli alberi anche per più di quindici ore al giorno.
    Lo studio in Costa Rica
    Nel tentativo di comprendere i motivi del declino della specie Choloepus hoffmanni, Rebecca Cliffe, direttrice della Sloth Conservation Foundation, insieme a un team di biologi ha analizzato i dati di dodici bradipi adulti che vivono all’interno di un santuario del Costa Rica: alcuni di loro provengono dalle foreste pluviali di montagna, altri da zone di pianura e anche a seconda della loro provenienza, analizzando temperatura corporea e consumo di ossigeno, si è scoperto che rispondono in maniera differente alle temperature ambientali (quelle comprese tra 18 e 34 gradi).
    Più rischi in alta quota
    Per esempio i bradipi di pianura mostrano un miglior adattamento al caldo attraverso una diminuzione delle loro attività metaboliche, mentre quelli di montagna hanno dimostrato di non avere questa caratteristica e, di conseguenza, a temperature più elevate c’è stato un aumento del tasso metabolico a riposo portandoli a una maggiore necessità di energia.
    “I bradipi sono particolarmente vulnerabili all’aumento delle temperature a causa dei loro adattamenti fisiologici. Sopravvivono con una dieta estremamente ipocalorica, quindi conservare l’energia è fondamentale per loro” ha spiegato Cliffe.

    Lo studio

    Piccolissimi e sorprendenti: i tardigradi sanno difendersi dalle microplastiche

    Sara Carmignani

    30 Settembre 2024

    Quelli di pianura potrebbero migrare
    Per compensare agli effetti dei cambiamenti climatici innescati dall’uomo questi mammiferi potrebbero migrare in altre zone, magari più fredde, ma anche questo passaggio è per loro estremamente complesso proprio a causa della loro lentezza e delle energie a disposizione.
    “I bradipi d’alta quota si trovano in una posizione particolarmente precaria anche per la loro limitata capacità di migrare verso aree più fredde e la mancanza di flessibilità metabolica. Questo potrebbero spingere queste popolazioni verso l’estinzione”, ha aggiunto la direttrice.

    Biodiversità

    I coleotteri che spaventano l’Europa: 12 specie aliene dannose per le nostre foreste

    di  Fabio Marzano

    24 Settembre 2024

    Gli esperti temono che se le previsioni attuali si dovessero avverare – ovvero un aumento di temperatura oltre i due gradi entro il 2100 in determinati habitat – allora i bradipi di pianura potrebbero sopravvivere solo se si sposteranno in altre aree, mentre quelli di montagna rischiano concretamente di non farcela.
    Oltretutto “a differenza di altre specie, i bradipi sono creature abitudinarie, altamente specializzate nel loro habitat e non sono adatte al trasferimento in altre aree per cui se il loro ambiente diventa troppo caldo, la loro sopravvivenza è davvero improbabile”, ricorda ancora l’autrice del paper.
    “Il nostro lavoro – chiosano infine i ricercatori – evidenzia la vulnerabilità dei bradipi a un mondo che si riscalda. Se non adottiamo misure urgenti per proteggere queste specie, rischiamo di perderle per sempre”. LEGGI TUTTO