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    Lo spettacolo del viburnum tinus, siepe colorata amata dagli animali

    Arbusto sempreverde appartenente alla famiglia delle Caprifoliaceae tipico del sud-est Europa, Il Viburnum tinus (Viburno tino) è spesso selezionato per riempire e rendere più riservato il giardino di casa, ma non solo. La sua natura è rustica e la sua tolleranza nei confronti del freddo piuttosto alta, raggiungendo addirittura i -10° senza problemi.
    Viburnum tinus, pianta da siepe: usi comuni
    Comunemente chiamato anche lentaggine, o laurotino, il Viburnum tinus è molto apprezzato per la sua coltivazione semplice, per il suo adattamento climatico, per i suoi boccioli rosa-rosso che fioriscono in splendidi fiorellini rosa e bianchi e per le sue bacche tonde sfumate di blu, amate molto da uccelli e altri animali selvatici. Una pianta meravigliosa alla vista, capace di arricchire più spazi della casa, tra cui siepi alte, siepi basse e bordure e siepi in vaso.
    Il Viburno tino, dunque, è perfetto sia per realizzare siepi molto alte (anche 3 metri), ottime per proteggere lo spazio e renderlo più privato, sia per siepi più basse e/o bordure, perfette per abbellire vialetti o delimitare esteticamente certi perimetri. Infine, questa pianta sempreverde elegante può essere anche coltivata in vaso senza problemi. In questo caso, l’attenzione maggiore si rivolgerà alle dimensioni del vaso: 90 cm di lunghezza in cui potere inserire due piante di Viburnum a circa 40 cm l’una dall’altra.
    Viburnum tinus: cura della pianta
    Prendersi cura del Viburnum tinus non è poi così complesso. Tale pianta, infatti, essendo molto rustica e vantando uno “spirito di adattamento” molto sviluppato, richiede davvero poche attenzioni. Intanto, il Viburnum preferisce un terreno ben idratato ricco di sostanze organiche e con un pH o neutro, o lievemente acido. Riesce ad adattarsi senza problemi anche a terreni più poveri e calcarei e resiste anche alle temperature invernali, ma se non si vuole indebolirlo, in caso di freddi molto rigidi, si consiglia una protezione maggiore, magari utilizzando teli o coperture specifiche.
    Quando piantare il Viburnum tinus
    In realtà il Viburnum può essere piantato in ogni periodo dell’anno, anche se le sue stagioni preferite sono o l’Autunno, o la Primavera. Prima di procedere con l’impianto, assicurarsi sempre che il buco sia delle dimensioni giuste per accogliere la pianta e che le radici di quest’ultima siano bene irrigate prima di procedere. Una volta piantato, il Viburnum avrà bisogno di qualche giorno per stabilirsi; in questo frangente di tempo si consiglia un’irrigazione più frequente, per dare modo al terreno di scendere e di modellarsi e alla pianta di adattarsi perfettamente, attecchendo.
    Irrigazione: quando bagnare il Viburnum tinus
    Per quanto riguarda l’annaffiatura (o irrigazione), il Viburnum tinus richiede una giusta quantità di acqua, da tenere controllata e da aumentare specialmente durante i lunghi periodi di siccità. Come la maggior parte delle piante, anche questa sempreverde non ama i ristagni d’acqua, motivo per il quale è sempre bene non esagerare: un’irrigazione eccessiva, infatti, potrebbe provocare la proliferazione di funghi, nemici della pianta.
    Concimazione e potatura del Viburnum tinus
    Poiché il periodo vegetativo di questa robusta pianta va da marzo a settembre, si consiglia sempre di arricchirne il terreno con un concime ad hoc. L’ideale sarebbe quello specifico per piante verdi, da dare ogni 15-20 giorni circa.
    Sulla potatura, invece, pochi e pratici consigli: il Viburnum tinus potrebbe anche non essere potato, ma per un risultato estetico ottimale, se ne consiglia la potatura o alla fine della stagione dell’Inverno, o all’inizio della Primavera. Per farlo basterà togliere tutti i rami secchi e/o malandati, prestando attenzione ad accorciare quelli eccessivamente lunghi. Viene da sé che seguendo questi semplici passi il Viburnum crescerà meglio e molto più rigoglioso, dando vita molto presto a nuovi germogli, prontissimi a sbocciare in tutta la loro bellezza.

    Viburnum tinus: esposizione
    Il Viburnum tinus è facile da coltivare cresce senza particolari problemi in tutta Italia, fattore che la porta a essere utilizzata anche a mero scopo decorativo. Per quello che riguarda l’esposizione del Viburnum tinus, l’ideale sarebbe posizionarlo in un punto o di pieno sole, o di semi-ombra. In realtà la sua adattabilità fa sì che cresca in piena salute anche in zone d’ombra. L’unica differenza? Una crescita minore e meno rigogliosa (ma più colorata) rispetto all’esposizione solare. La luce, infatti, gioca sempre un ruolo cruciale per la crescita delle piante e dei suoi fiori (i boccioli arrivano nel mese di novembre, ma i fiori sbocciano a febbraio e restano fino a marzo-aprile).

    Quanto cresce il Viburnum tinus
    Scelto sì per la sua resistenza, per i suoi fiori e per le sue particolarissime bacche, il Viburnum tinus è anche scelto per la sua robustezza. Questa pianta, infatti, ha la capacità di raggiungere anche i 3-4 metri di altezza, mentre la sua estensione in larghezza può raggiungere tranquillamente i 2 metri. I rami crescono fitti, ma lo fanno in tempi piuttosto lunghi, dunque la potatura, proprio come affermato in precedenza, non deve essere frequente, anzi.
    Viburnum tinus: i trattamenti più comuni
    Il Viburnus tinus è molto resistente anche alle malattie, ma può essere intaccata, e dunque indebolita, da alcuni funghi. I più comuni sono l’oidio e la ruggine e in caso di infestazione la soluzione migliore è sempre quella di utilizzare un prodotto specifico per eliminarli. Alla lentaggine non piacciono molto neanche afidi, parassiti e cocciniglie (temute da ogni pianta), ma per tenerli a bada si può sempre ricorrere a un insetticida. LEGGI TUTTO

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    Crisi climatica, una primavera senza broccoli nel Regno Unito. E in Italia le arance più piccole

    L’ultimo allarme arriva dal Regno Unito, dove si annuncia una primavera senza broccoli, cavolfiori e altre Brassicaceae. L’indice è puntato ancora una volta sul cambiamento climatico: troppo miti le temperature dell’autunno e dell’inverno, con i raccolti che hanno germogliato in anticipo. E la denuncia del Guardian racconta anche la difficoltà di integrare il mercato con i raccolti del continente, dove le inondazioni hanno impedito a molte imprese agricole di piantare in tempo utile per il raccolto primaverile. Ma il punto, sottolinea il Met Office, il servizio meteorologico nazionale del Regno Unito, del Department for Business, Energy and Industrial Strategy, è che casi del genere saranno sempre più frequenti a causa della “chiara tendenza all’innalzamento della temperatura media invernale nel Regno Unito, effetto diretto del cambiamento climatico indotto dall’uomo”.

    Inverni meno rigidi, precipitazioni estreme sempre più frequenti: l’agricoltura deve fare i conti con la schizofrenia del clima. Non può che fare spallucce l’agronoma Hannah Croft, che lavora con l’azienda Riverford: “Abbiamo registrato perdite nei raccolti dei cavolfiori del Regno Unito a causa delle piogge significative dell’autunno, mentre le temperature miti hanno portato i cavolfiori invernali in anticipo”. Si dice sorpreso della maturazione precoce dei cavolfiori Guy Barter, orticoltore della Royal Horticultural Society: la raccolta è stata anticipata addirittura di sei mesi nel suo appezzamento di terreno del Surrey. “Le avevamo piantate nel periodo consueto, – spiega – ma sono cresciute molto durante i mesi umidi di luglio e settembre e nel corso di un autunno particolarmente mite”.
    Se si rimpiccioliscono le arance di Sicilia
    L’imprevedibilità dei tempi di raccolta di ortaggi e frutta è una circostanza con la quale bisogna fare i conti a tutte le latitudini. “Le piogge eccessive hanno causato problemi nella raccolta del radicchio nel Trevigiano, mentre la siccità in Sicilia si è tradotta per esempio nella raccolta di arance di piccolo calibro, molto meno apprezzate, a torto, dai consumatori, e c’è una riduzione consistente nella produzione dei carciofi – rileva Lorenzo Bazzana, responsabile economico Coldiretti – E molte sono le incognite legate alla prossima primavera, quando negli anni scorsi le improvvise gelate e grandinate, con sbalzi termini importanti, hanno causato danni alle piante appena uscite dal riposo vegetativo.

    Sostenibilità

    Gli eventi meteorologici estremi impoveriscono i terreni agricoli e senza fosforo aumentano i prezzi

    di  Anna Lisa Bonfranceschi

    25 Novembre 2024

    Due prodotti su tutti hanno registrato un calo notevole negli ultimi anni: le pere e i kiwi. Il punto – annota Bazzana – è che il cambiamento climatico sta esasperando le variabili che, da sempre, influiscono sulla produzione agricola, che non è una fabbrica di bulloni al chiuso ma un sistema in dialogo costante con il clima. E se sulle specie arboree si ha meno possibilità di manovra, è sulle erbacee che siamo chiamati a studiare il modo più efficace per limitare, attraverso lo studio dei tempi di semina e trapianto, l’effetto del fenomeno”.

    Già, ma come? “Le serre possono aiutare solo in parte, perché il condizionamento artificiale di temperatura e luminosità ha costi alti e perché soprattutto al Sud le estati così calde costringono a una chiusura stagionale di molte strutture. – risponde Bazzana – Più concreto lavorare su tecniche colturali – tenere le radici più sollevate aiuta a prevenire le asfissie radicali legate alle bombe d’acqua – e sulla selezione genetica, che premi le varietà più resilienti e in grado di rispondere alla variabilità del clima. Penso ai peschi meridionali, che mostrano un minore fabbisogno di freddo invernale rispetto alle varietà settentrionali”.
    Il futuro è nella genetica?
    Claudio Cantini si occupa di ricerca all’Istituto per la Bioeconomia del Cnr. “Sono anni complicati per l’agricoltura dice – soprattutto perché registriamo andamenti climatici profondamente differenti rispetto agli storici, e molte imprese raccolgono ora, proprio a causa delle temperature troppo miti dell’autunno, quello che pensavano di raccogliere a dicembre. Questo si traduce in scaffali vuoti al supermercato, in una qualità più scadente di alcuni prodotti – dai pomodori Pachino alle arance siciliane – o in importazioni che fanno lievitare i prezzi di ortaggi, verdure e frutta che siamo abituati a mangiare e utilizzare, e che rischiano gradualmente di diventare prodotti per pochi privilegiati. Quelle del settore agricolo sono, oggi, difficoltà cui si cerca di ovviare con processi variegati: vi si risponde con uno spostamento di alcune colture – come nel caso della vite, che si innalza di quota – o attraverso lo studio di varietà più resistenti. Lo si fa in due modi. Anzitutto, selezionandole tra quelle esistenti, privilegiando magari varietà che in passato erano state scartate per motivi oggi meno significativi. Poi, c’è la genetica: si può intervenire, con tempi certamente più lunghi e maggiori investimenti, manipolando il Dna degli organismi, dopo aver selezionato i geni che favoriscono una certa resistenza alla variabilità climatica: il futuro passa di qui. Con il mio gruppo di ricerca ci stiamo occupando, tra l’altro, di olivi: ne abbiamo studiate oltre 800 varietà, solo 20 non hanno mostrato una sofferenza evidenza allo stress da siccità. Bisogna comprendere cosa abbiano di diverso, nel loro DNA”. LEGGI TUTTO

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    Energia rinnovabile, al via gli incentivi per i Gruppi di autoconsumo

    E’ iniziato il conto alla rovescia per la richiesta degli incentivi per i Gruppi di autoconsumo. Chi sta pensando di attivarsi in questo senso per abbandonare il gas una volta per tutte, senza però avere un eccessivo aggravio per i costi energetici, dovrà mettere a punto il progetto in fretta. Il termine per la presentazione della domanda al GSE, infatti, scade il prossimo 31 marzo, e per beneficiare degli incentivi gli impianti dovranno essere in attività al più tardi entro il 30 giugno 2026.

    Come creare un Gruppo
    Per costituire un Gruppo di autoconsumo è sufficiente avere due utenze distinte nello stesso immobile. Non è necessario che ci sia un condominio ma solo che le utenze facciano capo a soggetti diversi. Gli impianti fotovoltaci possono essere installati sull’edificio, presso altri siti nella disponibilità di uno o più clienti finali del Gruppo, oppure si può utilizzare l’impianto di un produttore esterno. Il Gruppo può essere costituito anche a fronte del potenziamento di un impianto già esistente, ed è anche possibile installare sistemi di accumulo. L’incentivo, infatti, non è rapportato all’energia prodotta ma a quella condivisa e consumata da parte di chi si associa alla configurazione. Dal punto di vista burocratico è sufficiente un accordo sotto forma di scrittura privata e la nomina di un referente che dovrà occuparsi di presentare la pratica al GSE. Se si tratta di condominio si può demandare tutta la procedura all’amministratore. Per l’installazione dei pannelli, quando si si tratta di prima casa, è possibile avere anche la detrazione fiscale del 50% in dieci anni, che è cumulabile con gli incentivi.

    Quanto vale l’incentivo
    Una volta entrato in funzione l’impianto il GSE pagherà una tariffa incentivante per ogni MWh prodotto e condiviso: un importo che varia in funzione della grandezza dell’impianto, e vai dai 60 euro per gli impianti più grandi agli 80 euro per quelli più piccoli, ossia fino ai 200kw. È prevista inoltre una maggiorazione di 4 euro nelle regioni del centro (Lazio, Marche, Toscana, Umbria, Abruzzo) e di 10 euro nelle regioni del nord (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta e Veneto). La tariffa incentivante verrà riconosciuta per 20 anni. All’importo va aggiunto l’ulteriore corrispettivo ARERA di valorizzazione per l’energia autoconsumata, il cui importo viene definito annualmente.

    Come verificare costi e benefici
    Per verificare l’effettiva convenienza alla creazione del Gruppo di autoconsumo il GSE ha messo a disposizione un simulatore che consente la pianificazione degli interventi e l’analisi della loro convenienza economica sulla base delle caratteristiche dell’impianto, facendo riferimento a soluzioni che il GSE ha già incentivato. Le indicazioni che si possono avere, dunque, sono reali e non generiche. E’ sufficiente individuare l’indirizzo dell’edificio o del sito dove realizzare l’impianto o uno degli impianti e inserire i dati di consumo e la superficie degli immobili dei clienti finali che intendono associarsi. Inoltre il GSE fornisce tutta la documentazione necessaria per guidare i richiedenti nella compilazione della domanda.

    I Gruppi nei Comuni più piccoli
    Per chi decide di creare un Gruppo in un comune con meno di 5.000 abitanti c’è la possibilità di richiedere anche il contributo a fondo perduto del PNRR che è pari al 40% dei costi di installazione. Gli incentivi sono cumulabili con il contributo, ma non è possibile in questo caso usufruire della detrazione fiscale. Anche per il bonus PNRR si dovrà presentare la domanda entro al 31 marzo prossimo. LEGGI TUTTO

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    La vespa orientalis fa strage di api: persi 40mila alveari fra Lazio, Molise e Campania

    Da circa cinque anni le segnalazioni fioccano senza sosta. Nel 2020 a Grosseto, poi a Genova e Trieste, ancora a Lucca e in Sardegna e, nell’estate del 2022, perfino nella zone urbane della Capitale. La vespa orientalis, che nonostante il nome è una specie autoctona e ben nota nel Mediterraneo, anno dopo anno continua a risalire la Penisola, ad espandere la sua presenza e a mettere in ginocchio le api e il sistema miele – soprattutto nelle città – con rischi talvolta anche per l’incolumità degli esseri umani. Queste vespe dall’aspetto rossiccio, lunghe tra i 3 e i 5 centimetri, grazie alla crisi del clima innescata dall’uomo con le sue emissioni, in un’Italia sempre più calda stanno infatti trovando terreno fertile per riprodursi ed espandersi. Crescono per numero, ma anche per aggressività e competizione con altri alveari, distruggendo per esempio quelli di molte api mellifere. Le ultime stime parlano di circa 35-40mila alveari distrutti in Lazio, Campania e Molise dalla vespa orientalis, talvolta chiamata calabrone orientale.

    Come altri imenotteri la vespa orientalis produce un veleno: a seconda della sensibilità delle persone le punture possono determinare reazioni anafilattiche molto pesanti, anche se non è questo aspetto a spaventare particolarmente. Più che altro, è l’impatto che questa vespa potrebbe avere su un comparto – quello del miele e dei 20mila apicoltori italiani – già estremamente in difficoltà tra surriscaldamento globale, perdita di biodiversità e api in costante calo. La orientalis è una specie termofila: vive e si riproduce soprattutto a temperature elevate. Da sempre è presente soprattutto a sud, dalla Sicilia alla Calabria, ma in un contesto climatico che cambia – e soprattutto in una Europa che va a doppia velocità per aumento di temperature legate alla crisi climatica – questa vespa sta pian piano risalendo la Penisola da sud a nord.

    A Roma, dove è stata segnalata per la prima volta soltanto pochi anni fa, ci sono già stati casi emblematici dell’impatto di questo insetto. Nella casa di un 99enne a Labaro nello scorso ottobre è stato individuato un nido da record, con un numero impressionante composto da migliaia o “forse milioni” di esemplari ricordano gli esperti intervenuti. Poi c’è stata la notizia “straordinariamente grave”, parole del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, con cui il titolare del ministero ha annunciato che api allevate con il progetto “Api in città” sul tetto del ministero erano state uccise proprio dalla presenza della vespa orientalis. Da allora le segnalazioni di presenza della vespa orientalis, da quelle rinvenute all’interno di abitazioni sino agli appelli da parte di apicoltori che hanno perso interi alveari per via del calabrone, si sono moltiplicate.

    Si tratta di “una nuova calamità, di fronte alla quale siamo disarmati, non essendo oggi disponibili strumenti e tecniche di contrasto alle aggressioni” ha spiegato Riccardo Terriaca, segretario generale di Miele in Cooperativa, associazione nazionale che raggruppa diverse associazioni di apicoltori delle regioni oggi più colpite dalla vespa, come appunto Lazio, Campania e Molise. Oggi a causa della vespa orientalis che si intromette sempre di più all’interno degli alveari indebolendoli, vengono uccise grandi quantità di api e la produzione di miele diventa dunque più complessa e costosa. Per Terriaca è quindi “indispensabile che il mondo della ricerca impegni risorse umane e finanziarie per studiare il problema con un approccio pragmatico, per darci delle risposte. Sono a rischio decine di migliaia di alveari e la sostenibilità di centinaia di aziende apistiche”. In più, come ricorda il segretario, e come sta già accadendo per esempio proprio a Roma, grazie alle nuove temperature e anche alla perdita di habitat il calabrone orientale si sta diffondendo soprattutto nelle aree urbane, un aspetto che può creare problemi anche per la salute dellle persone se punte.

    Tutorial

    Cocciniglia: come eliminarla con rimedi naturali e difendere le piante dai parassiti

    21 Luglio 2023

    Da non confondere con altre due specie di calabroni presenti in Italia, quella più comune (Vespa crabro) e quella aliena e invasiva (la Vespa velutina, anche detta calabrone asiatico), la vespa orientalis secondo l’Istituto di Zooprofilattico sperimentale delle Venezie è un predatore che può essere pericoloso anche per la diffusione di patogeni. Avendo gli adulti delle vespe bisogno di nutrirsi di carboidrati e sostanze zuccherine, così come le larve necessitano di proteine, attaccano le api alla ricerca di cibo: ma il suo impatto negativo sulle api “non si limiterebbe soltanto ai gravi danni diretti provocati dal suo comportamento predatorio, ma anche alla capacità di fungere da potenziale vettore, meccanico o biologico, di agenti patogeni di Apis mellifera, favorendone la diffusione nelle colonie” scrivono dall’IZSV in uno studio.

    Tutte queste informazioni vanno però inquadrate in un contesto ben specifico: quello delle città. Come ricordava in un lungo post sui social il naturalista Nicola Bressi, le vespe orientalis non sono infatti particolarmente pericolose per l’uomo (nel senso che sono poco aggressive), e in parte che per gli allevamenti biologici di api nelle campagne, ma sono invece estremamente impattanti proprio nei centri urbani. Nelle città, dai nostri scarti e rifiuti sino alle crocchette di cani e gatti abbandonate (di cui sono ghiotte), grazie al mix composto da fonti di cibo e temperature elevate, queste vespe trovano le condizioni ideali per riprodursi in grande quantità (soprattutto nei mesi caldi), prosperare e attaccare gli alveari urbani. LEGGI TUTTO

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    Multe salate per chi non smaltisce i vestiti usati nei cassonetti gialli

    Da quest’anno dobbiamo imparare una nuova abitudine, quando gettiamo i rifiuti. Quella maglietta bucata o le scarpe vecchie che intendiamo buttare via, non possono più essere gettate nell’indifferenziata. Dal 1° gennaio 2025, infatti, è entrata in vigore in tutta Europa, una nuova normativa nata per combattere l’inquinamento crescente derivato dai rifiuti tessili, complice anche il dilagante fast fashion, che ci porta a consumare più velocemente i vestiti che indossiamo. E’ un cambiamento non da poco, che obbliga i comuni italiani a predisporre una raccolta specifica non solo per carta, vetro e plastica, ma anche per i rifiuti tessili che diventano un nuova categoria da smaltire separatamente in un cassonetto apposito.

    In realtà, il nostro Paese, già dal 2022 (con il Decreto Legislativo n. 116/2020) ha introdotto la raccolta differenziata per i rifiuti tessili in anticipo di tre anni sui tempi di Bruxelles, che con la normativa europea ha acceso un faro permanente sulla situazione; secondo le stime più recenti, la produzione tessile contribuisce dal 2% al 10% delle emissioni globali di CO2, e provoca il 20% dell’inquinamento delle acque dolci, oltre a una forbice del 16-35% dell’inquinamento oceanico dove finiscono le microplastiche. Basti pensare che ogni abitante europeo, getta in media 11 kg di prodotti tessili, ed il totale dei 27 Stati membri produce 12,6 milioni di tonnellate di rifiuti tessili all’anno: di cui 5,2 solo tra abbigliamento e calzature. Secondo uno studio dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, solo il 12% della produzione europea di materiali tessili viene dal circuito dei sistemi di raccolta, mentre il resto finisce nei rifiuti indifferenziati. La norma, dunque, intende sensibilizzare i cittadini europei ad una pratica circolare dei rifiuti, multando fino a 2.500 euro, chi non rispetta tali disposizioni.

    L’Italia al centro della transizione ecologica e della green economy globale

    28 Ottobre 2024

    D’altronde la raccolta differenziata dei tessili permette il recupero di materiali ancora validi, che possono essere avviati un processo virtuoso di riciclo delle fibre tessili, dando loro una seconda vita, andando a ridurre la produzione di altri materiali, che non farebbero altro che alimentare quel circolo vizioso: consumo energetico, rifiuti, inquinamento. Infatti i rifiuti tessili che andremo a depositare nei giusti contenitori, se in buono stato possono essere riutilizzati direttamente, mentre quelli danneggiati sono sottoposti al riciclo da cui si ricavano nuove fibre o materiali. E non è ancora tutto. L’Unione Europea, introducendo questo nuovo obbligo, ha istituito anche la cosiddetta “responsabilità estesa del produttore” che obbliga chi realizza determinati prodotti tessili, a farsi carico anche di riutilizzo, riciclaggio e recupero. Ma se vi state chiedendo dove poter gettare gli abiti usati per fare al meglio la differenziata e non incorrere nella multa, la domanda è più che lecita. La destinazione idonea è quella dei cassonetti gialli, dove possono essere inseriti capi di abbigliamento e accessori, tra cui biancheria intima, scarpe e borse, ma anche stoffe, tende e persino tappeti.

    Prendiamo come esempio quello di Roma: andando sul sito della municipalizzata AMA, gli utenti possono accedere ad una mappa online dove visualizzare la disposizione dei cassonetti gialli, che ammontano a 1.500 per tutta la città e che nei prossimi mesi saranno aumenti del 20% per raggiungere l’obiettivo di avere un cassonetto ogni 800 abitanti, contro l’attuale 1 per 1877 romani, aumentando la quantità di tessili raccolti fino a 5,5 kg per ciascun cittadino, quando la media europea è di 4,4 kg/abitante. LEGGI TUTTO

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    Skimmia, la pianta facile da coltivare e resistente al freddo: la guida

    La skimmia è un genere di arbusto sempreverde, che appartiene alla famiglia delle rutacee. È originaria dell’Asia e, in particolare, la troviamo in Giappone e in Cina, nonché nelle aree boschive himalayane. Il suo nome deriva dal giapponese “shikimi” – un termine che ha un significato traducibile come “frutto velenoso”, tant’è vero che la pianta è completamente tossica.Esistono diverse specie di skimmia, che nella maggior parte dei casi hanno il tipico aspetto arbustivo e raggiungono un’altezza contenuta (tra 1 e 2 metri). Tra le specie più diffuse, possiamo citare la skimmia japonica, che è contraddistinta da foglie coriacee ovali e fiori color crema, bianco o rosa pallido. La maggior parte delle specie di questa pianta sono dioiche, cioè con esemplari che producono fiori esclusivamente maschili o femminili.
    L’esposizione ideale per questa pianta
    La skimmia è una pianta che ha il suo habitat naturale nel sottobosco. La sua esposizione ideale è quindi in luoghi ombreggiati, dove non riceva quasi mai l’irraggiamento solare diretto. Si adatta comunque a crescere anche in ambienti in penombra, ad esempio quando trova riparo al di sotto di un albero. La skimmia è una pianta particolarmente rustica (può sopportare temperature minime di -15 gradi) e facile da coltivare: ricordiamoci però che ha un ritmo di crescita abbastanza lento.
    Il terreno più indicato per la coltivazione
    Il terreno ideale per la coltivazione della skimmia è acido e con un’elevata capacità di drenaggio, in modo da prevenire il pericoloso (e dannoso) fenomeno del ristagno idrico, che causa il marciume radicale. Il terreno dovrebbe essere inoltre ben aerato e soffice al punto giusto, come per esempio una miscela di torba, con terra di aghi di conifere e brughiera unita a perlite. Il momento ideale per piantare la skimmia è nel corso dell’autunno. Se coltiviamo la skimmia in vaso, ricordiamoci di rinvasarla solo quando le radici hanno esaurito lo spazio disponibile per lo sviluppo. Scegliamo un contenitore che abbia un diametro maggiore di un paio di centimetri rispetto al precedente.

    L’innaffiatura, la concimazione e la potatura
    La skimmia richiede un’innaffiatura regolare con acqua che non sia eccessivamente calcarea. Nel caso in cui quella proveniente dal rubinetto lo fosse, dobbiamo ricorrere all’acqua piovana o, al limite, a quella demineralizzata. La pianta non ha invece particolari esigenze per quanto riguarda la concimazione: possiamo aggiungere, con cadenza mensile, del fertilizzante liquido all’acqua di innaffiatura durante la primavera e l’estate. La skimmia non ha bisogno di una potatura specifica. Qualora decidessimo di potarla per mantenerne una forma armoniosa, ricordiamoci di farlo solo durante il periodo autunnale, usando solo utensili ben disinfettati.
    La fioritura della skimmia
    La fioritura della skimmia si concentra a cavallo tra il periodo primaverile ed estivo, con una notevole varietà di colori che spazia dal bianco al rosa intenso, oppure, dal crema al rosa pallido a seconda delle specie. La pianta produce anche delle bacche di diversi colori che persistono solitamente per tutto l’inverno: ad esempio, la skimmia japonica è nota per le bacche rosse.
    Le malattie e i parassiti più comuni
    A seconda delle avversità che la colpiscono, la skimmia può manifestare alcuni sintomi specifici che ci aiutano a adottare il rimedio più appropriato. Se la skimmia ha le foglie ingiallite e queste tendono facilmente a staccarsi e cadere, la causa è quasi sempre da ricercare nel calcare. Ciò significa che dobbiamo sostituire il terreno di coltivazione, oppure, utilizzare dell’acqua piovana per annaffiarla. L’acqua eccessivamente calcarea è anche responsabile del colore sbiadito dei fiori. Se oltre ad essere ingiallite le foglie sono anche frastagliate sui bordi, significa che la pianta è stata attaccata dagli acari: per allontanarli, dobbiamo aumentare il livello dell’umidità ambientale, ad esempio nebulizzando le foglie.

    L’esposizione della skimmia all’irraggiamento solare diretto provoca invece la bruciatura delle foglie. Se notiamo delle macchie marroni sul fogliame, la skimmia è stata colpita dalla cocciniglia bruna: possiamo eliminarla pulendo la pianta con un batuffolo di ovatta con alcool. La presenza di puntini bianchi sulle foglie ci indica invece che la pianta è stata colpita dagli afidi: in questo caso, dobbiamo usare un antiparassitario. Infine, la skimmia può essere infestata dall’oidio: se questa malattia fungina si manifesta, le foglie assumono un colore sbiadito e hanno delle macchie di muffa in superficie. Se l’infestazione è contenuta, possiamo rimuovere le parti malate: in caso di attacco molto esteso, dobbiamo eseguire un trattamento con prodotti fitosanitari a base di zolfo. LEGGI TUTTO

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    Ardisia, l’arbusto dalla bacche rosse: come prendersene cura

    L’ardisia è un genere di arbusti sempreverdi che comprende numerose specie, tra le quali, la crenata (o crispa) è una delle più diffuse per la coltivazione a scopo ornamentale.

    L’ardisia appartiene alla famiglia delle primulacee e le sue origini sono da ricercare principalmente tra le aree calde dell’Asia e l’Africa. Il suo habitat naturale è soprattutto all’interno delle foreste, ma anche nelle zone collinari: in questo ambiente, l’arbusto può raggiungere un’altezza di diversi metri. L’ardisia è contraddistinta dalle foglie alterne di color verde scuro e coriacee, nonché da una bella fioritura a pannocchia, che talvolta è resa ancor più spettacolare dalla presenza contemporanea delle bacche dai colori vivaci.

    È una pianta da esterno o interno?
    Per rispondere a questa domanda, consideriamo che la temperatura ideale di coltivazione dell’ardisia durante il periodo compreso tra la primavera e l’estate è di 20 gradi. Se esponiamo l’arbusto a temperature più elevate, provochiamo l’appassimento e la perdita di foglie e bacche. Durante l’autunno e l’inverno, invece, l’ardisia deve essere riposta in un ambiente dove la temperatura è costantemente attorno ai 15 gradi. A seconda delle condizioni climatiche della regione in cui viviamo, l’ardisia è principalmente coltivabile all’interno del nostro appartamento o casa.

    L’esposizione alla luce
    Scegliamo un ambiente interno molto luminoso per coltivare con successo la nostra ardisia. Ricordiamoci però di non esporre l’arbusto al soleggiamento diretto, almeno nel periodo primaverile-estivo, poiché i raggi solari provocano la comparsa di macchie sulle foglie. Tra l’autunno e l’inverno, invece, l’esposizione al sole diretto non risulta essere troppo problematica. Evitiamo infine che l’ardisia sia esposta alle correnti d’aria fredda o alle fonti di calore diretto.

    Il terreno suggerito per la coltivazione
    L’ardisia predilige i terreni fertili, con una buona quantità di materia organica, nonché soffici e con un drenaggio ottimale. Per evitare che si verifichi il ristagno idrico, possiamo quindi aggiungere della sabbia dalla granulometria elevata al terreno di coltivazione. L’arbusto è caratterizzato da una crescita molto lenta, motivo per il quale dovremo preoccuparci di rinvasare l’ardisia circa ogni 3 anni. Quando sostituiamo il vaso, scegliamo un contenitore dal diametro di un paio di centimetri più ampio rispetto al precedente. Nel periodo che intercorre tra un rinvaso e l’altro, possiamo anche prevedere di sostituire i primi 2 centimetri di terriccio superficiale, così da assicurare all’arbusto un terreno di coltivazione ben fertile.

    L’innaffiatura, la concimazione e la potatura
    Durante la primavera e l’estate, ricordiamoci di mantenere costantemente umido il terreno, senza però inzupparlo: possiamo attendere che sia asciutto in superficie prima di innaffiare nuovamente. In caso di periodi di caldo particolarmente intenso e secco, nebulizziamo le foglie con dell’acqua demineralizzata.

    Nel periodo tra l’autunno e l’inverno, l’ardisia non ha bisogno di annaffiature regolari: anche in questo caso, possiamo aspettare che il terreno sia asciutto prima di innaffiare nuovamente l’arbusto. Per favorire lo sviluppo della pianta, tra la primavera e l’estate possiamo aggiungere del fertilizzante liquido all’acqua di innaffiatura, almeno 3 volte al mese. Infine, possiamo prevedere una potatura primaverile qualora la nostra ardisia si sviluppasse in modo poco ordinato: eliminiamo i rami che tendono a svettare troppo, mantenendo come riferimento l’altezza del fusto. Per evitare di provocare danni all’arbusto, accertiamoci sempre di aver disinfettato accuratamente i nostri utensili.

    La propagazione per talea
    Per propagare l’ardisia, attendiamo sempre il periodo primaverile. Ricaviamo delle talee lunghe circa 10 centimetri a partire dai germogli dei rami secondari. Ricordiamoci sempre di tagliare al di sotto del nodo e, soprattutto, di rimuovere le foglie che si trovano alla base della talea. Per favorire l’attecchimento, possiamo utilizzare la polvere che stimola lo sviluppo delle radici. Riponiamo quindi le nostre talee in vasi di circa 10 centimetri di diametro, scegliendo una miscela di torba e sabbia. Manteniamo costantemente umido il terreno e ricoveriamo i nostri vasi in un ambiente molto luminoso e dove ci siano almeno 25 gradi. Se le nostre talee si svilupperanno correttamente, dopo circa 2 mesi vedremo comparire i primi germogli.

    La fioritura e i frutti
    L’ardisia crenata produce delle particolari infiorescenze a pannocchia, con fiori a forma di stella di colore bianco e dal profumo delicato, che di solito fanno la loro comparsa tra i mesi di giugno e luglio. Nel periodo autunnale, l’arbusto ci regala anche delle bacche rosse vivide e lucide, le quali possono restare sull’ardisia addirittura fino alla fioritura dell’anno seguente.

    I parassiti
    L’ardisia può essere attaccata dalla cocciniglia farinosa: se notiamo la presenza dei caratteristici fiocchi sulle foglie, possiamo utilizzare un batuffolo di ovatta imbevuto di alcool per rimuoverli. Se l’infestazione è già abbastanza estesa, usiamo un antiparassitario ad hoc. L’arbusto può essere anche colpito dagli afidi, soprattutto sulle parti più giovani: per eliminarli, usiamo un prodotto fitosanitario specifico. Se ci accorgiamo che l’ardisia perde le foglie o le ha secche, significa che l’arbusto è esposto a temperature troppo elevate: ricoveriamolo in un ambiente con al massimo 20 gradi. LEGGI TUTTO

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    “L’idrogeno verde rischia di oscurare i cieli”, il caso dell’osservatorio astronomico cileno

    Un luogo unico al mondo per il suo “buio” rischia di essere stravolto per sempre. Nel Paranal, a ridosso del deserto di Atacama in Cile, sul Cerro Paranal a oltre 2600 metri di altitudine, da più di 25 anni opera il miglior “occhio” della Terra per riuscire ad osservare le stelle e l’universo. Dal 1999 infatti l’Osservatorio astronomico del Paranal, gestito dall’ESO (European Southern Observatory), fornisce al globo informazioni astronomiche uniche per la sua precisione. Lì, grazie al Very Large Telescope (VLT), fra i telescopi più potenti di sempre, l’uomo è riuscito a catturare e svelare segreti dell’universo prima sconosciuti: per esempio la prima immagine di un esopianeta oppure la misura dell’orbita di alcune stelle intorno al buco nero supermassiccio della Via Lattea che hanno permesso di misurarne la massa.

    Ma c’è un motivo se il VLT è così efficiente: di tutti i 28 principali osservatori astronomici al mondo, quello del Paranal è considerato il sito più buio e il luogo più limpido per l’osservazione astronomica. Ora però anche questo sito rischia di essere minacciato da un inaspettato inquinamento luminoso, una minaccia che arriva per paradosso in nome della transizione energetica. Nel Cile settentrionale infatti a fine dicembre la AES Andes, che opera per la compagnia elettrica statunitense AES Corporation, ha annunciato un ulteriore avanzamento (siamo alla valutazione di impatto ambientale) nei lavori per un grande progetto che dovrebbe sorgere a Taltal, a pochi chilometri dal Paranal. Nell’area di Antofagasta, già nota per le estrazioni minerarie, la AES punta infatti a realizzare un mega progetto per la produzione di idrogeno e ammoniaca verde che sorgerebbe ad appena una decina di chilometri dal grande osservatorio. L’intero complesso industriale previsto è di oltre 3000 ettari, praticamente una cittadina grande come Valparaiso in Cile, con tanto di porto e migliaia di gruppi di produzione di elettricità.

    Un tale impianto, sostengono gli esperti di astronomia, potrebbe essere devastante per l’osservazione dei cieli. I lavori, dalle emissioni di polvere durante la costruzione, sino all’installazione di reti luminose, così come le varie emissioni legate a trasporti e realizzazione dell’opera, rischiano infatti di “minacciare i cieli limpidi dell’Osservatorio Paranal nel Deserto di Atacama” ricordano gli esperti dell’ESO. Anna Wolter, che fa parte della rete di divulgazione scientifica dell’ESO e gestisce l’INAF-Osservatorio Astronomico di Brera, spiega a Green&Blue che se il nuovo progetto dovesse vedere la luce, per l’osservazione astronomica nel Deserto di Atacama sarebbe un evento “nefasto”. “Se anche lì si dovesse alzare il livello di fondo della luce, per noi che osserviamo il cielo sarebbe come cercare di guardare i dettagli di un quadro con una pila puntata negli occhi” spiega Wolter. “Dal punto di vista tecnico infatti ogni disturbo della possibilità di osservare, per i grandi telescopi, è nefasto. Già abbiamo il problema di come correggere il disturbo introdotto dall’atmosfera – che è trasparente ma non immobile, e sfoca le immagini – e per riuscire a superarlo abbiamo imparato a costruire strumenti sofisticatissimi. Ma ora alzare il livello ‘di fondo’ della luce in quella zona, così importante, sarebbe davvero un grande problema”.

    Questo perché un progetto del genere, come quello industriale dell’idrogeno verde, “grande come una cittadina, produrrebbe una quantità di luce enorme, molto maggiore della luce prodotta dalle sorgenti celesti che vogliamo osservare con i nostri telescopi. Inoltre sicuramente la costruzione di un impianto produrrà tanta polvere che – a distanza di pochi chilometri – farà da diffusore della luce” aggiunge l’esperta dell’Osservatorio di Brera. L’Eso dunque lancia l’allarme, ribadendo la necessità di ripensare alla realizzazione di un impianto tale così vicino all’Osservatorio del Paranal dove, tra l’altro, è in costruzione l’ELT (Extremely Large Telescope), un telescopio da 39 metri di diametro che “sarà in grado di raccogliere luce decine di milioni di volte più che l’occhio umano, per esempio per osservare galassie vicine all’epoca iniziale dell’Universo – molto deboli perché molto lontane – oppure scovare esopianeti in orbita intorno a stelle diverse dal Sole, anche questi molto poco luminosi perché – come i pianeti del sistema solare – riflettono la luce della loro stella madre” ricorda Wolter.

    Sempre nella stessa area del Deserto di Atacama inoltre è prevista la realizzazione di CTAO, progetto internazionale per dare vita a una sessantina di telescopi Cherenkov. Anche per questo per il direttore generale dell’ESO, Xavier Barcons, “le emissioni di polvere durante la costruzione, l’aumento della turbolenza atmosferica e, soprattutto, l’inquinamento luminoso avranno un impatto irreparabile sulle capacità di osservazione astronomica dell’area”. In sostanza con il nuovo megaprogetto il deserto di Atacama perderebbe la sua unicità di “laboratorio naturale per la ricerca astronomica”, quello che finora ci ha permesso di scoprire dettagli sull’origine e l’evoluzione dell’Universo o che contribuisce alla ricerca della vita e dell’abitabilità di altri pianeti. Per questo, dicono gli astronomi, “è fondamentale considerare sedi alternative per questo mega progetto che non mettano in pericolo uno dei tesori astronomici più importanti al mondo”.

    Prima di cancellare il buio, in quel luogo unico, così come altrove, dovremmo dunque ragionare a lungo in un Pianeta sempre più disturbato dall’inquinamento luminoso.”Purtroppo anche in Italia – conclude Wolter – siamo abituati ormai a non vedere più il cielo. Chiediamo a gran voce illuminazioni cittadine e perdiamo la confidenza con il buio. La continua luce notturna porta a un grande disturbo del sonno e dei ritmi circadiani, non solo in animali e piante ma anche nelle persone. Dobbiamo quindi preservare il buio e la possibilità di osservare il cielo con i nostri occhi. Qualcosa che non solo è fonte di meraviglia, ma ci ricorda in ogni momento che siamo un piccolo punto azzurro nel mezzo di un vastissimo Universo di cui conosciamo ancora poco”. LEGGI TUTTO