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    Cacciare i lupi non risolve il problema dei danni agli allevamenti

    L’abbattimento dei lupi attraverso la caccia non sarebbe una strategia efficace per ridimensionarne le popolazioni nelle aree in cui la crescita delle popolazioni sembra minacciare contadini, agricoltori e residenti delle comunità montane: non comporterebbe infatti un automatico calo delle predazioni del bestiame. Le ultime evidenze arrivano da uno studio americano, appena pubblicato sulla rivista Science Advances a più firme (Leandra M. Merz, Bernhard Clemm von Hohenberg, Nicolas T. Bergmann, Jeremy T. Bruskotter, Neil H. Carter). I ricercatori sono partiti dalla constatazione che l’espansione delle popolazioni di lupo in Europa e Nord Americo accresce il rischio di predazione del bestiame, alimentando un allarme sociale sempre più diffuso e inducendo la politica a prendere di mira il mammifero studiando strategie di contenimento, in primis la caccia. Eppure, pochi studi empirici – sottolinea la ricerca – hanno sin qui documentato l’efficacia della selezione del predatore per antonomasia e la sensazione diffusa è che ci sia spesso lasciati guidare dall’onda emotiva di proteste e lamentele. “Proprio così. – confermano gli studiosi, che sono partiti dai numeri, incontrovertibili – Utilizzando modelli di equazioni strutturali e nelle differenze di dati provenienti dagli Stati Uniti nord-occidentali tra il 2005 e il 2021, abbiamo analizzato l’impatto della caccia al lupo sulla predazione del bestiame da parte dei lupi e sulla rimozione dei lupi da parte del governo, tenendo in considerazione anche variabili sociali e ambientali”.

    Lo studio americano
    L’attenzione si è focalizzata in particolare su Montana, Idaho, Oregon e Washington, realtà accomunate da un (controverso) processo di legalizzazione della caccia ai lupi. Ebbene, spiegano i ricercatori, la rimozione dei lupi non si traduce nell’effetto diretto, e misurabile, di un calo di predazioni. E quando ciò accade, è perché l’eliminazione di un esemplare particolarmente confidente può portare effettivamente portare il branco a essere più elusivo. Ma è, questa, solo una delle possibilità contemplate dai ricercatori, che – anzi – evidenziano il rischio che l’abbattimento di uno o più esemplari possa interrompere dinamiche sociali o strutture di equilibri interni al gruppo, traducendosi addirittura in una esacerbazione dei danni. Solo un intervento su larghissima scala, considerato poco fattibile e non auspicabile socialmente, politicamente ed ecologicamente, potrebbe portare, secondo i ricercatori, al raggiungimento “della soglia necessaria per un impatto sostanziale sulla predazione del bestiame”.

    E del resto a confortare questa tesi, citati nel lavoro, ci sono anche casi più vicini alla nostra realtà, in primis le strategie di selezione dei lupi adottate in Slovacchia e in Svizzera: in entrambi i casi non si è giunti ai risultati attesi. Evidenze che suggerirebbero, piuttosto, l’adozione di nuovi modelli di coesistenza con il lupo, mirati a raggiungere un auspicabile equilibrio senza, per questo, intervenire sulle popolazioni del grande carnivoro.

    Biodiversità

    “Fidatevi della scienza, sostenete i lupi, rifiutate il declassamento”

    16 Luglio 2025

    Il caso dell’Alto Adige e le polemiche del Wwf
    Un tema decisamente caldo in Italia, dove nella notte tra l’11 e il 12 agosto si è registrato, in Alto Adige, il primo abbattimento legale di un lupo dopo più di cinquant’anni. L’ordinanza della Provincia autonoma di Bolzano del 30 luglio scorso aveva autorizzato la rimozione di due lupi nell’area di malga Furgles, dove tra maggio e luglio si erano verificati 31 attacchi al bestiame. Un caso sul quale era intervenuto con forza il Wwf Italia, denunciando come “la deroga per l’abbattimento non rispetti i criteri previsti dalla Direttiva Habitat” e puntando l’indice anche contro Ispra, che aveva dato parere favorevole. “L’idea di abbattere due lupi a caso non risolve il problema. – aveva annotato Wwf Italia in una nota – Come evidenziato da alcuni studi sul tema, l’abbattimento di singoli lupi non rappresenta uno strumento efficace sul medio-lungo termine per mitigare il conflitto. Atri lupi prenderanno il loro posto e continueranno a predare il bestiame se non si attuano corrette strategie di prevenzione, le uniche a garantire un’efficacia duratura”.

    Genovesi (Ispra): “No a estremismi, il controllo delle popolazioni può aiutare”
    “Lo studio americano fornisce utili strumenti di discussione ma non consente, per stessa ammissione dei ricercatori, conclusioni solide”, commenta Piero Genovesi, responsabile della conservazione della fauna e del monitoraggio della biodiversità per Ispra. “Anzitutto, è da sottolineare la differenza tra caccia e controllo: nel primo caso, si consente l’abbattimento indistinto, non selettivo, di esemplari; nel secondo l’abbattimento mira a ridurre i danni in situazioni di danni particolarmente elevati, quando si sia tentato di ridurre le predazioni anche con misure di prevenzione. Va detto che nel caso dei lupi, gli abbattimenti mirati finalizzati a contenere danni al bestiame hanno comunque delle complicazioni intrinseche proprio per l’etologia della specie, che ne limitano l’efficacia: se con gli orsi l’abbattimento di esemplari problematici riduce significativamente i rischi per l’uomo, i lupi agiscono in branco e non è detto che abbattere uno o più esemplari riduca i fenomeni di predazione del bestiame. Ma una pianificazione ben disegnata della selezione, con prelievi realizzati nei siti specifici della predazione, può essere utile nell’ambito di una gestione integrata delle popolazioni di lupo che non prescinda dagli strumenti di prevenzione, rappresentati dalla recinzione notturna del bestiame e dalla presenza di cani da guardiania e dei pastori, come sta per esempio accadendo in Svizzera. Quanto all’Alto Adige – conclude Genovesi – va ricordato che la decisione di abbattere è sempre politica: Ispra ha verificato la coerenza di questa opzione, legata all’entità dei danni, all’esclusione di rischi per la conservazione generale della specie nell’area e, non ultimo, all’adozione contestuale di adeguati strumenti di prevenzione, ma la decisione di intervenire con abbattimenti è una scelta non tanto tecnica quando politica”. LEGGI TUTTO

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    Incendi, ondate di calore e prezzi alle stelle: dobbiamo ripensare l’idea delle vacanze estive?

    Dovremmo seriamente cominciare a ripensare al concetto di vacanze estive? La crisi climatica ci sta dicendo di sì. L’estate 2025, ancor più di altre in passato, ci sta fornendo una informazione importante: le attuali vacanze nei mesi estivi, soprattutto in Europa ma anche Nord America, stanno diventando estremamente diverse da quelle che in passato associavamo a momenti di relax, tranquilli bagni al mare e passeggiate in montagna, escursioni in famiglia all’aperto o viaggi culturali all’interno di città dal clima mite. Incendi, ondate di calore, aumento della temperatura del mare e intensificazioni delle tempeste e dei fenomeni meteo, oltre a siccità e cambiamenti delle condizioni in quota, mai come quest’estate ci stanno infatti mandando un segnale su come la crisi del clima innescata dalle nostre emissioni sta stravolgendo in pieno il concetto di vacanza estiva, trasformandola in un periodo dove aumentano i rischi di stress, sicurezza e salute. E se a questo aggiungiamo l’aumento dei prezzi e le criticità dell’over tourism, secondo esperti come Stefan Gössling, allora vuol dire che stiamo ormai entrando nell’ “era del non turismo”.

    Ovunque andiamo ci sarà un incendio
    Gli incendi sono forse uno degli elementi più lampanti: da inizio anno in Europa sono bruciati oltre un milione di ettari. Una cifra enorme, un record da quando abbiamo le rilevazioni Ue del 2006. Oltre due terzi di questa cifra è rappresentata da quanto accaduto soltanto in Spagna e Portogallo. Solo nella penisola iberica, dice Copernicus European Forest Fire Information System (EFFIS), da inizio anno al 26 agosto sono andati in fiamme più di 400.000 ettari e la maggior parte di questi sono bruciati nei mesi estivi, soprattutto in due settimane di fuoco estremo. Tra Portogallo e Spagna ad andare a fuoco, talvolta anche per cause dolose ma pur sempre in territori molto secchi a causa del nuovo clima, a bruciare sono state aree boschive della Galizia, Asturie, Castiglia e Leon ma anche diverse aree decisamente turistiche. Per esempio sono state colpite aree protette come il Parco nazionale Picos de Europa e diversi itinerari di pellegrinaggio del Cammino di Santiago, un percorso che solitamente attrae in estate oltre 100.000 visitatori. Nell’estate degli incendi da record in Europa sono state però colpite anche località turistiche della Grecia, Turchia e di Cipro, tutte aree dove è stato in più occasioni necessario evacuare i turisti. E come non dimenticare, in Italia, le immagini dei bagnanti in fuga aiutati dai soccorritori a lasciare la spiaggia di Punta Molentis in Sardegna assediata dalle fiamme? Una società specializzata in gestione del rischio e sicurezza, International Sos, racconta come praticamente qualunque destinazione scegliamo nel sud Europa sia a rischio roghi e ha persino stilato una classifica dei luoghi più a rischio incendio per i vacanzieri nel 2025, mettendo al primo posto la Grecia, seguita da Turchia, Cipro e Spagna. I giornali britannici, rilanciando la classifica, hanno espressamente detto di fare attenzione ai cittadini del Regno Unito quando si recavano in questi paesi.

    Nel frattempo, alcuni studi di attribuzione, come quelli del World Weather Attribution dell’Imperial College di Londra, durante questi mesi estivi hanno stimato come il peggioramento dei roghi nel Mediterraneo sia collegato direttamente al cambiamento climatico, concludendo con una certezza: in futuro gli incendi in Europa saranno probabilmente più frequenti e gravi. Più ettari di territorio bruciano, più viene rilasciata CO2 in atmosfera, avviando così un circolo vizioso che non fa che peggiorare le cose (solo in Spagna quest’anno la CO2 rilasciata dagli incendi ha raggiunto la cifra record di 17,68 milioni di tonnellate).

    Con le ondate di calore anche la “coolcation” è incerta
    Spesso, gli incendi più complessi da domare, quest’estate si sono verificati in periodi estremamente caldi e intensi. Europa e Nord America, dove si concentrano moltissime delle mete estive, hanno subito almeno quattro diverse ondate di calore. Difficile dimenticare quella tra fine giugno e inizio luglio che, anche in Italia, ha portato spesso la colonnina di mercurio oltre i 40 gradi. Le temperature estremamente elevate che hanno colpito praticamente tutta l’Europa non solo sono state motivo di forte stress termico per i turisti e di condizioni difficili da sopportare durante le vacanze, ma sono anche state la causa di molti decessi. Una stima precisa delle vittime verrà stilata a fine estate ma nel frattempo uno studio dei ricercatori del World Weather Attribution indica come la crisi del clima stia triplicando i decessi per calore nelle città del Vecchio Continente. Secondo la ricerca le ondate di calore, in questo 2025, sono state fino a 4 °C più calde nelle città rispetto a un mondo senza crisi climatica o con effetti minori, come quelli di quarant’anni fa. Gli esperti sostengono che il riscaldamento globale causato dall’uomo sia responsabile di circa il 65% dei decessi avvenuti in 12 città, tra cui Londra, Parigi, Madrid, Barcellona e Roma. Anche scegliere di passare le vacanze in una capitale europea d’estate potrebbe dunque diventare in futuro motivo di stress termico e preoccupazioni. Per questo soprattutto negli ultimi dieci anni, che sono già i più caldi di sempre, molti vacanzieri hanno iniziato a programmare le ferie basandosi su quella che all’estero chiamano “coolcation”, ovvero la ricerca di luoghi più freschi, con temperature miti, soprattutto nel Nord Europa oppure in Nord America, come nel Canada devastato dai roghi.

    Eppure, a causa del cambiamento della circolazione dell’aria e degli anticicloni, anche i Paesi Scandinavi – una delle mete chiave della coolcation – sono stati attraversati da diverse ondate di calore. Un esempio su tutti è la Finlandia dove per oltre due settimane le temperature sono sempre state in alcune località sopra i 30 gradi: persino il paese di Babbo Natale, Rovaniemi, non è stato risparmiato dal caldo estremo, tale da far strage purtroppo di decine di renne.

    Caldo anomalo in Finlandia, strage di renne nel paese di Babbo Natale

    06 Agosto 2025

    In generale, una delle mete rifugio dal caldo, è sempre stata la montagna: anche qui però le cose stanno radicalmente cambiando. Lo zero termico in alcuni periodi è schizzato a oltre 5.400 metri e le ondate di caldo, con punte oltre i 34 gradi, si sono fatte sentire in diverse aree delle nostre Alpi con conseguenze talvolta drammatiche: dai crolli ripetuti sulle nostre montagne, con tanto di chiusura dei sentieri, sino al devastante scioglimento dei ghiacciai, con il permafrost che continua ad arretrare. Gli eventi meteo estremi, soprattutto in montagna, hanno poi contribuito a rischi maggiori per gli escursionisti: quest’anno c’è stato un numero record di incidenti con quasi 100 decessi da inizio giugno. Decessi che, fra le cime così come al mare, in alcuni sfortunatissimi casi sono stati causati anche dai fulmini: con i mari sempre più caldi in atmosfera c’è infatti sempre più energia che non fa che rendere le tempeste più potenti, talvolta con riscontri drammatici.

    Intervista

    “Fulmini sempre più potenti: ecco come proteggersi”

    di Giacomo Talignani

    18 Agosto 2025

    Mari più caldi e nuovi invasori pericolosi
    Alla domanda “dove andiamo in vacanza?” tra caldo estremo e rischi di incendi spesso la soluzione che prima ci immaginavamo era una località di mare dove trovare un po’ di refrigerio in acqua. Anche qui però il cambiamento in atto è evidente e non privo di rischi.

    Biodiversità

    Il Mediterraneo è già estremamente caldo, +5 gradi rispetto alla media

    di Giacomo Talignani

    25 Giugno 2025

    Già a inizio giugno nel Mediterraneo sono state riscontrate anomalie termiche notevoli: il mare era più caldo, in certe zone (come il Tirreno ad esempio) di quasi cinque gradi. I mari più caldi non portano però solo a l’intensificazione dei fenomeni meteo, dai temporali alle trombe d’aria, ma anche a favorire la possibilità che nuove specie si adattino, così come al proliferare delle fioriture di alghe, oppure della mucillagine che – come accaduto in Adriatico – rischia di rovinarci le vacanze. Se in questi giorni in Spagna diverse spiagge sono state chiuse per il rischio di incappare nel Drago blu, mollusco urticante, da noi per precauzione sono stati dichiarati off limits alcuni lidi dell’Adriatico per la diffusione dell’Ostreopsis ovata, alga tossica che con i mari bollenti ha più chance di proliferare.

    L’allarme

    Attenzione all’alga tossica nell’Adriatico, un software per monitorarla

    di Giacomo Talignani

    23 Luglio 2025

    E poi ci sono sempre i rischi dettati, per via delle acque più calde, dall’adattamento di specie aliene che oggi popolano i nostri mari e che possono essere pericolose per l’uomo, come il pesce leone, il pesce palla maculato oppure i pesci coniglio.

    “Stiamo entrando nell’era del non-turismo”
    Così, in questo contesto di rischi in aumento durante le vacanze estive, se lo correliamo all’aumento dei prezzi aerei, il caro vita e l’over tourism (con aree del mondo, come alle Canarie o alle Baleari, dove aumentano le battaglie anti-turisti), secondo alcuni esperti stiamo entrando a pieno “nell’era del non turismo”. Quella in cui anche le vacanze estive andranno ripensate. A dirlo, senza mezzi termini e sul palco della più grande fiera del turismo al mondo, è stato di recente Stefan Gössling, ricercatore svedese che ha lavorato come consulente per le Nazioni Unite e la Banca Mondiale e fra i più esperti nel campo del turismo e dei trasporti. “Al momento è un fenomeno concentrato a livello locale ma in futuro diventerà più frequente, coprirà più località e diventerà qualcosa di rivoluzionario” ha spiegato Gössling mentre citava parallelamente l’aumento dei costi e come il nuovo clima, dalla siccità che impatta sugli hotel spagnoli fino all’erosione costiera che sta cancellando spiagge nel sud Europa, tra incendi e ondate di calore stia diventando determinante e creando stress finanziario nel mondo del turismo. E “non si tratta solo di qualche ondata di caldo o di incendi – ha aggiunto l’esperto – ma dell’aumento dei costi di tutto, dal cibo alle assicurazioni, che renderà i viaggi come li conosciamo noi inaccessibili”.

    Considerazioni, insieme all’osservazione di ciò che è accaduto in Europa quest’estate, che secondo un editoriale su The Guardian a firma di Ajit Niranjan dovrebbero portarci a ragionare su un turismo più “rilassante” all’interno dei confini nazionali, evitando così rischi e costi alti all’estero. Le tendenze e i modelli degli scienziati però – nonostante un mondo guidato dalla deriva negazionista di Donald Trump che non sta prendendo di petto l’allarmante questione climatica – ci dicono che le estati più roventi, con tutti i rischi connessi, saranno sempre di più e letteralmente ovunque, con quasi nessun luogo esente dagli effetti del global warming, soprattutto nei mesi di giugno, luglio e agosto nell’emisfero nord. Preso atto di questo, dovremmo dunque seriamente cominciare a ripensare al concetto di vacanze estive?. LEGGI TUTTO

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    Caffè e cacao si coltiveranno in laboratorio

    Nell’anno in cui caffè e cacao hanno superato i prezzi record degli ultimi cinquant’anni, colpa di crisi climatica e fattori geopolitici – e potrebbero aumentare ancora – in Svizzera una startup si dedica alla coltivazione di queste piante in laboratorio, attraverso la coltura di cellule vegetali. Si chiama Food Brewer, ha sede a Horgen, sulle rive del lago di Zurigo, fondata nel 2021 con l’ambizione di rivoluzionare la produzione di cacao e caffè utilizzando bioreattori, contenitori in acciaio normalmente usati per produrre prodotti farmaceutici, cosmetici e additivi alimentari. Il processo funziona prendendo singole cellule vegetali da chicchi di caffè e coltivandole in ambiente controllato; stessa cosa accade per le fave di cacao. Questo metodo elimina completamente la dipendenza da suolo, clima e condizioni meteorologiche, offrendo una produzione stabile e prevedibile. La startup è già passata dalla ricerca alla produzione pilota.

    “Preleviamo cellule da una fava di cacao”, dice Noemi Weiss, scienziata di Food Brewer. “Collocate su un gel nutriente, iniziano a rigenerarsi formando un callo, una sorta di tessuto di riparazione. Dopo due settimane, grazie all’analisi microscopica e all’aiuto dell’intelligenza artificiale, scegliamo le cellule giuste. Queste vengono poi messe in un bioreattore con una soluzione nutritiva ricca di vitamine, minerali e altre sostanze”. Il processo dura circa quindici giorni, durante i quali la biomassa cresce fino a essere pronta per il primo raccolto. “Il passaggio successivo consiste nell’essicazione, che ci consente di ottenere la polvere di cacao”, continua Weiss. “Una volta tostata, la polvere è pronta per essere trasformata in cioccolato”. Secondo i ricercatori di Food Brewer: per il caffè, la polvere una volta tostata ha molte caratteristiche del caffè; per quanto riguarda il cacao, si sta lavorando a un processo simile per far crescere nelle piante le cellule che conferiscano al cioccolato il suo sapore caratteristico.

    Come funziona la coltivazione nel bioreattore
    Food Brewer ha iniziato le sue pratiche di agricoltura cellulare con il cacao, partendo dalle fave che arrivano dall’America Latina, caratterizzate da varietà più fruttate e interessanti, e bypassando i due Paesi principali esportatori: Ghana e Costa d’Avorio. Le fave di cacao vengono dissezionate per trovare le cellule ottimali in termini di gusto, aroma e profilo di crescita. Le cellule una volta selezionate vengono poi coltivate, in determinate condizioni e con la giusta nutrizione, nei bioreattori situati presso la sede di Horgen (su scala pilota da circa 800 litri). Lo sviluppo delle cellule viene monitorato per un certo numero di giorni, e una volta raggiunta la densità cellulare desiderata, si raccoglie la biomassa, che viene poi macinata e tostata per far emergere i vari sapori richiesti.

    Oltre al cioccolato, Food Brewer, si dice molto vicina anche alla produzione del proprio caffè in laboratorio, coltivando le piante, con un processo simile a quello del cacao, sempre nel bioreattore. Il caffè che si ottiene dopo la tostatura può essere preparato o incorporato direttamente nelle formulazioni di cibi e bevande. Per fare il cioccolato, invece, la polvere di cacao deve essere mescolata con grassi e zucchero. Inoltre la startup sta lavorando anche per sostituire il burro di cacao tradizionale con un grasso coltivato che arriva dalle microalghe. Infatti, come terzo pilastro di produzione, l’azienda sta lavorando allo sviluppo di un grasso sostenibile come facilitatore per cacao e caffè. “Sono stato subito affascinato dall’idea delle colture cellulari”, ha raccontato alla stampa Christian Schaub, CEO della startup. “Questa produzione ha il potenziale di rivoluzionare la coltivazione di cacao e caffè, rendendola più sostenibile dal punto di vista ambientale e più equa per le persone”.

    A credere in caffè e cacao sintetici il colosso del cioccolato
    A fine febbraio 2025, Food Brewer ha raccolto un finanziamento complessivo pari a 11,1 milioni di dollari necessario per accelerare la commercializzazione dei suoi prodotti. A credere in caffè e cacao sintetici tra gli investitori: Lindt, il colosso del cioccolato di qualità, e Sparkalis (fondo di venture capital che investe nel FoodTech). Food Brewer punta a immettere il prodotto sul mercato entro la fine del 2026, dando priorità a quello statunitense. Secondo l’AD Schaub “Queste aziende si sono rivolte a noi perché hanno bisogno di garantire queste risorse su larga scala per il futuro. Non solo, la profonda conoscenza di questo player globale del cioccolato ci aiuterà ad accelerare l’ingresso sul mercato. Non stiamo cercando di sostituire l’agricoltura o di competere con essa; stiamo solo colmando il divario tra domanda e offerta agricola. Invece di utilizzare la luce solare, l’acqua e il terreno, coltiviamo le cellule vegetali al chiuso in bioreattori”. Per Filip Arnaut, amministratore delegato di Sparkalis: “Sostenere nuove tecnologie e innovazioni è fondamentale, soprattutto di fronte al cambiamento climatico e al suo impatto sulla produzione alimentare. L’investimento in Food Brewer rappresenta il nostro impegno a combinare il meglio di entrambi i mondi – approcci tradizionali e innovativi – per costruire un futuro migliore per tutti, compresi consumatori, produttori, agricoltori e il pianeta”. LEGGI TUTTO

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    Cosa succede se il buco dell’ozono continua a restringersi

    Da qualche tempo a questa parte, la comunità scientifica sembra essere più o meno concorde sul fatto che la “salute” dello strato di ozono presente nella stratosfera stia piano piano migliorando. E questo è certamente un bene, dato che lo strato di ozono protegge la vita sulla Terra dalle radiazioni ultraviolette emesse dal Sole. Le cose, però, si complicano se teniamo conto del fatto che l’ozono è anche un gas serra. A questo proposito, i risultati di uno studio pubblicato su Atmospheric Chemistry and Physics suggeriscono che la “guarigione” dello strato di ozono potrebbe contribuire al riscaldamento globale di un 40% in più circa rispetto a quanto preventivato in passato.

    Nel dettaglio, autori e autrici dello studio hanno simulato attraverso modelli computazionali il modo in cui l’atmosfera cambierà entro il 2050, e gli effetti che questi cambiamenti avranno sulla quantità di calore intrappolato vicino alla superficie terrestre. I parametri utilizzati sono pensati per simulare uno scenario caratterizzato da una scarsa implementazione delle misure contro l’inquinamento atmosferico, ma, allo stesso tempo, dalla graduale eliminazione dei Cfc e degli Hcfc. Quesi ultimi sono gas che danneggiano lo strato di ozono e sono, tra l’altro, a loro volta dei gas serra. Sono stati messi al bando con il Protocollo di Montreal, entrato in vigore nel 1989 e ratificato da 197 Paesi inclusa l’Italia. Da quel momento, l’emissione di sostanze lesive per l’ozono è stata fortemente limitata.

    Inquinamento in casa: spesso peggio di quello esterno

    lm&sdp

    28 Maggio 2014

    “I paesi stanno facendo la cosa giusta continuando a vietare le sostanze chimiche chiamate Cfc e Hcfc che danneggiano lo strato di ozono sopra la Terra. Tuttavia, sebbene ciò contribuisca a riparare lo strato di ozono protettivo, abbiamo scoperto che questo recupero dell’ozono riscalderà il pianeta più di quanto pensassimo inizialmente”, spiega Bill Collins, primo autore dello studio e docente presso il dipartimento di meteorologia dell’Università di Reading (Regno Unito).

    Secondo quanto emerso dalle simulazioni, una parte di questo contributo al riscaldamento globale sarebbe legata proprio al ripristino dello strato di ozono nella stratosfera, e una parte all’accumulo di precursori dell’ozono (dovuto alle attività antropiche, come la circolazione dei veicoli e l’attività delle fabbriche) nella parte di atmosfera più vicina alla superficie terrestre.

    Lo studio

    Il buco nello strato di ozono sull’Antartide sembra seguire andamenti insoliti

    28 Novembre 2023

    Proteggere lo strato di ozono rimane comunque fondamentale per la salute umana e anche per salvaguardare animali e piante. L’esposizione ad alti livelli di radiazioni ultraviolette, quelle che lo strato di ozono scherma in parte, aumenta per esempio il rischio di insorgenza di tumori maligni della pelle. Analogamente, uno studio pubblicato nel 2024 su Global Change Biology metteva in guardia dal pericolo che possono correre per esempio le specie animali che vivono in Antartide se esposte ad alti livelli di radiazioni. Allo stesso tempo, la nuova ricerca suggerisce che le politiche climatiche debbano essere aggiornate per tenere conto del maggiore effetto di riscaldamento dovuto al graduale risanamento dello strato di ozono. LEGGI TUTTO

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    Francesco Broccolo: “Quando le piante sono stronze”

    Non tutto il verde luccica, al contrario. Ci sono piante pericolose per noi e per l’ecosistema, altre che avvelenano il terreno o vivono alle spalle di grandi alberi. Poca poesia e tanta cattiveria. Sono stronze per natura per dirlo con le parole di Francesco Broccolo, il giovane insegnante di agraria molto conosciuto sui social che ha dedicato un erbario divulgativo a questo curioso genere Piccolo erbario delle piante stronze, in uscita ai primi di settembre per Rizzoli Illustrati. Una guida per raccontare con ironia, e la mano di Marina Cremonini, 22 piante comuni che quando possono giocano brutti scherzi.

    Cosa significa pianta stronza?
    “È quella che cresce dove non vuoi, anche al decimo piano, dove a stento ci arriva l’ascensore, e si riproduce a velocità record. Hanno spine o arpioni, tossine o pollini super allergenici, e radici invadenti che sfasciano marciapiedi e fondamenta delle abitazioni. Ci sono specie che addirittura avvelenano il terreno attorno per eliminare la concorrenza. Sono di certo furbe, senza dubbio fastidiose e decisamente stronze”.

    Si comportano peggio con noi o tra di loro?
    “Con noi sicuramente, ma anche tra di loro spesso non sono certo amichevoli. Capita che molte piante celebrate sotto il profilo estetico abbiano poi un lato oscuro che pochi conoscono. A quel punto, hai voglia a dire che sia bella”.

    La più stronza di tutte.
    “Il podio spetta all’ailanto, un albero invasivo che può arrivare fino a trenta metri. Dalle radici rilascia un diserbante naturale che impedisce ad altre specie di crescere mentre dalle foglie emette un repellente per tenere alla larga ospiti indesiderati. Crea il deserto. Eppure, dal momento che è una mellifera, alcuni l’hanno sdoganato. Anche se il miele è buono la pianta è quello che ho definito un unno vegetale”.

    Nel tuo erbario hai inserito anche un albero con un forte simbolismo come il cipresso parlando di magia nera. Perché?
    “In realtà è fastidioso per tutti. Il diavolo, in questo caso, si nasconde nei suoi fiori maschili: quei piccoli conetti gialli che rilasciano però una strabordante quantità di polline. La magia nera botanica è questa. Il cipresso non si limita a una modesta spruzzatina: al culmine della stagione sembra quasi fumare. Basta qualche minuto perché gli occhi di chiunque inizino a bruciare”.

    Queste piante avranno anche qualche comportamento più virtuoso.
    “Nella loro arroganza vegetale hanno spesso un ruolo fondamentale negli ecosistemi e persino nella nostra vita quotidiana. L’acacia o l’olmo sono infestanti ma ci aiutano a stabilizzare i terreni e le scarpate oltre a fornire riparo e nutrimento a molti insetti e animali”.
    Non è tutto da buttare allora.
    “Non confondiamoci, le specie invasive vanno tenute sotto controllo perché non diventino un problema come è accaduto per l’ailanto”.
    All’appello del tuo erbario mi sembra mancare il forasacco di Gussone ma in compenso c’è lo stracciabraghe (Smilax aspera) e la carota selvatica che definisci “La gentile adesiva dal tocco irritante”. Cosa significa?
    “Dopo una passeggiata estiva in campagna o su un sentiero capita di trovarsi minuscoli pallini spinosi aggrappati a pantaloni, lacci delle scarpe, tra i capelli, sulle gambe e sulle braccia. Sono le infiorescenze della carota selvatica, la responsabile di questa aggressione”.
    Ci sono specie che hanno creato enormi danni economici?
    “Le orobanche che i contadini nostrani chiamano succiamele: è sufficiente un numero ristretto di esemplari per rendere un campo inutilizzabile per la coltivazione delle fave per un periodo tra i venti e i venticinque anni. Sono storicamente il terrore dei coltivatori di legumi: in Etiopia è diventata talmente invasiva che molti agricoltori hanno dovuto abbandonare. Si ritiene che la piaga sia stata introdotta in quelle zone attraverso aiuti umanitari: semi di orobanche mescolati accidentalmente a partite di legumi distribuite come cibo durante le carestie degli anni Ottanta”.
    Cosa abbiamo in comune con queste piante?
    “Tutti gli esseri viventi sulla Terra vogliono sempre di più. Pensa alle piante rampicanti come l’edera: arrivata in cima a una quercia, che cosa fa? Emette le foglie e fa nuovi germogli fino a quando non avvolge tutta la chioma della quercia e, di conseguenza, le toglie luce e spazio. La quercia, quindi, muore di fame. Significa letteralmente, sputare sul piatto dove mangi. Ma l’edera è giustificata perché la natura non ha morale, solo strategia”. LEGGI TUTTO

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    Non solo i ghiacciai, sulle Alpi è a rischio anche il permafrost

    Quarta tappa Carovana dei Ghiacciai, la campagna di Legambiente che da sei anni monitora i ghiacciai alpini in collaborazione con CIPRA Italia e la partnership scientifica della Fondazione Glaciologica Italiana. Per la prima volta la campagna varca la soglia del permafrost alpino, entrando nel suggestivo tunnel del permafrost della Zugspitze, la montagna più alta della Germania. Un passaggio inedito che non solo amplia lo sguardo della campagna oltre i ghiacciai in superficie, ma mette in luce anche le profondità nascoste della montagna, dove i cambiamenti climatici stanno lasciando segni silenziosi ma profondi. A più di 2.800 metri di quota, dietro una porta di metallo e lungo corridoi scavati nella roccia, si conserva un archivio naturale straordinario: il permafrost, il terreno che resta congelato per anni, spesso per secoli. Non è solo ghiaccio: dentro ci sono rocce, sabbia e materia organica. Nelle Alpi agisce come una colla invisibile che tiene insieme i versanti. Ma qui, tra le pareti umide e i sensori disseminati nei cunicoli, si legge un’altra storia: quella di un equilibrio che si spezza. Le temperature in aumento non solo fondono i ghiacciai in superficie, ma degradano anche il cuore dendritico delle Alpi, il permafrost destabilizzando interi versanti e mettendo a rischio valli e comunità com’è accaduto di recente a Blatten in Svizzera. A questa fragilità nascosta si aggiunge un altro fattore: i ghiacciai non sono soltanto scenari di bellezza alpina, ma anche masse che da secoli esercitano una pressione meccanica sulle pareti rocciose. Quando arretrano, quel sostegno viene meno, e le montagne perdono un argine naturale, esponendosi a slittamenti, frane e crolli spettacolari. Lo scorso anno, in Valpelline, Valle d’Aosta, abbiamo potuto osservare gli effetti del collasso di una grande morena glaciale, innescato da intense precipitazioni: milioni di metri cubi di detriti hanno travolto sentieri, sbarrato corsi d’acqua e minacciato l’equilibrio dell’intera valle.

    Lo studio

    Dove c’era il ghiacciaio ora crescono più fiori: il fenomeno del greening in alta quota

    di Fabio Marzano

    15 Luglio 2025

    Tornando alla montagna tedesca, lo scenario che si apre davanti ai nostri occhi dalla terrazza della funivia dello Zugspitze è grandioso nella sua drammaticità: la roccia nuda ha ormai sostituito il ghiaccio e, salvo pochi rimasugli di ghiacciaio, resta soltanto terra spoglia, punteggiata qua e là dagli impianti sciistici. Unica eccezione è il ghiacciaio Höllentalferner che, come il nostro Montasio in Friuli, resiste ancora con sorprendente tenacia. Ma questa resistenza è più simbolica che reale: è l’anticipazione di ciò che accadrà un po’ ovunque nelle Alpi italiane, dove dopo il 2050 i ghiacciai al di sotto dei 3.500 metri sono destinati a scomparire quasi del tutto. Tuttavia, la Zugspitze è una montagna che, pur svestita dei ghiacci, conserva tutto il suo fascino. Un fascino che, per chi come me nutre passione per la ricerca scientifica, si amplifica ulteriormente, raggiungendo un livello speciale: quello della scienza d’eccellenza. Durante la nostra escursione, grazie al professor Michael Krautblatter, abbiamo avuto l’opportunità di entrare nel tunnel del permafrost e osservare da vicino il grande lavoro di modellizzazione scientifica che esperti all’avanguardia come lui stanno portando avanti sul permafrost e non solo. Il lavoro di Krautblatter è cruciale non solo per anticipare e mitigare i rischi naturali, ma anche per fornire dati e modelli essenziali alla gestione sostenibile delle risorse e alla protezione delle comunità montane.

    Svizzera, l’agonia del ghiacciaio più grande delle Alpi. L’Aletsch perde 40 metri l’anno dal 2000

    20 Agosto 2025

    Sempre durante il viaggio in carovana ci siamo imbattuti in esempi concreti di come la scienza e la prevenzione possano fare la differenza. A Blatten, in Svizzera, abbiamo potuto toccare con mano l’efficacia dei monitoraggi avviati negli anni dal Servizio cantonale dei rischi naturali. Grazie a un’attenta osservazione e a dati precisi, le autorità hanno seguito l’evoluzione dell’area a rischio passo dopo passo e sono riuscite a evacuare il villaggio nove giorni prima del crollo, salvando così vite umane. Questi esempi mostrano come la ricerca possa trasformarsi non solo in prevenzione, ma anche in una speranza concreta per le comunità: la possibilità di anticipare i pericoli, proteggere le persone e costruire un senso di sicurezza in più. Non si tratta di casi isolati: anche in Italia, il prezioso lavoro del CNR/IRPI, delle Arpa e di altri enti di ricerca offre un contributo fondamentale alla riduzione dei rischi naturali. Tuttavia, si tratta ancora di interventi puntuali su scala europea, che non consentono una visione completa e integrata, né una piena traduzione degli studi in azioni concrete sul territorio.

    Come sottolineiamo nel Manifesto per una governance dei ghiacciai e delle risorse connesse, è necessario adottare un approccio sistemico, che unisca conoscenza, monitoraggio e decisioni responsabili, trasformando l’impegno scientifico in azioni concrete e durature. Il mondo della ricerca sta affrontando sfide enormi: dal negazionismo alla scarsa attenzione dei decisori, questi ostacoli rischiano di tradursi in conseguenze gravissime per le comunità e per gli ambienti naturali. Ai decisori chiediamo quindi di ascoltare e comprendere un monito semplice ma potente: come ci ha ricordato il grande esperto Michael Krautblatter, quando perdiamo un ghiacciaio non perdiamo solo ghiaccio, ma molto di più.
    * (l’autrice è Responsabile Alpi di Legambiente e presidente di CIPRA Italia) LEGGI TUTTO

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    L’amore impossibile di Ned, la lumaca mancina

    Talvolta la ricerca del vero amore potrebbe essere un questione lunghissima, ma in certi casi perfino impossibile. Soprattutto se si parla di una rara lumaca mancina. Ned, questo il nome dato a una lumaca scovata nel giardino di Wairarapa in Nuova Zelanda dall’illustratrice Giselle Clarkson, è un gasteropode davvero particolare: lo si potrebbe infatti definire mancino. Non a caso è stato chiamato così in onore di Ned Flanders, famoso personaggio mancino dei Simpson. La sua conchiglia infatti si avvolge a spirale in senso antiorario (a sinistra) a partire dal suo punto più piccolo, una rarità nel mondo delle chiocciole, tant’è che si stima 1 caso su 40mila di lumache con questa caratteristica. Una peculiarità che però rischia di non dare la possibilità a Ned di trovare un partner adatto alla riproduzione: la conformazione del guscio “mancino” è infatti un problema perché la logistica fisica per l’accoppiamento indica che Ned debba trovare un’altra lumaca con la stessa caratteristica per potersi riprodurre. Nonostante lo strano senso della sua spirale Ned potrebbe però avere una chance per riuscire a trovare l’amore: l’intera Nuova Zelanda si sta infatti mobilitando per aiutarla.

    La sorte ha infatti voluto che a ritrovarla nel giardino di casa mentre sollevava pietre e faceva giardinaggio sia stata Giselle Clarkson che lavora per New Zealand Geographic. Proprio la sua passione per gli animali le ha permesso di identificare quella inusuale caratteristica e, con l’aiuto di altri colleghi, Clarkson ha poi deciso di lanciare una campagna online per trovare il “vero amore” di Ned, in sostanza una chiocciola con la stessa spirale con cui potersi riprodurre. Le lumache sono ermafrodite ma per riuscire ad accoppiarsi hanno bisogno di incastrarsi come fossero pezzi di un puzzle: a una mancina serve un’altra mancina. Con una probabilità estremamente bassa di trovare un partner adatto per Ned Clarkson ha deciso così di invitare le persone ad “esplorare i propri giardini o i parchi locali” e a cercare fra i posti umidi e i vasi in mezzo alla vegetazione. “Dovrebbero esserci delle lumache lì, vedi se riesci a trovarne una mancina e poi contatta subito New Zealand Geographic” si legge nell’appello che si conclude con una frase ad effetto, del tipo “non siamo crudeli non neghiamo la possibilità di amare” scrive l’illustratrice ricordando come altrimenti la lumaca sarebbe condannata a vagare per giardini e orti tutta la vita senza mai probabilmente accoppiarsi.

    Attualmente, Ned sta aspettando in una boccia di vetro per pesci, adattata alle sue esigenze, che qualcuno l’aiuti a trovare un partner. Non è la prima volta che avviene questo tipo di operazione: nel 2017 ci fu una campagna anche per aiutare Jeremy, esemplare mancino trovato a Londra. Furono scovati due esemplari con spirale a sinistra idonei, ma inizialmente si accoppiarono fra loro. Solo dopo, fu il turno di Jeremy che generò una prole con guscio a spirale a destra. Dettagli e petizioni, queste sul mondo animale, che potrebbero apparire curiose o irrilevanti ma che secondo Catherine Woulfe del New Zealand Geographic sono molto importanti se viste in un’ottica diversa: abbiamo infatti bisogno di “mettere in contatto le persone con l’ambiente. Questo tema può apparire leggero e divertente, ma speriamo che sia anche un’apertura verso argomenti più profondi come la comprensione del mondo naturale e le strane complessità della riproduzione” ha affermato. Del resto, tra urbanizzazione ed evoluzione della società, con sempre più persone che vivono all’interno di grandi metropoli e abbandonano campagne e montagne, il nostro rapporto con la natura è cambiato. Tanto che le parole della natura sono perfino scomparse dalla letteratura.

    Uno studio appena pubblicato su Earth da Miles Richardson, professore dell’Università di Derby, spiega infatti come negli ultimi 220 anni la natura sia uscita dalla vita delle persone. Per sostenerlo usa dati sull’urbanizzazione, sulla perdita di fauna selvatica nei quartieri e anche sul fatto che i genitori non trasmettono più ai figli il coinvolgimento con la natura. Una trasmissione che manca anche perché la natura sta uscendo dai libri dove termini come fiume, fiore, muschio e altri sono in costante calo. Lo studio alla fine si conclude con una stima: negli ultimi due secoli il legame fra natura ed esseri umani è calato del 60% e Richardson sostiene come solo avvicinare i bambini alla natura potrà contribuire a invertire questo declino. Ecco dunque che, dicono da New Zealand Geographic, la campagna per aiutare Ned andrebbe vista anche in questo senso: uno stimolo a tornare in natura, a immergere le scarpe nel fango e sporcarsi le mani per aiutare sia un gasteropode a trovare l’amore, sia noi stessi a riabbracciare il nostro rapporto con le altre specie. LEGGI TUTTO