consigliato per te

  • in

    Rischio tsunami in crescita nel Mediterraneo a causa della crisi climatica

    A causa del cambiamento climatico nei prossimi 50 anni la probabilità di tsunami nel Mediterraneo potrebbe registrare un incremento compreso tra il 10% e il30%. Con potenziali criticità per le coste più basse del Mare Nostrum, tra le più popolate al mondo. L’ultimo allarme arriva da due studi appena pubblicati sulla rivista internazionale Scientific Reports dal titolo “Including sea-levelrise and vertical land movements in probabilistic tsunami hazard assessment for the Mediterranean Sea” e nel volume edito dalla Elsevier intitolato “Probabilistic Tsunami Hazard and Risk Analysis”, a cui hanno collaborato i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.

    I riflettori dei ricercatori sono stati puntati sul previsto aumento del mare causato dal riscaldamento globale, combinato con i movimenti geologici costieri: un fenomeno in grado di accrescere il rischio e le conseguenze dei maremoti per le oltre 150 milioni di persone che vivono nelle aree costiere del Mediterraneo, un’area che sarà sempre più vulnerabile agli effetti del climate change. Per sviluppare modelli efficaci in grado di prevedere il rischio legato agli tsunami, i progetti europei Savemedcoasts2 e TSUMAPS-NEAM – entrambi coordinati dall’Ingv – sono così partiti dal calcolo dell’impatto dell’innalzamento del livello del mare, che attualmente è quantificabile sui circa 4 millimetri all’anno ma che è in accelerazione, come certificano le proiezioni fino al 2150 fornite dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), utilizzate per lo studio.

    “Il Mediterraneo è tra le aree più sismiche del pianeta”
    “Alla fine di questo secolo, il livello medio globale del mare potrebbe salire fino a circa 1,1 metri rispetto a oggi, a causa dello scioglimento dei ghiacciai dell’Antartide, Groenlandia e di quelli montani interni come Himalaya e Alpi e dell’espansione termica degli oceani che assorbono gran parte del calore che arriva sulla Terra”, spiega Marco Anzidei, ricercatore dell’Ingv, coautore dello studio e coordinatore del progetto Savemedcoasts2. “Abbiamo misurato i rischi crescenti per le popolazioni costiere – aggiunge – certificando un rischio maggiore per alcune aree, dalla Sicilia orientale alle coste del Nord Africa, fino al delta del Po, dove un’onda di maremoto in futuro potrebbe generare danni ben più consistenti rispetto a oggi”.

    Il riscaldamento globale non è causa diretta degli tsunami, dunque, ma ne può amplificare fatalmente le conseguenze. “I maremoti non sono fenomeni climatici estremi, ma si generano per l’improvviso spostamento di una grande massa d’acqua a causa di terremoti, eruzioni vulcaniche o frane. – aggiunge Anzidei – Il Mediterraneo è tra le aree a più alta sismicità del Pianeta e sapere che gli effetti di questa sismicità potranno essere, in un futuro prossimo, ancor più consistenti può aiutare i decisori politici”. Del resto, la storia di quest’area racconta di maremoti significativi, non ultimo quello che nel 1908 si riversò su Messina e Reggio Calabria, con vittime e danni ingenti.

    “Opere costiere di contrasto non sono la soluzione”
    “Nello studio abbiamo considerato anche come i movimenti geologici possano sommarsi all’innalzamento marino, aggravando il rischio nelle zone dove il suolo tende ad abbassarsi”, commenta Anita Grezio, ricercatrice dell’Ingv e prima autrice dello studio: sono dunque state integrate le analisi sui movimenti verticali delle coste, come la subsidenza, che amplificano gli effetti locali dell’innalzamento del livello del mare. “La nostra ricerca – conclude – fornisce nuovi strumenti per valutare il pericolo tsunami, integrando scenari futuri che tengono conto sia dei cambiamenti climatici che dei fenomeni geologici”, aggiunge. I ricercatori non forniscono soluzioni, se non – indirettamente – attraverso l’auspicio di un più efficace contrasto al cambiamento climatico. “Opere costiere che attutiscano l’effetto di possibili terremoti sarebbero soltanto palliativi – conclude Anzidei – tanto più perché il fenomeno dell’innalzamento dei mari è globale e non territorialmente limitato”. LEGGI TUTTO

  • in

    Juventus, le nuove sfide fuori dal campo per la sostenibilità

    TORINO. Si chiama Black, White & More ed è il nome dell’ambizioso piano ESG – ambientale, sociale e di governance – presentato ieri dalla Juventus. In una sala dell’Allianz Stadium di Torino la dirigenza, insieme specialisti e associazioni, ha svelato quello che è stato definito come “un passo significativo verso un futuro più sostenibile” nel rispetto dei valori dell’innovazione e dell’inclusione. Il presidente del cda Gianluca Ferrero ha confermato a Green&Blue l’obiettivo “di fare le cose per bene”, con uno spirito quasi da Vecchia Signora. Non a caso il Ceo Maurizio Scanavino ha ricordato che una delle sfide più importanti è proprio quella fuori dal campo: “Mettere a disposizione il marchio, la capacità di comunicazione per dare visibilità al tema della responsabilità sociale”.

    ESG è diventato un po’ un mantra in ogni settore, compreso il mondo del calcio, da quando è stata approvata la Corporate sustainability reporting directive (Csrd). Ovvero la direttiva europea (2022/2464) che a partire dal prossimo anno imporrà a ai club (e imprese) più importanti una rendicontazione più puntuale sulla sostenibilità. Da rilevare che la società bianconera redige una reportistica Esg dal 2013, ma quest’anno si è spinta oltre creando anche una struttura ad hoc. “La strategia Black, White & More, significa fare di più, azioni concrete. E il sociale è uno degli ambiti in cui possiamo avere più impatto. Perché abbiamo la capacità di comunicare direttamente con 180 milioni di persone, i nostri follower”, ha sottolineato Greta Bodino, Chief People, Culture & Sustainability Officer della Juventus.

    Un dato chiave è quello indicato da una recente ricerca di Deloitte che ha rivelato come il 75% dei tifosi di età compresa tra i 15 e i 24 anni sia disposto ad allontanarsi dal proprio club se questo non si dovesse impegnare nell’ambiente, il sociale e una corretta governance. “Se penso alla campagna sul razzismo oppure la salute mentale, i nostri stessi giocatori, che sono coetanei di quei ragazzi che domandano responsabilità, si sono fatti coinvolgere senza alcuna pressione. Sono loro che ci domandano di far parte di questo”, ha assicurato Bodino.

    E un esempio calzante di questa attività si è colto dalle testimonianze di Stefania Urso e Carla Chiarla della fondazione Magazzini OZ. Da anni si impegnano in percorsi di formazione e inserimento lavorativo per persone con disabilità, nonché il sostegno a famiglie in difficoltà. La collaborazione con la Juventus ha consentito di inaugurare nuovi sbocchi lavorativi e negli ultimi due anni due giovani hanno già trovato un valido inserimento.

    Felice Fabrizio, People & Sustainability Manager della Juventus, invece ha raccontato di come il miglioramento dell’esperienza di accessibilità rappresenti probabilmente una delle modalità di inclusione più immediate. Settori dedicati, percorsi agevolati per i disabili, biglietti gratuiti, postazioni per i cani guida, servizi audio-descrittivi sono solo alcune delle iniziative già adottate e tante altre arriveranno, perché l’obiettivo è “creare connessioni autentiche a prescindere dalla disabilità”.

    Black, White & More in dettaglio
    La Juventus ha declinato il suo progetto su sei pilastri: due dedicati all’ambiente, tre di carattere sociale e uno relativo all’organizzazione. Quest’ultimo è già stato avviato ad esempio con l’introduzione di un meccanismo di remunerazione, per i dipendenti e per il management, basato sulla riduzione dei consumi energetici. Fra le aspirazioni vi è anche quello di ottenere la certificazione di gender equality, soprattutto considerando il fatto che nell’indice del World Economic Forum l’Italia risulta all’87° posto su 146. “Negli USA ho notato un’attenzione particolare all’inclusione e maggiore rispetto a quella che abbiamo in Italia”, ha dichiarato in collegamento l’ex calciatore Giorgio Chiellini, oggi Head of Football Institutional Relations Juventus. “Sono orgoglioso che Juventus sia in prima linea, mi auguro non sia l’unica”.

    Sport e ambiente

    Europei 2024, Uefa: “Quella strategia ambientale è un modello da replicare”

    di  Fiammetta Cupellaro

    01 Novembre 2024

    Per quanto riguarda invece l’ambiente il partner di riferimento è la Scuola Superiore Sant’Anna e nello specifico il professor Tiberio Daddi, che negli anni grazie a diversi progetti europei ha potuto indagare sulla casistica internazionale legata al calcio. Per la Juventus in tal senso è il momento delle rilevazioni dei dati di impatto ambientale, l’implementazione di una strategia di intervento e soprattutto la costruzione di una seria progettualità. “Un match in media, stando ai dati internazionali, ha un impatto ambientale di circa 182 tonnellate di carbonio, se consideriamo tutto: dalla mobilità dei tifosi, ai consumi energetici degli impianti. Ogni squadra e stadio ha le sue specificità. Per prima cosa dobbiamo analizzarle. Ecco quale sarà il primo passo con la Juventus”, ha spiegato Daddi.

    Marco Tealdo, responsabile del progetto paralimpico Juventus One, invece ha raccontato di come l’idea di utilizzare il calcio come strumento di inclusione sociale sia diventato dal 2017, grazie alla Juventus, qualcosa di molto più serio e strutturato. La società fornisce risorse e mezzi tecnici. “Danno testa, cuore e gambe ai nostri atleti. Oggi sono quasi 150 e collaborano con noi 40 persone di vario titolo. Juventus One è diventato un riferimento imprescindibile per tutto il nostro territorio e tutte le nostre istituzioni. La nostra è comunque una proposta agonistica. Juventus One vuole insegnare che la disabilità non classifica come persone di serie b ma è una delle tante condizioni della vita, e non chiude le porte alla felicità. Juventus One dimostra che l’inclusione non è utopia ma una realtà in azione”, ha concluso Tealdo.

    I pilastri del progetto

    Emissions in the Corner – Proseguire e consolidare il proprio piano di decarbonizzazione riducendo le emissioni mediante: (a) l’autoproduzione di energia rinnovabile; (b) l’efficientamento energetico; (c) la promozione della mobilità sostenibile delle tifoserie;
    Assist to Circularity – Favorire il lancio di misure a supporto dell’economia circolare: (a) riducendo il consumo di acqua; (b) recuperando e riutilizzando beni e prodotti distribuiti agli eventi e nelle sedi del club;
    People First – Integrare i temi ESG nella cultura e nelle attività del club, garantendo sviluppo, engagement e benessere ai dipendenti;
    Sustainable Glocal Club – Diffondere i valori fondanti dello sport di equità e lavoro di squadra sia a livello globale che locale, mediante selezionate iniziative con alto impatto sociale sulle comunità locali e sui territori presidiati da Juventus attraverso vari progetti (ad esempio l’Academy);
    Fan Centrality – Creare un network coeso dove diversità, equità e inclusione uniscono tifosi, sportivi e partner. Il Club si impegna a: (a) potenziare il coinvolgimento dei fan club e, più in generale, di tutti i propri tifosi; (b) garantire ai fan piena accessibilità alle strutture sportive;
    Sustainable Leadership – Rinforzare la leadership del Club in ambito Integrated Governance: (a) presidiando il quadro normativo; (b) manutenendo il piano strategico ESG; (c) assicurando una (ri)generazione del valore economico sostenibile LEGGI TUTTO

  • in

    Batterie al sodio, l’alternativa al litio: pro e contro

    Era il 1980 quando il chimico statunitense John Goodenough inventò le batterie agli ioni di litio, vincendo il premio Nobel, insieme con Michael Stanley Whittingham e Akira Yoshino. Da allora questi accumulatori hanno iniziato a diffondersi in tutto il mondo e sono ancora oggi ampiamente utilizzati, per esempio, negli smartphone, nei computer, nei veicoli elettrici.
    Il litio tra pro e contro
    Il loro successo è motivato soprattutto dal fatto che il litio, un metallo duttile e malleabile, di colore bianco-argenteo, vanta un’alta densità di carica: in pratica, una batteria realizzata con questo elemento può contenere più energia rispetto a una dello stesso peso creata con un altro metallo. Nonostante ciò, i problemi non mancano, soprattutto per l’ambiente. La produzione di litio, la cui disponibilità è limitata, avviene principalmente nelle miniere in Australia e nelle saline ai confini tra Cile, Bolivia, Argentina. Come spiega New Scientist, in Sud America l’evaporazione delle salamoie comporta una perdita di circa 1,9 milioni di litri di acqua per tonnellata di metallo ottenuto, una quantità enorme che rischia di lasciare le comunità locali sprovviste di risorse idriche. Senza contare che al litio, nelle batterie, è poi associato il cobalto, un metallo estratto in Congo da minatori costretti a lavorare in condizioni disumane per pochi dollari al giorno.

    Mobilità

    L’auto elettrica non tira più, in crisi la startup delle batterie

    di  Gabriella Rocco

    02 Ottobre 2024

    Il sodio come sostituto
    Per questi motivi, gli esperti stanno cercando alternative al litio. Un valido sostituto parrebbe il sodio, un metallo alcalino abbondante nella crosta terrestre, che costituisce il componente principale del sale da cucina. Data la maggiore facilità di reperimento della materia prima, le batterie agli ioni di sodio hanno un costo inferiore a quello degli accumulatori al litio. Vantano, inoltre, una minore combustibilità, il che limita il rischio di incendi, e la capacità di funzionare anche a temperature più fredde (fino a -40 gradi) rispetto alle batterie tradizionali.

    Innovazione

    La batteria green che nasce dagli alberi. L’idea di un giovane colombiano

    di  Paolo Travisi

    22 Ottobre 2024

    Problemi irrisolti
    Tuttavia, sebbene siano migliorate, le nuove batterie non hanno ancora prestazioni equivalenti a quelle abitualmente in uso. In particolare, possiedono una minore densità energetica, cioè immagazzinano meno energia per unità di peso: una caratteristica che potrebbe renderle meno efficienti, limitandone l’impiego. Inoltre, alcuni prototipi utilizzano, oltre al sodio, altri metalli che necessitano di estrazione e fusione, come nichel e rame, mantenendo così alcune delle criticità degli accumulatori a base di litio. Ma la ricerca, in corso da anni, non si ferma, cercando di mettere a punto soluzioni sempre più valide.
    I passi avanti delle aziende
    Molte le imprese che si stanno cimentando nella sfida. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (International energy agency, Iea), la maggior parte si trova in Cina. Tra queste, una delle più importanti è Contemporary amperex technology (Catl), con sede a Ningde. C’è poi Byd che all’inizio del 2024 ha iniziato a costruire a Xuzhou, città a metà strada tra Pechino e Shanghai, il suo primo impianto di batterie di questo tipo, destinandole a e-bike e a veicoli a due o tre ruote.

    Energia

    Le batterie dei veicoli elettrici invecchiano meglio del previsto: 200mila km non fanno paura

    di  Dario D’Elia

    25 Novembre 2024

    In India, l’azienda Reliance Industries sta allestendo una gigafactory per produrre, entro la seconda metà del 2026, la nuova tecnologia, mentre, in Svezia, Altris sta avviando la produzione di un materiale agli ioni di sodio per le celle delle batterie. Nel frattempo, Natron Energy ha annunciato che costruirà un’enorme fabbrica di accumulatori al sodio nella Carolina del Nord, aumentando la sua attuale capacità produttiva di quaranta volte. Come dichiarato dall’azienda stessa, le batterie realizzate verranno utilizzate per l’accumulo di energia nei settori dei data center e delle telecomunicazioni. LEGGI TUTTO

  • in

    Lupo non più specie protetta, ambientalisti contro l’Ue

    Dopo “l’attenti al lupo” lanciato dall’Europa all’inizio di dicembre che ha revisionato il suo status di protezione passandolo da “specie strettamente protetta” a “specie protetta” scendono in campo cinque organizzazioni ambientaliste e per la protezione degli animali. Tra cui Green Impact (Italia), Earth (Italia), One Voice (Francia), LNDC Animal Protection (Italia) e Great Lakes and […] LEGGI TUTTO

  • in

    Aree protette, parchi e riserve naturali alle prese con le sfide del clima

    Parchi nazionali, riserve regionali, riserve statali, aree marine protette e i siti della Rete Natura 2000. L’Italia possiede un complesso sistema di aree protette. Se ne contano 1049, una rete di zone naturali a tutela del grande patrimonio di biodiversità della Penisola. Oltre 5 milioni di ettari di territorio tra montagne, fiumi, laghi, coste, aree umide e vulcani. 24 parchi nazionali, 30 aree marine protette (il santuario Pelagos e 2 parchi sommersi), 149 riserve naturali statali, 149 parchi regionali, 450 riserve regionali e 5 parchi geominerari. A questi vanno aggiunte altre aree protette nazionali e regionali, i siti Natura 2000; le zone umide della lista Ramsar; le riserve Unesco e le zone speciali di conservazione. Un sistema naturale che coinvolge 2.500 comuni e interessa una popolazione di oltre 10 milioni di cittadini.

    Conferenza dell’Onu

    Cop16, nessuna intesa per salvare la biodiversità nei paesi più vulnerabili

    di  Luca Fraioli

    04 Novembre 2024

    Le sfide imposte dal clima
    Ma se è chiaro, che il rafforzamento degli ecosistemi è considerato fondamentale per rendere più resistenti i territori ai disastri naturali, rimangono problemi ancora aperti, come quello di contenere il consumo di suolo nei parchi e riserve. Per questo motivo, operatori, ricercatori e esponenti delle associazioni ambientaliste chiedono la revisione della normativa per renderla più coerente con le esigenze imposte dalle nuove sfide. Come il cambiamento climatico e gli obiettivi posti dalla Nature Restoration Law e la Strategia europea per la Biodiversità che punta al raggiungimento del 30% di aree protette entro il 2030. Di questo e di altro si parla a Roma nella due-giorni (17-18 dicembre) organizzata dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica. Al centro del dibattito degli Stati Generali delle aree protette la modifica della Legge quadro (394 del 1991) che lo scorso 6 dicembre ha compiuto 33 anni. Una norma che ha avuto molti aspetti positivi, soprattutto ha dato la spinta per realizzare quel sistemi di parchi e riserve, sia terrestri che marine che oggi interessa l’11% del territorio nazionale.

    Biodiversità

    Con piste da sci sempre più in quota a rischio gli habitat degli animali d’alta montagna

    di  Pasquale Raicaldo

    12 Dicembre 2024

    Aree al centro della rigenerazione dei territori
    Aree naturali che, rimesse al centro dei percorsi di rigenerazione del territorio, negli anni hanno prodotto un effetto benefico su quei 10 milioni di italiani che ci vivono accanto. Nei parchi nazionali la superficie agricola ammonta a 752.400 (50,9%) ettari con 55 mila occupati e una diffusione di imprese agricole del 21,4%. Un sistema grazie al quale tutelando la biodiversità, ha salvato molte specie dall’estinzione. “L’Italia- ha spiegato Claudio Barbaro, sottosegretario all’ambiente e alla sicurezza energetica, con delega alle aree protette – è uno dei primi paesi al mondo per biodiversità, con un alto numero di aree protette, che non sono mai state messe a sistema: per farlo occorre ripensare alla legge 394 in maniera altrettanto sistemica”.

    Maggiori investimenti
    L’obiettivo degli Stati Generali è quindi di chiedere alle istituzioni maggiori investimenti per le aree protette, sistemi importanti contro i cambiamenti climatici. Il rischio è che la mancanza di investimenti, le aree protette (parchi e riserve) non siano più considerate come laboratori di biodiversità e di sostenibilità. Una prima risposta è arrivata sempre da Claudio Barbaro: “In questi due anni di governo mi sono interfacciato con diversi operatori delle aree protette e se c’è una cosa su cui siamo tutti d’accordo è che la legge quadro sulle aree protette, la 394, va emendata. L’obiettivo per il 2025 non è solo quello di un mero rinnovo e aggiornamento, ma di passare da un sistema di gestione atomizzato, frammentato e diviso, a un sistema di rete”. Le conclusioni il 18 dicembre. LEGGI TUTTO

  • in

    L’uccello più vecchio del mondo torna mamma a 74 anni

    In natura gli albatri hanno un’aspettativa di vita di circa 30 anni. Alcuni, i più fortunati, possono sperare di arrivare a superare i 50 anni. E poi c’è Wisdom, una femmina di albatro di Laysan (Phoebastria immutabilis) che sembra immune allo scorrere del tempo: ad un’età stimata di circa 74 anni, infatti, non solo è l’uccello selvatico più vecchio attualmente vivente, ma è in procinto di diventare nuovamente mamma, nonostante l’età e la perdita del suo compagno di una vita, un evento piuttosto traumatico in una specie solitamente monogama.

    Wisdom è uno dei milioni di uccelli che ogni anno tornano all’atollo di Midway, nei pressi delle Hawaii, per nidificare durante la stagione degli amori. Ed è qui, nel Midway Atoll National Wildlife Refuge, che è stata osservata e “taggata” per la prima volta dai ricercatori dello United States Geological Survey nel 1956. Da quel momento, gli scienziati americani ne hanno seguito gli spostamenti anno dopo anno, studiando le abitudini di questi incredibili uccelli, la cui apertura alare di oltre due metri li rende capaci di compiere viaggi di più di 1.500 chilometri durante le loro battute di caccia alla ricerca di cibo. Nel 1956 venne stabilito che Wisdom doveva avere circa cinque anni, l’età in cui gli albatri di Laysan raggiungono la maturità sessuale. Ed infatti, quella fu la prima di oltre 50 covate effettuate dall’albatro dei record sotto gli occhi attenti dei ricercatori americani. Nel corso di una vita avventurosa, destinata ad entrare nella legenda.

    Dalle stime di Chandler Robbins, l’ornitologo che inanellò Wisdom con la sua prima tag per il monitoraggio (negli anni ne ha cambiate sei), l’uccello ha percorso oltre quattro milioni e ottocentomila chilometri in volo nella sua vita, l’equivalente di circa 120 giri intorno alla Terra. Ed essendo vissuta molto più a lungo di qualunque altro albatro vivente, continuando a deporre e covare uova per quasi 70 anni, ha avuto diversi partner nell’arco dei decenni. Un comportamento veramente raro, visto che questa specie di uccelli è monogama, e solitamente le coppie restano unite a vita.

    Il suo ultimo compagno, Akeakamai, era scomparso nel 2021, e per diversi anni Wisdom si era tenuta sulle sue, lasciando immaginare che avrebbe smesso di riprodursi. Per questo l’avvistamento di quest’anno ha lasciato di stucco i ricercatori del Midway Atoll National Wildlife Refuge: dopo 3 anni di lutto, Wisdom ha trovato un nuovo compagno, e deposto un uovo che, a detta degli specialisti, ha ottime chance di schiudersi. Ed è quindi destinata a stabilire un nuovo record: quello del più vecchio uccello ad essersi mai riprodotto, almeno per quanto è dato sapere LEGGI TUTTO

  • in

    Delle foreste pluviali abitate da animali vertebrati solo il 25% è davvero integro

    L’integrità delle foreste pluviali è un fattore determinante per la conservazione della biodiversità. Al di là dell’estensione delle foreste stesse è infatti importante valutare quali di queste aree sono davvero intatte, ossia non soggette a disboscamento, costruzione di infrastrutture o attività di estrazione, e quindi idonee per la sopravvivenza delle specie che le abitano. Un gruppo di ricercatori e ricercatrici ha provato a rispondere a questa domanda: dai risultati dello studio, pubblicato su PNAS, è emerso che solo il 25% delle foreste pluviali abitate da animali vertebrati è davvero integro, nonostante il 90% degli areali delle specie prese in considerazione sia effettivamente coperto da foreste. Ossia, dai risultati emerge una forte sproporzione fra l’estensione delle foreste e la loro integrità.

    Nel dettaglio, gli autori dello studio hanno valutato la disponibilità a livello globale di foreste pluviali tropicali strutturalmente intatte e indisturbate dalle attività antropiche per oltre 16.000 specie di mammiferi, uccelli, rettili e anfibi. Per farlo hanno utilizzato due indicatori: lo Structural Condition Index (SCI) e il Forest Structural Integrity Index (FSII). Il primo è in sostanza una misura della copertura arborea di un certo areale, che tiene in considerazione anche l’altezza (e quindi indirettamente l’età) delle piante. Il secondo combina lo SCI con il cosiddetto Human Footprint, una misura della pressione antropica esercitata sulle aree naturali di tutta la Terra.

    Biodiversità

    Dove vivete ci sono abbastanza alberi? Per scoprirlo c’è la regola del “3+30+300”

    di  Giacomo Talignani

    19 Novembre 2024

    “Complessivamente, fino al 90% della copertura forestale rimane ancora all’interno degli areali di queste specie, ma solo il 25% è di alta qualità, un fattore critico per ridurre il rischio di estinzione – commenta James Watson, docente presso la School of The Environment dell’Università del Queensland (Australia) e co-autore dello studio – Sapevamo che le foreste pluviali ad alta integrità sono vitali per la biodiversità, ma nessuno aveva quantificato quanto limitati fossero diventati questi habitat chiave”.

    Non solo, un risultato preoccupante emerso dalla ricerca è che l’impatto antropico riguarda soprattutto le specie già a rischio. Per esempio, solo il 9% delle foreste abitate da uccelli considerati a rischio di estinzione è risultato di elevata integrità, rispetto al 26% per quanto riguarda gli areali degli uccelli non minacciati. Analogamente, solo il 6% delle foreste abitate da anfibi con popolazioni in declino è risultato intatto, rispetto al 36% di quelle abitate da anfibi non a rischio.

    Il sondaggio

    Un italiano su tre non sa che gli alberi assorbono CO2 e non solo

    di redazione Green&Blue

    19 Novembre 2024

    “Il semplice fatto di avere una copertura forestale non è sufficiente se la complessità strutturale e il basso livello di disturbo umano necessari per la biodiversità vengono meno – conclude Rajeev Pillay, che ha coordinato lo studio ed è ricercatore presso il Natural Resources and Environmental Studies Institute dell’Università della Northern British Columbia (Canada) – Per proteggere le rimanenti foreste pluviali tropicali ad alta integrità è fondamentale un coordinamento globale per ridurre al minimo il disturbo umano, soprattutto nelle foreste non protette che rimangono vitali per la biodiversità”. LEGGI TUTTO

  • in

    Il bello del cotoneaster tra fiori e bacche: i consigli

    Il cotoneaster – noto anche come cotonastro o cotognastro – è un genere di arbusto che fa parte della famiglia delle rosacee. Il cotognastro è diffuso in modo particolare in Europa, Asia (soprattutto Cina e area himalayana) e Africa Settentrionale. Il suo habitat ideale è soprattutto negli ambienti boschivi temperati. Vi sono più di 100 specie di cotoneaster che si possono classificare tra erette, striscianti e, infine, alcune orizzontali: in quest’ultimo caso, la pianta si definisce spesso come cotognastro prostrato. Le foglie sono solitamente di forma ovale, lanceolata con disposizione alternata e, nel caso delle specie caducifoglie, assumono una caratteristica colorazione rossa durante l’autunno. Tra le specie più diffuse, possiamo citare:

    il cotoneaster horizontalis salicifolia, sfruttato soprattutto nei giardini con pendii o terreni che tendono a franare;
    il cotoneaster dammeri, apprezzato per realizzare piacevoli bordure, grazie alla sua delicata fioritura bianca e le bacche di tonalità rosso-aranciata.

    Qual è l’esposizione più indicata per la pianta?
    Il cotoneaster è una pianta particolarmente rustica e senza esigenze colturali impegnative, la cui esposizione ideale è in pieno sole o, in alternativa, in penombra. Nel caso delle specie sempreverdi, evitiamo di esporre gli esemplari alle correnti di aria fredda. Le varietà di cotognastro a foglie caduche possono tollerare senza problemi l’esposizione in pieno sole e sopportano temperature minime fino ai -15 gradi.

    Il terreno ideale per la sua coltivazione
    Il cotoneaster è piuttosto versatile per quanto riguarda il terreno in cui coltivarlo. La pianta predilige i terreni mediamente fertili, sebbene sia in grado di crescere anche in quelli calcarei o argillosi. In ogni caso, è molto importante che il terreno sia ben drenante, in modo tale che non vi sia del ristagno di acqua tra le radici. Il momento ideale per trapiantare il cotoneaster è compreso tra il tardo autunno e la prima metà dell’inverno, quando il terreno non è inzuppato, ghiacciato o innevato. Per la messa a dimora, scaviamo una buca profonda tra i 30-50 centimetri, in fondo alla quale sistemiamo della ghiaia per favorire il drenaggio. Per stimolare la crescita del cotognastro, possiamo anche arricchire il terreno con un po’ di concime stagionato. Durante l’operazione di trapianto, prestiamo attenzione a non danneggiare l’apparato radicale: la stessa accortezza adottiamola anche qualora dovessimo rinvasare la pianta. In quest’ultimo caso, scegliamo un contenitore che abbia un diametro di circa 2 centimetri più ampio rispetto al vaso precedente.

    Innaffiatura, concimazione e potatura
    Il cotoneaster richiede un’innaffiatura regolare nel corso del primo anno di vita, soprattutto durante il periodo compreso tra primavera-estate nelle aree climatiche più siccitose. Seppure sia necessario mantenere un buon livello di umidità, è altrettanto importante evitare di inzuppare il terreno, giacché un eventuale ristagno idrico a livello radicale potrebbe essere molto dannoso per la pianta. Per la concimazione del cotoneaster possiamo usare del concime granulare a rilascio lento, a partire dalla fine dell’inverno e sino alla conclusione dell’estate. Le specie a foglia caduca di cotoneaster possono essere potate quando l’inverno è concluso. Nel caso delle varietà sempreverdi, invece, la potatura deve avvenire al più tardi verso metà primavera. In ogni caso, teniamo presente che le varietà di cotoneaster tappezzante richiedono unicamente degli interventi di potatura per rimuovere i rami morti o danneggiati.

    Il periodo di fioritura del cotoneaster
    Il cotoneaster giunge a fioritura nel periodo compreso tra la primavera e l’estate, regalando una miriade di piccoli fiori che possono essere di color bianco o rosa, o con sfumature rosate. Nel corso dell’autunno, invece, la pianta produce dei piccoli frutti, drupe, che nell’aspetto ricordano delle piccole mele di una tonalità cromatica tra il rosso-rosaceo o aranciato. Queste drupe sono particolarmente persistenti e molto gradite agli uccelli.

    Come moltiplicare la pianta
    Possiamo moltiplicare il cotoneaster tramite la semina o la talea. Il momento ideale per seminare il cotognastro è nel periodo autunnale, procurandoci i semi dai frutti e sistemandoli in vasetti con terriccio che facilita la germinazione. In alternativa, possiamo ottenere una talea semi-legnosa durante il periodo primaverile. In entrambi i casi, attendiamo l’anno seguente per trapiantare questo nuovo esemplare di cotoneaster.

    Le malattie e i parassiti più comuni
    Il cotoneaster può essere colpito da diversità avversità, tra le quali, il cosiddetto “colpo di fuoco batterico” è quella più pericolosa. Questa malattia, particolarmente infettiva, è causata dal batterio erwinia amylovora, che può essere trasportato da insetti, uccelli o anche utensili contaminati. Quando il cotoneaster è colpito da questa malattia i fiori diventano scuri e tendono a seccarsi velocemente, mentre i tralci e le foglie dell’arbusto si imbruniscono e si seccano. Se la pianta è colpita da questa avversità, purtroppo non resta altro da fare che rimuoverla. Il cotoneaster può essere inoltre attaccato dalla cocciniglia: in questo caso, le foglie presentano delle macchie marroni. Per eliminare l’avversità, possiamo sfruttare un batuffolo di ovatta imbevuto di alcol. Infine, il cotognastro può essere soggetto al marciume radicale causato dall’armillaria mellea, che provoca un aspetto stentato e l’ingiallimento della pianta. Possiamo contrastare questa avversità con un fungicida a base di rame. LEGGI TUTTO