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A 10 anni da Parigi la sfida del clima può essere vinta

Belém, nel cuore dell’Amazzonia, la Cop30 riunirà il mondo attorno al tavolo del clima, a dieci anni esatti dallo storico Accordo di Parigi. In un decennio caratterizzato da un crescendo di conflitti, tensioni geopolitiche e sfiducia nel multilateralismo, la Cop rimane una bussola importante. Attorno a quel tavolo, ogni anno, quasi duecento Paesi discutono soluzioni per la sfida più grande del nostro tempo: come e in che tempi abbandonare i combustibili fossili e mantenere le temperature all’interno di una soglia compatibile con le indicazioni della scienza.

Editoriale

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È innegabile, molti oggi guardano all’obiettivo di 1,5 °C con scetticismo. Ma il bilancio scientifico è severo: il margine di emissioni compatibile con quella soglia è sempre più esiguo. Tuttavia, senza l’azione avviata a Parigi, oggi saremmo in una situazione drammaticamente peggiore. Dal 2015 la traiettoria di riscaldamento globale stimata è scesa da 3,9 °C a 2,6 °C (Unep), e oltre cento Paesi hanno oggi un obiettivo di neutralità climatica (Unfccc). Gli sforzi fatti hanno rallentato la corsa verso il disastro. Il primo bilancio globale di tali sforzi, in gergo Global Stocktake, concluso a Dubai nel 2023, ha indicato la necessità di accelerare: triplicando le rinnovabili, raddoppiando l’efficienza energetica e avviando l’abbandono graduale dei combustibili fossili. Una decisione, quella di Cop28, che ha riconosciuto l’inevitabilità della fine dell’era fossile.

L’Europa è l’esempio più tangibile del cambiamento. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, le emissioni nette dell’Unione europea nel 2022 erano inferiori del 31% rispetto al 1990. Un risultato significativo se si considera che, nello stesso periodo, il Pil europeo è cresciuto considerevolmente. Progressi che mostrano l’avanzare della decarbonizzazione, con la crescita di rinnovabili ed efficienza energetica, in sostituzione a carbone, gas e petrolio. Gli Accordi di Parigi hanno innescato una nuova rivoluzione industriale. Oggi fare innovazione significa investire nelle tecnologie della transizione, le cosiddette clean tech. Dal 2015, i dati dell’Agenzia Internazionale dell’Energia indicano che i costi dell’energia solare sono diminuiti dell’85% e quelli delle batterie del 90%, e gli investimenti globali in energia pulita hanno raggiunto i 2.000 miliardi di dollari nel 2024, il doppio di quelli nei combustibili fossili. La mobilità elettrica è il nuovo standard per il futuro dei trasporti e l’elettrificazione dei consumi finali diventa sempre più realtà per molte famiglie e imprese. Secondo l’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili, nel 2024 si è registrato un aumento di 582 gigawatt di capacità rinnovabile a livello globale, il più alto incremento annuale mai registrato. Si tratta di una trasformazione che ridisegna l’economia globale: chi investe nel futuro pulito ha ritorni in termini di competitività, occupazione e sicurezza. Chi, al contrario, si ostina a difendere il passato rischia di restare intrappolato in industrie obsolete e capitali bloccati in asset destinati a perdere valore. La neutralità tecnologica non esiste: le tecnologie hanno costi, efficienza, maturazione di mercato e disponibilità diverse tra loro. Oggi vince chi punta sulle tecnologie più efficienti, economiche e disponibili, come le rinnovabili.

In questi dieci anni, gli Stati Uniti sono passati da un programma ambizioso per la transizione come l’Inflation Reduction Act, all’avvento di Trump, che ha scelto di proteggere i settori tradizionali fossili. Tuttavia, restare ancorati al passato non preserva la competitività, la compromette. L’economia globale, trainata da realtà come Cina e India, non aspetta: l’innovazione verde sta diventando la misura della potenza economica.

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Ma l’innovazione richiede finanziamenti e, in questo senso, dal 2015 i flussi finanziari globali hanno preso nuove direzioni. Nel 2022, alla Cop27 di Sharm el-Sheikh, si è reso operativo il “Fondo per Perdite e Danni” (Loss and Damage Fund), primo strumento di solidarietà verso i Paesi più colpiti dagli impatti climatici. Nel 2024, alla Cop29 di Baku, un nuovo obiettivo di finanza climatica ha impegnato i Paesi più ricchi a mobilitare 1.300 miliardi in finanza per il clima entro il 2035.

Molto resta da fare soprattutto per finanziare l’adattamento. Alla Cop30 di Belém, i Paesi rimarranno sulla rotta tracciata in questi dieci anni, nonostante l’opposizione americana? Molto dipenderà da nuove alleanze e compromessi, inclusa una cooperazione lucida e selettiva tra Europa e Cina. Dieci anni dopo l’Accordo di Parigi, il mondo non ha ancora risolto la sfida climatica, ma ha mostrato che può farlo. La bussola del clima esiste: basta seguirla.

(*Luca Bergamaschi, esperto di politica energetica, è cofondatore e direttore esecutivo di Ecco, il think tank italiano per il clima)


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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