A un certo punto la regista Ilaria Congiu si è sentita “tonno”. Come quelli nelle gabbie che ha osservato con i suoi occhi, “che probabilmente continuavano a girare in tondo senza sapere di essere in trappola e che per loro era finita”. Così ha deciso di far atterrare tutto quello che aveva imparato dalla sua particolare esperienza di vita, compresa la professione del padre, all’interno di un docufilm per raccontare proprio come la natura – ma anche noi stessi – sia finita in una trappola le cui sbarre sono fatte dall’inquinamento, dalla sovrapesca industriale e dalla crisi del clima che l’uomo stesso ha alimentato. Il suo primo film si chiama “Breath” e la giovane regista debutterà nelle sale il 5 maggio con un documentario di 72 minuti prodotto da Mediterraneo Cinematografica, TVCO, Propaganda, TBC Productions e distribuito dalla Mescalito Film col patrocinio di Legambiente Italia e Extinction Rebellion Italia. Nella pellicola ci sono le contraddizioni del “respiro” di un mare che Congiu, nata in Senegal e dopo l’adolescenza passata in Italia, ha visto radicalmente cambiare nei suoi costanti ritorni in Africa. Come, lo racconta a Green&Blue in vista dell’esordio della sua prima opera.
Come nasce l’idea di Breath?
“Direi che è stata una semina di più anni. Sono sempre stata educata all’attenzione per l’ambiente: sono cresciuta a contatto con i pescatori e sempre in acqua, vista la passione per il surf e anche per la subacquea, ma solo nel tempo mi sono resa conto della necessità di raccontare i cambiamenti in atto”.
La sua è una storia particolare. Nasce in Senegal, poi torna in Italia, poi di nuovo in Africa per girare, sempre con il filo conduttore del mare.
“Sì sono nata a Dakar perchè mio padre negli anni Ottanta si è trasferito lì e ha iniziato a lavorare nel mondo della pesca: non ha pescherecci ma gestisce camion, lavora esclusivamente con i pescatori locali che pescano dalle piroghe e compra da loro, poi esporta grazie ai trasporti in Italia. Sulle spiagge, in Senegal, ci sono dei broker che fanno direttamente le trattative e io sono cresciuta in quel mondo fino a 14 anni quando sono andata a vivere in Italia e a studiare poi giornalismo e cinema”.
Oggi, dopo anni di distanza, come è cambiato il mare?
“Ai tempi il Senegal era meno sviluppato e tutto ruotava attorno al mare. Da piccola andavo a surfare con gli amici e ricordo bene come fossimo sempre circondati da piccoli squali innocui: adesso per vederne uno ci vuole una enorme fortuna, cosa che posso confermare dato che faccio subacquea e spesso mi immergo. I fondali sono radicalmente cambiati, impoveriti, i livelli di inquinamento e rifiuti sono altissimi. Oggi il mare è qualcosa da sfruttare senza capire i danni che facciamo a noi stessi. La svolta per me è arrivata mentre facevo l’inviata per un programma tv e mi trovavo su una nave di Sea Shepherd: mi sono trovata davanti alla gabbia dei tonni. Fu una scintilla: mi sono sentita tonno, con la sensazione di girare in tondo come loro, senza sapere di essere in una gabbia. Ero parte del sistema che portava a tutto questo. Da lì ho iniziato a scrivere questo docufilm”.
Tornando in Senegal cosa ha visto?
“Mi hanno colpito le taglie dei pesci, sono diminuite tantissimo. Quando ero piccola le seppie, i pesci, erano davvero più grandi. E poi c’è una cosa che mi ha colpito ancor di più, me l’ha segnalata mio padre: all’interno dei mercati senegalesi dove si vende pesce, quello dove gli stessi locali comprano, non vendono più pesce senegalese ma cinese. Lo trovo pazzesco. In pratica Paesi come la Cina comprano il pesce nobile del Senegal e in cambio danno pesci surgelati di minore qualità e che costano meno, tanto che sono gli unici che i senegalesi si permettono. Sono proprio andata a girare fra i banchi del pesce surgelato pensando al fatto che per i senegalesi il 70% delle proteine arriva dal pesce, un bene molto importante, che però ora va tutto all’estero”.
Di quali altri temi tratta il docufilm?
“Cerco di raccontare l’importanza dei pescatori artigianali, quelli che ancora rispettano il mare a differenza della pesca industriale o la sovrapesca. L’idea è spiegare come interagiscono fra loro cambiamento climatico, inquinamento e pesca, e come impattano. Tratto tutti e tre i temi ma soprattutto parlo delle ripercussioni sociali della pesca. Le risposte non sono mai chiare e tonde, per quelle esistono gli scienziati, ma mostro punti di vista e contraddizioni. Volevo solo far capire che non esiste un solo colpevole ma siamo tutti responsabili e che abbiamo tutti un impatto, anche solo respirando”.
E poi c’è il problema della plastica…
“C’è un enorme problema da inquinamento da plastica ma non viene affrontato. Alcune persone provano a fare sensibilizzazione e parlare con la gente, invitandole a usare meno plastica, ma resta un problema così grande che non trova soluzioni immediate. La plastica in certe zone è come se fosse parte del paesaggio”.
Nel film lei intervista e ragiona anche con suo padre, che è parte del mondo della pesca.
“Sì, e mi risponde sia da padre che da cittadino che da persona che lavora nel mondo della pesca. Ovviamente porta le sue sensazioni, parla delle sue responsabilità e nel film è importante il confronto che mostriamo, affrontando sia problemi che possibili soluzioni. Ma non voglio svelare troppo”.
Infine ci sono le storie dei pescatori, dei figli del mare, dall’Italia all’Africa. Sono tutte accomunate dallo stesso “respiro”?
“Direi più dal concetto di soffocamento: senza il mare noi non respiriamo ma nel frattempo stiamo soffocando il mare. Il mare ci dà respiro e noi glielo togliamo ma in questo vortice soffocante di sopra informazioni, di notizie e cambiamenti su come sta il Pianeta, non troviamo mai soluzioni. Alcuni spunti, tento di offrirli proprio ascoltando il punto di vista dei pescatori artigianali in Senegal: ci sono senegalesi, ma anche italiani e tutti quanti sono accomunati dallo stesso problema, dalla stessa difficoltà di respirare”.