Si chiamano metallofite e sono piante post-industriali. Crescono sui terreni contaminati dai metalli pesanti delle miniere abbandonate dove la concorrenza con altri simili è ridotta all’osso. Sono organismi pionieri e possono ridurre la carica tossica dei suoli o assorbire gli inquinanti contribuendo a risanare l’ambiente. Sono comuni tra la vegetazione autoctona del Mediterraneo. In Sardegna, dove le prime attività estrattive risalgono al Neolitico, l’Università di Cagliari ha catalogato 510 specie e 144 sottospecie della flora di questi habitat artificiali. Negli ultimi cinquant’anni le aree estrattive in Sardegna si sono pian piano rinaturalizzate in forma spontanea, senza aiuti esterni. Discariche, bacini, accumuli di materiale inerte sono stati colonizzati prima da erbacee poi da arbusti creando, in alcuni casi, una macchia verde in un’oasi grigia. Tra queste piante ci sono anche orchidee, forse un po’ più minute rispetto a quelle che fioriscono in condizioni meno stressanti, ma la maggior parte appartengono alla famiglie botaniche delle Fabacee, in cui ci sono anche la fava e il fagiolo, e delle Asteracee a cui appartiene la margherita comune.
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Oltre a catalogare le piante che sopravvivono su questi manufatti di archeologia industriale la ricerca, pubblicata sul numero di aprile della rivista internazionale Plants ne ha anche esaminato il potenziale per gli interventi di fitorisanamento. “Una delle più promettenti è il lentisco (Pistacia lentiscus), un arbusto sempreverde ad ampia distribuzione mediterranea in grado di vivere centinaia di anni e di diventare di grandi dimensioni. – spiega Gianluigi Bacchetta, docente di botanica all’ateneo cagliaritano e coordinatore dello studio condotto dal Centro conservazione biodiversità e dalla Banca del Germoplasma della Sardegna – Le radici del lentisco rilasciano sostanze che si legano con minerali come piombo e zinco accumulati sulla superficie e ne azzerano la componente tossica bloccando qualsiasi possibilità di trasferimento degli inquinanti alla catena alimentare”. Questo processo naturale di catarsi chimica offre a questa categoria di piante un’opportunità per sopravvivere tra i ruderi delle miniere. L’apparato radicale del lentisco, come di altre piante, riduce anche i rischi idrogeologici perché è in grado di stabilizzare i versanti e limitare l’erosione.
Il 13% della flora delle miniere è composto da endemismi vegetali. Simile al lentisco, in termini di servizi ecologici, è l’elicriso tirrenico (Helichrysum microphyllum subsp. tyrrhenicum), una specie che in natura cresce solo in Sardegna e in Corsica. “Un discorso diverso vale per due endemiti vegetali come Iberis integerrima, presente solo sul territorio sardo, e Limonium merxmulleri che ha un’areale di pochi chilometri quadrati, la cui unica popolazione si trova esclusivamente nel Bacino San Giorgio nell’Iglesiente, il più importante centro minerario della regione attivo fino crica a quarant’anni fa”, aggiunge il botanico.
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Oltre a bloccare gli inquinanti queste specie di piante metallofite possono assorbirli e trasferirli alle radici o nelle foglie tanto che si chiamano fitoaccumulatori e, in alcuni casi, iperaccumulatori. Rispetto al lentisco e all’elicriso i limiti di queste piante, in termini di applicazioni industriali per il risanamento dei suoli inquinati, sono le misure ridotte e un ciclo di vita piuttosto breve. “Il potenziale di queste piante per le applicazioni di fitorisanamento del suolo supera i confini della nostra isola perché sono adattate anche a condizioni di siccità prolungata. – conclude Bacchetta – Se sopravvivono in condizioni così estreme a maggior ragione si possono coltivare in aree continentali con clima più temperato”. Anche in altri siti minerari dell’area mediterranea ci sono specie endemiche delle miniere abbandonate che hanno un potenziale in termini di fitorisanamento. Come un’erica della penisola iberica (l’arbusto Erica andevalensis), e diverse specie di erbacee dei generi Onosma, Alyssum e Odontarrhena.