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“Dobbiamo capire che non esiste business in un Pianeta morto”

“Dobbiamo imparare a capire che non esiste business in un Pianeta morto. La nuova narrativa in atto con Trump e anche in Europa è molto pericolosa: stiamo prendendo troppo dalla Terra, svegliamoci”. Parole del Ceo di Patagonia, il marchio più sostenibile del Pianeta. Nella sede di Patagonia a Ventura, in California, sono abituati a parlare pochissimo. Yvon Chouinard, lo storico fondatore del brand, raramente ha rilasciato interviste: l’ultima volta fu con il New York Times per annunciare la sua intenzione – senza precedenti – di cedere le azioni dell’azienda per mettere come “primo azionista il Pianeta” per il bene dell’ambiente.

Tre anni dopo quella scelta ora un nuovo vento – più nero che verde – preoccupa Patagonia. Mentre la crisi del clima avanza inesorabile, Donald Trump sta infatti smantellando ogni politica verde per puntare su petrolio e combustibili fossili e anche in Europa i profitti sembrano spesso venire prima dell’esigenze della natura. Da sola, una singola azienda, difficilmente può guidare un cambiamento: “Serve una risposta collettiva”. Per questo il Ceo Ryan Gellert – ora alla guida di Patagonia – ha deciso di parlare con Green&Blue e scendere in prima linea: non solo per tentare di salvare gli ultimi fiumi selvaggi rimasti in Europa, tra cui il nostro Tagliamento, ma anche per mandare un messaggio all’amministrazione Usa alle altre aziende e ai cittadini, prima che sia troppo tardi.

Stiamo vivendo una crisi ambientale senza precedenti. Eppure, sia la politica che le aziende non riescono a dare risposte concrete. Cosa vorrebbe dire ai suoi colleghi e a chi l’ascolta?

“Inizierei sollevando la questione in modo più ampio, ricordando che innanzitutto su un Pianeta morto non si possono fare affari, non esiste business, punto e basta. Ma voglio anche precisare che il problema non riguarda il futuro di governi, aziende, o altro, ma quello degli esseri umani. Viviamo su questo Pianeta, dipendiamo da questo Pianeta: dovrebbe essere nel nostro interesse proteggere quanto di più prezioso abbiamo. Ogni nostro ricordo più bello della vita è spesso legato alla natura, a luoghi selvaggi. Per avere ancora questi ricordi, non c’è un singolo componente che può agire, ma tutti e tre insieme: i governi, le aziende, la società civile. Negli ultimi anni avevamo iniziato a provarci, ma ora la narrazione è totalmente cambiata: dall’idea di proteggere siamo passati alla narrativa popolare contrapposta, ovvero che dobbiamo estrarre e prendere il più possibile dalla Terra per far crescere le economie”.

Questo la spaventa?

“Sì, mi spaventa molto. Mi spaventa soprattutto il fatto che si stia perdendo fiducia nella scienza. Per esempio la scienza della conservazione è il fondamento per cercare di proteggere l’aria pulita, l’acqua, i suoli. La scienza è composta di fatti, non di opinioni. Invece ora ci basiamo più sulle opinioni. Chiunque ha diritto alla sua opinione sulle cose, ma non a mettere insieme un proprio insieme di fatti, se non è uno scienziato. E invece questo sta avvenendo: quello per cui dobbiamo lavorare dunque, soprattutto ora con le attuali pressioni sulla Scienza negli Usa e altrove, è tornare ad essere d’accordo sui fatti, sul metodo scientifico, e seguire quella direzione al di là delle questioni economiche. E’ esattamente quello che sta succedendo con il fiume Vjosa in Albania. Un luogo che a parole sarà protetto, ma a fatti meno” .

Il caso

“Ci rubano l’acqua per il turismo di massa”. A rischio uno degli ultimi fiumi selvaggi d’Europa

27 Luglio 2024

Anche grazie al vostro supporto infatti l’ultimo fiume selvaggio d’Europa, il Vjosa in Albania, è stato – per ora – salvato e inserito all’interno di un Parco nazionale dopo anni di battaglie. Adesso però rischia nuovamente di essere messo da parte per il profitto?

“Come Patagonia abbiamo deciso di impegnarci per una causa, ascoltando appunto la comunità scientifica che ci ha mostrato la straordinaria biodiversità del Vjosa e perché era importante proteggerlo. Da sempre, proteggere fiumi fa parte della nostra storia, i primi progetti in tal senso risalgono a 25 anni fa: aiutare la conservazione è nel nostro Dna. In Europa ci eravamo resi conto che ormai pochissimi fiumi erano ancora non canalizzati, oggetto di dighe o di attività umane. Così siamo entrati in contatto con le comunità e le associazioni dei Balcani e di coloro che proteggono i fiumi anche in Albania, come il Vjosa. All’inizio, con il governo albanese, avevamo un rapporto conflittuale, poi però le cose sono cambiate e collaborando si è arrivati alla dichiarazione del del Parco Nazionale del Fiume Selvaggio di Vjosa, poi è stato realizzato un piano di gestione e nominato un direttore. Successivamente però le cose si sono fermate e ci sono vari motivi di preoccupazione per il futuro: rischia di essere un Parco protetto solo sulla carta. Noi siamo qui per sostenerli, ma siamo anche frustrati perché non abbiamo la sensazione che la nostra offerta di sostegno venga presa sul serio”.

In che senso?

“Nel senso che c’è un reale scarso impegno nel proteggerlo davvero, sempre per via del profitto: abbiamo documentato come continue pressioni da parte delle industrie estrattive, a causa dell’espansione delle infrastrutture e di uno sviluppo condotto in modo scorretto, stiano mettendo a rischio l’integrità ecologica del parco e il suo valore di riserva di rilevanza globale. Se il governo albanese continuerà a ignorare questi avvertimenti, il Vjosa rischia di diventare un “parco di carta”, protetto nella legge ma non tutelato nella realtà dato che continuano ad esserci operazioni di estrazione petrolifera, lavorazione del bitume e di ghiaia, estrazione dell’acqua per favorire a valle il turismo di massa. Per questo stiamo chiedendo al governo di applicare norme stringenti contro le attività estrattive, di monitorare il fiume e di impegnarsi davvero a conservarlo. Siamo un punto critico: o resterà un parco sulla carta oppure potrà essere davvero il primo parco in Europa in grado di proteggere un fiume selvaggio”.

Perché oggi proteggere la natura sta diventando più complesso?

“Perché è più facile ascoltare gli interessi dell’industria estrattiva, del turismo di massa e di altro, anziché quelle degli individui o delle comunità locali che si battono per la protezione. E’ molto complesso navigare fra i vari interessi in ballo anche perché tendiamo a vedere esseri umani e natura come due aspetti separati dove bisogna trovare un equilibrio. E poi diciamolo chiaramente: nella conservazione bisogna vincere ogni singolo giorno, mentre nel gioco dello sviluppo economico a volte basta vincere una sola volta. Se si ottiene il permesso per costruire una diga verrà realizzata e magari mai rimossa per una vita intera”.

A proposito di dighe: Patagonia è al fianco anche di chi lotta per evitare nuove infrastrutture artificiali sul fiume Tagliamento in Italia.

“Sì, stiamo lavorando per proteggere il fiume Tagliamento nel nord Italia che è minacciato dall’idea di nuove dighe: è un’iniziativa in cui siamo coinvolti. Si tratta di un fiume eccezionale che va protetto. Così come siamo impegnati contro gli allevamenti di salmoni in mare aperto in Islanda, oppure contro le minacce alle terre pubbliche in Nord America. Quello che proviamo a fare, sempre ascoltando la scienza, è aiutare le comunità locali. Ad oggi lavoriamo con circa 1000 organizzazioni globali”.

Già, anche perché la direzione intrapresa da Donald Trump al grido di “trivellare, baby, trivellare”, è chiarissima.

“Tra movimenti anti-scienza e smantellamento di diverse politiche verdi io penso che oggi sia in corso una narrazione assurda oltre che pericolosa. Qui negli Stati Uniti si parla molto di deregolamentazione, che in sostanza è la scusa per poter fare quello che vogliono, per esempio a livello estrattivo. Invece avremmo bisogno di una narrazione opposta, chiamatela ambientalismo o come volete, ma che ci ricordi sempre di dover proteggere l’aria pulita, l’acqua pulita, il suolo. Non credo ci sia nessuno su questo Pianeta che non ne veda il valore”.

A novembre in Amazzonia, in Brasile, si terrà la COP30, grande conferenza planetaria su clima e ambiente. Che speranze ha per questo appuntamento?

“Penso che questo processo e processi simili siano davvero importanti ma è abbastanza chiaro che non sono affatto sufficienti, per cui non ripongo le mie speranze in un unico insieme di incontri. Di certo non guardo ai prossimi incontri in Brasile con una speranza smisurata e penso che il fatto che gli Stati Uniti non ne faranno parte (Trump ha optato per l’uscita dall’Accordo di Parigi sul clima, ndr) sia davvero scoraggiante. Dunque dico che sì, è importante, ma non che ripongo le mie speranze”.

E quindi, concludendo, come crede che oggi si possa veramente cambiare marcia mettendo – come ha fatto Patagonia – il Pianeta come “primo azionista”?

“Con la collettività. Sa, è un po’ come con il fiume Vjosa: si lotta quotidianamente per proteggerlo ma non so se si riuscirà mai veramente a vincere la battaglia. Ci vuole tempo per costruire un cambiamento, solo che ora – sia per quell’ecosistema che per la Terra – ci sono così tante minacce imminenti che siamo davvero sull’orlo di un precipizio. Per cui penso che in primis dobbiamo lavorare tutti insieme per affrontarle e in secondo luogo dobbiamo trovare il modo di affrontarle rapidamente, cosa che però, purtroppo, non si sta verificando”.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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