6 Novembre 2025

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    Il premio Nobel Omar Yaghi: “Ecco come catturiamo la CO2 dall’atmosfera”

    Omar Yaghi ha appena vinto il Nobel per la Chimica. Ma il suo è soprattutto un messaggio di pace. Quando gli si chiede una opinione su Gaza, viste le sue origini palestinesi, risponde: “Dobbiamo proteggere la sacralità della vita umana. E rifiutare la violenza, in tutte le sue forme. Per me la scienza è un linguaggio che può superare ogni barriera. È anche per questo che abbiamo bisogno della scienza: per educare le nuove generazioni, per impegnare le persone in attività che favoriscano la loro crescita intellettuale, per dialogare con coloro che percepiamo come avversari”. A lui è successo: la scienza l’ha salvato.

    Nato in Giordania da una famiglia di rifugiati palestinesi, ha avuto una infanzia difficile, è volato negli Stati Uniti che era poco più di un bambino, ha lavorato e studiato duramente, fino a ottenere, a soli 60 anni, il più ambito riconoscimento per chi fa ricerca. La Reale Accademia Svedese lo ha premiato, insieme a Susumu Kitagawa e Richard Robson, per aver sviluppato “strutture metallorganiche” o Mof (Metal-organic framework). Dal 2012 insegna chimica alla Berkeley University, in California, ma i suoi studi lo hanno condotto spesso anche in Italia. “Collaboro da anni con Davide Proserpio dell’Università di Milano”, ricorda. E lo scorso dicembre ha ricevuto al Quirinale, presente Sergio Mattarella, il premio Balzan per lo “sviluppo di materiali nanoporosi per applicazioni ambientali”(l’undicesimo Premiato Balzan a prendere il Nobel). La prossima settimana sarà di nuovo a Roma per l’Apertura dell’Anno accademico ai Licei.

    Professore Yaghi, ci spiega cosa sono i Mof?
    “Materiali nei quali ci sono metalli che collegano tra loro molecole organiche, basate cioè sul carbonio. Le strutture così ottenute hanno spazi al loro interno. E dentro quegli spazi si possono intrappolare altre molecole. E’ possibile realizzare Mof ‘su misura’, a seconda della applicazione che se ne vuole fare, per catturare specifiche molecole. L’acqua presente nell’aria, anche in zone desertiche, per risolvere il problema della sete. La CO2 che è in atmosfera e innalza le temperature. Inquinanti presenti nelle acque di fiumi e mari. O anche sostanze tossiche che contaminano il sangue umano”.

    Tutto questo è teoria o realtà? I dispositivi basati sui Mof sono prototipi o già esistono in commercio?
    “Non parliamo di fiction, ma di realtà: noi possiamo già connettere le molecole ai materiali, ai dispositivi e infine alla società. Ci sono già Mof che sono commercializzati e utilizzati nei cementifici, tra gli impianti industriali con le maggiori emissioni di CO2. Per quanto riguarda il prototipo che abbiamo sperimentato nella Death Valley per catturare acqua dall’aria, esso sarà commercializzato a partire dal prossimo anno”.

    Molta speranza è riposta su questi materiali, proprio per la cattura del carbonio presente in atmosfera. Finora le tecniche di carbon capture si sono rivelate troppo costose. In cosa consiste la novità introdotta dai Mof?
    “Le vecchie tecniche di cattura della CO2 richiedono tantissima energia. Con i Mof in alcuni casi può bastare il calore generato dalla stessa industria che deve catturare la CO2, calore che altrimenti andrebbe disperso. Ma non esiste la soluzione miracolosa e immediata, serve un po’ di tempo. Però da un punto di vista scientifico, noi pensiamo di avere la carta vincente per la cattura della CO2. Tutto il resto è ottimizzazione commercializzazione”.

    Lo sviluppo dei Mof risale alla fine degli anni Novanta. A cosa lavora oggi?
    “Già nel 2005, con il mio team, abbiamo inventato i Cof, i framework organici covalenti. E questi materiali si sono rivelarti essere i migliori in assoluto nella cattura della CO2. Stiamo cercando di renderli meno costosi e di industrializzare il processo in modo da passare da alcuni chili di CO2 catturata a molte tonnellate. Siamo sulla buona strada”.

    Una strada iniziata sessanta anni fa ad Amman…
    “Sì, è lì che sono nato, cresciuto e mi sono innamorato della chimica all’età di dieci anni”.

    Come si è trasferito negli Stati Uniti?
    “Fu mio padre a incoraggiarmi. L’aveva fatto anche con i fratelli maggiori, e in effetti uno di loro già viveva negli Usa. Lo raggiunsi, ma dopo il primo anno dovetti trovare lavoro in un supermercato per mantenermi. Non ho frequentato la high school, ma un community college (una alternativa economica alle università e alle scuole professionali private, ndr). Ero il più piccolo della classe”.

    Con queste premesse, come ha fatto ad arrivare al Nobel?
    “Le avversità dell’ambiente circostante non mi hanno fermato. Mi è stato insegnato che se lavori duro sarai valutato per il tuo lavoro. Quando negli Usa me ne è stata data l’opportunità, ho passato così tanto tempo in laboratorio: era impossibile portarmi via da lì. Penso che sia stata proprio questa passione a permettermi di sopravvivere ai tanti fallimenti e di affrontare comunque grandi sfide. Come creare i Mof: all’epoca tutti pensavano che fosse impossibile realizzarli”.

    Come vive le sue origini palestinesi?
    “I media mondiali hanno alimentato un equivoco e vorrei che Green&Blue e Repubblica mi aiutasse a chiarirlo. In molti resoconti giornalistici è stato detto che sono originario di Gaza, lo riporta anche Wikipedia. E’ sbagliato: la mia famiglia viveva nella ‘vecchia Palestina’, in una città che si chiamava Masmiya, tra Giaffa e Gerusalemme. Poi si sono trasferiti in Giordania nel 1948, con la nascita di Israele. Sono orgoglioso delle mie origini palestinesi, della mia famiglia, dell’essere nato e cresciuto in Giordania, della cittadinanza onoraria saudita, dell’essere un cittadino statunitense”.

    La sua storia può essere di incoraggiamento per il tanti bambini palestinesi che hanno sofferto in questi anni di conflitto? “Avere una infanzia molto faticosa, può produrre grande determinazione. Da bambino per frequentare la scuola dovevo camminare tre chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. E se pioveva stavo con i vestiti bagnati in classe tutto il tempo. Ma considero comunque la mia una vita benedetta”. LEGGI TUTTO

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    Cosa coltivare nell’orto a novembre

    Novembre è il mese del riposo per molti orti, ma non per tutti. Se pensate che l’autunno sia sinonimo di terreno incolto e attività ridotta, vi state sbagliando: esistono infatti numerose coltivazioni adatte a questa stagione, capaci di arricchire la tavola e preparare il terreno per la primavera. In questo articolo scopriremo cosa coltivare nell’orto a novembre, con consigli pratici per chi vuole mantenere viva la propria produzione orticola anche in pieno autunno.

    L’importanza di pianificare l’orto a novembre
    Prima di piantare, è fondamentale comprendere il ruolo di novembre nell’orto. Il clima più freddo e le giornate più corte richiedono una strategia precisa: alcune piante necessitano di protezione, altre possono essere seminate direttamente in piena terra. Pianificare l’orto a novembre significa anche proteggere le colture già presenti, migliorare il terreno e prepararlo per i raccolti futuri. Lavorare a novembre offre vantaggi unici: il terreno è spesso meno secco, l’umidità favorisce la germinazione e alcune piante resistono bene al freddo. Non dimenticate inoltre di considerare le gelate notturne, che possono compromettere le coltivazioni più delicate.

    Verdure da semina autunnale: cosa piantare a novembre
    Anche a novembre si possono seminare diverse verdure, soprattutto quelle resistenti al freddo. Tra le più indicate ci sono:
    Spinaci: si adattano bene ai climi freddi e possono essere seminati direttamente in terra. Richiedono un terreno fertile e ben drenato;
    Insalata invernale: lattuga, valeriana e soncino possono essere seminati sotto tunnel o in vaso, garantendo raccolti fino a dicembre;
    Cavoli e broccoli: ideali per chi vuole un orto pronto per l’inverno. Piantarli a novembre permette di ottenere ortaggi robusti e saporiti;
    Piselli da raccolta precoce: alcune varietà resistono al gelo e possono essere seminate direttamente in piena terra per raccogliere in primavera.

    Tecniche di semina invernale
    Per ottenere buoni risultati a novembre, è utile adottare alcune tecniche specifiche. Tra queste compaiono la semina sotto serra o tunnel, la pacciamatura e la scelta di varietà resistenti. Andando ad analizzarle una per volta, scopriamo che: la prima protegge le piantine dal freddo e accelera la germinazione, la seconda consiste in uno strato di paglia o foglie secche per mantenere il terreno umido e per riparare le radici dal gelo, mentre la terza consiste nello scegliere sementi specificamente volte a resistere al freddo e agli sbalzi di temperatura tipici del periodo.

    Coltivazioni in vaso e balcone a novembre
    Non tutti hanno un orto ampio: chi dispone solo di balconi o piccoli spazi può comunque coltivare diverse verdure. Ad esempio, l’orto in vaso nel mese di novembre può includere: erbe aromatiche come rosmarino, timo e salvia, capaci di resistere bene al freddo. Ottime anche le cipolle e l’aglio, che possono essere piantati in vaso e raccolti in primavera. Perfetti per l’autunno anche i cavoli ornamentali, che oltre a decorare, possono essere utilizzati in cucina. Curare le coltivazioni in vaso a novembre significa anche proteggere i vasi dal gelo: avvolgere i contenitori con tessuto non tessuto o spostarli in zone riparate può salvare le piante più delicate. Il freddo può diventare nemico delle piante, quindi la prevenzione è sempre un’ottima via.

    Raccolti autunnali: cosa raccogliere nel mese di novembre
    Novembre non è solo il mese della semina, ma anche un periodo importante per raccogliere gli ortaggi maturi. Le zucche e le zucchette, ad esempio, mostrano tutta la loro resistenza al freddo e possono essere conservate per mesi. Il terreno fresco, invece, mantiene croccanti radici come carote e barbabietole, rendendo ancora più piacevole il loro consumo. Anche cavoli e verze raggiungono la piena maturazione in questo periodo, perfetti per minestre e zuppe calde, e alcune varietà riescono a restare in campo senza problemi, anche sotto la prima neve leggera. Infine, radicchi e cicorie completano il panorama dei raccolti autunnali, offrendo un tocco di colore e sapore all’orto di fine stagione.

    Conservazione dei raccolti
    Dopo la raccolta, gli ortaggi autunnali richiedono cure specifiche per garantirne la durata. Le cantine fresche e asciutte rappresentano l’ambiente ideale per zucche, carote e cavoli, mentre alcune verdure come spinaci e broccoli possono essere sbollentate e conservate in freezer per avere prodotti freschi anche nei mesi successivi. Chi ama la cucina creativa può trasformare zucche e altre verdure in marmellate, sottaceti o zuppe pronte, assicurandosi così di sfruttare al meglio i prodotti più deperibili e di ridurre gli sprechi.

    Preparare il terreno per il prossimo anno
    Novembre è il momento giusto per dedicarsi alla cura del suolo, lavorandolo, arricchendolo e proteggendolo dai danni causati dall’inverno. L’apporto di sostanze organiche come letame e compost migliora la fertilità del terreno, mentre la pacciamatura o le colture di copertura aiutano a prevenire l’erosione e a mantenerlo morbido e fertile. Una leggera lavorazione, infine, aiuta a ridurre il compattamento e facilita il drenaggio dell’acqua piovana, preparando così l’orto a una primavera rigogliosa e a raccolti più abbondanti.

    Errori comuni da evitare
    Coltivare l’orto a novembre richiede attenzione a piccoli dettagli che possono fare la differenza. Seminare piante non adatte al freddo espone le coltivazioni al rischio di gelate premature, mentre trascurare l’irrigazione può compromettere la crescita di alcune specie che, nonostante il clima più fresco, hanno ancora bisogno di acqua regolare. Anche la protezione dal vento e dal gelo è fondamentale: tunnel, pacciamatura e tessuti protettivi sono strumenti preziosi per salvaguardare le piante più delicate. Evitare questi errori permette all’orto di restare produttivo fino a dicembre e di prepararsi al meglio per la stagione successiva.

    Novembre non è un mese morto per l’orto
    Coltivare nell’orto a novembre significa sfruttare il periodo autunnale per seminare, raccogliere e preparare il terreno. Nonostante le giornate corte e il clima più rigido, le possibilità sono molteplici: verdure resistenti al freddo, raccolti autunnali e piante in vaso possono garantire ortaggi freschi fino all’inverno. Con una pianificazione attenta, la scelta delle varietà giuste e le giuste tecniche di protezione, novembre diventa un mese di lavoro prezioso per ogni appassionato di orticoltura. Preparare oggi l’orto significa raccogliere domani: e in questo periodo dell’anno, anche il più piccolo seme può trasformarsi in una grande soddisfazione. LEGGI TUTTO

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    Influenza aviaria, strage di elefanti marini in Patagonia

    L’epidemia di influenza aviaria, che da anni colpisce uccelli selvatici e allevamenti in tutto il mondo ha compiuto un salto di specie devastante. In Argentina migliaia di elefanti marini del sud (Mirounga leonina) sono stati trovati morti lungo le spiagge di uno dei paradisi naturalistici più famosi: la Penisola Valdés. Ad ucciderli un’epidemia di influenza aviaria (H5N1).

    Secondo uno studio coordinato dall’università della California, Davis e dal Wildlife Conservation Society il virus avrebbe ucciso quasi il 97% dei cuccioli. Un evento senza precedenti che potrebbe portare al declino irreversibile degli elefanti marini nel sud in Argentina, con conseguenze a catena su tutto l’ecosistema.
    “È un disastro ecologico di proporzioni inedite per i mammiferi marini. Quando si rimuove una massa così grande, si sconvolge completamente l’equilibrio dell’ecosistema”, ha spiegato Marcela Uhart, veterinaria specializzata in fauna selvatica presso l’università della California, Davis intervistata dalla Bbc.

    “Nessun’altra specie può sostituire gli elefanti marini nell’oceano”. Non solo. Secondo Elizabeth Ashley, ricercatrice della stessa università americana: “La moria di massa registrata tra gli elefanti marini nella Penisola di Valdés potrebbe essere solo la punta dell’iceberg dell’impatto complessivo dell’influenza aviaria sulle foche e sui leoni marini di tutto il mondo, e sulla vita oceanica in generale”. Da tenere poi conto che si tratta dell’unico luogo di riproduzione continentale per la specie, dichiarato dall’Unesco, Patrimonio dell’umanità.
    Il virus che arriva dal cielo
    Con una lunghezza massima di 5,8 metri e un peso di circa 3,700 chili gli elefanti marini del sud sono la specie di foca più grande del mondo. Trascorrono la maggior parte del tempo in mare, ma una volta all’anno migliaia di esemplari si radunano per riprodursi lungo la costa patagonica argentina. Il primo caso di influenza aviaria su questi mammiferi è stato scoperto nel 2023 quando furono trovate centinaia di foche adulte e neonate morte sempre sulla Penisola di Valdés.

    Le analisi genetiche indicarono come il virus (rilevato per la prima volta nel pollame nel 1996) prima si era trasmesso e diffuso velocemente tra gli uccelli selvatici, poi dal 2022 mutazioni successive ne hanno facilitato il passaggio agli elefanti marini.

    I ricercatori, non sanno ancora spiegare come avviene la trasmissione tra le due specie (se per via aerea oppure attraverso le feci o la saliva) ma ritengono responsabili di aver diffuso l’influenza aviaria, gli uccelli marini migratori, come gli stercorari e le procellarie giganti, che si nutrono delle carcasse infette di altri uccelli o mammiferi. Spesso colonie di questo tipo di uccelli marini, infatti, si riproducono proprio lungo le coste della Penisola di Valdés. Ed è in quel momento che gli elefanti marini entrano in contatto con uccelli infetti. Secondo gli scienziati californiani, una volta contagiati gli adulti, il virus viene trasmesso dalla madre ai cuccioli attraverso la placenta e il latte. Hanno anche notato che il virus è in grado di risalire al contrario: dalle foche agli uccelli.

    Biodiversità

    La maggior parte dei pesci negli acquari marini viene catturata in natura

    di Marta Musso

    08 Ottobre 2025

    Crisi del clima e contagio, la tempesta perfetta
    Il colpo inferto a queste colonia è tragico. Sulla base dei dati nuovi e storici, gli autori della ricerca che hanno monitorato le foche in Argentina sin dall’inizio dell’epidemia, stimano che la popolazione impiegherà probabilmente almeno 70 anni per tornare ai livelli precedenti , sempre che non si verifichino altri problemi ambientali o epidemie. “Eventi come questo dimostrano come il cambiamento climatico e la diffusione dei virus possano combinarsi in una tempesta perfetta per la fauna marina”, spiegano gli autori dello studio. Nel frattempo, secondo le ultime scoperte, il numero totale di maschi alfa è diminuito del 43% (da circa 450 a 260), mentre le femmine adulte sono diminuite del 60% (da circa 12 mila a 4.800), rispetto alle stagioni pre-pandemiche. Anche la prole annuale è diminuita di quasi due terzi, da circa 14 mila a soli 5 mila.

    “Prima del 2023, era impossibile pensare che una popolazione sana come quella della Penisola di Valdés potesse essere messa a rischio da un anno all’altro”, afferma la biologa Valeria Falabella, direttrice per la conservazione delle coste marine presso WCS Argentina. “Questo è un avvertimento”, aggiunge, sottolineando che il cambiamento climatico comporta ulteriori rischi e incertezze per altre a specie. Ma a preoccupare oggi è il destino degli elefanti marini del sud che registrano il più grande calo demografico finora osservato. “Hanno perso più della metà della loro popolazione adulta e abbiamo bisogno di adulti per mantenere una popolazione in crescita”. L’impatto è stato brutale. LEGGI TUTTO

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    “Con gli algoritmi monitoriamo lo stato della Terra”

    Nel sottobosco, la vita si propaga attraverso segnali silenziosi: una foglia che ingiallisce, una colonia di funghi che si espande, un insetto che scompare da un’area un tempo brulicante. Ogni elemento racconta qualcosa, ma spesso in modo frammentario. È proprio in queste crepe dell’osservazione che l’intelligenza artificiale può inserirsi, ricucendo i dati e restituendo mappe dinamiche della natura. A guidare questa visione è Sašo Džeroski, tra i pionieri dell’Intelligenza artificiale applicata all’ambiente. Dirige il dipartimento di Tecnologie della Conoscenza dell’Istituto Jožef Stefan di Lubiana e spesso insegna all’Università di Trento. In apertura al suo intervento, al summit internazionale AIS252 di Copenaghen, ha posto una domanda: può un algoritmo aiutare a proteggere la biodiversità senza snaturare la relazione tra esseri umani e ambiente?

    Quando l’algoritmo legge il paesaggio
    L’attività di Džeroski spazia dalla modellazione delle dinamiche forestali alla previsione di impatti climatici, passando per l’analisi di dati ambientali su larga scala. “L’intelligenza artificiale può aiutarci a monitorare lo stato dell’ambiente, ad esempio attraverso immagini satellitari”, spiega Džeroski. “È difficile raccogliere dati direttamente nei boschi o in altri ambienti naturali, mentre le immagini da satellite sono disponibili con alta frequenza e grande dettaglio”. Proprio da lì è partita la sua ricerca: osservare i processi di ricolonizzazione spontanea delle foreste sui campi agricoli abbandonati. Un fenomeno osservato in molte aree rurali dell’Europa orientale, dove l’abbandono delle coltivazioni ha permesso il ritorno di ecosistemi boschivi. Oggi quelle stesse tecniche permettono di costruire modelli capaci di leggere e prevedere la trasformazione del paesaggio: ad esempio, di stimare l’altezza e la densità degli alberi e calcolare il rischio di incendi. “Se sai dove le foreste sono più dense o più secche, puoi allertare i vigili del fuoco e la protezione civile”, sottolinea. Una prevenzione guidata dai dati, che permette di anticipare gli impatti.

    Agricoltura, habitat, intelligenza
    Il laboratorio di Džeroski lavora anche su un altro fronte: l’agricoltura sostenibile. “Usare l’intelligenza artificiale in agricoltura significa anche aiutare l’ambiente”, afferma. Il suo gruppo ha sviluppato sistemi di supporto alle decisioni per ridurre l’uso di pesticidi, grazie a previsioni meteorologiche, analisi dei suoli e presenza di insetti dannosi. “Abbiamo realizzato un sistema che suggerisce quando e come intervenire, tenendo conto del tipo di coltura, del meteo e del tipo di infestazione. Così si evitano trattamenti inutili che finiscono per inquinare le acque.” Ma non solo. L’IA viene impiegata per mappare gli habitat delle specie benefiche, come le coccinelle che si nutrono di afidi: “Con l’IA possiamo modellare gli habitat e capire dove creare corridoi ecologici tra i campi”.

    Alberi sotto attacco, algoritmi in aiuto
    L’IA può intervenire anche quando il danno è già in atto. In Slovenia, racconta Džeroski, “i nostri boschi sono attaccati dal bostrico, un insetto favorito dal cambiamento climatico. Usando il telerilevamento e il machine learning possiamo identificare le aree colpite e agire in fretta, prima che l’infestazione si diffonda”. Un nuovo paradigma di gestione forestale, basato sulla previsione. E, soprattutto, sulla capacità di leggere segnali deboli in ecosistemi complessi.

    Intelligenza sì, ma ecologica
    Per Džeroski, la sfida dell’IA ambientale non è solo tecnica, ma anche epistemologica. “I modelli devono essere comprensibili, utili, interpretabili. Se sono troppo complicati, non aiutano chi deve prendere decisioni sul campo.” La tecnologia, insomma, deve restare uno strumento, non sostituirsi alla conoscenza ecologica. E serve anche un cambiamento culturale: costruire sistemi aperti, accessibili, che integrino sapere scientifico, esigenze locali e visione ecologica. Solo così l’AI potrà davvero diventare un alleato della biodiversità.

    Una nuova alleanza
    Nell’epoca dei cambiamenti rapidi e delle crisi interconnesse, l’intelligenza artificiale si rivela uno strumento potente per ascoltare la natura, coglierne i segnali deboli, anticiparne le trasformazioni. Ma la vera sfida resta aperta: usare la tecnologia non per semplificare ciò che è vivo, ma per rispettarne la complessità. Come ricorda Džeroski, “l’IA ci aiuta a comprendere meglio gli ecosistemi, ma anche a gestirli in modo più saggio”. A condizione che resti al servizio della natura, e non il contrario. LEGGI TUTTO

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    Inquinamento, se gli animali domestici diventano “sentinelle” per la nostra salute

    Respirano la nostra stessa aria, spesso bevono la nostra stessa acqua, talvolta dormono nei nostri letti. Così gli animali domestici, cani e gatti in primis, possono aiutarci a decifrare i pericoli che minacciano le nostre vite. Fungendo da vere e proprie “sentinelle” ambientali. Anche in considerazione di alcuni aspetti spesso sottovalutati: gli uccelli, per esempio, sono particolarmente vulnerabili all’inquinamento, estraendo dall’aria quantità di ossigeno, in percentuale decisamente più alta rispetto ai mammiferi. E ancora: cani e gatti sono fatalmente esposti a un rischio maggiore di esposizione a contaminanti chimici potenzialmente cancerogeni, visto che tendono a trascorrere molto tempo a contatto con il suolo, esposti anche alla polvere, dove tendono ad accumularsi metalli i metalli pesanti. E allora perché non approfittarne? Se lo chiede il New York Times, con un articolo che esplora le opportunità di comprensione dell’ambiente che ci circonda attraverso l’aiuto – passivo, s’intende – dei nostri amici a quattro zampe.

    Non mancano, del resto, storie iconiche: nel 2023, per esempio, un treno merci, che trasportava sostanze chimiche tossiche, deragliò nei pressi della cittadina americana di East Palestine, in Ohio. Una catastrofe ambientale dalle ricadute importanti, difficili da quantificare. Gli scienziati si concentrarono allora sui cani, chiedendo ai loro proprietari di applicare speciali targhette in silicone assorbente ai loro collari. Dai risultati preliminari della ricerca è emersa l’esposizione a livelli insolitamente elevati di alcune sostanze chimiche per i cani che vivono in prossimità dell’incidente: ora si indaga sulla possibilità di innesco di alterazioni genetiche associate al cancro. “Studi del genere andrebbero avviati sempre, in occasione di disastri”, ha spiegato al New York Times Elinor Karlsson, genetista presso la UMass Chan Medical School e il Broad Institute. “Del resto – ha aggiunto – gli animali domestici che vivono nelle nostre case sono esposti alle stesse sostanze a cui siamo esposti noi”. Non vi è dunque dubbio, secondo gli scienziati, che capire di più su come l’inquinamento influisca sulla salute degli animali domestici possa fornire spunti in grado di preservarci da malattie e criticità. L’esempio più citato è quello, fortunatamente anacronistico, dei canarini da miniera, uccelli usati nelle miniere di carbone come sistema di allarme per rilevare la presenza di gas tossici come il monossido di carbonio. “Ma in quel caso gli animali venivano sacrificati, con i nostri cani e gatti ciò non accade”, annota Audrey Ruple, epidemiologa veterinaria presso la celebre Virginia Tech.

    Gli incendi e gli effetti sugli amici a quattro zampe
    La letteratura scientifica mostra, del resto, casi in cui gli animali domestici si sono già efficacemente rivelati sentinelle ambientali. E’ per esempio accaduto nel 2020 in California, in occasione di una straordinaria stagione di incendi boschivi. Stephen Jarvis, all’epoca studente, notò che alcuni sintomi (mal di testa, occhi irritati, respiro corto e dolore al petto) lo accomunavano al gatto asmatico del suo compagno Manolo. Così Jarvis, oggi docente alla London School of Economics, si è per così dire illuminato: ha analizzato cinque anni di dati veterinari provenienti da tutta la Gran Bretagna, incrociandoli con i livelli di particolato fine nell’aria, tra i principali inquinanti presenti nel fumo degli incendi boschivi e nocivo per la salute umana. Insieme con un team di ricercatori, ha così documentato come con l’aumento dell’inquinamento atmosferico sia aumentato il numero di visite veterinarie per cani e gatti. Sentenziando che se il Paese mantenesse l’inquinamento atmosferico al di sotto della soglia raccomandata dall’OMS, si potrebbero evitare tra le 80.000 e le 290.000 visite veterinarie all’anno. Con conseguente risparmio economico, tra le altre cose. Una relazione che fa senz’altro riflettere, soprattutto in vista delle conseguenze della crisi climatica in atto, non ultima proprio l’intensificarsi degli incendi boschivi. “Quando pensiamo a come proteggerci dall’aria malsana, dovremmo pensare anche ai nostri animali domestici e alla fauna selvatica”, sottolinea Olivia Sanderfoot, ecologa della Cornell University: i suoi studi vertono proprio sugli effetti del fumo sugli animali selvatici.

    Monitoraggi costanti per leggere i rischi di cancro
    Tra le questioni più complesse, c’è però l’esposizione regolare a bassi livelli di sostanze nocive, che in alcuni casi può aumentare il rischio di cancro nel corso di una vita. Gli animali domestici hanno una vita più breve degli uomini e maggiori probabilità di trascorrerla in un’unica area geografica: per questo, è tendenzialmente più facile per gli scienziati individuare alcuni di questi possibili effetti. “Non solo, le persone sono anche spesso comprensibilmente preoccupate per i loro animali domestici”, sottolinea ancora Elinor Karlsson, che tra l’altro guida “Darwin’s Dogs”, un ampio progetto scientifico comunitario che mira a identificare i fattori genetici e ambientali che contribuiscono alla salute e al comportamento dei cani. “Questa attenzione è per noi un’opportunità da cogliere”, aggiunge. Così decine di migliaia di proprietari di cani americani hanno iscritto i loro animali a “Darwin’s Dogs” e a iniziative simili, tra cui il “Dog Aging Project” e il “Golden Retriever Lifetime Study”: si tratta di progetti di natura scientifica che raccolgono informazioni sull’esposizione quotidiana degli animali a sostanze chimiche, misurano i livelli di erbicidi nelle loro urine, spediscono per posta piastrine in silicone assorbenti per cani e chiedono ai proprietari di inviare campioni dell’acqua bevuta dei loro cani. “L’adesione è massiccia, non tanto perché la gente ha fiducia nella ricerca scientifica ma perché l’amore per i cani è una leva decisamente forte”. LEGGI TUTTO

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    Gli Usa grandi assenti, l’America di Trump guarda al passato

    Quando si ascolta il suono delle gigantesche turbine eoliche spegnersi, e si osservano le torri delle raffinerie ergersi di nuovo nel mezzo di paesaggi che una volta credevamo sacri, c’è qualcosa di più della semplice politica a segnare il futuro americano. È la promessa mancata di un Paese diverso, che non guarda più al futuro. Ma al passato. Gli Stati Uniti saranno i grandi assenti alla Cop 30 in programma a Belém, in Brasile, nel cuore dell’Amazzonia, scelta simbolica perché coinvolge il “polmone del Pianeta”. Non si tratta solo di numeri – emissioni, sussidi, regolamenti – ma di valori. Donald Trump è un leader mondiale che ignora il consenso scientifico globale, disfa accordi internazionali, indebolisce le politiche ambientali. Secondo i suoi oppositori, il presidente degli Stati Uniti non crede nella salvezza del Pianeta, ma solo nella propria sopravvivenza. Vero o no, ci sono atti concreti che hanno allontanato l’America dal resto del mondo. Il 20 gennaio Trump ha firmato un ordine esecutivo (“Putting America First in International Environmental Agreements”), che prevede il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sul clima, da cui il tycoon era già uscito durante il primo mandato presidenziale, nel 2017, poi corretto dal suo successore, Joe Biden. Il ritiro non è immediato – per i meccanismi dell’accordo serve un anno – ma la direzione è chiara. Nel frattempo il dipartimento di Stato ha rimosso tutti gli esperti responsabili per i negoziati sul clima. Questo significa che a Cop30 gli Usa avranno nessuna o una modesta rappresentanza ufficiale, togiendola dalle negoziazioni multilaterali sulle politiche climatiche globali.

    Verso Cop30

    Emissioni, finanza, foreste: i temi in discussione in una Cop in bilico

    di Luca Fraioli

    03 Novembre 2025

    Biden aveva fissato obiettivi per la diffusione di veicoli elettrici e standard più rigidi sulle emissioni nocive. Trump ha revocato il piano che prevedeva la presenza del cinquanta per cento di nuovi veicoli elettrici entro il 2030 e sta rallentando le normative sulle emissioni. Il suo predecessore aveva presentato la normativa “Clean Power Plan 2.0”, una proposta di regolamentazione per ridurre le emissioni dalle centrali elettriche, in forma più rigida in termine di gas serra e inquinanti. L’amministrazione Trump ha ordinato la revisione, cancellando molte delle restrizioni previste. Sotto la presidenza Biden sono stati approvati permessi e incentivi nei progetti solari ed eolici, sulle infrastrutture verdi e gruppi di nuova generazione per la produzione di energia pulita. Trump ha cancellato grandi progetti solari, come Esmerald 7 in Nevada, bloccato sovvenzioni e finanziamenti per programmi green, privilegiando l’industria dei combustibili fossili, da cui provengono molti generosi donatori della campagna elettorale del tycoon. È l’America del “Drill, baby, drill”, delle trivellazioni petrolifere ovunque, anche nelle riserve naturali.

    Con il “Greenhouse Gas Reduction Fund” Biden stava cercando di sostenere le comunità svantaggiate, installare infrastrutture verdi, garantire incentivi per le rinnovabili e veicoli elettrici. Il suo successore ha cancellato o sospeso programmi come “Solar for All”, del costo di sette miliardi di dollari, destinati a espandere l’energia solare per le comunità a basso reddito. La politica antigreen sta diventando la normalità in un mondo in cui l’emergenza ambientale appare più evidente e le riforme sempre più necessarie. Il rischio è che con il disimpegno americano, del Paese più grande e potente al mondo, nonché tra i più inquinanti insieme alla Cina, l’azione climatica perda la sua urgenza morale anche in altre aree, e le politiche ambientali diventino un optional. Gli Stati Uniti non sono nuovi a fluttuazioni nella politica climatica, ma raramente la discontinuità è stata così drammatica. Poche volte l’Unione Europea, ma anche l’Asia, il Sud America e l’Africa hanno guardato all’America con una crescente delusione. La svolta negazionista arriva, però, da lontano: il 5 giugno 2018, in un’intervista Trump aveva parlato di “riscaldamento terrestre” come di una questione passeggera di termini: “Prima dicevano che faceva freddo, ora che fa caldo, ma forse ci vorrebbe in inverno un po’ di riscaldamento globale”.

    Cinque mesi dopo, commentando la pubblicazione di un rapporto federale sugli effetti economici del cambiamento climatico, Trump disse di “non credere ai risultati”. Pochi giorni dopo, il 21 novembre 2018, sull’allora Twitter ironizzò davanti alle temperature polari registrate in America: “Che fine ha fatto il riscaldamento globale?”, scrisse. Da sempre gli Stati Uniti sono stati visti come il teatro di uno scontro tra forze più grandi: la tecnologia contro lo spirito, il potere contro l’autenticità, l’ego contro la comunità. Secondo alcuni, un uomo pubblico che nega la realtà scientifica in nome dell’ego o dell’interesse personale sarebbe la reincarnazione del “falso profeta americano”, che sfrutta la fede collettiva nel progresso per distruggere la stessa idea di progresso.

    Le minacce lanciate da Trump contro la politica ambientale non gli sono costati voti. Anzi, hanno moltiplicato il consenso. Chi lo ha accusato di aver confuso il Pianeta con il suo resort è stato battuto. Chi ironizzava sul fatto che Trump considerasse la Terra solo un bene immobiliare, è stato servito. Niente di quello che sta accadendo adesso dovrebbe sorprendere, ma a vedere tutti i progetti evaporati in pochi mesi, la rivoluzione trumpiana appare imponente e devastante. Il progetto Esmeralda in Nevada era un gigantesco impianto solare che avrebbe alimentato quasi due milioni di case. Finiti nel cestino anche i ventiquattro progetti di clean energy approvati da Biden per un totale di 3,7 miliardi di dollari. Tra questi è a rischio uno di riduzione delle emissioni basato sull’idrogeno nel complesso Baytown di Exxon.

    Editoriale

    Cop30 – “L’ultimo appello”. Un’istituzione da difendere

    di Federico Ferrazza

    03 Novembre 2025

    Evaporati centinaia di migliaia di posti di lavoro in Texas, Louisiana, nel Midwest e in California. Non vedremo più gli hub di nuova generazione per l’idrogeno pulito, selezionati dall’amministrazione Biden con sussidi federali. Tra questi “Pacific Northwest Hydrogen Hub” e Arches, in California. In ballo c’erano investimenti per miliardi di dollari e impianti che avrebbero fornito carburante pulito per industria e trasporti. C’era un piano sovvenzionato dal governo con 3,1 miliardi per favorire pratiche agricole climate smart, in cui erano previste colture di copertura e gestione del suolo nel Midwest e nel sudest americano. In pausa la costruzione di parchi eolici offshore nell’area di Vineyard Sound e nel Golfo del Messico. Cancellato il programma federale per la costruzione di 500 mila stazioni di ricarica elettrica per veicoli in tutti gli Stati Uniti. E l’installazione di impianti per la cattura e stoccaggio di CO2 in Texas, Louisiana e nel Midwest. E i finanziamenti per interventi di adattamento ambientale, con la salvaguardia di barriere naturali, ripristino di paludi e protezione delle coste, oltre a progetti per la produzione di batterie e riciclo di materiale nocivo nella West Coast. L’America, soltanto un anno fa, voleva essere il Paese guida anche nella sfida al cambiamento climatico. L’amministrazione Trump ha messo in pausa o cancellato tutto. LEGGI TUTTO

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    Così l’Italia tenta di annacquare il Green Deal

    Lo aveva annunciato a settembre all’Assemblea generale dell’Onu, lo ha ribadito il 22 ottobre scorso davanti alle Camere. Così, quando Giorgia Meloni è partita per il Consiglio europeo per discutere la revisione della legge europea sul clima era già chiaro a tutti che avrebbe portato il “no” dell’Italia. Cancellato qualsiasi dubbio quando ha aperto il dossier con cui il 23 ottobre è sbarcata a Bruxelles. Conteneva una serie di paletti al Green Deal europeo che Meloni ha bollato come ”ambientalismo ideologico”. Sollecitando un nuovo approccio contro quelle che ha chiamato “follie verdi” che secondo il capo del governo danneggiano l’industria, a cominciare dall’auto. La visione italiana non è mutata nemmeno sul gas sul quale il governo punta per la politica energetica. Al centro la difesa del Piano Mattei, strategia con cui il governo vuole far diventare il Paese un hub energetico nel Mediterraneo. Accordi sono stati siglati soprattutto con l’Algeria (fino al 2021 oltre il 40% delle importazioni di gas dell’Italia proveniva dalla Russia) per far arrivare nove miliardi di metri cubi all’anno attraverso il gasdotto TransMed. Su questo nessuna marcia indietro. Il Piano Mattei è considerato dal governo come un progetto a lungo termine per posizionare l’Italia come corridoio meridionale dell’Europa per il gas e per i biocarburanti.

    Con la Ue, però, ad ottobre l’obiettivo era trovare una linea comune in vista della Cop30 in Brasile a cui comunque la premier ha già fatto sapere che non parteciperà. Per quanto riguarda il taglio delle emissioni, la proposta italiana era di fissare una tappa intermedia: il 90% entro il 2040, come step verso il target finale del 100% entro il 2050. Giorgia Meloni, a questo proposito, ha parlato di “flessibilità“ e “semplificazione“. Così, se da una parte la premier ha assicurato che l’Italia continuerà a sostenere la “riduzione delle emissioni“, dall’altra ha spiegato che lo farà senza “l’approccio ideologico che impone obiettivi irraggiungibili, che producono danni al nostro tessuto economico-industriale, indeboliscono le nazioni europee e rischiano di compromettere la credibilità dell’Unione europea“.

    Per il governo italiano la strada è segnata dal principio della “neutralità tecnologica” e che riguarda soprattutto il futuro dell’auto, del trasporto pesante o delle industrie di acciaio, vetro e cemento. “Non può esistere solo l’elettrificazione, bisogna restare aperti a tutte le soluzioni, come i biocarburanti sostenibili che devono essere consentiti anche dopo il 2035“, ha spiegato la premier confermando di essere contro la scelta del “tutto elettrico” post 2035. In altre parole, la linea del governo sulla transizione energetica è questa: non dobbiamo limitare la ricerca alle fonti rinnovabili, ma includere tutte le soluzioni in grado di abbattere le emissioni, dall’idrogeno al biometano, alla cattura della CO2 fino naturalmente al ritorno del nucleare chiesto a gran voce anche dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin.

    E sempre sulla riduzione delle emissioni e il modo con cui realizzarla, l’Italia fa ancora appello alla “massima flessibilità” puntando sulla contabilizzazione dei tagli ottenuti dai diversi sistemi di cattura del carbonio. Oltre all’adozione di una “robusta clausola di revisione“ degli obiettivi climatici della legge clima, capace di valutare a cinque anni progressi e azioni. E poi ci sono i conteggi del “crediti internazionali”. L’Italia ha chiesto di poter conteggiare fino al 5% dei crediti, ottenuti dai progetti di cooperazione internazionale anti-emissioni di carbonio che l’Ue e gli Stati membri finanziano in Paesi terzi. Considerando che le emissioni europee valgono circa il 6% di quelle globali, “non è trascurabile – per Meloni – il valore che ha, ai fini dell’obiettivo finale, favorire un’economia sostenibile nei Paesi in via di sviluppo“.

    L’Italia vuole far valere il peso del Piano Mattei e del suo focus sui progetti ambientali. Come il sostegno all’accesso all’energia elettrica “Mission 300”, i progetti dalla Costa d’Avorio al Congo, le iniziative Ascent cofinanziate con la Banca mondiale in Tanzania e in Mozambico per ampliare l’accesso all’energia da fonti rinnovabili. La posizione italiana è dunque quella di voler voltare pagina e cambiare paradigma. L’ultimo punto sollevato da Giorgia Meloni, dopo il gas e le fonti rinnovabili, il conteggio dei crediti di cooperazione internazionale anti-emissioni, il principio di neutralità tecnologica da applicare a tutta la legislazione climatica a cominciare da quella dell’auto, riguarda i fondi.

    “Nessuna transizione è davvero possibile senza stanziare risorse adeguate“, ha detto Meloni che guarda ad un Quadro finanziario pluriennale, per favorire gli investimenti privati. Temi su cui la premier cerca alleati. Guarda soprattutto alla Germania del cancelliere Friederich Merz dove l’industria del Paese più “verde” d’Europa è colpita da una crisi senza precedenti. LEGGI TUTTO