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    Le biobanche dei coralli che salvano le barriere con la criogenesi

    Alcuni sembrano ventagli di porpora, altri sfere ramificate color ocra, altri ancora fantasiose architetture arancioni o blu cobalto. Tra i flutti e il fondale sabbioso, trafitti dalla luce che filtra obliqua, si dispiegano giardini sommersi. Forme e colori che paiono usciti da un sogno di mare. Sono le barriere coralline che, pur occupando meno dell’1% degli oceani, ospitano il 25% delle specie marine. Strutture oggi sempre più fragili, minacciate da cambiamenti climatici, inquinamento, acidificazione delle acque, attività umane. Secondo il Global Coral Reef Monitoring Network, tra il 2009 e il 2018, nel mondo, è andato perduto il 14% di tali formazioni. Quattro sbiancamenti su larga scala hanno colpito la Grande Barriera Australiana in pochi anni, l’ultimo nel 2022. Se la temperatura globale aumenterà di 1,5 gradi, il 70-90% di questi sistemi potrebbe scomparire, se raggiungerà i 2 gradi, ben il 99% potrebbe andare perduto. Di fronte all’emergenza, centri di ricerca internazionali stanno utilizzando tecniche scientifiche all’avanguardia per preservare gli esemplari più vulnerabili e favorirne la rigenerazione o il futuro reimpianto.

    Oceani

    Barriere coralline, come (e perché) stiamo perdendo un patrimonio di biodiversità

    03 Settembre 2024

    I poli nel mondo
    In Australia, a Sydney, la Taronga Conservation Society ospita la biobanca Cryo Diversity, attiva dal 1995, che nel 2011 ha avviato il programma di conservazione corallina, in collaborazione con l’Australian Institute of Marine Science. Attualmente custodisce campioni di 34 specie della Grande Barriera ed è stata la prima al mondo a introdurre la tecnica cryomesh, nella quale le larve vengono adagiate su una griglia ultra-sottile di polimero e poi immerse in azoto liquido a meno 196?gradi, in modo da evitare la formazione di cristalli di ghiaccio dannosi per le cellule. Negli Stati Uniti le biobanche più importanti sono due. La prima è l’International Coral Gene Bank fondata nel 2010 all’interno del Mote Marine Laboratory in Florida. Conserva centinaia di varianti genetiche caraibiche, fino a 50 per specie, tramite preservazione standardizzata a basse temperature: spermatozoi o ovuli, mescolati a soluzioni protettive, vengono congelati gradualmente in azoto liquido, per salvaguardarne la vitalità. Questo ha permesso la riproduzione di oltre 600 coralli di Acropora palmata. La seconda è la Reef Recovery Frozen Coral Repository, presente all’interno dello Smithsonian Institution, con sede a Washington, dal 2008, che tutela materiale prelevato da due oceani. È pioniera nella vitrificazione avanzata di spermatozoi e frammenti corallini, ovvero un congelamento rapidissimo in azoto liquido in un apposito contenitore sigillato e resistente, nel quale il volume resta sempre uguale, trasformando l’acqua cellulare in una struttura vetrosa, senza l’aggregazione di cristalli. Anche nella Cryobank, struttura che fa parte del Coral Hospital, divisione specializzata del National Museum of Marine Biology and Aquarium di Taiwan, si sperimenta la vitrificazione veloce, per custodire cellule fragili come ovociti o tessuti. Attiva dal 2020 circa, questa biobanca ha già crioconservato quasi 1.900 campini contenenti cellule di almeno 14 specie.

    Le sfide future
    Grazie a questi centri e alle loro tecniche, oggi nel mondo sono state crioconservate più di 50 colonie di coralli. L’obiettivo è salvarne almeno 400 nella sola Grande Barriera, nonostante permangano alcune difficoltà. Tra le principali, si annoverano costi elevati e complessità della logistica di congelamento, soprattutto per le larve fragili; finestra temporale ristretta di raccolta, dato che i prelievi possono avvenire pochi giorni l’anno, durante la fase di riproduzione; possibili rischi della conservazione nel lungo periodo in termini di eventuale perdita genetica. “Pur svolgendo un ruolo fondamentale, le criobanche rappresentano solo una parte della soluzione alla crisi globale delle barriere coralline”, ha commentato Richard Leck, responsabile Oceani del Wwf Australia, “ma bisogna fare molto di più per garantirne la sopravvivenza”. LEGGI TUTTO

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    Italia e atomo: il futuro è ora

    L’Alleanza per il Nucleare è un’iniziativa europea nata nel 2023 per promuovere il ruolo dell’energia nucleare nella strategia climatica e industriale dell’Ue, in un’ottica di neutralità tecnologica. L’obiettivo è riconoscere pienamente il ruolo dell’atomo come fonte stabile, sicura e a basse emissioni, da affiancare alle rinnovabili nel percorso verso la neutralità climatica. L’Alleanza risponde anche all’esigenza di rafforzare l’autonomia energetica dell’Europa, riducendo la dipendenza da importazioni extra-UE in un contesto di instabilità globale.Dell’Alleanza fanno parte 14 Paesi membri effettivi: Belgio, Bulgaria, Croazia, Finlandia, Francia, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Svezia e Ungheria. L’Estonia partecipa come osservatore. Alcuni di questi Stati già utilizzano il nucleare da decenni, altri stanno pianificando nuovi impianti o valutando l’adozione di tecnologie modulari di nuova generazione.L’Alleanza affronta temi cruciali per il nucleare: sviluppo della filiera industriale, formazione tecnica e accesso ai finanziamenti, al pari delle altre fonti di energia a basse emissioni (incluse le rinnovabili).Con l’ingresso formale del giugno 2025, l’Italia passa da osservatore a membro attivo. Questo significa partecipare direttamente alla definizione delle policy europee, ma anche valorizzare le competenze scientifiche e industriali presenti sul territorio. LEGGI TUTTO

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    Dove c’era il ghiacciaio ora crescono più fiori: il fenomeno del greening in alta quota

    Tra qualche decennio sulle Alpi si potrebbero vedere mandrie pascolare a quasi tremila metri. Il futuro della pastorizia è in quota e con aria sottile. Il fenomeno, chiamato greening ovvero rinverdimento, è un effetto diretto del cambiamento climatico. L’aumento delle temperature e la riduzione della stagione nevosa oltre a comprimere le dimensioni dei ghiacciai liberano spazi appetibili per la vegetazione. Ci sono piante pioniere, adatte a questi ambienti detritici, e altre che provengono dalla praterie più in basso ma che oggi trovano condizioni ideali anche ben oltre la linea del bosco. LEGGI TUTTO

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    Cresce lo spreco alimentare. I surgelati possono essere un rimedio?

    E’ una questione tutt’altro che banale, quella dello spreco di cibo. Anzi, il suo aumento è un fenomeno preoccupante. Solo nel 2025, in Italia c’è stata una crescita del 17,9% in un solo anno. Ogni settimana gettiamo nella pattumiera quasi 7 etti di cibo: per l’esattezza sono 667 grammi a persone, contro contro i 566 del 2024. I dati sono stati diffusi dall’indagine dell’Osservatorio internazionale Waste Watcher realizzata per conto dell’Istituto Italiano Alimenti Surgelati. Infatti, quello del cibo surgelato ha un peso nettamente minore per quanto riguarda lo spreco: ogni settimana, non sono neanche 15 grammi quelli che vengono buttati via, pari al 2,2% del totale in pattumiera. Questo lo evidenzia un’indagine italiana, mentre una grande azienda proprietaria di marchi molto noti del frozen food, evidenzia un altro aspetto interessante. E cioè che quasi la metà dei consumatori europei, il 47%, sceglie prodotti surgelati proprio con l’obiettivo di ridurre lo spreco alimentare.

    Il motivo è più di uno. I cibi surgelati si conservano per un lungo periodo di tempo, non richiedono l’uso di acqua per essere puliti, non hanno scarti perché il prodotto è già pronto all’uso, e sono più facili da dividere in porzioni. Tutti elementi che permettono al consumatore di ottimizzare il tempo di preparazione, ridurre quasi a zero lo scarto e sprecare anche meno risorse, come acqua ed energia, per la cottura. E se negli ultimi 5 anni, il ricorso al frozen food è salito, il suo spreco è rimasto stabile intorno al 2%; un dato molto positivo, che va a vantaggio di consumatori e famiglie, dell’industria alimentare del surgelato, ma soprattutto dell’ambiente, perché riducendo la quantità di rifiuti, si diminuisce l’impatto e si dà una mano alla sostenibilità. Quando buttiamo via del cibo, oltre a sprecare il prodotto stesso, abbiamo reso inutile tutte le risorse che hanno contribuito a portarci quel determinato alimento sulla tavola: l’impiego di persone per la manodopera, il trasporto e la logistica, il consumo di carburante, l’acqua, terra, gli imballaggi e altro ancora. Poi, quando alla fine del processo, il cibo che abbiamo gettato via finisce in discarica, si decompone e produce metano, un gas che contribuisce all’effetto serra. Nel biennio 2021-22, solo nel Regno Unito, i rifiuti alimentari sono stati responsabili di circa 18 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra. Il motivo per cui abbiamo portato l’esempio dell’isola inglese è perché è il Paese in testa alla classifica degli sprechi alimentari.

    Il sondaggio

    Dal frigo alla tavola, ecco come sprechiamo il cibo e cosa fare per evitarlo

    di Paolo Travisi

    04 Giugno 2025

    Ma come abbiamo detto il fenomeno è tristemente globale. Per le ragioni appena dette, secondo il rapporto Frozen in Focus di Nomad Foods, quasi il 60% degli inglesi preferisce acquistare cibi surgelati per ridurre gli sprechi alimentari. E l’Italia? Noi italiani siamo secondi in classifica con il 50%, a seguire la Francia con il 49%, il 43% in Svezia e il 44% in Germania. Se il surgelato riduce lo spreco, però il processo è energivoro quindi le emissioni derivati da questi apparecchi industriali che devono rimanere sempre accesi. Da qui, in occasione di COP28 è stata lanciata la proposta di abbassare di 3 gradi, da -18° a -15°, la temperatura di surgelamento, garantendo un risparmio di energia di circa il 10%, senza variazioni significative per la maggior parte dei prodotti. Ma questa richiesta non convince tutti. Infatti, i prodotti surgelati vengono portati a -18° con un procedimento ultrarapido che blocca quelle attività enzimatiche, chimiche e microbiche che garantiscono il mantenimento di gran parte dei nutrienti importanti per l’organismo umano, senza alterare la consistenza dell’alimento. Una pratica ben diversa dal congelamento domestico con il freezer, che è appunto congelamento e non surgelamento; un processo, il primo, che invece modifica la struttura cellulare del cibo, perché avviene più lentamente ed a temperature più basse. Insomma, c’è da dire che il prodotto fresco è pur sempre preferibile per le caratteristiche intrinseche alla freschezza dell’alimento, a patto che venga consumato e non buttato via, ma il surgelato può essere una buona alternativa. Alternativa allo spreco alimentare crescente, con un valore in un certo senso educativo. Infatti, l’approvvigionamento di surgelati può essere anche un metodo per imparare a gestire le proprie scorte casalinghe. Può aiutarci a distribuire gli acquisti settimanali o mensili della spesa riducendo la quantità di cibo che diventa spazzatura. LEGGI TUTTO

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    “Riportare in vita il moa”, il sogno del regista Peter Jackson per ritrovare la specie perduta

    Che cosa hanno in comune il regista del “Signore degli Anelli”, un’antica comunità indigena maori e una società di biotecnologie e ingegneria genetica? Un sogno proibito, fortemente criticato e per molti impossibile da realizzare: riportare in vita il Moa gigante, un uccello alto 3,6 metri , pesante oltre 230 chilogrammi ed estinto circa 600 anni fa. Come fosse un suo film di fantascienza, il regista Peter Jackson ha deciso di finanziare, insieme al contributo del Canterbury Museum e il Ng?i Tahu Research Centre, una nuova missione di Colossal Biosciences, la società americana specializzata in “de-estinzione” e già nota per voler far rivivere il mammut lanoso, il dodo o la tigre della Tasmania e che, di recente, ha annunciato di aver riportato in vita un lupo del Paleocene, sorta di meta-lupo del Trono di spade.

    “Riportato in vita il lupo del pleistocene”. Lo annuncia la biotech che vuole ricreare la preistoria

    08 Aprile 2025

    In un mondo dove 1 milione di specie animali e vegetali sono oggi a rischio, e dove la perdita di biodiversità ha un urgente bisogno di sforzi globali e finanziamenti sia pubblici che privati, il nuovo annuncio della società texana dal valore di mercato di 10 miliardi di dollari è destinato a far discutere, ma Colossal Biosciences e Peter Jackson (che ha investito 15 milioni di dollari) non vogliono sentire ragioni e hanno deciso di proseguire su una strada che, fra soli 15 anni, potrebbe “riportare in vita” il famoso Moa.

    Il Moa gigante dell’Isola del Sud era un gigantesco uccello incapace di volare che fino al 1300 popolava le valli delle isole della Nuova Zelanda: secoli fa esistevano migliaia di esemplari prima che i Maori, tra caccia alla carne e alle uova e distruzione di habitat, portarono lentamente l’uccello all’estinzione, avvenuta tra il 1300 e il 1500. Per molti inglesi arrivati a Wellington, l’idea di quel volatile grande il doppio dell’uomo, all’inizio era soltanto una leggenda tramandata tra i popoli originari, ma dovettero ricredersi quando nel tempo ci furono più ritrovamenti degli scheletri, i frammenti di uova e le ossa appartenenti a questi animali, materiale che oggi offre una chance genetica per la “de-estinzione”. La base di partenza per riuscire a compiere questa complicatissima missione, per molti scienziati impossibile, sarà infatti il recupero e l’analisi del DNA antico di nove specie di Moa per comprendere in che modo il Moa gigante differisca da uccelli parenti e per decifrare il suo corredo genetico. Per riuscirci Colossal Bioscience collaborerà con il Ng?i Tahu Research Centre neozelandese, fondato per supportare i Ng?i Tahu, principale tribù Maori della regione meridionale della Nuova Zelanda.

    Petere Jackson con Ben Lamm con i reperti fossili del moa (foto: Colossal.com)  LEGGI TUTTO

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    Tulum Energy, dall’Italia al Messico (e ritorno): la startup pioniera dell’idrogeno turchese

    “La caratteristica distintiva della nostra tecnologia è la combinazione senza pari di elevata scalabilità ed eccezionale efficienza energetica. Questo ci consente di soddisfare le notevoli esigenze dei grandi consumatori industriali di idrogeno, come raffinerie, produttori di ammoniaca e impianti chimici, a costi davvero competitivi”. Lui è Massimiliano Pieri, CEO di Tulum Energy, startup climate tech pionieristica nella produzione di idrogeno pulito. Più precisamente, in prima linea nello sviluppo di una innovativa tecnologia di pirolisi del metano.

    La pirolisi del metano è un processo chimico che consente la produzione di idrogeno pulito (turchese) e carbonio solido utilizzando come materia prima gas naturale o biogas, senza emissioni di CO2. Questa tecnologia è in grado di superare i limiti economici e infrastrutturali dell’idrogeno verde e blu nella produzione industriale di idrogeno decarbonizzato. LEGGI TUTTO

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    Un aiuto dai fichi contro la crisi climatica: trasformare l’anidride carbonica in roccia

    Sono i re Mida dell’ambiente. Ma invece che in oro, trasformano in roccia. Si tratta di alcune specie di alberi di fico dalle sorprendenti abilità e che potrebbero rappresentare uno strumento prezioso nella lotta ai cambiamenti climatici. A raccontarlo è stato un team di ricerca internazionale che ha scoperto come questi alberi possono assorbire l’anidride carbonica dall’atmosfera e immagazzinarla sotto forma di “rocce” di carbonato di calcio. La ricerca è stata presentata durante la Goldschmidt 2025 Conference, la conferenza dedicata al mondo della geochimica più importante al mondo in corso in questi giorni a Praga.

    Assorbire anidride carbonica
    Tutti gli alberi, inclusi quelli di fico, si servono della fotosintesi per assorbire anidride carbonica dall’atmosfera e trasformarla in carbonio organico per lo sviluppo di tronco, rami, foglie e radici, in un processo, quindi, che ne riduce la quantità nell’aria. Proprio per questo motivo gli alberi vengono considerati un potenziale mezzo per mitigare le emissioni di questo gas serra. Alcune specie di alberi, tuttavia, utilizzano l’anidride carbonica per produrre cristalli di ossalato di calcio, che vengono poi convertiti da specifici batteri in carbonato di calcio, lo stesso minerale del calcare o del gesso. Il carbonio in forma minerale, però, può rimanere nel suolo molto più a lungo rispetto a quanto possa farlo nella materia organica dell’albero, rendendo questo metodo più efficace per immagazzinare l’anidride carbonica.

    Biodiversità

    La “pompa marina” (e naturale) che sequestra il carbonio negli oceani

    di Sara Carmignani

    09 Luglio 2025

    Cibo e anidride carbonica
    La maggior parte della ricerca su questa abilità, chiamata anche come percorso ossalato-carbonato, si è concentrata su alberi non da frutto. Tra questi c’è notoriamente la Milicia excelsa, che cresce nell’Africa tropicale, viene utilizzata per il legname e può immagazzinare una tonnellata di carbonato di calcio nel corso della vita. “Conosciamo da tempo questo percorso, ma il suo potenziale non è stato ancora pienamente considerato”, ha commentato Mike Rowley, tra gli autori dello studio. “Se piantiamo alberi per l’agroforestazione e per la loro capacità di immagazzinare CO2 sotto forma di carbonio organico, producendo al contempo cibo, potremmo scegliere alberi che offrano un ulteriore vantaggio sequestrando anche carbonio inorganico, sotto forma di carbonato di calcio”.

    Gli alberi di fico
    In particolare, i ricercatori si sono concentrati su tre specie di ficus coltivate nella contea di Samburu, in Kenya, scoprendo che producevano carbonato di calcio dalla CO2 e che questo si formava sia sulla superficie dei tronchi che più in profondità, dove intere strutture radicali si sono praticamente trasformate in carbonato di calcio nel terreno. “Man mano che si forma il carbonato di calcio, il terreno intorno all’albero diventa più alcalino”, ha spiegato l’esperto. “Il carbonato di calcio si forma sia sulla superficie dell’albero che all’interno delle strutture del legno, probabilmente perché i microrganismi decompongono i cristalli superficiali e penetrano più in profondità nell’albero. Ciò dimostra che il carbonio inorganico viene sequestrato nel legno a una profondità maggiore di quanto pensassimo in precedenza”. Delle tre specie di fico prese in esame, gli scienziati hanno scoperto che il Ficus wakefieldii era il più efficace nell’immagazzinare la CO2 sotto forma di carbonato di calcio.

    Sostenibilità

    Bioedilizia, mattoni “viventi” che puliscono l’aria

    di Paolo Travisi

    04 Luglio 2025

    Le potenziali applicazioni
    Il prossimo passo ora sarà quello di valutare l’idoneità di questo albero all’agroforestazione, misurandone alcuni parametri come il fabbisogno idrico, la resa dei frutti, e la capacità di immagazzinare anidride carbonica in diverse condizioni. Ma se un giorno i fichi potessero essere inclusi nei futuri progetti di riforestazione, potrebbero diventare sia una fonte di cibo che un pozzo di carbonio. “È più facile identificare il carbonato di calcio in ambienti più secchi. Tuttavia, anche in ambienti più umidi, il carbonio può comunque essere sequestrato”, ha commentato Rowley. “Il percorso ossalato-carbonato potrebbe rappresentare un’opportunità significativa, ma inesplorata, per contribuire a mitigare le emissioni di CO2 quando piantiamo alberi per la silvicoltura o la frutta”. LEGGI TUTTO

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    Ghiacciai neri, cosa sono e perché si tratta di una brutta notizia

    Li immaginiamo di colore bianco, candidi, lucenti, immacolati. Ma, in realtà, sempre più spesso appaiono scuri e grigi. Per questo vengono chiamati ghiacciai neri, in termini tecnici debris covered glacier: distese di ghiaccio ricoperte di detriti e sedimenti, che si concentrano soprattutto nella porzione inferiore, la cosiddetta zona di ablazione. Questi depositi modificano il modo in cui la coltre ghiacciata interagisce con la luce solare, alterando il valore di albedo, ovvero il potere riflettente dello strato superficiale.

    Sicurezza e Ambiente

    Ghiacciai in ritirata: come la crisi del clima sta cambiando l’alpinismo

    a cura della redazione di Green&Blue

    16 Giugno 2025

    Riflettere o assorbire i raggi del sole
    Una superficie chiara, come la neve fresca, riflette gran parte dell’energia solare e ha, quindi, un valore di albedo elevato. Al contrario, una superficie scura ne respinge solo una minima parte e possiede perciò un valore molto inferiore, che comporta un maggiore assorbimento da parte del ghiaccio, con conseguente aumento della fusione. Per intenderci, lo stesso fenomeno è alla base della scelta dell’abbigliamento estivo: di solito preferiamo abiti bianchi anziché neri, proprio perché i primi, respingendo la luce del sole, ci consentono di stare più freschi, mentre i secondi, accumulando calore, amplificherebbero la sensazione di afa.

    Peraltro, un sensibile decremento dell’albedo è stato evidenziato già nel 2019 da uno studio pubblicato su Global and Planetary Change e condotto da ricercatori dell’Università degli Studi di Milano, che hanno analizzato 15 ghiacciai del gruppo Ortles-Cevedale, nelle Alpi centrali, tra il 1984 e il 2011.

    Argentina

    Manu Chao contro Milei, in gioco la sopravvivenza dei ghiacciai andini

    di Giacomo Talignani

    23 Giugno 2025

    Le cause del fenomeno
    La principale causa dell’annerimento sono i cambiamenti climatici avvenuti negli ultimi decenni. L’innalzamento delle temperature globali provoca, infatti, il rapido ritiro dei ghiacciai, esponendo superfici di roccia sempre più estese, che vengono sgretolate dal gelo e dalle escursioni termiche producendo materiali frantumati. Per esempio, sui ghiacciai della valle dell’Hunza sul Karakorum, in Pakistan, i detriti sono aumentati dall’8 al 21% tra il 1990 e il 2019. Analogamente, la copertura rocciosa sui ghiacciai del Gran Caucaso è passata da circa 48 chilometri quadrati nel 1986 a circa 79 nel 2014. Un altro importante fattore che contribuisce allo scurimento sono le polveri trasportate dall’atmosfera, di origine soprattutto umana, come il particolato proveniente dalla combustione dei motori diesel, dalle attività industriali, dagli incendi boschivi.

    Secondo alcuni esperti, però, almeno una notizia positiva ci sarebbe: quando la copertura supera i 10-20 centimetri di spessore protegge il ghiacciaio sottostante, rallentando, almeno per un certo periodo, il processo di scioglimento. Ma lo scenario resta comunque desolante.

    Gli esempi più significativi
    I ghiacciai neri si trovano in molte catene montuose del mondo, con una distribuzione eterogenea: in regioni polari o a basse pendenze la copertura detritica è quasi assente, mentre sulle montagne ripide è più abbondante. Ecco perché il fenomeno è presente anzitutto in Asia, dove sono coinvolti il ghiacciaio Khumbu in Nepal, sul versante dell’Everest; il ghiacciaio Ngozumpa sull’Himalaya orientale; il ghiacciaio Baltoro sul Karakorum. È rilevante anche sulle Ande, dove interessa soprattutto il ghiacciaio Ventisquero Negro sul monte Tronador, in Argentina. Neppure l’Italia è immune da questa dinamica. Sulle Alpi i casi più noti sono il ghiacciaio Miage sul Monte Bianco e quello del Belvedere sul Monte Rosa.
    Uno studio del 2018 basato su analisi satellitari ha stimato che circa il 4,4% della superficie di tutti i ghiacciai del Pianeta, fatta eccezione per Groenlandia e Antartide, è ricoperto da sedimenti. Questa percentuale globale, pur esigua, equivale in realtà a migliaia di chilometri quadrati di manti glaciali scuriti.

    La storia

    Il glaciologo Felix Keller: “Così possiamo salvare i ghiacciai”

    di Paola Arosio

    04 Giugno 2025

    L’impatto sull’ambiente
    La presenza di detriti ha vari impatti ambientali. Anzitutto aumenta l’instabilità dei versanti e il rischio di frane. Poi favorisce l’apertura di cavità e depressioni dove si accumula l’acqua formando dei laghi, sulla superficie o lungo i margini dei ghiacciai. Ciò destabilizza la struttura del ghiacciaio dall’interno e ne accelera il collasso, con il rischio di inondazioni improvvise nelle valli sottostanti. LEGGI TUTTO