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    I fiumi italiani malati di erosione, due terzi sono a forte rischio

    Le coste dei nostri fiumi si stanno sgretolando a un ritmo impressionante. Mentre tutti noi abbiamo ancora negli occhi le immagini, ormai sempre più comuni, dei fiumi in piena nelle zone alluvionate negli ultimi anni, meno semplice è immaginarsi invece come ogni giorno i fiumi del territorio italiano perdano qualche pezzo. Nei casi peggiori, si parla perfino di 10 metri all’anno in meno dovuti all’ erosione costiera fluviale. A restituirci un’idea di quanto sta avvenendo nel Paese è uno studio appena pubblicato da due ricercatori del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, Monica Bini e Marco Luppichini.Gli esperti volevano indagare su come la crisi del clima, che sta portando in Italia a meno precipitazioni medie annue ma a più eventi estremi che scaricano grandi quantità di acqua, abbia influito sulla tenuta dei fiumi italiani. Grazie al software CoastSat i due hanno studiato così l’evoluzione delle coste sabbiose italiane concentrandosi sugli ultimi quarant’anni, dal 1984 al 2024, scoprendo tutta la fragilità degli alvei della Penisola.

    Si stima infatti che siano addirittura il 66%, praticamente due terzi, i delta fluviali a forte rischio erosione dei 40 principali fiumi dello Stivale. Nello studio pubblicato sulla rivista “Estuarine, Coastal and Shelf Science”, grazie all’osservazione delle immagini satellitari i ricercatori hanno inoltre stimato che la percentuale di erosione sale al 100% se si vanno ad escludere le aree protette da difese artificiali. La maggior parte dei fiumi italiani sta dunque costantemente perdendo sedimenti, ma in alcuni delta questo processo – legato sia alla crisi del clima sia ad azioni antropiche come l’urbanizzazione – è ancor più evidente: lo si può osservare soprattutto per il Po, il Serchio, l’Arno e l’Ombrone in Toscana e il delta del Sinni in Basilicata,”tutte zone caratterizzate da un forte arretramento della linea di costa e da una significativa perdita di sedimenti dovuta a fattori climatici e antropici” scrivono gli esperti. “Il cambiamento climatico sta avendo un impatto significativo sull’evoluzione delle coste italiane – precisa Marco Luppichini – in particolare incidono la diminuzione delle precipitazioni e l’aumento degli eventi meteorologici estremi che alterano il ciclo idrologico e la capacità dei corsi d’acqua di trasportare sedimenti fino alla costa. A questo si aggiungono l’innalzamento del livello del mare, che contribuisce alla scomparsa di tratti di litorale, e l’incremento della temperatura delle acque superficiali del Mediterraneo che intensifica tempeste e mareggiate, accelerando il processo erosivo e riducendo la resilienza delle spiagge”.

    Sostenibilità

    Lavori green, l’idrologa: dalla siccità ai fiumi in piena impariamo a gestire l’acqua

    di Luca Fraioli

    21 Marzo 2025

    Questo, aggiunge il ricercatore, dimostra come ci sia una “chiara l’urgenza di adottare strategie sostenibili per gestire le coste, mitigare gli effetti dell’erosione e proteggere le aree più fragili” e per riuscirci il nuovo studio offre un primo tentativo di “database omogeneo per l’intero territorio nazionale così da aiutare una possibile pianificazione degli interventi a difesa delle zone più a rischio, come i delta fluviali, veri e propri “hotspot” della crisi climatica in corso”. Uno di questi, il delta del Po, è da considerare in assoluto fra i più vulnerabili proprio per via dell’innalzamento di livelli del mare, ma anche in Toscana le foci di diversi fiumi – come Arno e Serchio – “sono soggette ad un arretramento costante di 2-3 metri l’anno mentre il delta dell’Ombrone registra una delle situazioni più critiche, con tassi di erosione fino a 5-6 metri l’anno”. Nel tempo, sostiene l’analisi, questo porterà non solo a mettere a rischio gli ecosistemi toscani ma anche le attività economiche, turistiche e del settore agricoltura. Stesso discorso vale per il luogo dove si sta verificando l’erosione più estrema: Il delta del Sinni in Basilicata registra infatti un’erosione che supera i 10 metri l’anno. Cifre impressionanti che, ricordano gli scienziati, devono essere analizzate per trovare risposte, anche se in Italia “purtroppo manca attualmente un sistema di monitoraggio uniforme per le spiagge sabbiose e i delta dei fiumi italiani”. Ora però, grazie a questo nuovo lavoro, c’è un database da cui partire per comprendere le tendenze sulle aree a maggior rischio di erosione costiere e intervenire prima che i nostri fiumi perdano altri pezzi. LEGGI TUTTO

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    Bonus elettrodomestici 2025, ecco come funziona

    Bonus elettrodomestici in dirittura d’arrivo con alcune novità. Il contributo sarà riconosciuto direttamente in negozio con la formula dello sconto in fattura, senza la necessità di presentare nessuna specifica domanda, a fronte della rottamazione di un modello della stessa tipologia con consumi più elevati. La lista degli elettrodomestici che si potranno acquistare sarà contenuta in un decreto ad hoc, ma in ogni caso il bonus sarà riservato ai soli prodotti europei. Le novità grazie ad un emendamento al decreto bollette in corso di esame alla Camera.

    Meno consumi e smaltimento corretto
    Il bonus elettrodomestici prevede un contributo fino al 30% del costo, entro un massimo di 100 euro, che raddoppia a 200 euro per chi ha in Isee fino a 25.000 euro. Il bonus, che doveva essere operativo da febbraio, è destinato a sblocccarsi grazie all’emendamento presentato di FdI che ha accolto le richieste dei produttori della filiera del bianco. Ora si prevede infatti che il bonus possa essere riconosciuto esclusivamente per l’acquisto di un elettrodomestico prodotto in uno stabilimento collocato nel territorio dell’Unione europea. Viene anche eliminato il riferimento alla classe energetica in modo da offrire più margini ai produttori italiani. In ogni caso il nuovo acquisto potrà essere agevolato solo a fronte della rottamazione di un prodotto analogo di classe energetica inferiore.

    Sconto direttamente in negozio
    Per la concessione del contributo non ci sarà nessun click day e non sarà necessario presentare nessuna domanda. L’emendamento, infatti, prevede l’applicazione di uno sconto direttamente in fattura. Spetterà quindi ai rivenditori iscriversi nell’apposita piattaforma, e ci si potrà rivolgere solo ai punti vendita aderenti all’iniziativa. La lista degli elettrodomestici ammessi al bonus sarà contenuta nel decreto attuativo che dovrà indicare tipologia e classe energetica del prodotto da acquistare per sostituire quello più energivoro.

    Come orientarsi nella scelta
    Considerando l’obiettivo di riduzione dei consumi è prevedibile che possano rientrare nella lista solamente i grandi elettrodomestici, vale a dire frigoriferi, lavatrici, asciugatrici, lavastoviglie, forni elettrici che in quanto tali sono indispensabili. Dal momento che è confermato che si potrà avere un solo bonus per ciascun nucleo familiare conviene fin da ora verificare sia le caratteristiche di quelli che si hanno in casa, sia le modalità di utilizzo. Al di là dei consumi medi, che sono indicati sulle etichette energetiche, infatti, per calcolare il risparmio che si può ottenere con l’acquisto di un nuovo modello si deve necessariamente considerare il consumo in termini di cicli di lavaggio nel caso di lavatrici e lavastoviglie, l’utilizzo quotidiano o meno del forno, la capacità nel caso del frigo. Il risparmio nei consumi Ad esempio per una lavastoviglie da 12 coperti abbiamo per la classe A un consumo uguale o inferiore a 34 Kwh/100 cicli, che sale a 40 KWh/100 cicli per la classe B e arriva a 46 KWh/100 cicli per la classe C. Per i forni è ancora in vigore la vecchia tipologia di etichette, per cui nel caso di un forno elettrico da 100 litri, abbiamo per quelli più efficienti un consumo uguale o inferiore a 0,47 Kwh/ciclo, che sale fino a 0,705 Kwh/ciclo se si scende di due classi energetiche. Invece nel caso di un frigo-congelatore con sbrinamento automatico, da 300 litri (200 per cibi freschi e 100 per cibi congelati) se in classe A si ha un consumo massimo di 100 Kwh/annui, in classe B si sale fino a 124 Kwh/annui, mentre la classe C arriva a 155Kwh/annui, ossia oltre il 50% in più. LEGGI TUTTO

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    Sy Montgomery: “Così le tartarughe ci insegnano a prenderci cura del mondo”

    Le tartarughe sono creature sorprendenti. Ne esistono oltre 350 specie e sono diffuse in tutti i continenti. Sono preistoriche quanto i primi dinosauri, più antiche dei primi coccodrilli e sono in circolazione da oltre 250 milioni di anni. Le loro storie ci rivelano nuove prospettive sul tempo e la guarigione. Hanno personalità distinte e vivono emozioni forti, anche se i loro sentimenti spesso sfuggono agli esseri umani.

    A differenza della maggior parte dei rettili, le tartarughe non ci spaventano: non strisciano, si muovono lentamente e possiamo osservarle mentre portano con grazia la loro casa sulla schiena. A chi volesse imparare a conoscerle, consiglio di non perdersi il saggio Il tempo delle tartarughe, scritto da Sy Montgomery, naturalista statunitense di fama mondiale, in libreria dal 28 marzo. È pubblicato, in Italia, da Aboca edizioni con la traduzione di Teresa Albanese.

    Sy ha trascorso un lungo periodo alla Turtle Rescue League, la “Lega per il soccorso delle tartarughe”, dove vengono curate tartarughe con ferite così gravi che persino i veterinari le darebbero per spacciate. Ha così potuto scoprire tutto sul loro mondo e spiegarci perché queste creature hanno bisogno di aiuto. Come altri animali selvatici, le loro popolazioni si riducono quando la cementificazione invade il loro habitat. Soffrono per l’inquinamento, il cambiamento climatico e le specie invasive. Ed esiste un commercio illegale mostruoso e omicida che tratta la loro carne, le loro uova, i loro gusci e loro stesse come merce. LEGGI TUTTO

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    Pigro come un elefante: le strategie a risparmio energetico per procurarsi cibo

    Gli elefanti sono pigri o meglio furbi: se possono, evitano terreni troppo accidentati e frequentano zone ricche di cibo. D’altra parte però mostrano anche comportamenti, in fatto di dove e come si muovono, meno scontati di quel che si creda. A portarli a galla, mappando i percorsi più battuti dagli animali, è stato il lavoro di un gruppo di ricercatori che ha analizzato i dati raccolti in più di vent’anni dai radiocollari utilizzati su circa 160 elefanti. La sintesi del loro lavoro, pubblicato sulle pagine di Journal of Animal Ecology, mostra che dietro il comportamento degli elefanti c’è di fatto una logica di massimizzare i guadagni con il minimo sforzo, ma non solo.

    Perché però, prima di tutto, è necessario seguire gli elefanti nel loro girovagare, e farlo così a lungo? Il motivo, spiegano i ricercatori, in apertura del loro articolo è presto detto. I cambiamenti climatici, il bracconaggio e la distruzione degli habitat rischiano di modificare anche i luoghi battuti dagli elefanti. Così, studiare che strade prendono e perché le prendono potrebbe aiutare esperti ed istituzioni a proteggerli meglio. Tanto più che, ricordano gli scienziati – un team della University of Oxford, del German Centre for Integrative Biodiversity Research (iDiv), e della University Jena guidati da Emilio Berti – non si tratta di rischi potenziali, tutt’altro: le popolazioni di elefanti africani si stanno da tempo pericolosamente restringendo.

    Per analizzare i percorsi e i siti di interesse visitati dai pachidermi – nel nord del Kenya, studiati con la collaborazione della non profit Save The Elephants – i ricercatori si sono rifatti al concetto dei “paesaggi energetici” (più propriamente energy landscapes). Ovvero hanno analizzato i luoghi più battuti tenendo in considerazione anche il costo energetico per accedervi. Questo ha significato, nella pratica, capire che tipo di relazione c’era tra le traiettorie prese dagli animali e alcuni fattori in grado di pesare sul loro dispendio energetico. Tra questi ultimi figurano per esempio la stazza dell’animale, la distanza percorsa, l’abbondanza di risorse (che misura la convenienza o meno di un determinato percorso, stimata grazie alla raccolta di dati satellitari) e soprattutto le caratteristiche del terreno, come l’inclinazione, spiegano i ricercatori.

    I risultati delle loro analisi hanno mostrato, come anticipato, che gli elefanti cercano di ottimizzare gli sforzi, evitando nella stragrande maggioranza di casi terreni troppo scoscesi, soprattutto se si muovono più velocemente, e preferendo zone ricche di risorse, ma solo se si parla di vegetazione. Nei confronti dell’acqua infatti il comportamento degli elefanti è più variabile: non c’era una preferenza spiccata nei confronti delle aree più ricche. Secondo gli autori la presenza umana potrebbe spiegare in parte questo dato ma allo stesso modo la stagionalità, con l’abbondanza o meno di piogge, non è stata considerata e potrebbe avere un ruolo a loro sfuggito.

    Tutto questo per dire che, di certo, le strategie di movimento degli elefanti sono influenzate anche da altri fattori, ma la convenienza energetica ha un ruolo di primo piano, e dovrebbe essere tenuta in considerazione nello studio di strategie di tutela di questi animali. Senza dimenticare però che, e qui gli autori concludono, l’aumento delle temperature potrebbe cambiare le carte in tavola, facendo diventare magari convenienti percorsi che ora non lo sono. LEGGI TUTTO

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    Venezia a rischio inondazioni estreme entro il 2150

    Uno studio ipotizza scenari critici per l’intera laguna di Venezia e il Mose, attualmente progettato per proteggere la città dalle acque alte. Secondo i ricercatori dell’Istituto nazionale di Geofica e Vulcanologia (Ingv) le dighe mobili poste alle bocche di porto potrebbero non essere più in grado di difendere la laguna dall’Adriatico. Quando? Verso la fine di questo secolo.
    È quando emerso dai dati raccolti durante uno studio multidisciplinare dal titolo “Multi-Temporal Relative Sea Level Rise Scenarios up to 2150 for the Venice Lagoon” condotto da Ingv in collaborazione con Enti italiani e stranieri, pubblicato sulla rivista scientifica Remote Sensing.

    Uno studio basato sulle ultime proiezioni climatiche dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) e i dati geodetici disponibili per stimare l’estensione delle superfici esposte all’allagamento nei prossimi decenni, a causa dell’aumento del livello marino. “Scopo dell’indagine è proprio di fornire informazioni sulla prossima evoluzione dell’innalzamento del livello del mare nella laguna di Venezia per comprendere come possa influenzare una delle città più iconiche al mondo”, spiega Marco Anzidei, primo autore della ricerca condotta con Cristiano Tolomei, entrambi ricercatori Ingv. E i risultati sono stati scioccanti.

    Acqua alta in piazza San Marco  LEGGI TUTTO

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    Il cestino intelligente che differenzia i rifiuti automaticamente

    “Noi siamo una startup atipica: siamo partiti semplicemente da un bisogno. Avevo notato quanto si lamentassero tutti della raccolta differenziata e quanto quest’ultima sia diventata importante per le aziende che redigono il bilancio di sostenibilità. E così abbiamo messo insieme robotica, intelligenza artificiale e un approccio polivalente”, spiega Nicolas Lorenzo Zeoli, fondatore di Ganiga. La soluzione del primo team – appunto Gabriel, Nicola e Gabriele – puntava a rivoluzionare la gestione dei rifiuti creando un nuovo ecosistema tecnologico. Qualcosa che poi ha iniziato a prendere la forma di un cestino intelligente, con supporto alla localizzazione e capace di accogliere ogni tipo di rifiuto, nonché differenziare automaticamente. Insomma, una risposta al problema del conferimento corretto: ad esempio il Tetra Pak va nella carta, nella plastica o nell’indifferenziato? “Sembra banale ma i comuni hanno regole diverse perché tutto dipende dai singoli gestori ambientali. E anche questo è un tema chiave”, aggiunge Zeoli.

    Ufficiosamente la startup è nata a Bientina nel 2021. Una terra tra Lucchesia e Valdarno, dove convivono imprese di ogni settore: dall’alimentare, al pellame e all’energetico. In questi quattro anni c’è stata una rivoluzione nel team e una evoluzione nei progetti. “Ma non ho mai tradito la mia passione per l’invenzione e la robotica. E a metà 2022 ho lasciato il posto fisso in un’azienda che fa robot per il packaging per compiere il salto. Il primo vero prodotto è stato acquistato già da più di cento aziende, fra cui Google, Autogrill e Aeroporto di Bologna. Si chiama Hoooly! Indoor”. LEGGI TUTTO

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    Museo d’Orsay e i 100 capolavori che raccontano il clima

    La Normandia dipinta da Monet, Coubert e Caillebotte, i paesaggi di Delacroix. Pittori che già due secoli fa raccontavano il cambiamento climatico. Avevano colto i segni di quanto la rivoluzione industriale stava trasformando l’ambiente intorno a loro. Parte da questa considerazione l’idea del celebre Musèe d’Orsay di Parigi che da marzo al 15 luglio propone la mostra “100 œuvres qui racontent le climat”. Capolavori che lasceranno uno dei più prestigiosi musei del mondo per questa mostra itinerante in 12 regioni francesi. 31 gli istituti d’arte coinvolti, alcuni dei quali presteranno le loro opere.
    L’origine dalle trasformazioni del XIX secolo
    L’obiettivo è di accompagnare i visitatori in un “racconto del clima” attraverso quadri dipinti tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Le opere selezionate testimoniano, infatti, i rivolgimenti iniziati nel XIX secolo, nel pieno dell’industrializzazione, e raccontano le origini delle sfide climatiche che ci troviamo ad affrontare oggi. Il periodo coperto dalle collezioni esposte va dal 1848 al 1914, segnato dall’ascesa dei trasporti e dalle grandi accelerazioni tecnologiche sostenute dall’uso del carbone, del gas e del petrolio. Proprio sotto la spinta di questi cambiamenti, i paesaggisti francesi della metà del XIX secolo furono i primi a sostenere l’importanza della salvaguardia della natura.

    Come ha spiegato Sylvain Amic, presidente dell’Istituto pubblico del Musée d’Orsay e del Musée de l’Orangerie – Valéry Giscard d’Estaing durante la presentazione al Museo d’Orsay: “Più che una riflessione, questo progetto è un invito all’azione. Intrecciando legami tra arti, scienze e territori, le ‘100 opere che raccontano il clima’ ci incoraggiano a pensare al futuro con lucidità ma anche con speranza, trovando nel patrimonio una fonte di ispirazione e impegno”.

    La truite di Gustave Courbet  LEGGI TUTTO

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    Le case green? Si costruiscono con i container da smaltire

    Secondo la direttiva UE Case Green le nostre abitazioni dovranno consumare sempre meno energia e raggiungere la classe energetica E entro il 2030 con l’obiettivo emissioni zero del patrimonio edilizio europeo entro il 2050. Attualmente gli edifici, infatti, rappresentano circa il 40% del consumo energetico totale dell’UE, producendo il 36% delle emissioni inquinanti. Numeri importanti, per questo motivo il pacchetto normativo Ue punta non solo a migliorare l’efficienza energetica degli edifici esistenti, ma anche a garantire che le nuove costruzioni abbiano un impatto ambientale ridotto. Dai paesi del Nord Europa, da sempre più avanzati nello sviluppo di soluzioni abitative più ecologiche, arriva l’esempio di Keetwonen, in Olanda il più grande complesso di case fatte con container, destinate ad offrire una soluzione economica a circa 1.000 studenti, in una città come quella di Amsterdam, dove i prezzi degli affitti sono piuttosto elevati. In Danimarca, c’è un altro progetto, il CPH Village, mini-appartamenti per studenti anche questi costruiti con container dismessi, con una spesa media del 30% inferiore rispetto a case tradizionali.

    Transizione ecologica

    “Il mio bisnonno produceva sapone, oggi sviluppiamo materiali naturali dal sughero per case green”

    di Dario D’Elia

    19 Marzo 2025

    Le abitazioni costruite con container dunque, stanno diventando una soluzione abitativa sempre più diffusa grazie alla loro economicità, sostenibilità e rapidità di realizzazione. I container, abitualmente usati nel trasporto marittimo, a bordo di navi che trasportano merci in tutto il mondo, infatti, possono diventare spazi personalizzabili, riciclando circa 2 milioni di container che ogni anno vengono dismessi. Un’operazione che se compiuta su grande scala, sarebbe un esempio virtuoso di economia circolare. Ed i vantaggi non sono pochi. Uno dei principali è il basso costo, considerando che una casa in container varia tra 800 e 1.500 euro al metro quadrato, a seconda del livello di finitura e degli impianti installati. Altro punto di forza è la modularità dei container che possono essere assemblati in diverse configurazioni, per creare ambienti più ampi e complessi, adattandosi alle esigenze di chi li abita. La loro resistenza strutturale, progettata per affrontare condizioni atmosferiche estreme, li rende sicuri e durevoli nel tempo. Il fascino di queste abitazioni risiede nella loro versatilità e nel connubio tra innovazione e rispetto per l’ambiente e potrebbero rappresentare una soluzione utile anche in Italia per diverse ragioni: tra cui l’emergenza abitativa, visto che le case in container potrebbero offrire una soluzione rapida ed economica per il social housing, fornendo alloggi temporanei o permanenti per persone in difficoltà o ancora in caso di disastri naturali, come i terremoti, per la rapidità di costruzione.

    Inoltre l’Italia è uno dei Paesi più visitati al mondo e le case in container potrebbero essere utilizzate anche nel settore turistico, come strutture ricettive sostenibili, bungalow o eco-lodge. Ovviamente non mancano le criticità, come l’isolamento termico e acustico, infatti, i container sono costruiti in acciaio, che conduce facilmente sia il calore che il freddo, rendendo indispensabile l’installazione di adeguati sistemi di coibentazione. Se la direttiva europea stabilisce requisiti rigorosi per ridurre il consumo energetico, in questo caso, i container possono rappresentare una valida alternativa, ma solo se progettati secondo i criteri di efficienza, come l’uso di materiali isolanti avanzati e sistemi di energia rinnovabile. Nel nostro paese, c’è un’azienda specializzata in questo processo trasformativo – da container navali ad abitazioni – si chiama Green Living, ed è stata fondata nel 2016 da Vincenzo Russi, bio-architetto molto attivo anche nel promuovere green e sostenibilità delle abitazioni, di cui parlerà anche a Edilsocialnetwork BCAD, la fiera internazionale di Edilizia, Architettura e Design, a La Nuvola di Roma (19-21 settembre).

    Russi a Green&Blue ha spiegato come funziona il processo di trasformazione e quali sono gli aspetti di sostenibilità più importanti di una casa-container. “Acquistiamo container di due dimensioni, 16 e 35 metri quadri, che andrebbero in dismissione dopo aver svolto la loro attività di trasporto merci per 5 anni. Sono fatti di acciaio corten, il più resistente in commercio, praticamente indistruttibili, e ridiamo loro nuova vita connettendoli uno con l’altro, come dei mattoncini Lego, per realizzare case dai 50 ai 500 metri quadri, o altre soluzioni, come una caserma dei Carabinieri che abbiamo realizzato a Ravenna”, evidenzia Russi, che ha scoperto questo sistema di costruzione nel Regno Unito, e ha importato per primo l’idea in Italia, dopo aver studiato il modo di adattare le case-container alla normativa italiana, più restrittiva rispetto ad altri Paesi.

    Ricerca

    Così l’edilizia studia come intrappolare la CO2 nei materiali da costruzione

    di Sara Carmignani

    17 Gennaio 2025

    Tra i motivi che spingono una persona ad una soluzione abitativa così alternativa, in primis ci sono i costi. “Sono inferiori rispetto alle case in legno e costano la metà rispetto alle case tradizionali, si costruiscono rapidamente e sono resistenti anche a livello sismico”, spiega Russi. Ed a proposito di costi, “una villetta di 100 metri costa circa 80mila euro, indipendentemente dal costo del terreno, che varia in base alla location”, senza contare che se costruire una casa tradizionale genera in media 50 tonnellate di CO?, una casa in container può ridurre le emissioni fino al 60%, soprattutto se realizzata con materiali isolanti naturali.

    E dal punto di vista energetico? “Una casa-container ha la stessa coibentazione di una casa in legno, per essere riscaldata usiamo pompe di calore connesse all’impianto fotovoltaico da 8 kw ed alle batteria da 12 kw per l’accumulo energetico, che rendono la casa del tutto autosufficiente – evidenzia ancora Russi – senza contare che l’impiego di cemento si riduce ad appena 20 centimetri usati per il piano terra, su cui sono poggiati i container, per cui siamo totalmente dentro i parametri della direttiva Case Green”. LEGGI TUTTO