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    Stop alla caccia ai canguri: in Australia partono gli appelli dopo gli incendi

    Il dilemma dei canguri infiamma il dibattito in Australia. E sul più iconico dei mammiferi marsupiali si polarizza anche la comunità scientifica. Sotto la lente d’ingrandimento la regione dei Grampians, nello stato del Victoria, estremità sudorientale dell’Australia, 1.600 chilometri di costa.Qui gli incendi hanno mandato in fumo 76 mila ettari di vegetazione del Grampians National Park, con profondi sconvolgimenti della sua fauna. Quanto basta, secondo alcuni naturalisti, per porre fine – anche solo temporaneamente – all’abbattimento controllato delle popolazioni di canguri.

    Già, perché in cinque Stati australiani continentali la caccia per scopi commerciali dei mammiferi è consentita nel numero di 5 milioni di esemplari all’anno: carne e pellame alimentano un’industria controversa, che alcuni stati – in America, per esempio – e diversi brand tendono a boicottare (secondo la Lav, invece, l’Italia sarebbe il maggior importatore europeo di pelli di canguro, con 381 tonnellate tra il 2019 e il 2022).

    Nello stato del Victoria, in particolare, dallo scorso primo gennaio la quota di abbattimento consentita è di 106 mila canguri grigi all’anno, 32 mila dei quali proprio nelle are sud-occidentali, quelle più colpite dagli incendi. “Finché non saranno chiari gli impatti immediati e a lungo termine dei roghi, l’abbattimento dovrebbe essere precauzionalmente interrotto”, dice al “Guardian” Lisa Palma, amministratore delegato di Wildlife Victoria, organizzazione no profit che si occupa di fornire risposte alle emergenze legate alla fauna selvatica nello stato australiano. Palma ribadisce inoltre le preoccupazioni generali sulla pratica dell’abbattimento dei canguri, in particolare sull’individuazione delle quote, sull’assenza di una supervisione del programma e “sull’intrinseca crudeltà dello strumento”.

    Biodiversità

    Alberi più piccoli ed elefanti senza zanne: così la natura si adatta all’uomo

    di  Giacomo Talignani

    07 Gennaio 2025

    “La caccia commerciale è la migliore soluzione”
    Che gli incendi boschivi sia una cattiva notizia per i canguri è fatto abbastanza acclarato: ricercatrici come Holly Sitters, ecologista, impegnata nella tutela di specie animali minacciate: “Tutti i piccoli mammiferi – spiega – mostrano una preferenza schiacciante per le aree rimaste intatte negli ultimi decenni”. Studiando l’impatto degli incendi sui mammiferi, Sitters ha ammesso infine che piccoli incendi possono giovare ai canguri e ai mammiferi di grandi dimensioni, mentre quelli più vasti – proprio come quelli che hanno investito i Grampians – creano condizioni differenti: alcuni animali possono migrare in tempo, altri restare feriti o morire o, ancora, faticare a sopravvivere per scarsità di ciba”. E le stime parlano di 200 mila esemplari, tra canguri e wallaby, morti a seguito degli incendi estivi.Insomma, ce ne sarebbe abbastanza per ridiscutere le linee strategiche di ridimensionamento della popolazione dei canguri.

    Anche se non mancano pareri discordanti: “La cattura a scopi commerciali dei canguri può essere utile in alcune circostanze, e calcolare gli effetti degli incendi sulla fauna selvatica è complesso”, spiega al Guardian Euan Ritchie, docente di ecologia e conservazione della fauna selvatica alla Deakin University. La rimozione del predatore naturale dei canguri, il dingo, ha causato un incremento della loro popolazione, con effetti negativi sul recupero della vegetazione post-incendi.

    “In assenza di un equilibrio naturale, la caccia è forse la migliore soluzione che abbiamo al momento, soppesando pro e contro”. E il Dipartimento per l’Ambiente dello stato della Victoria non sembra intenzionato a tornare sui suoi passi.

    Biodiversità

    Così il lupo in Europa torna a essere un bersaglio

    di WWF ITALIA

    03 Dicembre 2024

    Genovesi (Ispra): “Non venga meno il principio di sostenibilità”
    Al caso australiano guarda con interessa anche Ispra, in prima linea in Italia nello studio dell’equilibrio degli ecosistemi e nel suggerimento di strategie efficaci per scongiurare squilibri e declino delle singole specie. “Bisogna distinguere tra prelievi fatti per la caccia, che dovrebbero sempre seguire un principio di sostenibilità, e il controllo di specie che causano impatti eccessivi o che sono pericolose per l’uomo. – spiega subito Piero Genovesi, che per Ispra è responsabile della conservazione della fauna e del monitoraggio della biodiversità – Quando parliamo di attività ricreative sarebbe corretto, nel caso di incendi o altri fenomeni che causano impatti sulle specie selvatiche, sospendere o ridurre i prelievi, per non sommare un ulteriore effetto negativo. Diverso – prosegue Genovesi – è il discorso se parliamo ad esempio di specie aliene, introdotte dall’uomo, il cui controllo è essenziale per tutelare gli habitat naturali. L’Australia è il paese al mondo che ha avuto più estinzioni nei secoli passati, causate nella gran parte dei casi da specie aliene, come conigli, volpi, gatti, ratti o cammelli.

    Per esempio, in Australia vivono 1.7 milioni di volpi, introdotte dall’uomo, che uccidono ogni anno oltre 300 milioni di animali autoctoni e hanno causato molte estinzioni di mammiferi autoctoni. Una sospensione dei piani di controllo di alcune di queste specie potrebbe mettere in pericolo specie uniche e vulnerabili”.

    In casi analoghi a quanto sta accadendo in Australia, in concomitanza cioè con incendi boschivi di grandi dimensioni o di tempeste come Vaia, Ispra ha suggerito alle Regioni di sospendere o regolamentare meglio i prelievi delle specie, in attesa di comprendere i danni agli ecosistemi.

    Le idee

    Coesistenza tra uomo e fauna selvatica: il futuro in una pillola

    di Andrea Monaco

    22 Ottobre 2024

    Dagli orsi ai cervi, quando il “problema” è a casa nostra
    Ma il tema dei piani di abbattimento delle specie di fauna selvatica continua, dunque, ad alimentare dibattito, con posizioni spesso polarizzate tra i due estremi, il partito di chi preferirebbe scongiurare l’uccisione degli animali considerati in eccesso, soprattutto quando si tratta di specie carismatiche e di appeal per il grande pubblico, e quello di chi invece propende per metodi risoluti, nei quali l’uomo si assegna il ruolo di regolatore del riequilibrio degli ecosistemi. “La verità è che se in alcune aree abbiamo irrimediabilmente eliminato o ridotto i fattori che naturalmente limitavano la diffusione incontrollata di alcune specie animali, il fattore di riequilibrio possiamo essere solo noi”, spiega Nicola Bressi, naturalista e zoologo del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste.

    Ma se per i cinghiali e per le nutrie, la cui diffusione incontrollata ha creato diversi problemi in Italia, l’opinione pubblica non sembra osteggiare i piani di contenimento, è per specie più carismatiche che divampano, puntuali, le polemiche. Con code giudiziarie, come per il piano di abbattimento dei cervi in Abruzzo, con il Consiglio di Stato che lo scorso novembre, ribaltando l’ordinanza del Tar, ha disposto la sospensione della delibera con cui la giunta regionale bandisce la caccia selettiva di 469 cervi considerati “in soprannumero”, per limitare i “danni all’agricoltura” e “gli incidenti stradali”. Accogliendo le ragioni di Wwf, Av, Lndc e Animal Protection. Qualche mese fa aveva invece fatto discutere, per esempio, la decisione della Svezia di concedere licenze per abbattere il 20% della popolazione di orsi bruni, una percentuale che le associazioni impegnate nella difesa degli animali e della biodiversità avevano considerato troppo elevata. LEGGI TUTTO

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    Maratona, i tempi si allungano quando l’inquinamento aumenta

    Le maratone più blasonate, per storia, percorsi, organizzazione e partecipazione, hanno luogo presso grandi centri cittadini – vedi le magiche Majors -, con tutti i pro e i contro del caso. Se da un lato in genere organizzare una maratona in una città permette di rendere più semplice la logistica e l’offerta dei servizi, dall’altro correre in città non è l’ideale per la salute dei runner. I centri cittadini infatti possono avere concentrazioni maggiori di inquinanti, che rischiano di minare la loro salute e di pesare sulle performance degli atleti stessi. Lo suggerisce oggi uno studio pubblicato su Sports Medicine da alcuni ricercatori interessati a comprendere se, come e quanto il particolato atmosferico influenzasse gli esiti della gara stessa.

    Nel dettaglio, si legge nel paper, sono stati analizzati i tempi di arrivo di circa 1,5 milioni di uomini e di un milione circa di runner donne, che avevano partecipato a diverse maratone americane tra gli anni 2003 e 2019, messi in correlazione con i livelli di inquinanti. Ed è in questo modo che i ricercatori hanno osservato come, all’aumentare dell’inquinamento, i tempi di arrivo erano generalmente più lunghi per gli atleti. Di quanto? In media sul cronometro si avevano 32 secondi in più per gli uomini e 25 secondi in più per le donne all’aumentare di solo 1 µg/m3 nei livelli di particolato PM2.5.

    Salute

    Restare al chiuso non salva dall’inquinamento: lo studio

    di Giuditta Mosca

    03 Dicembre 2024

    Se lo applicassimo al momento in cui scriviamo, un freddo giorno di gennaio, per le città di Roma e Torino (sedi di maratone a fine inverno e tardo autunnali), che hanno esattamente questa differenza per questo inquinante secondo i dati riportati dalla piattaforma IQAir, i maratoneti potrebbero andare più lenti nella città piemontese rispetto alla capitale (in entrambi i casi comunque con livelli di particolato considerati accettabili, tra 5 e 6 µg/m3).

    Secondo i ricercatori della Brown University School of Public Health di Providence, a capo dello studio, a inficiare le performance sarebbero una serie di possibili effetti a livello cardiorespiratorio indotti dal particolato, dall’aumento della pressione alla ridotta funzionalità polmonare. Se siano effettivamente questi i motivi non è chiaro, ma vale la pena approfondire gli studi: “Sebbene siano necessarie ulteriori ricerche per caratterizzare l’eterogeneità degli effetti nell’intero spettro delle prestazioni – concludono gli autori – questi risultati mostrano l’impatto del PM2.5 sulle performance in maratona e l’importanza di considerare i dati di più competizioni quando si stimano gli effetti del PM2.5”.

    Le città europee con l’aria più pulita

    di Roberto Bargone

    20 Settembre 2024

    Anche perché, fa notare dalle pagine di Outside Alex Hutchinson, ex ricercatore ed esperto reporter del mondo sportivo dell’endurance, i tempi di percorrenza di una stessa maratona, per un runner, corsa in condizioni di inquinamento molto diverse, potrebbero differire di diversi minuti. LEGGI TUTTO

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    Bucaneve, il fiore dell’inverno

    In apparenza fragili e delicati, i Bucaneve in realtà sono molto resistenti, tanto da fiorire nel bel mezzo della stagione invernale. Conosciuti anche come “stelle del mattino”, i Bucaneve, lo dice il nome stesso, sono tra i primi a spuntare direttamente dalla neve: bianchi ed eleganti affascinano sempre per la loro incredibile bellezza. Prendersi cura dei Bucaneve non è così complesso, motivo per il quale sono adatti anche a chi è meno esperto in giardinaggio.

    Bucaneve, il fiore dell’inverno: coltivazione
    Coltivare i Bucaneve (nome botanico Galanthus nivalis) non è difficile. Pianta bulbosa perenne, è tipica del periodo invernale e non ama di conseguenza le temperature alte o il sole diretto. Le piantine solitamente raggiungono un’altezza di circa 15 cm e possono essere piantate sia in giardino (aiuole soprattutto), sia in vaso, abbinandole in questo caso con altri bulbi a fiore.

    Esposizione: dove posizionare il Bucaneve
    I Bucaneve crescono sia in pieno sole, sia in zone di mezz’ombra, purché ci sia un’adeguata illuminazione e ci sia un costante riparo dagli agenti atmosferici fastidiosi come il vento. Durante l’inverno, la sua stagione preferita, al Bucaneve piacciono anche posizioni assolate, mentre in estate preferisce l’ombra.

    Affinché il benessere di questa pianta bulbosa sia sempre costante, converrebbe coltivarla o sotto alberi e arbusti decidui (quindi spogli in inverno e rigogliosi in estate), o in vasi da spostare a seconda delle necessità ma soprattutto a seconda della luce.

    Bucaneve: terreno e concimazione
    La preparazione del terreno per il Bucaneve è forse una delle parti più importanti riguardanti la sua coltivazione. Anzitutto, questo deve essere un mix perfetto tra umidità, drenaggio e concimazione. Prima ancora di piantare i Bucaneve, il terreno dovrà essere lavorato per renderlo il più soffice possibile, ma dovrà anche essere ripulito da eventuali residui e/o sassi che potrebbero ostacolarne la crescita.

    I piccoli bulbi di Bucaneve vanno messi a dimora presto (da settembre in poi), a una profondità di circa il doppio del loro diametro e in terreni leggeri, freschi e ricchi proprio di humus. Durante il periodo estivo si devono obbligatoriamente evitare terreni aridi e soleggiati. Se i Bucaneve sono coltivati in vaso, è consigliabile porre uno strato di biglie d’argilla sul fondo: questo favorirà il benessere della pianta e ne ridurrà il ristagno idrico, nemico numero uno della pianta.

    Irrigazione
    Durante il periodo della fioritura, quindi dall’inverno all’inizio della primavera, la siccità è da evitare assolutamente. In caso di mancate piogge o se semplicemente il vaso in cui il Bucaneve è piantato non è esposto alla pioggia, è necessario procedere con l’innaffiatura, che deve essere regolare e non eccessiva. Tra un’irrigazione e l’altra deve passare del tempo: prima di procedere con la successiva assicurarsi sempre che il terreno si sia asciugato adeguatamente. Viene da sé che in estate, con la siccità che avanza, le irrigazioni dovranno essere più frequenti.

    Anche la qualità dell’acqua è importante: al di là della pioggia, la migliore per le piante, si dovrebbe utilizzare acqua povera di calcare, cercando anche di evitare il più possibile la formazione di acqua stagnante.

    Quando (e come) piantare i bulbi di Bucaneve
    Quanto è importante la messa a dimora dei Bucaneve? Moltissimo. Anzi, potremmo definirla essenziale ai fini di una corretta fioritura della pianta. Il momento ideale per piantare i bulbi di Bucaneve è l’autunno, tra settembre e novembre. In questo modo i bulbi avranno tutto il tempo necessario per radicarsi nel terreno prima dell’arrivo ufficiale del freddo e troveranno un terreno ancora tiepido/caldo dall’estate, perfetto per la crescita delle radici.
    I bulbi di Bucaneve dovranno essere piantati a una profondità di circa 5-7 cm e a una distanza di 7-10 cm l’uno dall’altro. Così facendo si garantirà loro il giusto spazio per crescere liberamente senza ostacoli.

    Fioritura del Bucaneve: ecco cosa sapere
    Il Bucaneve è un fiore che fiorisce in pieno inverno, anche con freddi molto pungenti. È proprio questa la caratteristica che lo rende affascinante e meraviglioso: vederlo spuntare da sotto la neve è sempre suggestivo! La fioritura di questa pianta bulbosa avviene tra gennaio e febbraio (ma può estendersi anche a marzo) ed è proprio per questo che si considera simbolo di rinascita, rappresentando a tutti gli effetti l’avvicinarsi della primavera. I fiori del Bucaneve si riconoscono per la loro forma a campanula, per il colore bianco candido e per il gradevole profumo che emanano. L’estetica è un punto molto forte della pianta, che la rende elegante e raffinata, ma allo stesso tempo assai resistente.
    Cosa fare quando il Bucaneve sfiorisce
    Una volta finita la fase della fioritura, i Bucaneve entrano d’ufficio in quella che di solito si chiama “fase di riposo”, essenziale nella preparazione della pianta a un nuovo ciclo di vita. Passata la fioritura, si comincerà a notare un certo ingiallimento delle foglie: in questo caso è importante lasciare che la pianta faccia tutto da sola, evitando di rimuovere le parti secche e/o morte, perché questo potrebbe sia impoverire i bulbi, sia comprometterne la nuova fioritura.
    Inoltre, è consigliabile anche nutrire il terreno subito dopo la fioritura dei Bucaneve: in questo modo i bulbi si arricchiranno delle giuste sostanze durante tutto il resto dell’anno.

    Bucaneve: come proteggerlo da malattie e parassiti
    Sebbene sia particolarmente resistente, il Bucaneve può essere “vittima” di qualche malattia. Il suo nemico numero uno è senza ombra di dubbio il ristagno idrico, capace di fare nascere funghi e marciume. Anche la muffa grigia può colpirlo e di solito questo avviene quando la pianta inizia a germogliare. Riconoscere la muffa grigia è piuttosto semplice: si presenta come peluria bianca e avvolge le punte dei germogli. Se doveste notare una situazione simile, è bene intervenire subito, eliminando questo leggero strato di peluria e, successivamente, applicare un prodotto specifico. Le regole per il benessere del Bucaneve? Giusta quantità di luce, terreno umido e ben drenato. LEGGI TUTTO

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    Vuoto a rendere per il bicchiere di plastica: l’esperimento riuscito in Danimarca

    In Danimarca la più grande città della penisola dello Jutland, Aarhus, detiene un invidiabile primato: grazie al vuoto a rendere nel 2024 ha sottratto agli inceneritori 735.000 bicchieri di plastica. Su una popolazione di circa 350mila persone, per lo più abituata a consumare fuori casa bevande calde e fredde di ogni tipo, appare come un grandissimo risultato. Senza un cambio di rotta gli inceneritori sarebbero stati costretti a bruciare oltre 14 tonnellate di plastica, con conseguenti emissioni di CO2 a dir poco preoccupanti.

    E dire che il concetto è semplice, perché il vuoto a rendere nasce più di 200 anni fa in Gran Bretagna con il mercato dell’acqua gassata e della tonica. L’idea è che si paghi per il contenuto e il contenitore, e dopo la restituzione del contenitore di goda di un rimborso. Così è avvenuto a partire da gennaio dello scorso anno nella cittadina danese di Aarhus grazie all’impegno industriale di Tomra, una delle aziende leader nel settore del riciclo dei rifiuti. In pratica con un progetto sperimentale della durata di tre anni si è cercato di risolvere il problema della raccolta e riutilizzo dei bicchieri di plastica. Anche perché secondo Simon Smedegaard Rossau, project manager della municipalità, l’analisi dei rifiuti aveva fatto emergere che il 45% “proveniva da imballaggi da asporto”. Dopodiché c’è voluto un po’ di impegno logistico, tecnologico e di sensibilizzazione culturale. LEGGI TUTTO

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    Meno neve e per meno tempo: l’allarme di Legambiente per le montagne

    Dalle Dolomiti al Monte Bianco, dal Cervino al Gran Sasso, in Italia nevica sempre di meno. La causa è la grave crisi climatica che sta investendo soprattutto le Alpi, il “castello d’acqua d’Italia”. Qui, più che altrove, si vedono chiari i segni di sofferenza: la durata del manto nevoso nell’ultimo secolo si è accorciata in media di un mese a causa del riscaldamento atmosferico di circa 2 °C. Così mentre ci prepariamo a celebrare il 19 gennaio la Giornata Mondiale dedicata alle neve emerge chiaramente la fragilità dell’ecosistema montano e la necessità di un’azione concreta. E non si tratta solo di salvaguardare un patrimonio turistico e sportivo, ma di tutelare una risorsa ambientale fondamentale. Non solo. Lo sconvolgimento che sta avvenendo in alta quota influisce negativamente sull’approvvigionamento idrico di vaste aree. Neanche le nevicate tardive della scorsa primavera hanno portato i benefici sperati.

    Un’immagine della Carovana dei ghiacciai 2024  LEGGI TUTTO

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    Così l’edilizia studia come intrappolare la CO2 nei materiali da costruzione

    Ogni anno vengono utilizzati circa 30 miliardi di tonnellate di cemento in tutto il mondo per costruire abitazioni, aziende ed edifici di ogni genere. E se trovassimo un modo per immagazzinare a lungo termine l’anidride carbonica, uno dei principali gas responsabili dell’effetto serra e quindi dell’aumento delle temperature globali, all’interno di questo materiale? È la domanda che si è posto un gruppo di ricercatori e ricercatrici, autori di uno studio pubblicato su Science. La risposta? Usare non solo il cemento ma anche altri materiali da costruzione a questo scopo potrebbe permetterci di intrappolare in modo duraturo fino a 16 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno, circa la metà di quella emessa a causa delle attività antropiche nel corso di tutto il 2021.

    In generale, una delle possibili strategie per fare fronte all’emergenza climatica è quella di progettare dei sistemi che imitino in sostanza quello che le piante fanno da sempre: assorbire la CO2 dall’atmosfera, trasformarla in composti che intrappolano il carbonio in modo stabile e immagazzinare questi ultimi a lungo termine da qualche parte. La domanda delle domande è dove. Nel corso del tempo c’è chi ha proposto di creare dei depositi sotterranei o addirittura sottomarini, approcci che però non sono privi di rischi ambientali e anche di difficoltà tecniche.

    “E se invece potessimo sfruttare i materiali che già produciamo in grandi quantità per immagazzinare il carbonio?”, si chiede Elisabeth Van Roijen, prima firma del nuovo studio, a cui ha partecipato durante il dottorato di ricerca condotto presso la University of California di Davis (Stati Uniti).

    Transizione ecologica

    Obiettivo decarbonizzazione delle città: il primo cemento a bilancio zero di emissioni CO2

    di Gabriella Rocco

    21 Agosto 2024

    Fra gli approcci presi in considerazione dal gruppo di ricerca c’è per esempio quello di inserire componenti “carbonatabili” all’interno dei materiali da costruzione. Alcuni esempi sono gli ossidi di magnesio, ferro e calcio, che sono in grado di reagire con la CO2 per formare dei carbonati stabili. Un’altra possibilità analizzata dagli autori della ricerca, anche in combinazione con la prima, è quella di aggiungere biochar al cemento, ossia una sostanza ottenuta dal riscaldamento controllato (pirolisi) delle biomasse, i residui agricoli che non entrano nel mercato alimentare. Dato che le biomasse derivano dalle piante, l’idea in questo caso sarebbe quella di stoccare in modo duraturo l’anidride carbonica che le piante hanno già assorbito e convertito in composti stabili a base di carbonio mentre erano in vita. Con lo stesso principio, Van Roijen e colleghi hanno inoltre preso in considerazione l’idea di utilizzare fibre ottenute a partire da biomasse per ottenere per esempio mattoni, asfalto, plasitca o altri materiali da costruzione.

    Fra tutti quelli analizzati, i materiali che più si presterebbero allo scopo di immagazzinare elevate quantità di anidride carbonica a lungo termine sono risultati essere il cemento, l’asfalto e i mattoni, soprattutto per il loro ampio impiego su scala globale.

    Una delle sfide con cui questa tecnologia potrebbe dover fare i conti, spiega però l’esperto di politiche energetiche e climatiche Christopher Bataille in un articolo di commento sempre pubblicato su Science, è l’approvvigionamento delle materie prime. La distribuzione degli ossidi dei minerali in grado di reagire con l’anidride carbonica per formare carbonati stabili, infatti, non è uniforme a livello globale. Inoltre, avverte Bataille, sarà necessario mettere in piedi un solido sistema di monitoraggio e verifica, per evitare per esempio che la produzione di materiali di questo tipo diventi un ambito di investimento per le aziende in termini di acquisto di crediti di carbonio. In altre parole, le industrie potrebbero cercare di acquistare crediti di carbonio dai produttori di questi materiali per compensare le loro emissioni, senza agire a monte per ridurle. Il che potrebbe vanificare gli sforzi che sono alla base di tutto il progetto.

    Ciononostante, conclude Bataille, “con un’adeguata incentivazione e un adeguato monitoraggio, l’uso di materiali da costruzione che immagazzinano CO2 potrebbe fornire un metodo praticabile per la rimozione dell’anidride carbonica su scala di miliardi di tonnellate a un costo ragionevole”. LEGGI TUTTO

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    La citizen science per monitorare l’invasione dell’ibis sacro nel Sud Italia

    Gli occhi dei cittadini sull’ibis sacro. Perché quell’uccello dal lungo becco ricurvo, cui gli antichi Egizi si ispirarono per rappresentare la divinità Thot, dio della sapienza, della scrittura e della matematica, è in realtà un invasore alieno. E sta creando forti squilibri agli ecosistemi di casa nostra.Un nuovo progetto di citizen science, “Sacro a Sud”, chiama così a raccolta appassionati di birdwatching e semplici cittadini per il primo censimento della specie alloctona, originaria dell’Egitto e dell’Africa subsahariana, nel Sud Italia e nelle isole maggiori. Del resto, l’uccello è ben riconoscibile e per la verità anche particolarmente apprezzato dai non addetti ai lavori. Ma la sua storia, e le ultime evidenze, suggeriscono di correre ai ripari.

    Già perché a partire dal primo nucleo, giunto in Italia nei primi anni ’90, probabilmente in seguito alla fuga di alcuni individui da parchi zoologici e giardini privati francesi, la specie si è gradualmente diffusa in lungo e in largo per il nostro paese. Dando vita, a partire dalle prime storiche nidificazioni nelle regioni del nord ovest, in prossimità di aree umide, anche artificiali, come le risaie di Novara e Vercelli, a popolazioni sempre stabili, proprio come avviene per le specie aliene di successo, granchio blu in primis. Una storia decisamente differente rispetto a quella del “cugino”, l’ibis eremita, a rischio estinzione e oggetto di un lungo e complicato percorso di reintroduzione in natura.

    No, l’ibis sacro se la passa invece decisamente bene, anche troppo. Perché compete con specie autoctone, portando loro via spazio e risorse. Nel Nord Italia nel 2019 sono stati censiti 32 siti di nidificazione, con un numero di coppie stimato in 1249. Addirittura 11mila gli individui distribuiti in almeno diciannove dormitori diversi.

    Biodiversità

    Il chiurlo dal becco sottile è stato dichiarato estinto

    di  Paola Arosio

    13 Dicembre 2024

    Invadendo verso Sud
    E nel Mezzogiorno? La mappa di Ispra (www.specieinvasive.ispraambiente.it) va certamente aggiornata. “Dallo scorso registriamo un notevole incremento delle osservazioni anche qui, dove la specie risultava praticamente assente”, spiega l’ornitologo Rosario Balestrieri, presidente dell’associazione Ardea, che ha promosso il progetto insieme con STORCAL (Stazione ornitologica calabrese) e SOA (Stazione Ornitologica Abruzzese), con il patrocinio del CISO, il Centro Italiano Studi Ornitologici. L’obiettivo è quello di monitorare la consistenza numerica, le preferenze ambientali e la dieta della specie: così, mentre gli esperti porteranno avanti le osservazioni sul campo, ai cittadini viene chiesto di collaborare, segnalando gli incontri con l’ibis sacro – una specie particolarmente semplice da riconoscere per via del lungo collo, del piumaggio candido e dell’inconfondibile testa nera con becco ricurvo – su un apposito form, caldeggiata è anche l’iscrizione al gruppo Facebook dedicato al progetto. E le adesioni sono subito state consistenti: oltre 200 nelle prime 24 ore dal lancio.

    Biodiversità

    Le specie aliene “emigrano” per evitare l’estinzione

    di  Pasquale Raicaldo

    12 Dicembre 2024

    Conoscere per intervenire
    Il monitoraggio potrebbe consegnare ai decisori politici considerazioni nuove sull’opportunità di un’eradicazione della specie, che Ispra considera “tecnicamente fattibile, se opportunamente pianificata”, specificando tuttavia che è preferibile intervenire “su popolazioni non numerose e a uno stadio di insediamento precoce”. Potrebbe essere troppo tardi? “Conoscere resta un tassello fondamentale, gli uccelli alieni che si riproducono in Europa sono oltre 70 e quasi tutte sono giunte qui da noi come specie ornamentali, per poi evadere accidentalmente. – annota Balestrieri – Così sono tutte caratterizzate dalla particolare storia etnozoologica, da livree sgargianti e forme esotiche e dunque facilmente riconoscibili anche dai non esperti e adatte alla citizen science”. E del resto non è la prima volta che la citizen science scende in campo per aiutare gli esperti nel monitoraggio delle specie aliene, circa trecento in tutta Italia: particolarmente gettonato, per esempio, il progetto AlienFish, che prevede lo studio e il monitoraggio di specie ittiche rare e non-indigene nei mari italiani attraverso le segnalazioni di cittadini, in particolare sub e pescatori. LEGGI TUTTO

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    “Treintrots” e altri neologismi climatici, così la crisi cambia la nostra lingua

    Ci sono aridificazione, che indica l’estensione del clima siccitoso ad aree in precedenza temperate, e downburst, evento estremo caratterizzato da forti correnti d’aria discensionali che in prossimità del suolo si trasformano in venti violentissimi. E ancora: fire weather, letteralmente meteo da fuoco, che ha creato condizioni ideali per gli incendi che hanno colpito Los Angeles, ed e-fuel, il combustibile di origine sintetica prodotto utilizzando energia elettrica da fonti rinnovabili.Si parla sempre più di apartheid climatico, ovvero l’emarginazione di gruppi di popolazione a causa del climate change, e climatariano, termine che definisce chi è particolarmente attento all’alimentazione come strumento di mitigazione del riscaldamento globale.

    La lingua cambia e si evolve e il cambiamento climatico, fenomeno senza precedenti in termini di dimensioni e conseguenze potenziali, impone di utilizzare nuove strategie per comprenderlo. Con parole e unità lessicali del tutto nuove che si radicano nell’immaginario collettivo, finiscono sui giornali e in televisione, si diffondono nelle comunità di parlanti.

    Scienza

    Dal clima alle pandemie, cosa ci aspetta nel 2025 secondo “Science”

    di  Giacomo Talignani

    04 Gennaio 2025

    Ora è un progetto di ricerca, Néofix, che coinvolge il Centro di Ricerca Interdipartimentale per le Lingue e le Letterature Straniere (CRILLS) diretto da Raffaella Antinucci dell’Università di Napoli Parthenope e l’Università Paris Nanterre, con il sostegno dall’Académie Française, a esaminare l’elenco corposo di neologismi che, come spiegano le ricercatrici Silvia Zollo e Pauline Bureau, “designano forme di risposta al cambiamento climatico, ovvero unità lessicali introdotte di recente il cui referente costituisce una forma di azione climatica in sé o uno strumento che promuove l’azione in questione”. Non tutte le parole si affermano, né lo fanno con la stessa efficacia: è, come accade sempre, la comunità di parlanti a certificarne l’indice di penetrazione.

    Che vuol dire marsification?
    “Unità lessicali come come climate change adaptation, Net zero emission, marsification (l’unione di ‘Mars’ e ‘colonisation’, viene utilizzata tanto per indicare il progetto di una colonia sul pianeta Marte quanto per descrivere la trasformazione del nostro pianeta in una landa arida e desolata simile al pianeta rosso, ndr), la gettonatissima giustizia climatica (o climate justice, la correlazione tra il cambiamento climatico e le sue implicazioni sociali e politiche, specialmente per le classi sociali meno agiate) ed energy sobriety sono manifestazioni di un certo adattamento del linguaggio a questo fenomeno, che si rinnova in risposta all’introduzione di nuovi strumenti per affrontarlo”, spiega ancora la ricercatrice. Per identificare e analizzare i neologismi il team di ricerca ha assunto come riferimento soprattutto testi in italiano e in francese che trattano di questioni climatiche: relazioni di esperti sul clima e articoli di stampa, ma anche racconti di fantasia sul cambiamento climatico, noti in inglese come climate-fictions o “cli-fi”, un genere letterario relativamente libero da vincoli metodologici e stilistici rispetto al discorso degli esperti. “L’ipotesi di fondo è che alcuni di questi neologismi possano rivelarsi un mezzo per arricchire la gamma di strumenti linguistici e concettuali per immaginare il cambiamento climatico o influenzare l’azione climatica”, spiegano i ricercatori.

    “Treintrots”, un’espressione ad hoc per chi preferisce il treno
    Di qui, per esempio, l’avanzata – per la verità solo nei linguaggi specialistici – di espressioni come flygukam e treintrots, prestiti dallo svedese che designano la ‘vergogna di volare in aereo’ (gli aerei sono tra i principali responsabili delle emissioni di CO2) e ‘la propensione a vantarsi di viaggiare in treno’. Diffusa anche nel linguaggio dei media, rileva la ricerca, l’espressione climate finance, che si riferisce ai finanziamenti messi a disposizione per implementare progetti di mitigazione e adattamento dei cambiamenti climatici.

    La storia

    Non è vero che le enciclopedie sono destinate a scomparire

    di  Pier Luigi Pisa

    24 Dicembre 2024

    Qualcuno ha detto Pirocene?
    Si adeguano anche i dizionari. Treccani ha già accolto alcuni inglesismi sempre più pervasivi come carbon neutrality, espressione che indica l’obiettivo di bilanciare le emissioni di anidride carbonica, climate resilience (la capacità di adattamento a eventi climatici estremi) e l’ormai diffuso greenwashing – che designa pratiche ingannevoli di marketing ecologico da parte delle aziende senza reale impegno per la sostenibilità. Trovano spazio anche negazionismo climatico e l’iconico Pirocene, che indica “il periodo storico più recente, caratterizzato dall’aumento della quantità di incendi di vaste proporzioni collegati al peggiorare delle condizioni climatiche provocato dal riscaldamento globale”.

    E anche i curatori dei dizionari Zingarelli 2024 e 2025 hanno intensificato l’attenzione verso il linguaggio emergente legato al cambiamento climatico. “Del resto, i neologismi riflettono la crescente preoccupazione e consapevolezza dell’impatto ambientale nella società contemporanea”, spiegano Zollo e Bureau. Termini come climaturgente e sostenibilità attiva sono stati inclusi, ad esempio, per descrivere il crescente impulso verso l’azione climatica e la responsabilità collettiva: una evoluzione linguistica che evidenzia non solo la necessità di adattare il linguaggio alle problematiche odierne, ma anche il ruolo cruciale della lingua nel sensibilizzare l’opinione pubblica sulle questioni ambientali. E ci sono poi eco-colpa ed eco-bara, resilienza climatica e climate diplomacy, oltre all’ormai dilagante ecoansia, forma di disagio psicologico provocato – soprattutto all’interno della Generazione Z – dalla consapevolezza dei problemi ecologici). “Una marea di neologismi che non solo arricchiscono il linguaggio – spiegano i ricercatori – ma stimolano anche una riflessione critica e il dialogo collettivo sulle sfide ambientali contemporanee”. LEGGI TUTTO