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    Ue, rinviata la legge contro la deforestazione: cosa c’è da sapere

    L’Europa si spacca sul “no” alla deforestazione. La plenaria del Parlamento europeo ha adottato con 371 voti a favore, 240 contrari e 30 astenuti la proposta di rinvio di un anno dell’attuazione della legge, con alcune modifiche al testo proposte dal gruppo Ppe, tra cui la richiesta di aggiungere una categoria di ‘’Paesi a rischio zero’’ a cui garantire requisiti semplificati. Una categoria che – denunciano le associazioni ambientaliste, Wwf in primis – “aprirebbe la porta ad abusi di vasta portata”.

    Proprio in queste ore la Commissione europea sta analizzando gli emendamenti “prima di prendere una posizione ufficiale”, come chiarito dal portavoce della Commissione Ue Adalbert Jahnz. A votare a favore del rinvio dell’attuazione della legge contro la deforestazione, con alcune modifiche al testo proposte dal gruppo Ppe, i Popolari, dei Conservatori, dei Patrioti e dell’ultra destra dell’Europa delle Nazioni Sovrane. Compatte le delegazioni italiane: favorevoli al rinvio Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia in linea con Ecr, Patrioti e Ppe; contrari gli eurodeputati del Pd, dei Verdi e delle Sinistre dell’Unione europea.

    Ma in cosa consiste la legge contro la deforestazione, che entrerà in funzione il 30 dicembre 2025 per le grandi aziende, e il 30 giugno 2026 per le Pmi? E quali sono i nodi cruciali sui quali la politica non ha una visione concorde?

    Perché è importante interrompere i processi di deforestazione?
    Per il contrasto al cambiamento climatico e per la protezione e il ripristino della biodiversità. Secondo una stima dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), tra il 1990 e il 2020, 420 milioni di ettari di foreste – un’area più grande dell’intera estensione dell’Unione Europea — sarebbero stati convertiti da foreste in terreni per uso agricolo. I consumi dell’UE sono responsabili di circa il 10% di questa deforestazione globale. Olio di palma e soia sono responsabili per oltre due terzi della deforestazione.

    In particolare, l’Unione Europea sarebbe responsabile del 10% della deforestazione mondiale: una mancata entrata in vigore del regolamento si tradurrebbe – secondo le stime – a una deforestazione annua di 284 mila ettari di deforestazione, per un totale di 32 milioni di tonnellate annue, secondo le stime di TDi Sustainability.

    In cosa consiste il regolamento europeo contro la deforestazione?
    La normativa, che prende le mosse dall’esigenza di contrastare i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità, impone alle imprese di garantire che i prodotti venduti nell’UE non siano all’origine di deforestazione. Il Parlamento europeo aveva approvato in via definitiva una legge che prevede che le aziende potranno vendere nell’UE solo i prodotti il cui fornitore abbia rilasciato una dichiarazione di “diligenza dovuta” (due diligence, in inglese) che attesti che il prodotto non proviene da terreni deforestati e non abbia contribuito al degrado di foreste, comprese le foreste primarie insostituibili, dopo il 31 dicembre 2020. Le imprese dovranno inoltre verificare che tali prodotti siano conformi alla legislazione pertinente del paese di produzione, anche in materia di diritti umani, e che i diritti delle popolazioni indigene interessate siano stati rispettati.

    Quali sono le principali cause della deforestazione?
    Secondo le stime del Wwf, quasi il 90% della deforestazione, soprattutto nelle zone tropicali e subtropicali ricche di biodiversità, è causata dai nostri consumi: l’Unione europea è il secondo maggiore “importatore” di deforestazione tropicale al mondo dopo la Cina, l’Italia è il secondo maggiore consumatore di materie prime a rischio di distruzione di natura, essendo responsabile – secondo il Wwf – della deforestazione di quasi 36.000 ettari all’anno. Ogni italiano con i propri consumi alimentari è responsabile della deforestazione di 6 metri quadrati l’anno.

    Quali sono i prodotti interessati dalla nuova normativa?
    Si tratta di una pluralità molto eterogenea di prodotti. Sono citati, per esempio, capi di bestiame, cacao, caffè, olio di palma, soia e legno, ma anche tutti i prodotti che contengono, sono stati alimentati con o sono stati prodotti utilizzando questi prodotti (ad esempio cuoio, cioccolato e mobili), come da proposta originale della Commissione. Durante i negoziati, i deputati sono riusciti a far includere anche gomma, carbone di legna, prodotti di carta stampata e a diversi derivati dell’olio di palma. Entro due anni dall’entrata in vigore del regolamento si valuterà l’eventuale inclusione del granturco e dei biocarburanti nell’ambito di applicazione, l’estensione di quest’ultimo ad altri ecosistemi naturali e se sia necessario imporre obblighi specifici agli istituti finanziari.

    Come avverranno i controlli?
    Il regolamento prevede che la Commissione classifichi i singoli paesi, o parti di essi, come a basso rischio, rischio standard o alto rischio sulla base di una valutazione obiettiva e trasparente entro 18 mesi dall’entrata in vigore del nuovo regolamento. Per i prodotti provenienti da paesi a basso rischio è prevista una procedura di diligenza dovuta semplificata. La percentuale dei controlli sugli operatori è in funzione del livello di rischio del paese: 9% per i paesi ad alto rischio, 3% per i paesi a rischio standard e 1% per i paesi a basso rischio. Le autorità competenti dell’UE avranno accesso alle informazioni fornite dalle società, come ad esempio le coordinate di geolocalizzazione. Effettueranno inoltre controlli con strumenti di monitoraggio via satellite e analisi del DNA per verificare la provenienza dei prodotti.

    Quali sanzioni sono previste a chi viola il regolamento?
    Le sanzioni in caso di violazione delle nuove regole prevedono un’ammenda massima pari ad almeno il 4% del fatturato annuo totale nell’UE dell’operatore o commerciante.

    Perché non si trova unanimità sul percorso della legge?
    C’è chi ritiene che i 18 mesi dalla sua approvazione non siano un periodo sufficiente affinché l’industria si prepari al tracciamento della filiera. Si è anche fatta larga una polemica sulle linee guida, con accuse alla commissione di una pubblicazione tardiva, avvenuta solo il 2 ottobre, vale a dire nel terzultimo dei 18 mesi date a Stati e aziende per prepararsi. Va tuttavia specificato che non sono poche le realtà che avrebbero già provveduto ad adottare gli investimenti necessari a tracciare la filiera per adeguarla alle nuove normative, ostacolando dunque i processi di deforestazione.

    Quale era stato sin qui l’iter della legge?
    Nell’ottobre 2020 il Parlamento aveva chiesto alla Commissione di presentare una proposta legislativa per porre fine alla deforestazione globale causata dall’UE. L’accordo con i paesi dell’UE sulla nuova legge era stato raggiunto il 6 dicembre 2022. In questi giorni sulle modifiche al testo proposte dal gruppo Ppe si è spaccata la maggioranza. Ora i colegislatori – Parlamento e Consiglio – hanno tempo fino alla fine di dicembre per trovare un accordo sulle modifiche. Senza un accordo, il regolamento dovrà essere attuato a partire dal 2025, come inizialmente previsto. La Commissione europea ha preso tempo per analizzare gli emendamenti adottati prima di adottare una posizione ufficiale. LEGGI TUTTO

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    Nel 2023 spesi 78,7 miliardi di euro in sussidi ambientalmente dannosi

    “Nel 2023, nonostante il calo delle risorse dedicate all’emergenza energetica, il Paese ha speso 78,7 miliardi di euro in sussidi ambientalmente dannosi (Sad) destinati ad attività, opere e progetti connessi, direttamente e indirettamente, alle fossili. Una somma pari al 3,8% del Pil nazionale. Una spesa, negli ultimi 13 anni, costata all’Italia 383,4 miliardi di euro”. Questa la fotografia scattata da Legambiente, mentre è in corso la Cop 29 a Baku, con la XIII edizione del report Stop sussidi ambientalmente dannosi.

    Tra i settori più interessati, “al primo posto si conferma quello energetico: 43,3 miliardi di euro, con una crescita rispetto all’anno precedente della componente non emergenziale (da 8 a 10 miliardi di euro). Segue il settore dei trasporti (2,1 miliardi di euro), di cui le voci più critiche rimangono il differente trattamento fiscale tra benzina e gasolio (3,1 miliardi di euro) e Gpl e metano (3,6 miliardi di euro) e le agevolazioni fiscali per auto aziendali (1,2 miliardi di euro); il settore edilizia (18 miliardi di euro, un aumento di un miliardo rispetto al 2022); quello agricolo (3,2 miliardi di euro) e canoni, concessioni e rifiuti (1,6 miliardi di euro)”.

    “A pesare la voce dei sussidi emergenziali: nel 2023 elargiti 33 miliardi per il settore energetico (per complessivi 50 interventi) e 374 milioni di euro per il settore trasporti; per un totale di 84 miliardi in due anni che, se investiti per solo un quarto (20 miliardi) in rinnovabili, avrebbero portato a circa 13,3 GW di nuova potenza installata e una produzione di 30 TWh di energia pulita; pari al fabbisogno di 12 milioni di famiglie e la metà del fabbisogno elettrico domestico italiano, con un risparmio annuo di 4 miliardi di metri cubi di gas”, spiega Legambiente.

    Economia e ambiente

    Incentivi green, gli esperti: “Alcuni sussidi nascondono un rischio per l’ambiente”

    07 Ottobre 2024

    Analizzando 119 voci di sussidi, l’associazione ambientalista stima che “25,9 miliardi di euro dei 78,7 spesi nel 2023 possono essere eliminati e rimodulati entro il 2030; lanciando l’appello al governo Meloni di sfruttare l’occasione della Legge di Bilancio 2025 per intervenire subito almeno sui sussidi eliminabili subito, come quelli legati alle trivellazioni, il Capacity Market e alle caldaie a gas”.

    “Altra priorità è l’aggiornamento del Catalogo dei Sussidi Ambientalmente Dannosi (Sad) e Favorevoli (Saf), che per obbligo di legge dovrebbe aggiornare ogni anno, ma fermo da almeno due con dati riferiti al 2021, quantificando la spesa per i 16 sussidi su cui ad oggi non si hanno informazioni e aggiungendo quelli mancanti (tra cui Capacity Market) pari a 17,1 miliardi di euro; altra priorità per l’esecutivo è una puntuale valutazione nello Pniec visto che, a fronte dei 78,7 miliardi di sussidi censiti da Legambiente, solo il 2,5% (1,97 miliardi) sono identificati ‘da valutare per riforme'”, avverte l’associazione.

    “In piena Cop 29 e durante la discussione parlamentare della Legge di Bilancio 2025, il governo Meloni imbocchi la strada giusta – dichiara Stefano Ciafani, presidente di Legambiente – con un impegno serio sul clima e una giusta e rapida transizione energetica verso un futuro libero dalle fossili; smettendo di finanziare un modello energetico sbagliato, basato su gas, carbone e petrolio e di puntare su rigassificatori, Cattura e Stoccaggio del Carbonio (Ccs) e il nucleare facendo gli interessi delle lobby del fossile. Non è vero, come ha dichiarato la premier alla Cop29, che non c’è alternativa, questa esiste già. Dirotti al più presto risorse nella direzione dell’innovazione, dell’efficienza energetica, sulle reti, sugli accumuli e rinnovabili, semplificando i processi autorizzativi, con l’obiettivo del 91% di copertura delle fonti rinnovabili nel settore elettrico entro il 2030 e del 100% entro il 2035”.

    Clima

    Useremo sempre più aria condizionata e questo aumenterà le disuguaglianze sociali

    16 Settembre 2024

    “Il governo, vista anche l’ultima manovra di bilancio in cui ha dichiarato la scarsità delle risorse disponibili, deve necessariamente intraprendere una strada di misure strutturali che vadano nella direzione di aiuto e supporto a famiglie, imprese e allo stesso sistema Paese – aggiunge Katiuscia Eroe, responsabile energia di Legambiente – Dopo due anni, non è più giustificabile continuare a spendere miliardi di euro in misure della durata di pochi mesi, quando esistono soluzioni e tecnologie in grado di trasformare l’emergenza in occasione di innovazione, sostegno, sicurezza e indipendenza energetica. I sussidi ambientalmente dannosi, tra quelli eliminabili e quelli rimodulabili, rappresentano risorse economiche importanti che il Paese dovrebbe saper sfruttare meglio e in linea con le emergenze che stiamo vivendo: climatica, energetica e sociale”.

    Oltre al piano per la rimodulazione e cancellazione di tutti i Sad entro il 2030, l’aggiornamento annuale del Catalogo dei Sussidi Ambientalmente Dannosi (Sad) e Favorevoli (Saf) e una Riforma degli oneri di sistema in bolletta, Legambiente chiede al governo di: “Riformare le accise e le tasse sui diversi combustibili fossili in modo che il costo finale medio annuale sia progressivamente proporzionale alle emissioni di gas serra (CO2eq) generate nella loro combustione e cancellare le esenzioni e/o detrazioni concesse sino ad ora, trasformandole in incentivi per interventi di efficienza o uso di fonti rinnovabili; reperire, per il periodo 2023-2025, attraverso il taglio dei sussidi alle fossili, almeno 4,7 miliardi l’anno per l’aiuto ai Paesi poveri per far fronte all’impegno collettivo di 100 miliardi dei Paesi industrializzati stabilito dall’Accordo di Parigi; mettere in sicurezza energetica il Paese, con misure strutturali e investendo su soluzioni e tecnologie sostenibili di sostegno per famiglie e imprese per i prossimi 20/25 anni; riformare il sistema incentivante per il settore edilizio, dirottando i sussidi su incentivi per la decarbonizzazione dei sistemi di riscaldamento, per l’efficienza energetica e l’autoconsumo, supportando famiglie (specie quelle a basso reddito) e imprese”. LEGGI TUTTO

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    L’Italia perde 2,8 miliardi di euro all’anno per frane e alluvioni

    Il cambiamento climatico costa caro, soprattutto nell’Europa mediterranea e in Italia. Il prezzo da pagare si calcola innanzitutto in vite umane, ma anche in miliardi di euro. Secondo quanto emerge dal nuovo rapporto di Greenpeace Italia “Quanto costa all’Italia la crisi climatica?”, dal 2013 al 2020 le Regioni italiane hanno avuto 22,6 miliardi di danni causati da frane e alluvioni – gli unici rischi ambientali legati agli eventi climatici estremi per cui esistono dati in Italia -, per una media di circa 2,8 miliardi di euro l’anno. La Regione che ha registrato più danni nel periodo di tempo preso in considerazione è stata l’Emilia-Romagna, seguita da Veneto, Campania, Toscana e Liguria.

    Il report

    Cambiamenti climatici: mai così forte l’impatto sulla salute globale

    di  Simone Valesini

    30 Ottobre 2024

    Come spiega nel rapporto Alessandro Trigila di Ispra, oltre alla naturale propensione del nostro territorio al dissesto ambientale (legata alle sue caratteristiche morfologiche, geologiche, geografiche e sismiche), si aggiunge il fatto che l’Italia è un Paese fortemente antropizzato. Il risultato è che, secondo i dati raccolti da Ispra, il 93,9% dei comuni italiani comprende aree soggette al dissesto idrogeologico. Oggi 1,3 milioni di abitanti vivono in zone a rischio frane, mentre 6,8 milioni risultano minacciati dalle alluvioni, ed entrambi i fenomeni sono aggravati dai cambiamenti climatici.

    “La nostra analisi dimostra che sono le persone comuni a subire le conseguenze più pesanti della crisi climatica: talvolta con la vita o con la perdita di persone care, ma anche con la perdita di case, ricordi, legami con la propria terra e con danni economici tali da compromettere qualsiasi prospettiva futura”, dichiara Federico Spadini della campagna Clima di Greenpeace Italia. “A pagare il prezzo della crisi climatica dovrebbero invece essere i veri responsabili: il governo italiano, che fa di tutto per ostacolare la transizione ecologica di cui abbiamo urgente bisogno, e le grandi aziende del petrolio e del gas, come Eni, che continuano ad alimentare il disastro climatico con le loro emissioni fuori controllo”.

    La crisi

    Riscaldamento globale, in quali regioni del pianeta il cambiamento climatico sta uccidendo

    di  Giacomo Talignani

    31 Ottobre 2024

    La situazione è resa ancora più critica dal fatto che i fondi pubblici messi a disposizione per far fronte a queste emergenze, di Greenpeace, “sono assolutamente insufficienti: dal 2013 al 2020, sono stati trasferiti alle Regioni per risanare il territorio 2,3 miliardi di euro, pari solamente al 10% dei danni causati da alluvioni e frane messe insieme. Anche sommando a questa cifra il contributo arrivato al nostro Paese dal Fondo di Solidarietà Europeo, le misure di compensazione economica arrivano solo 2,8 miliardi in otto anni”.

    “Lo stesso – dice ancora l’organizzazione – vale per il denaro speso in opere di prevenzione: dal 2013 al 2020, sono stati investiti in prevenzione 4,5 miliardi di euro, una cifra in crescita ma non ancora sufficiente per coprire i bisogni del Paese. Intanto, anche le assicurazioni contro gli eventi estremi restano una rarità: nel 2024, l’83,8% delle polizze esistenti non prevede ancora alcuna estensione per il rischio di catastrofi naturali e solo il 10% permette di assicurarsi contro il rischio di alluvione”. LEGGI TUTTO

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    Ondate di calore, siccità, incendi e alluvioni: perché è colpa del cambiamento climatico

    Il cambiamento climatico c’entra, eccome. Perché il rapporto causa-effetto sugli eventi meteorologici estremi che interessano il Pianeta, e non risparmiano il nostro Paese, è a prova di negazionisti. Dalle ondate di calore che rendono invivibili le metropoli d’estate alla siccità, le cui conseguenze – in primis in Sicilia – sono diventate una priorità, fino alle alluvioni, con un conto salatissimo in termini di vite umane, come a Valencia: la comunità scientifica non ha alcun dubbio sui motivi alla base dell’intensificarsi, per frequenza e consistenza, di fenomeni climatici avversi. Per certificarli è attiva la World Weather Attribution (WWA), una collaborazione accademica nata proprio per calcolare l’impatto del cambiamento climatico su eventi meteorologici estremi: i suoi studi ‘fotografano’ la situazione attuale, auspicando una consistente riduzione delle emissioni, condizione essenziale per contrastare il climate change.

    Come si forma una “cupola di calore”  LEGGI TUTTO

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    Non solo gattini e cani: per la conservazione della fauna selvatica i social network contano

    Siamo invasi da gatti e gattini sul web: i felini di casa piacciono. Studiare il fenomeno può essere interessante sotto diversi punti di vista. Può essere un’occasione per comprendere un po’ le dinamiche che regolano i nostri comportamenti digitali, ma le ripercussioni possono spingersi ben oltre. Gatti e parenti felini infatti possono insegnarci anche a prenderci cura dell’ambiente. Ne sono convinte Gabriella Leighton e Laurel Serieys dell’Università di Cape Town, secondo le quali vale la pena scommettere su alcuni animali particolarmente “carismatici” online per salvarli offline, nel loro ambiente naturale. Soprattutto quando questo è sotto la minaccia dell’espansione urbanistica, scrivono dalle pagine di Environmental Communication.

    Il loro è in parte il resoconto di un progetto (Urban caracal) nato dieci anni fa in Sudafrica, nella penisola del Capo, inizialmente con lo scopo di studiare l’ecologia del felino africano caracal, poi divenuto l’occasione anche per capire qualcosa di più sulla comunicazione in fatto di strategie di conservazione, spiegano le esperte. Il caracal è un grosso felino ed è un animale piuttosto elusivo, ricorda il sito del progetto, studiato in maniera indiretta per lo più grazie a radiocollari e alle analisi compiute sugli esemplari rinvenuti morti. Somiglia moltissimo al gatto e questo sarebbe il suo punto di forza a detta delle autrici.
    Vale per le profondità dell’oceano, vale per le foreste del mondo: c’è ancora una marea di specie che gli esseri umani non conoscono. Se parliamo di piante vascolari – quelle con radici, fusto e foglie – gli scienziati stimano che esistano almeno 100mila specie di piante non ancora scoperte. Tenendo conto dell’attuale perdita (costante) di biodiversità, riuscire a identificare dove queste piante potrebbero essere – in modo da studiarle e proteggere – un’azione cruciale, anche per preservare la varietà genetica che la natura ci offre. Già, ma dove bisogna cercare? A dircelo è uno studio internazionale portato avanti dai ricercatori del Royal Botanic Gardens di Kew.

    Attraverso l’analisi dei dati e grazie a test in grado di individuare le carenze di dettagli geografici e tassonomici, gli esperti hanno individuato 33 “darkspot”, sorte di zone oscure alla scienza che potrebbero essere ricche di diversità ma che non sono ancora state indagate. Queste aree potrebbero infatti contenere “la maggior parte delle specie non descritte e non ancora registrate”. La maggior parte di questi darkspot, scrivono i biologi, si trovano all’interno di Nuova Guinea, Colombia, Myanmar, Perù, Filippine e Turchia. In questi Paesi – con altri indicati come possibili che vanno dal Madagascar sino alla Bolivia – bisogna concentrare gli sforzi per “comprendere le carenze di conoscenza tassonomica e geografica, un atto fondamentale per dare priorità ai futuri sforzi di raccolta e conservazione”. Nel dettaglio gli esperti ricordano che molti di questi luoghi in cui cercare sono anche hotspot della biodiversità, ovvero aree del pianeta ricche di vita ma minacciate di distruzione. La maggior parte dei 33 darkspot si trova nell’Asia tropicale (in almeno 14 zone dal Vietnam fino all’Himalaya), 8 sono invece in Sud America e altre 8 nell’Asia temperata (dall’Iran al Kazakistan), 2 in Africa (Madagascar e province del Capo) e uno in Nord America (Messico sud-occidentale). Ci sono decine di specie ogni anno che vengono scoperte. Esemplari come la palma del Borneo che è in grado di fiorire sotto terra, oppure particolari orchidee, o ancora piante endemiche come quelle individuate lo scorso anno in Abruzzo o Sardegna.

    Biodiversità

    Dieci piante appena scoperte che rischiano di scomparire

    di Fabio Marzano

    12 Gennaio 2024

    Per trovarne altre, i botanici hanno però bisogno di indicazioni, proprio come quelle contenute nello studio pubblicato sulla rivista New Phytologist. Coordinate che potrebbero aiutare a individuare specie utili per esempio nel mondo della farmaceutica e la medicina, ma anche quello dell’energia (carburanti) o della cosmesi. “Dobbiamo proteggere il 30% del Pianeta entro questo decennio secondo gli attuali obiettivi delle Nazioni Unite, ma non sappiamo quali aree proteggere se non abbiamo le giuste informazioni” ha spiegato il direttore scientifico del Kew, il botanico Alexandre Antonelli. “Precedenti ricerche – aggiunge – hanno dimostrato che i biologi non sono stati particolarmente efficienti nel documentare la biodiversità. Siamo tornati negli stessi posti più e più volte e abbiamo trascurato alcune aree che potrebbero contenere molte specie”.

    Esplorazioni, quelle necessarie, che includono però una lotta contro il tempo: accelerare il tasso di scoperte delle piante è infatti necessario perchè all’attuale ritmo di identificazione molte specie, anche per gli impatti della crisi del clima e delle azioni antropiche, rischiano di estinguersi ancor prima di essere note alla scienza. Una corsa che – si spera – potrebbe essere rafforzata dalle decisioni che verranno prese prossimamente a Cali, in Colombia, dove si terrà la Cop16 sulla biodiversità. Come ricorda Samuel Pironon, docente di biologia alla Queen Mary University di Londra e autore dello studio, “tutti i Paesi hanno concordato di preservare e ripristinare la biodiversità, inclusa quella vegetale. Ma come possiamo farlo se non sappiamo di quali specie stiamo parlando o qual è la biodiversità e dove possiamo ripristinarla?”.

    Biodiversità

    I botanici “estremi”: in paramotore (al posto del SUV) per studiare le piante più rare nel deserto

    di  Fabio Marzano

    05 Ottobre 2024

    Ecco perché il nuovo studio, nella sua funzione di mappa che indica i darkspot, potrebbe risultare estremamente importante, anche se servirebbe una mano in più: quella dei cittadini. Secondo i biologi infatti chiunque, appassionato di natura, senza raccogliere le specie, può però segnalarle e fotografarle: condividere dati nelle tante piattaforme di citizen science è un gesto prezioso, “una grande opportunità per rafforzare le partnership tra scienziati e cittadini. Le persone scattano foto di piante che ritengono possano essere interessanti per il resto del mondo e gli scienziati sono fondamentali perché aiutano a identificare quelle specie” dice Pironon.
    Il bilancio del progetto, avviato nel 2014, a loro detta infatti sarebbe più che positivo. La popolarità del caracal infatti da allora è cresciuta, più per esempio del servàlo, un altro felino selvatico africano (91% di crescita nelle ricerche online, contro il 76%), ma anche i canali social nati a sostegno del progetto hanno avuto un discreto successo, raggiungendo milioni di persone, scrivono Leighton e Serieys, e generando interesse per approfondimenti su altri media. Degno di nota, proseguono, anche l’interesse internazionale generato dal progetto, con utenti da tutto il mondo.

    Tutto questo secondo le esperte conferma, ancora una volta, le potenzialità dei social come strumento di comunicazione scientifica, ma non solo. L’aspetto più interessante sta nella capacità del progetto di generare curiosità nel pubblico, stimolando report da parte dei cittadini (per esempio di avvistamenti o ritrovamenti), utili come attività di citizen science ma in generale utili soprattutto ad aumentare la popolarità del caracal. Con ricadute positive sulla conservazione delle specie in natura, disseminando i risultati delle attività di ricerca portate avanti sul caracal. Un esempio? Studiando le carcasse degli animali deceduti, i ricercatori hanno scoperto che gli avvelenamenti accidentali (con veleno per topi) o l’esposizione ai pesticidi, dopo gli incidenti, sono una delle minacce maggiori per questo felino selvatico. Farlo sapere al pubblico, generando discussione in materia, magari attraverso i popolari canali social, potrebbe aiutare a preservare questo animale (ed altre specie).

    Ma non dimentichiamo che parliamo di un felino, fondamentale per le esperte. “Il successo e l’attrattiva del progetto derivano probabilmente dal fenomeno dei ‘gatti su Internet’ – riconoscono le autrici – Utilizzare una specie che piace, come il caracal, è un modo efficace per catturare l’attenzione del pubblico e comunicare l’importanza di preservare la fauna selvatica urbana”. Soprattutto, e concludono, nelle aree in rapida urbanizzazione. LEGGI TUTTO

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    Nucleare, dall’Iran alla Corea del Nord. Grossi: “La diplomazia fondamentale per evitare la guerra”

    L’aveva annunciato nel corso della sua visita romana la settimana scorsa: “Entro pochi giorni sarò a Teheran. Per incontrare il presidente Masoud Pezeshkian e visitare alcuni impianti nucleari iraniani”. E poche ore fa Rafael Mariano Grossi, direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), è atterrato nella capitale iraniana e ha avuto un primo colloquio con il leader del Paese degli ayatollah. Ma l’agenda del 63enne diplomatico argentino è fitta di appuntamenti che hanno a che fare con le crisi più gravi sullo scenario geopolitico, tutte in qualche modo collegate al nucleare: oltre allo scontro tra Israele e Iran con le facilities atomiche di Teheran possibile bersaglio di rappresaglia, la guerra in Ucraina con le centrali sotto tiro e l’escalation della Corea del Nord che esibisce i suoi missili balistici. Grossi gira il mondo per tenere aperto il dialogo. Ma non può fare a meno di sottolineare come negli ultimi anni il contesto politico globale si sia deteriorato: “C’erano delle linee rosse invalicabili, dai diritti umani al non colpire siti nucleari. Ora le si oltrepassa”. E auspica un ritorno alla “diplomazia attiva”, quella fatta di viaggi, incontri e dialoghi, contrapposta alla passività di chi, pur in ruoli di responsabilità, si limita a “osservare ciò che accade e a fare post sui social network”.

    Direttore Grossi, qual è la crisi “nucleare” più urgente da risolvere?
    “La centrale nucleare di Zaporizhzhia continua a destare preoccupazione: è un enorme impianto nucleare nel pieno di una zona di guerra. Non vediamo una possibile soluzione immediata e sappiamo che un incidente nucleare, come possibile conseguenza di azioni militari, è imprevedibile”.

    La Aiea ha ancora i suoi ispettori all’interno?
    “Sì. Come anche nelle altre centrali nucleari ucraine. E il mese scorso, dopo il mio ultimo incontro con il presidente Zelensky, ho avviato il monitoraggio delle stazioni elettriche di trasmissione. È una novità importante per la sicurezza nucleare, vista la loro funzione di alimentazione dei sistemi di raffreddamento: colpirle può produrre effetti ancor più letali che sparare direttamente sulla centrale. Sono consapevole che non sia una garanzia totale, ma è comunque un monitoraggio ‘dissuasivo’”.

    Non è però riuscito nella sua idea iniziale di creare una zona “santuario” intorno a Zaporizhzhia. “Ho capito che i militari non avrebbero accettato. Da negoziatore mi sono adeguato e ho creato un sistema di regole e comportamenti: si può mettere nero su bianco che certi mezzi militari non possono essere schierati in alcune aree, con la Aiea si occupa del monitoraggio. Questo mi ha permesso di avere un po’ più di flessibilità dalle parti coinvolte”.

    Ha trovato flessibilità anche nel presidente russo Putin, che ha visto l’ultima volta a marzo?
    “Non so se chiamarla flessibilità. Ha dimostrato di capire la logica di questa mia idea. E lo stesso posso dire di Zelensky”.

    Veniamo al Medioriente. Ritiene possibile una attacco israeliano alle infrastrutture nucleari dell’Iran? E quali conseguenze avrebbe?
    “Non possiamo escludere alcuna ipotesi. E alla Aiea abbiamo già una idea di cosa accadrebbe nel caso di attacco all’una o all’altra facility. Proprio per questo ritengo indispensabile sempre più diplomazia: il mio viaggio in Iran va in questa direzione”.

    Una visita simbolica?
    “Certamente c’è un messaggio simbolico: il direttore generale della Aiea è lì. Ma lo scopo è anche dire agli iraniani che deve migliorare il livello di trasparenza sul loro programma nucleare. Non posso scendere nei dettagli, ma ho sviluppato una serie di idee e di iniziative”.

    Teheran punta a ripristinare il trattato JCPoA voluto da Obama nel 2015 e poi annullato da Trump nel 2018.
    “Sì, ma tutto è cambiato da allora. Oggi la Federazione Russa è schierata con l’Iran, mentre quel trattato fu il frutto di una azione congiunta di Cina, Russia, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania. Inoltre, il programma iraniano in questi anni ha raggiunto livelli molto più importanti, per esempio per quanto riguarda la produzione di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio: il JCPoA era relativo a una utilitaria, ora hanno una Ferrari”.

    Cosa sta succedendo in Corea del Nord?
    “Ne sappiamo abbastanza: sugli impianti per l’arricchimento dell’uranio abbiamo condiviso informazioni con elevato grado di precisione. Ma oltre alle armi nucleari di Pyongyang, mi preoccupa la sicurezza: è l’unico programma nucleare al mondo che si sottrae a qualsiasi controllo. Non abbiamo la minima garanzia dell’applicazione di standard di sicurezza”.

    Veniamo al nucleare civile. Si può parlare di una rinascita, visto che le Big Tech stanno puntando sull’energia nucleare per far fronte ai grandi fabbisogni di elettricità che servono ad alimentare i loro server? dopo Microsoft, Google, Open Ai, nelle ultime ore lo annunciato anche Mark Zuckerberg, ceo di Meta.
    “È un momento di grandi opportunità. Queste aziende stanno avendo un approccio intelligente, pratico e moderno: prima di iniziare questo tipo di percorso vengono da noi per chiedere come si fa, quali sono le caratteristiche principali dei piccoli reattori modulari. Non vogliono certo vedersi coinvolti in un incidente”.

    Anche l’attuale governo italiano vuole riaccendere reattori per produrre elettricità. Ci sono contatti tra Roma e l’Aiea?
    “Ne abbiamo parlato l’altro ieri con il ministro Pichetto Fratin. L’agenzia un approccio imparziale, non abbiamo interessi commerciali, aiutiamo se veniamo interpellati. Possiamo per esempio fornire sostegno tecnico sullo sviluppo dei reattori modulari: conosciamo tutto quello si sta facendo nel mondo, tutto il catalogo dei modelli e sappiamo quali sono le loro caratteristiche”.

    E la fusione nucleare di cui parlerete a Roma è ancora una chimera?
    “Sono stati fatti grandi progressi, ma in ordine sparso, con tante isole che finora non si sono parlate. Il World Fusion Energy Group è il nostro modo di dare al lavoro sulla fusione l’integrazione che mancava”.

    Nelle sue giornate romane ha incontrato anche il Papa. Di cosa avete parlato?
    “Di sicurezza e di pace. Da leader etico, morale e religioso, ritiene che tutti questi problemi vadano affrontati mettendo al centro l’essere umano. Il Santo Padre parla a tutto il mondo e la sua voce è molto ascoltata, anche in Paesi non cattolici. Io, su una scala assai più modesta, voglio essere un ponte logico, pratico, non arrogante ma utile. Parlo con Puntin e Zelensky, con iraniani e americani. Bisogna che qualcuno faccia questo lavoro. Osservare ciò che accade e fare post sui social network non serve a niente”. LEGGI TUTTO

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    Echeveria, come curare la pianta grassa dai fiori a campana

    L’echeveria appartiene alla famiglia delle crassulacee, il cui nome è un tributo all’illustratore botanico messicano Atanasio Echeverria y Godoy. La pianta è originaria del Centro America – Messico – ma si trova in natura anche negli stati occidentali dell’America, dove cresce in ambienti con notevoli escursioni termiche giorno-notte. L’echeveria si contraddistingue per la sua rosetta di foglie dalla forma ovale allungata, che possono essere verdi o di una tonalità grigia che si avvicina all’azzurro. La fioritura è caratterizzata dallo stelo allungato e dai fiori a campanula, di tonalità rosso-rosa e sfumature gialle sui bordi, e si estende tra primavera-estate.

    L’esposizione ideale dell’echeveria
    L’echeveria è una pianta che preferisce gli ambienti molto luminosi e ventilati, ma senza correnti d’aria. Le temperature minime non devono essere inferiori ai 7 gradi, mentre quelle ideali per la stagione vegetativa sono attorno ai 20 gradi. Possono tollerare anche l’esposizione al sole, ma non nelle ore più calde della giornata.

    Il terreno per una coltivazione ottimale dell’echeveria
    Il terreno ideale per coltivare l’echeveria è quello specifico per le cactacee, che possiamo rendere ancor più drenante aggiungendo della sabbia a granulometria grossa. Sul fondo del vaso, possiamo aggiungere dei cocci per migliorare ulteriormente il drenaggio dell’acqua. Scegliamo un vaso ampio, ma dalla profondità non eccessiva, poiché la pianta sviluppa orizzontalmente le radici. Per il rinvaso, attendiamo sempre la primavera: in questa occasione, verifichiamo sempre che le radici non presentino segni neri o grigi, ma siano sempre di un bel colore bianco. Se notiamo delle colorazioni scure, dobbiamo asportare le parti radicali danneggiate, applicare un antifungino ed attendere due settimane prima di innaffiare.

    Concimazione, potatura e innaffiatura
    Per l’innaffiatura dell’echeveria dobbiamo adottare alcuni accorgimenti che tengano conto delle sue particolarità. La pianta infatti sviluppa una rosetta di foglie molto compatta e, come tante altre succulente, non tollera che al suo interno possa ristagnare dell’acqua. Qualora l’echeveria avesse “ingombrato” tutto lo spazio disponibile nel vaso, dovremmo ricorrere all’immersione del vaso in un contenitore con l’acqua. Ricordiamoci di attendere sempre che il terreno sia completamente asciutto tra un’innaffiatura e l’altra e, soprattutto, che nel sottovaso non ci sia mai un ristagno di acqua. Nei mesi tra l’autunno e l’inverno l’annaffiatura dev’essere sporadica. La concimazione dell’echeveria è necessaria solo tra primavera ed estate, aggiungendo del fertilizzante liquido all’acqua di irrigazione, una volta al mese. Infine, l’echeveria non richiede alcuna potatura specifica, ma solo l’asportazione delle foglie secche o danneggiate.

    La fioritura e la pulizia delle foglie dell’echeveria
    Se prestiamo attenzione al fatto che l’echeveria sia esposta in un ambiente luminoso, riceva una quantità sufficiente di acqua e sia concimata in modo adeguato, la pianta ci regalerà delle belle fioriture a cavallo della primavera e l’estate. La superficie delle foglie di numerose specie di echeveria presenta naturalmente una sorta di polvere, che non dev’essere rimossa. Qualora le foglie si impolverassero, per la loro pulizia non dovremmo usare l’acqua, bensì un pennello con le setole morbide.

    Malattie e parassiti
    L’echeveria non è una pianta colpita in modo particolare dalle malattie o dai parassiti. Come tante altre piante succulente, risente piuttosto delle conseguenze degli errori colturali: vediamo quali sono i principali sintomi del malessere di questa pianta. Se l’echeveria presenta dei segni di marcescenza sul fusto, significa che abbiamo esagerato con l’acqua: in tanti casi, in questa situazione è molto difficile salvare la pianta. Possiamo comunque tentare di levarla dal vaso e lasciare che possa asciugare all’aria, eliminando le radici e i fusti compromessi, usando poi un fungicida e rinvasando la pianta, senza innaffiarla per almeno quindici giorni. Se la pianta ha un aspetto patito o perde le foglie, significa che è stata esposta a temperature esageratamente basse o alle correnti di aria. Se l’echeveria ha un aspetto sgonfiato e scolorito, significa che non l’abbiamo annaffiata abbastanza per un periodo troppo prolungato. Se il lato inferiore delle foglie avesse macchie marroni, invece, potrebbe trattarsi di cocciniglia. Per eliminarla, usiamo un batuffolo di ovatta imbevuto di alcool. LEGGI TUTTO

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    La viola del pensiero, come cura la pianta dalla doppia fioritura

    In primavera, la viola del pensiero con i suoi splendidi fiorellini colorati dona un tocco di colore al giardino o al nostro balcone. Vediamo come fare per farla crescere rigogliosa.

    Le varietà della viola del pensiero
    La viola del pensiero, nota anche come viola wittrockiana, appartiene alla famiglia delle violaceae e comprende davvero molte varietà. Molte di quelle che si trovano sono anche il frutto di incroci e selezioni fatte a partire dalla specie selvatica, proveniente dal nord Europa. Quelle che troviamo in vendita provengono spesso da ibridazioni effettuate tra la viola tricolor, la viola cornuta, la viola gracilis e lutea. È possibile trovare questa pianta con fiori differenti, a seconda della varietà che si seleziona. Ne esistono un gran numero, ma tra quelle più note possiamo menzionare le seguenti:

    · Viola Joker: questa viola è quasi sempre multicolore e sopporta anche condizioni estreme, poiché è considerata tra le specie che resistono meglio all’inverno.
    · Viola Fama: queste piante si presentano con grandi fiori, caratterizzati da un bordo ondulato. Inoltre, le foglie sono tondeggianti a peduncolo corto, poste su una rosetta compatta.
    · Viola tricolore maxima: sono ben 15 le tonalità colori disponibili in natura in cui si presentano i fiori di questa varietà. Si contraddistingue per essere una viola di tipo precoce, con fiori grandi e una buona resistenza alle temperature invernali.
    · Viola Cats: si tratta di una varietà delicata caratterizzata da fiori che crescono compatti e in maniera abbondante. Le tonalità disponibili in natura sono diverse e a colpire è la presenza di una sorta di occhio nero posto nel centro del fiore. Non richiedono chissà quali condizioni per l’esposizione, giacché crescono bene anche con scarsa luce.

    Quando effettuare la semina?
    La semina della viola del pensiero o viola tricolor viene effettuata con l’arrivo della primavera. Tra i mesi di giugno e di agosto si possono porre i semi in cassetta e, poi, in autunno si passa al trapianto nel terreno, facendo bene attenzione a distanziare le piantine le une dalle altre di circa 20 centimetri. È possibile anche effettuare la messa a dimora delle piante direttamente in vaso se si preferisce coltivare la viola del pensiero in balcone.

    Dove esporre la pianta?
    Per trovare la posizione ideale per l’esposizione della viola del pensiero è importante studiare l’illuminazione del proprio giardino o balcone durante le diverse ore del giorno. La viola del pensiero ama un’esposizione a mezz’ombra, anche se tollera l’ombra piena e quella soleggiata durante la stagione invernale. Resiste bene alle temperature rigide (addirittura -5°C) ed è anche in grado di tornare in forma dopo una nevicata.

    Qual è il terreno migliore per prendersene cura?
    La viola del pensiero è una pianta che richiede davvero poche attenzioni. Infatti, è necessario offrire un terreno ben drenato e, magari, ricco di humus. Inoltre, non è infastidita se viene sistemata in terreni incolti, con ghiaia e terra povera.

    Come e quando annaffiare la pianta?
    Le irrigazioni della viola del pensiero devono permettere di avere un terreno sempre umido, ma non eccessivamente bagnato. Durante le giornate più calde si può ricorrere a un’annaffiatura quotidiana, mentre in inverno è meglio ridurre l’irrigazione.

    La concimazione
    Per occuparsi correttamente della concimazione della viola del pensiero suggeriamo l’utilizzo di un concime per piante da fiore ed è preferibile effettuarla periodicamente in primavera e in autunno. Durante la crescita si può fornire alla viola tricolor del concime ad intervalli di 15 giorni.

    Il momento della fioritura
    Per ammirare i fiori di questa pianta perenne è necessario attendere il periodo autunno-inverno: infatti, la principale fioritura della viola del pensiero è proprio durante questo momento dell’anno. Successivamente, può offrire un’altra fioritura in primavera, arrivando a proporre fiori fino ai primi caldi più intensi. La pianta è in grado di raggiungere i 20 centimetri di altezza e i colori dei fiori sono differenti: infatti, si possono notare fiori che vanno dal viola al rosso, dal giallo all’arancione e dal viola al blu.

    Malattie e parassiti che colpiscono la viola del pensiero
    Questa pianta è soggetta ad alcuni problemi: per esempio, la cocciniglia, gli afidi e gli acari possono attaccarla provocando danni alle foglie e alle radici. Anche le lumache possono provocare danni alla viola del pensiero, compromettendo gravemente la sua esistenza. Naturalmente, è necessario considerare anche che troppa acqua danneggia l’apparato radicale della pianta. Rimanendo in tema di parassiti e malattie che riguardano la viola del pensiero, non possiamo fare a meno di menzionare anche la sensibilità delle foglie. È importante fare attenzione durante l’irrigazione e non bagnare le foglie, poiché si rischia di far sorgere malattie fungine. LEGGI TUTTO