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    La biologa italiana che vive in Amazzonia “Con gli indigeni per dire al mondo: ricordatevi di noi”

    Chi a bordo di zattere, chi di battelli o piccole imbarcazioni, chi via terra con i mezzi che trova: dal cuore dell’Amazzonia migliaia di indigeni e rappresentanti dei popoli tradizionali si sono già messi in marcia verso la sede della Cop30 a Belém. Emanuela Evangelista, biologa italiana di Lanuvio che da 12 anni vive in Amazzonia nel villaggio di Xixuaù ed è impegnata a proteggere il Parco nazionale dello Jauaperi, la definisce la “Flottila della Cop”, la mobilitazione dei brasiliani per portare un messaggio: “Per salvare l’Amazzonia, non bisogna solo fermare la deforestazione, ma dare più potere e aiuti economici a chi la custodisce, la conosce e la abita. Magari con nuove soluzioni basate proprio sul ripristino della natura“.

    Oltre 25 anni fa la biologa e conservazionista italiana iniziò ad esplorare il territorio amazzonico per studiare lontre e altri ecosistemi, poi “decisi di fermarmi qui. Oggi mi sento una di loro, appartenente ai popoli tradizionali, perché vivo come loro, mangio dalle stesse risorse della natura e con loro – pur essendo sempre europea di nascita – condivido le stesse battaglie“, come quelle “contro la deforestazione, l’inquinamento da estrazione dell’oro o gli impatti della crisi del clima“. A lei abbiamo chiesto come in Amazzonia viene vista la Cop30 e perché è così importante questo evento per i popoli originari. LEGGI TUTTO

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    Crisi climatica, dalla “flotilla indigena” a Trump: al via la Cop30

    BELEM (BRASILE) – La parola chiave della Cop30, la trentesima conferenza delle parti sul clima che inizia ufficialmente oggi a Belém in Brasile, è “pressione”. Mai, nella storia di questi vertici, c’è stata così tanta pressione su un sistema di multilateralismo – quello dove in teoria oltre 190 Paesi hanno lo stesso voto e peso nel decidere su come affrontare la crisi climatica – che potrebbe o uscirne finalmente rafforzato o giungere definitivamente al capolinea. Il perché è evidente. Questa Cop, quella della “verità” la definisce il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, arriva in un contesto preciso: siamo a 10 anni dall’Accordo di Parigi che, dati alla mano, difficilmente sarà rispettato. L’accordo prevedeva sforzi e impegni delle nazioni del mondo a rimanere sotto i +1,5 °C nel tempo. Nel 2025, dopo una serie di anni “più caldi della storia” uno dietro l’altro, siamo però già oltre quella soglia e le attuali proiezioni – se ci basiamo sui piani climatici (Ndc) annunciati dai vari Paesi – ci dicono che ridurremo le emissioni di appena il 10% rispetto al 60% necessario e a fine secolo rischiamo di ritrovarci a +2,5 gradi, il che vorrebbe dire bye bye a ecosistemi come l’Amazzonia, ai ghiacciai della Groenlandia o piogge e temperature miti del passato, perché tutto sarà intensificato e tendente – soprattutto nei “punti di non ritorno” – al collasso.

    Ci sono diversi tipi di pressione in questa Cop. C’è quella del tempo che scarseggia: sia per completare i lavori dei padiglioni (a 24 ore da inizio conferenza sono ancora in alto mare) sia per ottenere decisioni che non siano solo parole, ma fatti concreti. Va indicato per esempio il sistema con cui tirare fuori 1,3 trilioni di dollari all’anno per i Paesi meno sviluppati che senza quei soldi rischiano di non riuscire ad affrontare la crisi del clima. Servono, parola d’ordine, anche più soldi per l’adattamento. Bisognerà poi validare e confermare l’ampliamento dei piani climatici nazionali, trovare accordi per fornire fondi alle popolazioni indigene e per ridurre disuguaglianze climatiche e sociali, ma anche per esempio provare ad affrontare di petto la vera causa del riscaldamento globale, le emissioni di gas petrolio e carbone, quelle che per ora a parte per Paesi come la Colombia e pochi altri, che chiedono una immediata decarbonizzazione, sembrano essere uno dei grandi elefanti nella stanza.

    Editoriale

    Cop30 – “L’ultimo appello”. Un’istituzione da difendere

    di Federico Ferrazza

    03 Novembre 2025

    L’altro grande elefante è ovviamente Donald Trump, motivo di estrema pressione. Il presidente degli Stati Uniti non solo ha ritirato gli Usa dagli Accordi di Parigi e a poche settimane dalla Cop30 ha definito il surriscaldamento globale “una grande truffa” ma – puntando sempre di più su trivellazioni, deep mining e aumento dei combustibili fossili (mentre affossa le rinnovabili) – sembra anche voler boicottare concretamente la Cop30, dove gli Usa sono appunto assenti se non per la rappresentanza di qualche sindaco o governatore.

    Nei corridoi della Cop che sta per iniziare (si parte alle 10 del mattino con la plenaria di apertura) c’è infatti una strana sensazione: quella che lo spettro di Trump, con le sue minacce e pressioni, si concretizzi all’improvviso. Prima della Conferenza gli Stati Uniti sono riusciti, con pressioni commerciali e minacce di sanzioni, a far posticipare di un anno il piano per la decarbonizzazione dei trasporti e delle emissioni marittime chiamato IMO Net-Zero Framework. Grazie alla pressione a stelle e strisce si è arrivati a rinviare di 365 giorni il voto e questa semplice mossa è apparsa come un primo segnale della potenza Usa nel destabilizzare accordi e multilateralismo. Nel frattempo, alla vigilia del vertice, Trump si è messo a scrivere sui social e se l’è presa con il Brasile di Lula che per fare la Cop “deforesta” l’Amazzonia, dice. Questi e altri messaggi fanno pensare ai delegati che il governo Usa possa, nel solo tentativo di far “crollare il castello”, inviare all’improvviso delegati a Belem. Insomma, c’è la sensazione che Trump intenda boicottare, a distanza o meno, possibili accordi per esempio legati al mondo del fossile (che sarà comunque ben rappresentato qui a Belém da centinaia di lobbisti).

    Verso Cop30

    A 10 anni da Parigi la sfida del clima può essere vinta

    di Luca Bergamaschi*

    04 Novembre 2025

    Ad aumentare la pressione c’è poi ovviamente il contesto geopolitico internazionale che, già da anni, ha visto le Cop scivolare lontano dai riflettori. Il ministro italiano dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, atteso a Belém, lo ha proprio detto: “Le aspettative non sono molto alte perché negli ultimi anni l’equilibrio globale è cambiato in modo significativo, con conflitti su più fronti e la formazione di blocchi”. Nella polarizzazione di tutto, tra Paesi che sembrano schierarsi radicalmente contro gli Usa e altri che li appoggiano (vedi Argentina), aumenta dunque la pressione per quella che deve a tutti costi essere una Cop concreta, pragmatica, di risultati e annunci finali quantificabili e realizzabili. Infine, elemento non da poco, a Belém torna la pressione anche da parte della società civile. Dopo tre anni di Cop dal dissenso negato viste le sedi nei petrol-stati, torneranno ad esserci proteste, manifestazione, persone che alzano la voce. LEGGI TUTTO

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    Così gli inquinatori tentano di interferire sulla conferenza sul clima in Amazzonia

    Oogni Cop le sue lobby. Uno dei problemi principali delle Conferenze delle parti sul clima, soprattutto negli ultimi anni, è l’ingerenza dei rappresentanti del mondo industriale sui negoziati. Nelle ultime tre edizioni c’è stata una escalation, fra le sale Onu, di lobbisti: svolgendosi in petrol-stati o Paesi legati all’industria del gas, la maggior parte di questi proveniva dal mondo delle fonti fossili e puntava a mantenere un certo status quo e a permettere ancora la sopravvivenza di petrolio gas e carbone. A Baku, dove il presidente azero Ilham Aliyev in apertura lavori ha difeso il gas “dono di Dio”, i lobbisti dell’oil&gas per numero erano praticamente la quarta delegazione più numerosa, circa 1773 lobbisti.

    Il summit

    Crisi climatica, dalla “flotilla indigena” a Trump: al via la Cop30

    di Giacomo Talignani

    10 Novembre 2025

    Un numero in calo rispetto a Dubai (circa 2400) ma comunque altissimo se si pensa che l’Azerbaigian ospitava circa 15mila persone in meno in confronto agli Emirati. Quest’anno in Brasile potrebbe cambiare la forma, ma non la sostanza. Quando il presidente Luiz Inácio Lula annunciò al mondo l’intenzione di tenere una Cop in Amazzonia dopo tre anni di vertici nei petrol-stati per molti addetti ai lavori fu il segnale di un potenziale cambiamento: ci si aspettava una Cop più inclusiva e soprattutto capace di allontanare l’ingerenza dei lobbisti.

    Eppure, anche visti i costi esorbitanti degli hotel e le difficoltà logistiche di Belém, la Cop30 presenta nuove criticità più esclusive che inclusive: da una parte mancheranno delegazioni e membri della società civile dei Paesi meno ricchi – impossibilitati a raggiungere il Brasile – e dall’altra nonostante il numero totale dei partecipanti sarà inferiore alle passate edizioni (si attendono 45 mila persone, quasi la metà di Dubai) fra questi si teme ci sarà una fortissima presenza di lobbisti di un’altra industria decisiva, quella dell’agrifood. Nel Brasile a forte vocazione agricola, un settore che insieme all’alimentare è responsabile di oltre un terzo delle emissioni globali, i lobbisti dell’agrifood – lo ha fatto capire anche lo stesso Lula – non perderanno infatti l’occasione per far sentire la loro voce. Uno dei campi collegati in cui si gioca questa sfida riguarda per esempio anche l’Italia: noi ci presenteremo alla Cop30 per spingere il consumo di biocarburanti, un mantra del governo Meloni e del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin. Per questa operazione – che mira a far quadruplicare la produzione di biocarburanti entro il 2035 rispetto a dieci anni prima – l’Italia ha già trovato come alleato proprio il Brasile, secondo esportatore di etanolo al mondo. Ovviamente i lobbisti brasiliani, giocando in casa, si faranno sentire nell’interesse comune sui biocarburanti. Per la potente industria agricola brasiliana la Cop30 sarà poi una vetrina per provare a mostrare un’immagine verde e salvaguardare una filiera che rappresenta oltre un quarto del Pil del Paese anche se il suo impatto climatico, direttamente collegato alla deforestazione dell’Amazzonia, è difficile da ignorare.

    Il diario

    Belém, speranza o dovere?

    di Bertrand Piccard

    10 Novembre 2025

    A Belém l’industria spingerà sulle parole “innovazione e sostenibilità”. In tal senso ci saranno lodi per esempio su crediti di carbonio e sistemi di cattura della CO2 come soluzione alle emissioni, nonostante recenti studi abbiano messo per l’ennesima volta in dubbio la loro efficacia. Inoltre, ancora lontani da quel transition away sui combustibili fossili concordato a Dubai, al centro della Cop tornerà nuovamente la questione petrolio. Anche qui, nel Brasile che a inizio anno è entrato nell’Opec+ (il cartello dei petrolieri) e dove a pochi giorni da inizio Cop sono state autorizzate nuove trivellazioni di Petrobras alla foce del Rio delle Amazzoni, è logico aspettarsi l’influenza del settore fossile. Tra l’altro, tra le tante contraddizioni della Cop30, va registrato il fatto che la comunicazione ufficiale della Conferenza è stata affidata alla stessa agenzia che fra i suoi clienti principali annovera il colosso petrolifero Shell. Ingerenze e incongruenze che hanno portato il gruppo “Kick Big Polluters Out” a fare un appello alla presidenza insieme ad altre 225 organizzazioni proprio contro i conflitti di interesse e greenwashing: “Quest’anno cacciate via i grandi inquinatori, non fateli sedere al tavolo“ dicono.

    Finanza climatica

    Cop30, il piano di Lula per salvare le foreste del mondo

    di Giacomo Talignani

    07 Novembre 2025

    Difficilmente però, come avvenuto finora, la richiesta sarà accolta. Infine, una nuova lobby è all’orizzonte: quella della disinformazione. Il 2025 in cui il negazionista Donald Trump ha definito “truffa” la questione climatica, ha registrato infatti una crescita esponenziale di disinformazione sul ruolo delle azioni antropiche e delle emissioni che alimentano il riscaldamento. Una tesi, in un contesto geopolitico fragile e dove molti leader saranno assenti al vertice di Belém, che rischia di infiltrarsi nel summit. Per questo il segretario generale dell’Onu António Guterres ha lanciato l’allerta: “Dobbiamo combattere disinformazione, greenwashing e attacchi alla scienza. Gli scienziati non dovrebbero mai aver paura di dire la verità”. LEGGI TUTTO

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    Gli Usa grandi assenti, l’America di Trump guarda al passato

    Quando si ascolta il suono delle gigantesche turbine eoliche spegnersi, e si osservano le torri delle raffinerie ergersi di nuovo nel mezzo di paesaggi che una volta credevamo sacri, c’è qualcosa di più della semplice politica a segnare il futuro americano. È la promessa mancata di un Paese diverso, che non guarda più al futuro. Ma al passato. Gli Stati Uniti saranno i grandi assenti alla Cop 30 in programma a Belém, in Brasile, nel cuore dell’Amazzonia, scelta simbolica perché coinvolge il “polmone del Pianeta”. Non si tratta solo di numeri – emissioni, sussidi, regolamenti – ma di valori. Donald Trump è un leader mondiale che ignora il consenso scientifico globale, disfa accordi internazionali, indebolisce le politiche ambientali. Secondo i suoi oppositori, il presidente degli Stati Uniti non crede nella salvezza del Pianeta, ma solo nella propria sopravvivenza. Vero o no, ci sono atti concreti che hanno allontanato l’America dal resto del mondo. Il 20 gennaio Trump ha firmato un ordine esecutivo (“Putting America First in International Environmental Agreements”), che prevede il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sul clima, da cui il tycoon era già uscito durante il primo mandato presidenziale, nel 2017, poi corretto dal suo successore, Joe Biden. Il ritiro non è immediato – per i meccanismi dell’accordo serve un anno – ma la direzione è chiara. Nel frattempo il dipartimento di Stato ha rimosso tutti gli esperti responsabili per i negoziati sul clima. Questo significa che a Cop30 gli Usa avranno nessuna o una modesta rappresentanza ufficiale, togiendola dalle negoziazioni multilaterali sulle politiche climatiche globali.

    Verso Cop30

    Emissioni, finanza, foreste: i temi in discussione in una Cop in bilico

    di Luca Fraioli

    03 Novembre 2025

    Biden aveva fissato obiettivi per la diffusione di veicoli elettrici e standard più rigidi sulle emissioni nocive. Trump ha revocato il piano che prevedeva la presenza del cinquanta per cento di nuovi veicoli elettrici entro il 2030 e sta rallentando le normative sulle emissioni. Il suo predecessore aveva presentato la normativa “Clean Power Plan 2.0”, una proposta di regolamentazione per ridurre le emissioni dalle centrali elettriche, in forma più rigida in termine di gas serra e inquinanti. L’amministrazione Trump ha ordinato la revisione, cancellando molte delle restrizioni previste. Sotto la presidenza Biden sono stati approvati permessi e incentivi nei progetti solari ed eolici, sulle infrastrutture verdi e gruppi di nuova generazione per la produzione di energia pulita. Trump ha cancellato grandi progetti solari, come Esmerald 7 in Nevada, bloccato sovvenzioni e finanziamenti per programmi green, privilegiando l’industria dei combustibili fossili, da cui provengono molti generosi donatori della campagna elettorale del tycoon. È l’America del “Drill, baby, drill”, delle trivellazioni petrolifere ovunque, anche nelle riserve naturali.

    Con il “Greenhouse Gas Reduction Fund” Biden stava cercando di sostenere le comunità svantaggiate, installare infrastrutture verdi, garantire incentivi per le rinnovabili e veicoli elettrici. Il suo successore ha cancellato o sospeso programmi come “Solar for All”, del costo di sette miliardi di dollari, destinati a espandere l’energia solare per le comunità a basso reddito. La politica antigreen sta diventando la normalità in un mondo in cui l’emergenza ambientale appare più evidente e le riforme sempre più necessarie. Il rischio è che con il disimpegno americano, del Paese più grande e potente al mondo, nonché tra i più inquinanti insieme alla Cina, l’azione climatica perda la sua urgenza morale anche in altre aree, e le politiche ambientali diventino un optional. Gli Stati Uniti non sono nuovi a fluttuazioni nella politica climatica, ma raramente la discontinuità è stata così drammatica. Poche volte l’Unione Europea, ma anche l’Asia, il Sud America e l’Africa hanno guardato all’America con una crescente delusione. La svolta negazionista arriva, però, da lontano: il 5 giugno 2018, in un’intervista Trump aveva parlato di “riscaldamento terrestre” come di una questione passeggera di termini: “Prima dicevano che faceva freddo, ora che fa caldo, ma forse ci vorrebbe in inverno un po’ di riscaldamento globale”.

    Cinque mesi dopo, commentando la pubblicazione di un rapporto federale sugli effetti economici del cambiamento climatico, Trump disse di “non credere ai risultati”. Pochi giorni dopo, il 21 novembre 2018, sull’allora Twitter ironizzò davanti alle temperature polari registrate in America: “Che fine ha fatto il riscaldamento globale?”, scrisse. Da sempre gli Stati Uniti sono stati visti come il teatro di uno scontro tra forze più grandi: la tecnologia contro lo spirito, il potere contro l’autenticità, l’ego contro la comunità. Secondo alcuni, un uomo pubblico che nega la realtà scientifica in nome dell’ego o dell’interesse personale sarebbe la reincarnazione del “falso profeta americano”, che sfrutta la fede collettiva nel progresso per distruggere la stessa idea di progresso.

    Le minacce lanciate da Trump contro la politica ambientale non gli sono costati voti. Anzi, hanno moltiplicato il consenso. Chi lo ha accusato di aver confuso il Pianeta con il suo resort è stato battuto. Chi ironizzava sul fatto che Trump considerasse la Terra solo un bene immobiliare, è stato servito. Niente di quello che sta accadendo adesso dovrebbe sorprendere, ma a vedere tutti i progetti evaporati in pochi mesi, la rivoluzione trumpiana appare imponente e devastante. Il progetto Esmeralda in Nevada era un gigantesco impianto solare che avrebbe alimentato quasi due milioni di case. Finiti nel cestino anche i ventiquattro progetti di clean energy approvati da Biden per un totale di 3,7 miliardi di dollari. Tra questi è a rischio uno di riduzione delle emissioni basato sull’idrogeno nel complesso Baytown di Exxon.

    Editoriale

    Cop30 – “L’ultimo appello”. Un’istituzione da difendere

    di Federico Ferrazza

    03 Novembre 2025

    Evaporati centinaia di migliaia di posti di lavoro in Texas, Louisiana, nel Midwest e in California. Non vedremo più gli hub di nuova generazione per l’idrogeno pulito, selezionati dall’amministrazione Biden con sussidi federali. Tra questi “Pacific Northwest Hydrogen Hub” e Arches, in California. In ballo c’erano investimenti per miliardi di dollari e impianti che avrebbero fornito carburante pulito per industria e trasporti. C’era un piano sovvenzionato dal governo con 3,1 miliardi per favorire pratiche agricole climate smart, in cui erano previste colture di copertura e gestione del suolo nel Midwest e nel sudest americano. In pausa la costruzione di parchi eolici offshore nell’area di Vineyard Sound e nel Golfo del Messico. Cancellato il programma federale per la costruzione di 500 mila stazioni di ricarica elettrica per veicoli in tutti gli Stati Uniti. E l’installazione di impianti per la cattura e stoccaggio di CO2 in Texas, Louisiana e nel Midwest. E i finanziamenti per interventi di adattamento ambientale, con la salvaguardia di barriere naturali, ripristino di paludi e protezione delle coste, oltre a progetti per la produzione di batterie e riciclo di materiale nocivo nella West Coast. L’America, soltanto un anno fa, voleva essere il Paese guida anche nella sfida al cambiamento climatico. L’amministrazione Trump ha messo in pausa o cancellato tutto. LEGGI TUTTO

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    Così l’Italia tenta di annacquare il Green Deal

    Lo aveva annunciato a settembre all’Assemblea generale dell’Onu, lo ha ribadito il 22 ottobre scorso davanti alle Camere. Così, quando Giorgia Meloni è partita per il Consiglio europeo per discutere la revisione della legge europea sul clima era già chiaro a tutti che avrebbe portato il “no” dell’Italia. Cancellato qualsiasi dubbio quando ha aperto il dossier con cui il 23 ottobre è sbarcata a Bruxelles. Conteneva una serie di paletti al Green Deal europeo che Meloni ha bollato come ”ambientalismo ideologico”. Sollecitando un nuovo approccio contro quelle che ha chiamato “follie verdi” che secondo il capo del governo danneggiano l’industria, a cominciare dall’auto. La visione italiana non è mutata nemmeno sul gas sul quale il governo punta per la politica energetica. Al centro la difesa del Piano Mattei, strategia con cui il governo vuole far diventare il Paese un hub energetico nel Mediterraneo. Accordi sono stati siglati soprattutto con l’Algeria (fino al 2021 oltre il 40% delle importazioni di gas dell’Italia proveniva dalla Russia) per far arrivare nove miliardi di metri cubi all’anno attraverso il gasdotto TransMed. Su questo nessuna marcia indietro. Il Piano Mattei è considerato dal governo come un progetto a lungo termine per posizionare l’Italia come corridoio meridionale dell’Europa per il gas e per i biocarburanti.

    Con la Ue, però, ad ottobre l’obiettivo era trovare una linea comune in vista della Cop30 in Brasile a cui comunque la premier ha già fatto sapere che non parteciperà. Per quanto riguarda il taglio delle emissioni, la proposta italiana era di fissare una tappa intermedia: il 90% entro il 2040, come step verso il target finale del 100% entro il 2050. Giorgia Meloni, a questo proposito, ha parlato di “flessibilità“ e “semplificazione“. Così, se da una parte la premier ha assicurato che l’Italia continuerà a sostenere la “riduzione delle emissioni“, dall’altra ha spiegato che lo farà senza “l’approccio ideologico che impone obiettivi irraggiungibili, che producono danni al nostro tessuto economico-industriale, indeboliscono le nazioni europee e rischiano di compromettere la credibilità dell’Unione europea“.

    Per il governo italiano la strada è segnata dal principio della “neutralità tecnologica” e che riguarda soprattutto il futuro dell’auto, del trasporto pesante o delle industrie di acciaio, vetro e cemento. “Non può esistere solo l’elettrificazione, bisogna restare aperti a tutte le soluzioni, come i biocarburanti sostenibili che devono essere consentiti anche dopo il 2035“, ha spiegato la premier confermando di essere contro la scelta del “tutto elettrico” post 2035. In altre parole, la linea del governo sulla transizione energetica è questa: non dobbiamo limitare la ricerca alle fonti rinnovabili, ma includere tutte le soluzioni in grado di abbattere le emissioni, dall’idrogeno al biometano, alla cattura della CO2 fino naturalmente al ritorno del nucleare chiesto a gran voce anche dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin.

    E sempre sulla riduzione delle emissioni e il modo con cui realizzarla, l’Italia fa ancora appello alla “massima flessibilità” puntando sulla contabilizzazione dei tagli ottenuti dai diversi sistemi di cattura del carbonio. Oltre all’adozione di una “robusta clausola di revisione“ degli obiettivi climatici della legge clima, capace di valutare a cinque anni progressi e azioni. E poi ci sono i conteggi del “crediti internazionali”. L’Italia ha chiesto di poter conteggiare fino al 5% dei crediti, ottenuti dai progetti di cooperazione internazionale anti-emissioni di carbonio che l’Ue e gli Stati membri finanziano in Paesi terzi. Considerando che le emissioni europee valgono circa il 6% di quelle globali, “non è trascurabile – per Meloni – il valore che ha, ai fini dell’obiettivo finale, favorire un’economia sostenibile nei Paesi in via di sviluppo“.

    L’Italia vuole far valere il peso del Piano Mattei e del suo focus sui progetti ambientali. Come il sostegno all’accesso all’energia elettrica “Mission 300”, i progetti dalla Costa d’Avorio al Congo, le iniziative Ascent cofinanziate con la Banca mondiale in Tanzania e in Mozambico per ampliare l’accesso all’energia da fonti rinnovabili. La posizione italiana è dunque quella di voler voltare pagina e cambiare paradigma. L’ultimo punto sollevato da Giorgia Meloni, dopo il gas e le fonti rinnovabili, il conteggio dei crediti di cooperazione internazionale anti-emissioni, il principio di neutralità tecnologica da applicare a tutta la legislazione climatica a cominciare da quella dell’auto, riguarda i fondi.

    “Nessuna transizione è davvero possibile senza stanziare risorse adeguate“, ha detto Meloni che guarda ad un Quadro finanziario pluriennale, per favorire gli investimenti privati. Temi su cui la premier cerca alleati. Guarda soprattutto alla Germania del cancelliere Friederich Merz dove l’industria del Paese più “verde” d’Europa è colpita da una crisi senza precedenti. LEGGI TUTTO

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    Emissioni a -90% in 15 anni, la Ue continua sulla strada del Green Deal

    “Abbiamo approvato sia la legge clima e che l’Ndc europei”. Lo conferma nella mattinata di Bruxelles il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin alla stampa. Dopo un nulla di fatto ieri nel Consiglio straordinario ambiente, la cui conclusione era prevista per le 16, si è lavorato tutta la notte a un testo […] LEGGI TUTTO

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    Da Berlino a Belém: 30 anni di vertici per aiutare la Terra

    “La guerra è la forma più odiosa di inquinamento”. La frase non è di un leader politico di oggi, ma di Olof Palme primo ministro svedese quando, insieme al segretario delle Nazioni Unite Kurt Waldheim inaugurava la prima Conferenza Onu sull’Ambiente. Era il 1972. Si tenne a Stoccolma, la città che decenni più tardi vide una ragazza di 15 anni, Greta Thunberg, incatenarsi davanti al Parlamento e diventare leader del movimento ambientalista internazionale Friday for Future. All’epoca di Palme e Waldheim però c’era ancora la Guerra Fredda e il conflitto in Vietnam con le devastanti conseguenze ambientali. Fu anche a causa di quelle immagini che per la prima volta 112 Stati e 44 organizzazioni decisero di riunirsi e discutere di ecologia, mentre i movimenti diedero vita a una contro conferenza, i Forum dell’ambiente.

    Editoriale

    Cop30 – “L’ultimo appello”. Un’istituzione da difendere

    di Federico Ferrazza

    03 Novembre 2025

    In realtà, di ambiente nel 1972 si parlò poco, ancora meno di clima. Pensata per rilanciare il ruolo delle Nazioni Unite, i lavori della Conferenza di Stoccolma naufragarono a causa dello scontro ideologico tra il blocco dell’Est e dell’Ovest complicato dalla crisi energetica. Bisognerà aspettare 23 anni, il 1995, per la prima Conferenza delle Parti (Cop) delle Nazioni Unite e veder riuniti gli Stati aderenti alla Convenzione sui cambiamenti climatici. Passando per il Protocollo di Montreal (1987) che sancì la scoperta del buco dell’ozono sopra l’Antartide e la prima Conferenza mondiale sui cambiamenti atmosferici di Toronto (1988) con la nascita dell’Ipcc il Gruppo Intergovernativo sul clima. Il primo report scientifico mostrò l’impatto dei gas serra. Un trattato sul clima non era più rinviabile. Obiettivi: ridurre le emissioni e l’uso delle risorse, definire impegni vincolanti per i Paesi industrializzati. Insomma, trovare un modo nuovo di vivere sulla Terra. La strada è tracciata: BerlinoNel 1995 a Berlino va in scena la prima Conferenza delle parti sul Clima della United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc). La Cop numero 1. E da quel momento le Cop scriveranno la storia della lotta al climate change, tra successi e fallimenti, pietre miliari e intese poco convincenti. I Paesi in quel 1995 elaborano il “Mandato di Berlino”, in cui si impegnano per la riduzione delle emissioni a partire dal 2000.Ma le difficoltà emergono già nel 1996 quando presidente di Cop2 è una giovane Angela Merkel: un teatro di scontri mentre esce il secondo rapporto Ipcc sul taglio delle emissioni. L’Europa spinge, Usa e Giappone no.

    A Kyoto la prima sfida globale
    È in Giappone con la Cop3 nel 1997 che viene adottato il primo impegno vincolante: il Protocollo di Kyoto. Entrerà in vigore solo nel 2005, ma 160 Paesi si impegnavano già a ridurre le emissioni di gas a effetto serra tra il 2008 e il 2012, di almeno il 5%. Per la prima volta le nazioni riconoscevano che il cambiamento climatico era un problema comune causato all’uomo. Vengono anche definiti i gas da “combattere” e parole come “neutralità climatica” e “decarbonizzazione” entrano nel dibattito pubblico. Sembra un punto di svolta, ma nel 2000 all’Aja, la Conferenza numero 6, molto attesa perché avrebbe dovuto dare concretezza proprio al Protocollo, viene sospesa a causa di un forte contrasto tra Ue e Usa: è la prima volta.

    La road map per il futuro
    Finalmente la Conferenza sul clima del 2005 a Montreal sancisce l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto. Alla Cop11 si tenta anche di negoziare tagli più importanti alle emissioni, ma gli Usa si sfilano. Nasce comunque il Montreal Action Plan per estendere gli impegni oltre il 2012. Si tratta per creare la “mappa per il futuro”: tracciare una linea di continuità storica sui negoziati climatici. Si gettano le basi che porteranno a Parigi su finanza climatica e riscaldamento globale.

    Verso Cop30

    Emissioni, finanza, foreste: i temi in discussione in una Cop in bilico

    di Luca Fraioli

    03 Novembre 2025

    La svolta a Parigi
    L’accordo storico doveva essere raggiunto alla Cop15 a Copenaghen nel 2009, ma la conferenza fallì per le grandi divisioni. Si dovette ricominciare da zero e ci vollero sei anni per raggiungere nel 2015 a Parigi (Cop21) un accordo che ponesse l’obiettivo di rimanere “al di sotto dei 2 °C”, con raccomandazioni intorno a 1,5 °C come sostenuto dalla comunità scientifica. 196 Paesi firmarono il trattato fissando una revisione ogni 5 anni. In realtà l’Accordo nacque debole: gli obiettivi non erano vincolanti e il sistema di revisione avrebbe dovuto spingere un maggiore controllo. La realtà racconta un’altra storia.

    “Ho 15 anni e sono svedese”
    “Voi dite di amare i vostri figli, eppure gli state rubando il futuro”. È dicembre 2018 quando a Katowice. in Polonia, un’adolescente parla al summit sul clima Cop24. “Se avrò dei bambini forse mi chiederanno come mai non avete fatto niente quando era ancora il tempo di agire. Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no”. È la prima apparizione internazionale di Greta Thunberg. Sarà il simbolo della mobilitazione giovanile per il clima. L’impatto mediatico globale è molto forte.

    Il Patto per il clima
    Un mondo sconvolto dalla pandemia, che ha mostrato quanto la crisi climatica non sia solo una questione ecologica ma di salute globale, assiste nel 2021 alla Cop26 a Glasgow, un mix di delusioni e passi avanti. Per la conferenza più importante dopo Parigi è un’occasione mancata. Soprattutto per la questione legata al carbone dove India e Cina riescono a far sostituire nel Patto per il clima la parola “fine” a “progressiva riduzione”. Stesso discorso per i sussidi ai combustibili fossili. Ci sono però passaggi importanti: la riduzione del 45% delle emissioni entro il 2030, mentre i diritti umani entrano nel meccanismo del “doppio conteggio”: la riduzione delle emissioni potrà essere conteggiata sia dal Paese che ha acquistato il credito, sia dove avviene l’effettiva riduzione. No invece ai 100 miliardi di dollari all’anno per i Paesi in via di sviluppo. Tutto rimandato.

    Loss and Damage
    Tra infinite discussioni a Sharm el-Sheikh nel 2022 (Cop27) viene istituto il fondo Loss and Damage destinato ai Paesi vulnerabili. Niente da fare per la messa al bando del carbone e dei sussidi alle fonti fossili. L’anno dopo a Dubai la Cop28 si inaugura tra polemiche, defezioni e boicotaggi. Nel Paese che produce milioni di barili di greggio la presidenza della Conferenza va a Sultan Ahmed Al-Jaber, Ceo della compagnia petrolifera statale. Punto debole anche della Cop29. A Baku presidente è Mukhtar Babayev, ministro dell’Ecologia e Risorse naturali dell’Azerbaigian, ex manager della compagnia petrolifera Socar. Eletto Trump che annuncia: gli Usa escono dall’Accordo di Parigi.

    La Road map Baku-Belèm
    Nata per rafforzare la cooperazione, la Road map Baku-Belém, promossa dalla presidenza azera e brasiliana, mira ad aumentare le risorse finanziarie destinate a sostenere lo sviluppo economico a basse emissioni e resilienti al clima dei Paesi più fragili. Obiettivo: mobilitare 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Il Brasile spera di posizionarsi come leader della lotta al cambiamento climatico soprattutto in risposta al disinteresse degli Stati Uniti. Intanto però alcuni Paesi, tra cui lo stesso Brasile, ma anche India e Sudafrica, puntano il dito contro le politiche ambientali della Ue, responsabile secondo loro di aver posto restrizioni al libero commercio. Una controversia che rischia di piombare sulla Cop30 in Amazzonia. Ce la farà il presidente André Corrêa do Lago economista e diplomatico brasiliano a condurre i negoziati con successo? Il mondo ci spera. LEGGI TUTTO

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    A 10 anni da Parigi la sfida del clima può essere vinta

    Belém, nel cuore dell’Amazzonia, la Cop30 riunirà il mondo attorno al tavolo del clima, a dieci anni esatti dallo storico Accordo di Parigi. In un decennio caratterizzato da un crescendo di conflitti, tensioni geopolitiche e sfiducia nel multilateralismo, la Cop rimane una bussola importante. Attorno a quel tavolo, ogni anno, quasi duecento Paesi discutono soluzioni per la sfida più grande del nostro tempo: come e in che tempi abbandonare i combustibili fossili e mantenere le temperature all’interno di una soglia compatibile con le indicazioni della scienza.

    Editoriale

    Cop30 – “L’ultimo appello”. Un’istituzione da difendere

    di Federico Ferrazza

    03 Novembre 2025

    È innegabile, molti oggi guardano all’obiettivo di 1,5 °C con scetticismo. Ma il bilancio scientifico è severo: il margine di emissioni compatibile con quella soglia è sempre più esiguo. Tuttavia, senza l’azione avviata a Parigi, oggi saremmo in una situazione drammaticamente peggiore. Dal 2015 la traiettoria di riscaldamento globale stimata è scesa da 3,9 °C a 2,6 °C (Unep), e oltre cento Paesi hanno oggi un obiettivo di neutralità climatica (Unfccc). Gli sforzi fatti hanno rallentato la corsa verso il disastro. Il primo bilancio globale di tali sforzi, in gergo Global Stocktake, concluso a Dubai nel 2023, ha indicato la necessità di accelerare: triplicando le rinnovabili, raddoppiando l’efficienza energetica e avviando l’abbandono graduale dei combustibili fossili. Una decisione, quella di Cop28, che ha riconosciuto l’inevitabilità della fine dell’era fossile.

    L’Europa è l’esempio più tangibile del cambiamento. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, le emissioni nette dell’Unione europea nel 2022 erano inferiori del 31% rispetto al 1990. Un risultato significativo se si considera che, nello stesso periodo, il Pil europeo è cresciuto considerevolmente. Progressi che mostrano l’avanzare della decarbonizzazione, con la crescita di rinnovabili ed efficienza energetica, in sostituzione a carbone, gas e petrolio. Gli Accordi di Parigi hanno innescato una nuova rivoluzione industriale. Oggi fare innovazione significa investire nelle tecnologie della transizione, le cosiddette clean tech. Dal 2015, i dati dell’Agenzia Internazionale dell’Energia indicano che i costi dell’energia solare sono diminuiti dell’85% e quelli delle batterie del 90%, e gli investimenti globali in energia pulita hanno raggiunto i 2.000 miliardi di dollari nel 2024, il doppio di quelli nei combustibili fossili. La mobilità elettrica è il nuovo standard per il futuro dei trasporti e l’elettrificazione dei consumi finali diventa sempre più realtà per molte famiglie e imprese. Secondo l’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili, nel 2024 si è registrato un aumento di 582 gigawatt di capacità rinnovabile a livello globale, il più alto incremento annuale mai registrato. Si tratta di una trasformazione che ridisegna l’economia globale: chi investe nel futuro pulito ha ritorni in termini di competitività, occupazione e sicurezza. Chi, al contrario, si ostina a difendere il passato rischia di restare intrappolato in industrie obsolete e capitali bloccati in asset destinati a perdere valore. La neutralità tecnologica non esiste: le tecnologie hanno costi, efficienza, maturazione di mercato e disponibilità diverse tra loro. Oggi vince chi punta sulle tecnologie più efficienti, economiche e disponibili, come le rinnovabili.

    In questi dieci anni, gli Stati Uniti sono passati da un programma ambizioso per la transizione come l’Inflation Reduction Act, all’avvento di Trump, che ha scelto di proteggere i settori tradizionali fossili. Tuttavia, restare ancorati al passato non preserva la competitività, la compromette. L’economia globale, trainata da realtà come Cina e India, non aspetta: l’innovazione verde sta diventando la misura della potenza economica.

    Verso Cop30

    Emissioni, finanza, foreste: i temi in discussione in una Cop in bilico

    di Luca Fraioli

    03 Novembre 2025

    Ma l’innovazione richiede finanziamenti e, in questo senso, dal 2015 i flussi finanziari globali hanno preso nuove direzioni. Nel 2022, alla Cop27 di Sharm el-Sheikh, si è reso operativo il “Fondo per Perdite e Danni” (Loss and Damage Fund), primo strumento di solidarietà verso i Paesi più colpiti dagli impatti climatici. Nel 2024, alla Cop29 di Baku, un nuovo obiettivo di finanza climatica ha impegnato i Paesi più ricchi a mobilitare 1.300 miliardi in finanza per il clima entro il 2035.

    Molto resta da fare soprattutto per finanziare l’adattamento. Alla Cop30 di Belém, i Paesi rimarranno sulla rotta tracciata in questi dieci anni, nonostante l’opposizione americana? Molto dipenderà da nuove alleanze e compromessi, inclusa una cooperazione lucida e selettiva tra Europa e Cina. Dieci anni dopo l’Accordo di Parigi, il mondo non ha ancora risolto la sfida climatica, ma ha mostrato che può farlo. La bussola del clima esiste: basta seguirla.

    (*Luca Bergamaschi, esperto di politica energetica, è cofondatore e direttore esecutivo di Ecco, il think tank italiano per il clima) LEGGI TUTTO