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    Chi salverà Parana?

    Si chiamava Paraná. Aveva la mia età, nei miei libri per bambini. Lo vedo ancora, con indosso un perizoma, mentre pesca con una lancia mentre sua madre gli prepara un piatto di manioca. Si diceva che fosse un “piccolo indiano”. Mio padre mi raccontava che venivano uccisi per rubare le loro terre. E io piangevo.

    Oggi, alla Cop30 di Belém, lo ritrovo sugli schermi. Ora lo chiamano “indigeno”. La parola è cambiata, ma non il destino. Il suo ambiente è devastato, gli alberi della sua foresta abbattuti, i fiumi avvelenati. E io ho ancora voglia di piangere.

    Parana ha ancora la mia età, ma è cresciuto. Nel frattempo, il mondo si è rimpicciolito. Non in termini di dimensioni, ma di valori umani, compassione, lucidità. Improvvisamente ho l’impressione che questi ultimi 60 anni non siano serviti a nulla. Da decenni mi sforzo di dimostrare che esistono migliaia di innovazioni pulite e attraenti in tutti i settori e che rendono la transizione non solo possibile, ma desiderabile ed economicamente redditizia. LEGGI TUTTO

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    Quel grido di dolore degli Stati insulari destinati a scomparire

    Tra gli oltre 190 Paesi che si riuniranno alla Cop30 c’è una serie di Stati che non lotta solo per adattarsi al nuovo clima, ma direttamente per evitare di scomparire per sempre. Dal 1900 ad oggi il livello medio dell’innalzamento del mare è stato di 1,5 millimetri all’anno: alcuni popoli dell’entroterra risentono solo marginalmente di questo cambiamento ma per le piccole nazioni insulari è un impatto devastante, la più grande sfida che hanno davanti. E così il paradiso delle Maldive, per esempio, sta diventando un inferno dato che l’80% delle sue isole è a meno di 1 metro sopra il livello del mare e anche un minimo innalzamento significa salinizzazione dei terreni e perdita della possibilità di coltivare, oppure erosione costiera o inquinamento delle fonti d’acqua. Qui, entro la fine del secolo, il livello alle attuali tendenze aumenterà di quasi 7 centimetri: gran parte delle Maldive sarà dunque inabitabile.

    North Tarawi a Kiribati, una delle isole a rischio (foto: Josh Haner / The New York Times)  LEGGI TUTTO

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    Dall’Africa all’India, le vere vittime chiedono giustizia

    Arriveranno in Amazzonia da continenti che bruciano, si allagano o si svuotano. Dall’Africa che perde fino al 5% del proprio Pil annuale a causa di disastri climatici, all’India che affronta la stagione più calda della sua storia, fino all’America Latina frammentata e contraddittoria nella scelta delle politiche ambientali. È il Sud del mondo che avanza verso Belém con la stessa richiesta che accompagna ogni conferenza Onu sul clima: giustizia. Ma la Cop30 arriva in un contesto diverso. L’Occidente è distratto e politicamente stanco, mentre i Paesi emergenti cercano di occupare il vuoto di leadership lasciato dagli Stati Uniti e dall’Europa.

    La presidenza brasiliana della Conferenza, guidata dal diplomatico André Corrêa do Lago, promette “la Cop più inclusiva di sempre”. In realtà, una parte consistente della società civile del Sud rischia di restare fuori: voli troppo costosi, alberghi esauriti o inaccessibili, accrediti tagliati. “L’inclusività è ancora basata su quanto hai in tasca”, riassume Marina Agortimevor, coordinatrice dell’Africa Just Transition Network.

    Piccole delegazioni
    Per molti attivisti, la Cop in Amazzonia doveva rappresentare una rinascita dopo tre edizioni ospitate in Paesi autoritari — Egitto, Emirati, Azerbaigian — che avevano ridotto al minimo la partecipazione dal basso. Invece, le delegazioni del Sud arrivano a Belém più piccole e più indebitate. Alcune organizzazioni africane hanno dovuto rinunciare a mandare i propri rappresentanti, altre dividono i pochi badge ricevuti tra la prima e la seconda settimana di lavori. “È un fallimento di pianificazione, non di geografia”, ha detto Rachitaa Gupta, della rete globale Demand Climate Justice. La sensazione diffusa è che l’inclusione resti uno slogan, non ancora una pratica. E questo pesa, perché proprio la presenza del Sud del mondo – attivisti, ricercatori, comunità indigene – è la chiave di legittimità di una Cop che vuole rimettere al centro il multilateralismo.

    Finanziamenti fantasma
    Sul piano politico, il nodo resta sempre lo stesso: i soldi. I Paesi ricchi avevano promesso nel 2009 di mobilitare almeno cento miliardi di dollari all’anno per sostenere mitigazione e adattamento nei Paesi vulnerabili. Non ci sono mai riusciti davvero, e la distanza tra promesse e realtà si è allargata. Oggi i flussi di finanza climatica verso il Sud coprono meno di un decimo del fabbisogno stimato. Secondo Oxfam e CARE, nel 2025 le risorse per l’adattamento potrebbero addirittura diminuire, fermandosi a 26 miliardi di dollari contro i 40 necessari solo per onorare l’impegno assunto a Glasgow quattro anni fa. La presidenza brasiliana punta a fare di Belém “la Cop dell’adattamento”: un pacchetto di misure per fissare indicatori comuni, misurare i progressi nei settori più vulnerabili — acqua, cibo, salute — e definire un nuovo obiettivo di finanziamento stabile.

    Operai edili impegnati nella costruzione dell’impianto solare a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo  LEGGI TUTTO

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    L’Italia 16esima nella classifica dei Paesi più colpiti dalla crisi del clima

    BELÉM (Brasile) – All’improvviso, proprio mentre stava iniziando la Cop30, in Brasile un tornado è passato sulla città di Rio Bonito e l’ha letteralmente rasa al suolo. Nel frattempo, nelle stanze dei negoziati, i delegati filippini con gli occhi lucidi ricevevano notizie del bilancio mortale del tifone Fung-wong. Il clima uccide, in ogni istante e ovunque. Nessun Paese è risparmiato dall’intensificazione degli eventi meteo estremi causati dalla crisi climatica e l’Italia lo sa bene. Per gli effetti della siccità in Sicilia o Sardegna, le alluvioni dall’Emilia Romagna alle Marche, per le frane e i distacchi dei ghiacciai sulle Alpi l’Italia è oggi al sedicesimo posto nella classifica degli stati del mondo più colpiti dalla crisi climatica nell’ultimo trentennio (1995-2024). Il nostro anno peggiore è stato il 2023, ma anche le ondate di calore del 2024 sono state altamente mortali e in Europa attualmente per impatti siamo dietro soltanto alla Francia (dodicesima).

    Cop30

    Jennifer Morgan: “Sul climate change non ci devono essere divisioni politiche”

    di Luca Fraioli

    10 Novembre 2025

    A rivelarlo è il Climate Risk Index, l’indice realizzato dall’organizzazione umanitaria e ambientale Germanwatch che attraverso i dati storici e accessibili relativi a 9700 fra gli eventi climatici più impattanti degli ultimi trent’anni ha definito il rischio di esposizione delle nazioni davanti agli eventi di quel riscaldamento globale che, ad esclusione di Stati Uniti, San Marino e Myanmar, tutti i delegati del mondo stanno ora provando ad affrontare cercando soluzioni concrete a Belém. Solo relativamente a quasi 10mila eventi meteo estremi avvenuti negli ultimi trent’anni sono morte oltre 830mila persone. La causa principale sono le ondate di calore, seguite da tempeste e alluvioni, fenomeni diventati più intensi e frequenti per le emissioni antropiche e tali da aver causato danni economici per 4500 miliardi di dollari in tre decadi. Ci sono condizioni – come in Italia – in cui sono posizione geografica o fragilità dei territori a rendere gli stati più vulnerabili, ma è soprattutto nel Sud del mondo e nelle aree popolose meno sviluppate dove il clima diventa spesso più letale.

    Finanza climatica

    Cop30, il piano di Lula per salvare le foreste del mondo

    di Giacomo Talignani

    07 Novembre 2025

    Il 40% di tutte le persone del globo vive infatti attualmente negli undici Paesi più duramente colpiti da eventi estremi, quasi sempre realtà meno abbienti. Per esempio in India (9°posto) o Filippine (7°) e al momento sul podio di questa sfortunata classifica in vetta c’è la Dominica seguita da Myanmar e Honduras. Anche le grandi potenze mondiali però sono nella parte alta della lista: la Cina che oggi va a trazione rinnovabile e sta diventando leader nella battaglia climatica è all’11esimo posto, mentre gli Stati Uniti del negazionista Donald Trump, convinto che il global warming sia una “truffa”, sono diciottesimi. Trump non intende affrontare la questione climatica, ma gli stati americani sì: ieri è arrivato a Cop il governatore della California Gavin Newsom per ricordare che l’atteggiamento della Casa Bianca è semplicemente “stupido” e pericoloso. Se ovunque sta avvenendo una intensificazione, alcuni stati sono “colpiti ripetutamente” rileva inoltre il rapporto, come per esempio Haiti “impattato con tale regolarità che intere regioni riescono a malapena a riprendersi dagli impatti fino all’evento successivo” afferma Vera Künzel, coautrice del report.

    E spesso, sono proprio le realtà insulari le più a rischio. L’intero indice fa riferimento a impatti avvenuti poco prima, nel 2024, del superamento di una soglia critica, quella dei famosi +1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Ora che siamo già oltre se non troveremo il modo di fermare le emissioni gli eventi diventeranno più devastanti e toccheremo punti di non ritorno come la perdita delle barriere coralline, lo sconvolgimento di Antartide e Groenlandia, la decaduta della foresta amazzonica. Non a caso, domani, migliaia di indigeni arriveranno a Belém con ogni tipo di imbarcazione: l’obiettivo è ricordarci che la crisi del clima uccide la natura e le persone, a cominciare dall’Amazzonia. LEGGI TUTTO

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    La Cina e la leadership nella lotta globale alla crisi climatica

    Possono sembrare a prima vista obiettivi modesti, ma risultano passi da gigante se paragonati alla ritirata degli Stati Uniti di Donald Trump. Gli ultimi impegni sul clima Pechino li ha annunciati a settembre alle Nazioni Unite: lo ha fatto direttamente il leader cinese Xi Jinping, lanciando frecciatine nemmeno troppo velate contro l’America. La transizione verso un’economia “verde e a basse emissioni di carbonio” è la “tendenza del nostro tempo” ha detto Xi, criticando poi i Paesi che “agiscono contro” tale transizione. Parole pronunciate all’Onu un giorno dopo quelle scioccanti di Trump, che aveva definito il cambiamento climatico come la “più grande truffa messa in atto da persone stupide”. Il messaggio cinese è chiaro: è Pechino la potenza responsabile pronta a impegnarsi per risolvere le sfide globali come quella del cambiamento climatico appunto, e non gli Stati Uniti, che invece si ritirano dalla lotta.

    È sul vuoto di leadership lasciato dagli Stati Uniti in alcune aree – come le questioni climatiche, con Trump che ha di nuovo ritirato gli Usa dagli Accordi di Parigi – che la Cina punta a intensificare le proprie azioni.La Cina si è prefissata l’obiettivo di ridurre le emissioni nette di gas serra del 7-10% nei prossimi dieci anni rispetto ai livelli massimi. Nel 2021 Xi annunciò che la Cina avrebbe puntato a raggiungere il picco delle emissioni entro questo decennio e arrivare alla neutralità carbonica entro il 2060: gli impegni assunti a settembre all’Onu segnano la prima volta che la Cina fissa obiettivi di riduzione delle emissioni effettivi su tale percorso. Xi si è anche impegnato ad aumentare la quota di combustibili non fossili a oltre il 30% del consumo energetico totale della Cina e ad espandere la capacità installata di energia eolica e solare di oltre sei volte rispetto ai livelli del 2020. Per gli esperti, però, la Cina, il più grande inquinatore al mondo, deve fare di più.

    Pechino è cauta e Xi segue la tradizione di fissare obiettivi climatici relativamente modesti, per poi superarli in seguito. Esempio: la Cina ha superato l’obiettivo fissato per il 2030 di aggiungere 1.200 gigawatt di capacità solare ed eolica con quasi sei anni di anticipo. “La Cina ha spesso promesso poco e mantenuto molto”, ha osservato Andreas Sieber, direttore associato delle politiche e delle campagne dell’associazione ambientalista 350.org. Un’analisi dell’Asia Society Policy Institute afferma che la Cina dovrebbe ridurre le emissioni del 30% entro il 2035 per rendere raggiungibile il suo obiettivo di neutralità carbonica entro il 2060. “Gli obiettivi annunciati sono deludenti, non sono all’altezza della leadership di cui il mondo ha disperatamente bisogno”, afferma Li Shuo, direttore della ricerca sulla Cina e il clima presso l’Asia Society. “Ma il Paese si è anche affermato come superpotenza delle tecnologie pulite, e questo ruolo dominante potrebbe spingerlo ad andare oltre i suoi impegni”. Sebbene gli esperti non siano del tutto soddisfatti degli annunci fatti da Xi alle Nazioni Unite, si vede plasticamente la crescente divisione tra i due maggiori inquinatori mondiali: l’America che sta facendo retromarcia sulle proprie politiche climatiche, la Cina che sta assumendo il ruolo di leader nell’energia verde. Nonostante rimanga il maggiore produttore mondiale di gas serra e le emissioni del suo settore energetico abbiano raggiunto un nuovo picco lo scorso anno, trainate dall’aumento del consumo di carbone, Pechino è ormai da tempo leader nella produzione di tecnologie verdi. La Cina produce e utilizza più pannelli solari, turbine eoliche e veicoli elettrici rispetto al resto del mondo messo insieme.

    Lo scorso anno ha installato 356 gigawatt di energia solare ed eolica, cioè quattro volte e mezzo in più dell’Unione europea nello stesso anno. Le aspettative nei confronti della leadership cinese in materia di clima stanno aumentando in vista della Cop30 che si terrà in Brasile a partire dal 10 novembre. “Non è solo la politica climatica a essere in evoluzione: l’intero ordine internazionale sta subendo una profonda trasformazione. Una questione cruciale è la misura in cui la Cina sta ponendo, e porrà, lo sviluppo a basse emissioni di carbonio al centro di tali sforzi”, sostengono i ricercatori di Chatham House in una recente analisi dal titolo “Si sta formando un nuovo ordine internazionale. La Cina lo renderà ‘verde’?”. È nel suo interesse farlo, sostengono i ricercatori. “La Cina è il principale produttore a livello mondiale nel settore delle tecnologie pulite, con una produzione pari a circa l’80% di tutti i pannelli solari e oltre il 70% di tutti i veicoli elettrici nel 2024, mentre Europa e Stati Uniti sono molto indietro. Le esportazioni cinesi di pannelli solari sono triplicate in cinque anni e la metà è destinata a Paesi non Ocse. La Cina non si limita a esportare prodotti tecnologici puliti all’estero, ma sta anche costruendo fabbriche di tecnologia pulita in altri Paesi. Dal 2022 gli investimenti delle aziende cinesi di tecnologia pulita hanno interessato 54 Paesi in tutte le regioni del mondo, per un totale di almeno 227 miliardi di dollari”. E, concludono: “La transizione globale verso un’economia a basse emissioni di carbonio comporta un probabile aumento della domanda di esportazioni cinesi, a vantaggio dell’economia cinese e della sua influenza geopolitica. Oltre a perseguire la leadership nella produzione di tecnologie pulite, la Cina sta cercando sempre più di plasmare e definire gli standard internazionali relativi all’economia verde”.

    “Con gli Usa che si tirano indietro dalla scena climatica globale, la Cina può fare un passo avanti. In quanto maggiore emettitore mondiale (in termini assoluti, non pro capite) e leader nella produzione di energia pulita, la Cina si trova in una posizione privilegiata per portare avanti lo slancio della transizione verde. Non è solo una questione di responsabilità: è nell’interesse della Cina”, scriveva a maggio in un editoriale per il South China Morning Post l’ex segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. “Le economie in via di sviluppo sono pronte a fare un balzo in avanti verso un futuro basato sull’energia pulita. Tuttavia, non dispongono delle risorse finanziarie e tecnologiche necessarie per farlo in modo rapido e su larga scala. Senza un maggiore sostegno, questi Paesi rischiano di rimanere intrappolati in sistemi ad alta intensità di carbonio proprio mentre il resto del mondo li sta superando. La Cina ha gli strumenti per aiutare a colmare questo divario: una vasta capacità produttiva, un’influenza crescente nelle catene di approvvigionamento di energia pulita e un impegno economico decennale con Paesi in Asia, Africa ed Europa attraverso la Belt and Road Initiative e altri accordi commerciali”. Il leader Xi Jinping ha presentato se stesso – e la Cina – negli ultimi anni come un partner affidabile e costruttivo, in particolare sulla questione climatica. Al meeting dei leader sul clima di aprile disse: “Per quanto il mondo possa cambiare, la Cina non rallenterà le sue azioni a favore del clima, non ridurrà il suo sostegno alla cooperazione internazionale e non cesserà i suoi sforzi per costruire una comunità con un futuro condiviso per l’umanità”. LEGGI TUTTO

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    Il paradosso di Belém: come è alimentata tutta la Cop30? A gasolio

    BELÉM (BRASILE) – Piove sul bagnato a Belém. Ieri, durante l’inizio ufficiale della Cop30 nel cuore dell’Amazzonia, a un certo punto delegati, politici e giornalisti fra le migliaia di persone presenti non riuscivano più nemmeno a parlare. Un temporale tropicale, in una città a 30 gradi e dai tassi di umidità altissimi, si è abbattuto sui grandi tendoni gonfiabili e sulle strutture montate apposta per la Conferenza: il risultato è stato un rumore assordante, con la pioggia che cadeva perfino dentro in alcuni punti. Quel rumore però è diventato impossibile perché mescolato da un altro suono costante di sottofondo: l’aria condizionata che viene sparata senza sosta.

    Il vertice

    Cop30, Cina e Ue tentano l’alleanza contro i combustibili fossili

    di Giacomo Talignani

    10 Novembre 2025

    Il paradosso dei paradossi, nella grande conferenza sul clima che prova a trovare soluzioni per arginare la crisi del clima alimentata dalle emissioni antropiche, è che quell’aria condizionata, così come tutta l’elettricità della Cop30, è alimentata a gasolio. Già, perché nonostante il Brasile di Luiz Inácio Lula da Silva sia ancora fortemente ancorato ai combustibili fossili – nuove trivellazioni sono appena state autorizzate sul Rio delle Amazzoni – e nonostante le solite polemiche per le emissioni di jet privati e navi giunte a Belém per permettere una migliore logistica ai delegati, si sperava che per la prima, simbolica e storica Conferenza delle parti nel cuore dell’Amazzonia, ci fosse decisamente più attenzione all’ambiente.

    Passi il fatto che i menù – al contrario di quanto chiedeva Sir Paul McCartney non siano affatto vegani (e carissimi) – ma l’idea di alimentare a diesel l’energia di uno spazio grande come 16 campi da calcio è difficile da digerire nella prima Cop che si tiene, dopo tre anni, fuori da petrol-stati. Mentre il “transition away”, l’abbandono graduale delle fonti fossili concordato due anni fa a Dubai, resta un elefante nella stanza, dato che nessuno dei Paesi più industrializzati si sbilancia a chiedere un immediato abbandono del fossile, fuori dai padiglioni della Cop30 i camion cisterna carichi di diesel fanno avanti e indietro per garantire carburante ed elettricità prodotta da 160 generatori. Un paradosso svelato da BBC Brazil che ha visionato i contratti di appalto i quali prevedevano priorità a sistemi alimentati da combustibili differenti al fossile ma che evidentemente, anche per questioni di costi e logistica, non è stato pienamente rispettato. Va detto che sebbene larga parte del carburante sia diesel di Petrobas è prevista una parte di biocombustibile e l’azienda sostiene che il gasolio ha un contenuto “da fonti rinnovabili” di circa il 25% (ma doveva essere almeno biodiesel al 100%).

    Eppure, nello stato del Parà dove si trova Belém, ci sono alcune delle centrali (come quella di Belo Monte) idroelettriche più grandi del Brasile, per cui si pensava a formule alternative per la Conferenza o per lo meno più green. Oppure si ipotizzava un uso più diffuso di biocarburanti o addirittura di energie rinnovabili come il solare, soprattutto perché per i trasporti cittadini – per esempio – proprio per questa Cop30 sono stati sfoderati nuovi bus e auto elettriche. Lula stesso, in apertura di Cop30, ha ribadito la necessità della transizione energetica e della decarbonizzazione ma ha comunque sempre giustificato i combustibili fossili come tramite per poterla finanziare. In sostanza, fa capire, “ci servono ancora”. Ma mentre Lula è impegnato a contrattaccare contro l’altro grande elefante nella stanza, quel Donald Trump che è assente, che definisce “truffa” la crisi del clima e che ieri ha attaccato il Brasile che “deforesta l’Amazzonia per la Cop”, il peso di una scelta come quella di una Cop a tutto diesel sembra riflettere il modo stesso in cui questa conferenza intende affrontare il problema principale del cambiamento climatico, le emissioni dei combustibili fossili. Più che parlare di questo, il presidente brasiliano ieri si è limitato a dire di voler portare una “sconfitta per i negazionisti” (leggasi Trump) e che è molto più economico finanziare la battaglia al global warming anziché le guerre. Non è sfuggito però il fatto che la “transizione dai combustibili fossili” sia passata sotto traccia anche nell’agenda, quella che bisogna approvare e concordare a inizio Cop30.

    Il summit

    Crisi climatica, dalla “flotilla indigena” a Trump: al via la Cop30

    di Giacomo Talignani

    10 Novembre 2025

    Ieri, dopo scontri iniziali, l’agenda finale è stata adottata ma alcuni punti chiave tra cui la finanza climatica o i sistemi per rimanere entro il limite di +1,5 gradi e anche le discussioni sulla transizione dal fossile sono fuori dall’agenda formale e spostate in quella “d’azione”, un gruppo sperato che potrebbe essere portato avanti a rilento, un po’ come se fosse in secondo piano. Contraddizioni, come quelle di una Cop30 a gasolio nella verde Amazzonia, che tendono a sfiduciare le aspettative e a indirizzare il vertice ad essere, anziché una Conferenza “d’azione”, un altro summit di parole. LEGGI TUTTO

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    Jennifer Morgan: “Sul climate change non ci devono essere divisioni politiche”

    Dal 1995 a oggi, non ne ha persa una. Le prime 26 Cop le ha vissute da attivista, molte nel ruolo di direttrice di Greenpeace International. Le ultime tre come inviato speciale per il clima del governo tedesco. Pochi nel panorama internazionale hanno l’esperienza di Jennifer Morgan, 59 anni da Ridgewood, New Jersey, in fatto di Conferenze Onu sul clima. “Sarò anche a Belém, come ricercatrice senior della Fletcher School, istituto di relazioni internazionali all’interno della Tuft University, poco lontano da Boston“.

    Nonostante la fine dell’incarico a Berlino, dopo le elezioni che hanno relegato i Verdi all’opposizione, Morgan continua nel suo impegno. Le parliamo mentre è in attesa di un volo per Pechino: “Vado per partecipare all’incontro Amici dell’Accordo di Parigi. Un meeting che per molti anni è stato organizzato dallo storico inviato speciale cinese per il clima Xie Zhenhua. Qualche settimana prima della Cop riunisce molte delle persone che parteciparono ai negoziati di Parigi, perché si confrontino su come ottenere il miglior risultato possibile“.

    Jennifer Morgan, come ottenere il miglior risultato possibile alla Cop30 di Belém?
    “In Brasile non ci saranno grandi decisioni da prendere, come è stato per il fondo per il loss and damage nel 2022 a Sharm o per la transition away dai combustibili fossili nel 2023 a Dubai. Questa volta si tratterà soprattutto di accelerare l’attuazione delle decisioni prese in passato e di capire come colmare il gap tra gli Ndc presentati dai Paesi e i tagli alle emissioni necessari per essere in linea con l’Accordo di Parigi e il limite di 1,5 °C di riscaldamento“.

    Glielo chiedo in un altro modo: cosa deve accadere a Belém perché si possa considerare Cop30 un successo?
    “Per le ragioni che ho esposto, sarà una Cop sfidante soprattutto per la politica. Cop30 sarà un successo se ci saranno dichiarazioni forti da parte dei leader, che riaffermeranno l’impegno a rispettare l’Accordo di Parigi, accelerandone l’implementazione. E poi se ci saranno decisioni e azioni importanti che confermino questo impegno“.

    Che tipo di azioni?
    “Per esempio il Brasile ha proposto un dialogo tra consumatori e produttori per una effettiva e giusta transition away dai combustibili fossili. Molti Paesi stanno cercando di lavorare insieme per rimuovere le barriere che ostacolano la diffusione delle rinnovabili, per esempio per quanto riguarda le reti elettriche e gli accumuli. E poi naturalmente la finanza, con la riduzione del costo del denaro per la realizzazione di impianti rinnovabili in Africa“.

    Sarà la sua trentesima Cop. Qual è stata la più importante?
    “Quella di Parigi nel 2015. Perché riuscì a creare un accordo legalmente vincolante tra tutti i Paesi. Un accordo che poi è stato ratificato rapidamente ed è entrato in vigore. Prima c’era stato il protocollo di Kyoto, ma non era accettabile da abbastanza nazioni perché potesse avere un vero impatto“.

    Però in questi 10 anni molto è cambiato nella lotta alla crisi climatica…
    “È vero, ma non solo in senso negativo. La crescita delle temperature c’è, ma ha rallentato la sua corsa: le misure di decarbonizzazione prese dalle nazioni, pur insufficienti, hanno modificato verso il basso la traiettoria del riscaldamento. Le energie rinnovabili sono esplose, a un livello che non era nemmeno immaginabile dieci anni fa. E il loro successo è soprattutto dovuto a fattori economici: costano meno“.

    E cosa è cambiato in negativo da Parigi a Belém?
    “Il riscaldamento globale ha mostrato i suoi effetti in modo più rapido e intenso. Stiamo vedendo i costi enormi che la crisi climatica comporta in tutto il mondo, inclusa l’Europa: solo l’estate scorsa, eventi estremi legati al clima, come ondate di calore e alluvioni, sono costati all’economia europea 43 miliardi di euro. Ma la cosa più negativa di questi anni è che il clima ha iniziato a essere usato dai partiti di destra per polarizzare le opinioni pubbliche. Le persone dovrebbero essere preoccupate per il clima così come lo sono per l’inflazione o per il costo dell’elettricità, e invece stiamo assistendo al deliberato tentativo della lobby dei combustibili fossili di rallentare il declino del loro business. Il risultato è appunto una polarizzazione della discussione sul clima in alcuni Paesi“.

    Una polarizzazione che avrà ripercussioni su Cop30?
    “A differenza delle altre volte in cui gli Usa sono usciti dalle trattative sul clima, in questo caso Washington sta mettendo in atto una serie di misure di contrasto. L’amministrazione Trump sta agendo in modo da rallentare il declino dei combustibili fossili per conto delle compagnie petrolifere americane. Per fortuna ci sono altre voci negli Stati Uniti, che io spero di sentire a Belém. Mi riferisco ad alcuni governatori, a rappresentanti del mondo del business: il 60% dell’economia Usa è ancora dentro l’Accordo di Parigi. E poi ci sono le altre nazioni, anche se la tattica di Trump è di mettere in difficoltà chi punta a rinunciare ai combustibili fossili americani».

    Aldilà delle politiche Usa, c’è chi sostiene che sia il modello delle Cop a non essere più adeguato, con decisioni troppo lente rispetto all’emergenza.
    “Ha fatto bene Simon Stiell, segretario esecutivo dell’Unfccc, a iniziare un lavoro sulle riforme che si potrebbero attuare, d’altra parte sono passati 30 anni dalla prima Cop. Detto questo, non penso che le Cop siano in crisi. Le decisioni sono state prese in questi anni. E c’è un gran bisogno di queste conferenze multilaterali, perché sono l’unica occasione in cui i più piccoli e vulnerabili, come gli Stati insulari, siedono al tavolo dei negoziati. Ma in effetti i meccanismi di voto potrebbero essere più efficienti. E dovrebbe essere più efficace la trasformazione in azioni concrete dei tanti impegni presi“.

    Pensa che l’Ue possa ancora ambire a riempire il vuoto lasciato dagli Usa come leader climatico?
    “Potrebbe certamente farlo. La proposta di tagliare del 90% le emissioni entro il 2040 era un chiaro segnale all’industria europea e andava in quella direzione. Inoltre, l’Europa continua a lavorare con i Paesi più vulnerabili per trovare strumenti finanziari da dedicare all’adattamento. Un’altra possibilità per la Ue è stringere collaborazioni sempre più strette con le economie emergenti“.

    E la Cina?
    “Pechino ha indicato chiaramente che vede il suo futuro nella energia pulita, nei veicoli elettrici, nella decarbonizzazione. Gli Ndc cinesi annunciati da Xi Jinping all’Onu sono da un lato molto importanti perché mettono un vero limite alle emissioni, però dall’altro non consentono a Pechino di assumere la leadership che potrebbe avere. La Cina deve dimostrare a Cop30 che davvero sta spingendo per l’addio ai combustibili fossili e che vuole contribuire finanziariamente all’adattamento ai cambiamenti climatici. Ma sono certa che a Belém vedremo anche molti Paesi in via di sviluppo spingere su Brasile, Indonesia, India, perché aumentino la loro ambizione“.

    Dunque resta ottimista, nonostante i diversi segnali di disimpegno da parte di governi, banche, imprese?
    “La transizione energetica è inevitabile e non c’è possibilità di dietrofront. Esiste però un problema di velocità nell’attuazione e di scala. A Dubai ci si impegnò a triplicare le rinnovabili e l’efficienza energetica. E non è successo. Ma succederà, fosse anche solo perché conviene dal punto di vista economico“. LEGGI TUTTO

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    Curupira, la mascotte guardiana della foresta brasiliana

    Lancia in mano, capelli scarlatti e ciuffo a forma di fiamma: agile e malizioso, Curupira, guardiano della foresta nella tradizione popolare brasiliana e in particolare amazzonica, è la mascotte della Cop30 a Belém. Secondo un’interpretazione comune, il suo nome deriva dalla contrazione di “curumim” (ragazzino) e “pira” (corpo), nella lingua indigena tupi-guarani. Vestito con un […] LEGGI TUTTO