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    Scout Park, l’app che trasforma i cittadini in vigilantes della sosta

    Il problema del parcheggio selvaggio è una frustrazione comune per molti automobilisti di tutto il mondo. In Svezia, un’idea innovativa ha preso piede per affrontare questo problema, combinando tecnologia e senso civico in un’unica soluzione. L’app ScoutPark non solo consente agli utenti di segnalare parcheggi irregolari, ma prevede una ricompensa economica.
    Come funziona
    Semplice da usare, consente di segnalare diverse violazioni, come il parcheggio in zone vietate, l’occupazione di spazi riservati senza permesso. Per utilizzarla, bisogna avere almeno 16 anni, una tessera sanitaria e un numero di telefono svedese.
    Avvenuta la registrazione, l’app istruisce l’utente sulle regole in vigore nelle varie zone della città, rilevabili attraverso una mappa integrata. Selezionata la zona d’interesse e lette le specifiche regole stradali, l’utente una volta individuata la vettura parcheggiata male, dovrà scattare una foto con la targa ben visibile e caricarla sull’app.

    Ambiente

    San Francisco in testa alla classifica della mobilità sostenibile. Indietro le italiane

    di Giulia Cimpanelli

    10 Febbraio 2025

    La verifica
    Dopo avere aggiunto il tipo di violazione, l’app propone tre opzioni: parcheggio non permesso, nessun permesso, mancanza di disco orario. L’immagine, geolocalizzata dal sistema, viene inviata alle forze dell’ordine, a cui spetta il compito di verificare la veridicità della segnalazione e a quel punto far scattare la contravvenzione.

    Se la segnalazione è confermata, l’utente riceve una ricompensa in tempo reale sul proprio conto di 50 corone svedesi, circa 4,30 euro. A conti fatti, segnalando anche un solo veicolo al giorno, un cittadino potrebbe guadagnare più di 120 euro al mese. L’applicazione, inoltre, fornisce agli utenti una guida sulle regole relative al parcheggio in vigore nelle varie zone della città in cui ci si trova. LEGGI TUTTO

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    Mammiferi, la convivenza con l’uomo rischia di alterare il loro modo di vivere

    Chi più chi meno siamo tutti regolati dal nostro orologio interno e, al di là di gufi e allodole, la nostra è una specie tipicamente diurna. Magari con qualche tendenza più notturna, d’estate, quando le temperature cominciano a diventare invivibili di giorno. E potremmo diventarlo forse sempre di più se il trend, per cui ogni estate batte i record di temperatura della precedente, si confermasse. Ma cosa succede agli altri animali? Come adattano i loro ritmi alle condizioni ambientali? E’ quanto si è chiesto un folto gruppo di ricercatori, impegnati nello sforzo di fotografare i pattern di attività di oltre 400 specie sparse nei sei continenti. Un grosso progetto di ricerca il loro, il Global Animal Diel Activity Project, di cui raccontano nel dettaglio sulle di Science Advances.

    Focus

    Biodiversità e genetica: cos’è il “Cali Fund” e perché è uno strumento per la giustizia ambientale

    di Giacomo Talignani

    26 Febbraio 2025

    Lo scopo del lavoro, raccontano, era fare una sorta di censimento delle attività nel corso delle 24 ore delle diverse specie, allo scopo di verificare e integrare gli studi disponibili fino adesso. Non solo. L’intenzione dichiarata era anche di capire quale livello di plasticità gli animali mostrassero nei confronti di un ambiente che, anche per mano umana, è in continuo cambiamento. Un lavoro complesso. Sono state raccolte e analizzate quasi 9 milioni di immagini catturate da fototrappole piazzate in 20 mila diversi siti. Grazie a questa collezione di dati è stato possibile capire qualcosa di più sulle preferenze degli animali in fatto di pattern di attività durante il giorno e sulla loro capacità di adattamento alle condizioni variabili.

    Cambiato il modo di studiare gli animali
    Ecco cosa hanno scoperto i ricercatori. Il primo dato interessante che emerge dal lavoro è che la letteratura in materia è in disaccordo con quanto osservato. “Abbiamo osservato solo il 39% di concordanza tra i nostri risultati e le classificazioni di riferimento, il che suggerisce ulteriormente che dobbiamo rivalutare le attività delle specie durante la giornata per comprendere appieno la loro nicchia e come conservarle in un mondo antropogenico”, spiegano i ricercatori. Perché queste discrepanze con quanto osservato in passato? Forse, puntualizzano i ricercatori, il modo di studiare gli animali è cambiato e forse anche il comportamento degli animali è diverso a seconda di dove vivono oppure è cambiato rispetto al passato. Un’altra ipotesi è che sia semplicemente più sfaccettato di quanto abbiamo creduto fino adesso. Infatti nella loro rivalutazione, continuano gli autori, è emerso anche un altro aspetto: le specie sono più flessibili delle etichette loro date e non di rado mostrano più di un tipo di attività.

    L’orologio interno dei mammiferi

    Ma c’è di più. I fattori ambientali, tanto quelli naturali quanto quelli influenzati dalla nostra specie, sono legati ai pattern di attività delle diverse specie, così come la massa degli animali e il loro areale di distribuzione. Qualche esempio citato dai ricercatori: è più facile che un animale piccolo sia notturno rispetto a uno più grande, e specie più lontane dall’equatore tendono a essere più diurne e crepuscolari più che notturne, o ancora specie che hanno un grosso areale di distribuzione sono spesso catemerali (ovvero hanno pattern multipli di attività durante il giorno). I ricercatori hanno anche osservato che al variare di alcuni di questi fattori, può variare anche la tipologia di attività degli animali della stessa specie. Tra i fattori in grado di modificare l’orologio interno dei mammiferi figura anche l’influenza umana: dove era più forte, gli animali tendevano a diventare più notturni. Tendenza piuttosto chiara per alcuni, quali un tipo di lepre, la moffetta e il maikong (un canide), ma poteva succedere anche il contrario, ovvero che animali notturni sotto la spinta dell’uomo diventassero più diurni. Può succedere di tutto.

    Biodiversità

    Più alberi, meno cervi rossi: i benefici del ritorno dei lupi in Scozia

    di redazione Green&Blue

    17 Febbraio 2025

    Un certo livello di adattamento può essere utile a volte, ricordano gli autori, ma è bene tenere a mente e studiare quelli che potrebbero essere gli effetti. Dal momento che stiamo parlando del modo in cui gli animali si cibano, competono con gli altri e si riproducono, vanno avanti gli esperti. “Mentre il mondo sta vivendo un periodo di rapidi cambiamenti ambientali, molte specie stanno cambiando i loro pattern di attività con conseguenze sconosciute sulla loro fitness – scrivono in chiusura del loro articolo – le specie che non stanno cambiando i loro fenotipi di attività potrebbero incorrere in risultati peggiori sulla fitness essendo inflessibili sotto questo aspetto. Riconoscere le conseguenze sulla fitness della plasticità del tipo di attività giornaliera delle specie e della sua mancanza è un passo importante per comprendere gli impatti del cambiamento ambientale e può aiutare a indirizzare gli sforzi di conservazione”. LEGGI TUTTO

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    Nell’Artico trovata una pianta che normalmente cresce in ambienti più caldi

    L’Artico sta diventando sempre più verde. La tundra, la tipica vegetazione delle zone polari artiche è in rapida espansione, non da oggi ma a partire dall’inizio dello scorso secolo. Non solo. Si espande a una velocità senza precedenti. Il fenomeno si chiama “greening” e a svelarlo è una nuova ricerca basata per la prima volta sull’uso dei marcatori vegetali. Un approccio considerato dai ricercatori innovativo e che ha permesso di svelare la storia del “greening artico”, fornendo una risposta sul modo in cui la tundra sta mutando in base ai cambiamenti climatici e sulle possibili evoluzioni future degli ecosistemi polari.
    Quella sottile linea verde
    Dunque lo studio si è basato sull’analisi dei sedimenti marini delle Isole Svalbard, in Norvegia grazie ai quali è stata ricostruita la storia dei ghiacciai e dello sviluppo della tundra negli ultimi 6 secoli. Il team di scienziati è stato coordinato dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), in collaborazione con Alfred Wegener Institute, Helmholtz Center for Polar and Marine Research e Joint Research Center Eni Cnr. Lo studio rientra nell’ambito dei progetti PAIGE (Chronologies for Polar Paleoclimate Archives – Italian-German Partnership).

    Biodiversità

    Ecco perché la pelliccia degli orsi polari non si ghiaccia mai

    di Simone Valesini

    31 Gennaio 2025

    Secondo la ricerca, che ha ricevuto per le foto la copertina della rivista Nature Communication Earth & Environment, il fenomeno dell’inverdimento dell’Artico sarebbe strettamente legato al ritiro dei ghiacciai. “Ed è la prima volta che viene ricostruito il collegamento tra la riduzione del ghiaccio marino, il ritiro dei ghiacciai con l’incremento dell’areale della vegetazione delle Svalbard”, ha spiegato Tommaso Tesi ricercatore del Cnr-Isp e coordinatore dello studio. Le risposte sono state chiare.

    Un declino partito dai primi decenni del Novecento
    “Il drastico declino dell’estensione del ghiaccio marino registrato a partire dai primi decenni del ‘900 – ha spiegato ancora Tommaso Tesi – è coinciso con un incremento della vegetazione terrestre, suggerendo una forte espansione della tundra nelle aree precedentemente occupate dai ghiacci”. Inoltre, “i risultati dimostrano come la rapida espansione della tundra abbia avuto un picco massimo intorno agli anni ’90 del secolo scorso, in concomitanza con l’accelerazione del riscaldamento globale”.

    Le dinamiche del greening
    Lo studio ha anche permesso di ricostruire le dinamiche dell’inverdimento che ha determinato anche un cambiamento nella composizione delle comunità vegetali. “Attraverso l’analisi di firme chimiche da un archivio sedimentario marino prelevato alle latitudini estreme delle Isole Svalbard, in Norvegia, abbiamo individuato segnali riconducibili a un importante cambiamento nella copertura della tundra durante la transizione climatica registrata tra la Piccola Età del Ghiaccio (1400-1900 d.c.) e gli ultimi 100 anni in concomitanza con l’attuale riscaldamento di origine antropica”, spiega Tommaso Tesi.

    Crisi climatica

    La Groenlandia si scioglie sempre di più

    di Fiammetta Cupellaro

    03 Febbraio 2025

    Nella tundra vive una pianta “anomala”
    “Inizialmente le superfici terrestri emerse dall’arretramento dei ghiacci sono state colonizzate da muschi e licheni, tipici della tundra. Successivamente, con il progressivo accumulo di materia organica e il miglioramento delle condizioni del suolo, hanno iniziato a insediarsi anche le piante vascolari (piante con radici, fusto e foglie)”, ha detto Gianmarco Ingrosso, ricercatore dell’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del Cnr e primo autore dello studio “Tra le specie vegetali che sembrano beneficiare maggiormente del nuovo assetto climatico, un ruolo di primo piano è svolto da Salix polaris, una piccola specie arbustiva adattata a condizioni più miti, che sta gradualmente aumentando il suo areale di distribuzione”.
    L’equilibrio ecologico dell’Artico
    Un quadro complesso che solleva nella comunità scientifica di riferimento importanti interrogativi sull’equilibrio ecologico dell’Artico. “Se da un lato l’aumento della copertura vegetale potrebbe favorire il sequestro di carbonio atmosferico, dall’altro un cambiamento così drastico delle aree precedentemente occupate dai ghiacciai potrebbe portare a conseguenze significative sui cicli biogeochimici e sull’areale di distribuzione della fauna autoctona”, concludono i ricercatori del Cnr. “Inoltre, la fusione del permafrost, accelerata dall’aumento della temperatura, potrebbe rilasciare nell’atmosfera grandi quantità di gas serra, vanificando i benefici derivanti dall’incremento della biomassa vegetale. In questo caso, la crescita della vegetazione in Artico e un ambiente sempre più ‘verde’ rappresentano un serio campanello di allarme per i fragili ecosistemi polari”. LEGGI TUTTO

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    Imballaggi superflui, una startup crea scatole su misura

    “Il rifiuto migliore? È quello che non si produce”. Questo è il mantra di Voidless, startup milanese fondata nel 2022 da tre ingegneri under30: Carlo Villani, Mattia Bertolani, e Daniel Kaidanovic. L’azienda, partita da un garage accanto al Politecnico di Milano, oggi progetta e costruisce macchinari industriali di nuova generazione che creano imballaggi su misura direttamente nei magazzini. L’obiettivo è quello di ridurre il consumo di cartone, materiali di riempimento e di ottimizzare i trasporti. Abbattendo il fenomeno dell’overpackaging connesso all’espansione dell’e-commerce: “Ricevere pacchi grandi è un’esperienza sempre più comune e frustrante per il consumatore, che crea danni reputazionali al venditore e ambientali in termini di produzione di rifiuti e CO2 evitabili. Siamo convinti che una gestione più intelligente del packaging non solo riduca l’impatto ambientale, ma crei anche valore per le aziende, rendendo i loro processi più snelli ed efficaci”, ci racconta il co-fondatore e Ceo di Voidless, Carlo Villani.

    Nel dettaglio, i sistemi innovativi proposti da Voidless rappresentano una soluzione all’avanguardia per ogni tipo di magazzino, offrendo la possibilità di creare, in tempo reale, scatole della dimensione perfetta per qualsiasi oggetto da spedire. “L’integrazione di questa tecnologia permette agli operatori logistici di produrre internamente le scatole, eliminando la necessità di acquistarle da fornitori esterni. Questo processo riduce l’impatto ambientale, aumenta la flessibilità e semplifica il processo di approvvigionamento, ma offre anche la possibilità di personalizzare ogni singola scatola con messaggi o loghi specifici, una leva strategica fondamentale per il marketing moderno”.

    Scatole su misura. Come funziona il sistema
    Scatole su misura. E’ questo l’obiettivo di Voidless, nata per migliorare e rendere più efficiente il packaging nei magazzini, dove la gestione delle scatole standard è attualmente costosa e complessa, richiedendo l’ordine, lo stoccaggio e il coordinamento di diversi formati. L’idea, nasce dell’inventiva di tre ingegneri, si tratta di un sistema di packaging on-demand all’avanguardia (con sei brevetti), gestito da un algoritmo proprietario che consente la produzione in tempo reale di scatole (just in time) su misura per ogni ordine. Non solo, queste ultime possono essere arricchite in maniera totalmente automatica da un branding personalizzato, da eventuali grafiche o QR code. La missione di Voidless è risolvere il problema dell’over-packaging, un fattore che incide pesantemente sull’ambiente e sui costi operativi delle aziende.

    L’impianto Voidless per creare scatole su misura  LEGGI TUTTO

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    Un parco fotovoltaico lungo la pista di atterraggio, così l’autoconsumo decolla a Fiumicino

    Lunga vita alle batterie. È il caso di dirlo, ma soprattutto di metterlo in pratica, visto che nel mondo della transizione energetica, le batterie per accumulare l’energia prodotta da fonti rinnovabili, saranno un bene indispensabile. Infatti, i sistemi di accumulo sono strumenti strategici già oggi, e lo diventeranno sempre più negli anni futuri. Virtuoso, in questo caso, è l’esempio dell’aeroporto internazionale di Fiumicino, il più importante d’Italia, uno dei principali scali europei, dove ADR, l’azienda che lo gestisce ed uno dei big player globali dell’energia, Enel, hanno messo insieme forze e competenze per promuovere la decarbonizzazione seguendo i principi di economia circolare, con due progetti innovativi: Solar Farm e Pioneer.

    Il primo è il più grande impianto fotovoltaico in autoconsumo realizzato in uno scalo europeo, posizionato lungo il lato orientale della Pista 3, è stato progettato da Aeroporti di Roma e realizzato da Enel in collaborazione con Circet, e si compone di 55mila pannelli fotovoltaici per quasi 2.5 km, che sviluppano una potenza di 22 MWp e consentiranno di produrre ogni anno più di 30 milioni di kWh di energia elettrica.

    Fisco verde

    Fotovoltaico gratis in base all’ISEE: come funziona il reddito energetico

    di Antonella Donati

    18 Febbraio 2025

    Ma se Solar Farm costituisce un importante passo in avanti nella sostenibilità energetica, il secondo progetto, Pioneer, è complementare e per certi aspetti rivoluzionario, perché utilizza le batterie usate delle auto elettriche, dismesse dall’industria dell’automotive ma ancora molto efficienti. Una seconda vita dunque. “È un’esperienza di innovazione quella che stiamo facendo a Fiumicino, e virtuosa perché si riutilizzano materiali e componenti che sono ancora buoni per lo stoccaggio di energia”, ci spiega Nicola Rossi, Responsabile Innovation di Enel, perché “un’auto per poter essere performante ha bisogno di batterie che siano in grado di rilasciare molto velocemente l’energia che contengono, quindi deve avere prestazioni molto alte. Invece per lo stoccaggio dell’energia in applicazioni stazionarie, anche una batteria usata in un’auto, che viene dichiarata finita, può avere ancora una seconda vita”.

    Infatti una batteria con una capacità residua intorno all’85% andrebbe sprecata, invece, questo adattamento con l’impianto fotovoltaico dell’aeroporto, rappresenta un modello virtuoso di riutilizzo per l’elettrificazione che potrebbe essere replicato su larga scala.Soprattutto perché quando i numeri dei veicoli elettrici saranno molto elevati, altrettanto elevata sarà la presenza di batterie da riutilizzare. Nello specifico di Pioneer, l’accordo prevede di realizzare e avviare entro l’anno in corso, uno tra i più grandi sistemi di stoccaggio energetico con batterie second life ibride a livello europeo, utilizzando circa 700 pacchi batteria grazie alla collaborazione di tre differenti case automobilistiche, che hanno ceduto le batterie delle loro auto, consentendo di realizzare un Battery Energy Storage System in grado di aggiungere una capacità complessiva di 10 MWh per gestire l’energia rinnovabile prodotta dai pannelli installati a bordo pista.

    “Abbiamo integrato pacchi di batterie usate, prelevati dai pianali delle auto di diversi brand, modelli e con diverse caratteristiche di invecchiamento per realizzare un sistema di stoccaggio di dimensioni industriali con l’obiettivo di stoccare l’energia nei picchi di produzione e rilasciarla quando si ha necessità di consumo, ad esempio nelle ore serali quando il fotovoltaico non è in funzione. L’innovazione sta proprio in questa integrazione, perché a differenza di batterie nuove che sono sostanzialmente simili, in questo caso stiamo parlando pacchi di batterie che hanno tutti avuto storie diverse nella loro vita passata”, spiega ancora il manager di Enel.

    Ma il sistema messo a punto per l’aeroporto di Fiumicino non servirà solo ad accumulare energia e rilasciarla allo scalo per coprire gli eventuali picchi serali, ma potrà fornire anche servizi alla rete. Il progetto si è aggiudicato un finanziamento da oltre 3 milioni di euro dall’Innovation Fund della Commissione Europea, con l’obiettivo di ridurre le emissioni del più grande hub aeroportuale italiano, migliorando la sostenibilità della filiera delle batterie. Tra l’altro, un sistema di machine learning sviluppato da Enel analizza i fabbisogni energetici dell’aeroporto e stima i prezzi dell’energia così come la produzione dell’impianto fotovoltaico, in modo da massimizzare il ritorno finanziario del sistema di accumulo.

    Energia

    Il vetro che cattura la luce: dalla Corea del Sud la svolta per il fotovoltaico trasparente

    di Paolo Travisi

    03 Febbraio 2025

    Il modello romano – che nei prossimi 5 anni vedrà aumentare la potenza installata di 60 MWp, utile per soddisfare il fabbisogno energetico di 30.000 famiglie italiane per un anno intero – potrebbe essere esportabile anche ad altri aeroporti del paese.

    “Nel momento in cui la mobilità elettrica crescerà, le batterie di seconda vita saranno più disponibili, ed è chiaro che questa sarebbe un’applicazione interessante e scalabile, ma è altrettanto evidente che oggi siamo ancora agli inizi, perché le macchine elettriche sono giovani, quindi il tutto va visto in prospettiva, anche se non troppo lontana” spiega ancora Nicola Rossi di Enel. D’altronde portare ad esaurimento le batterie, costituite da materie prime preziose, significa anche avviare un lungo percorso virtuoso che può, anzi deve, concludersi con un corretto smaltimento che passi dal recupero e riciclo del materiale tecnologico. LEGGI TUTTO

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    L’Africa supererà la soglia di +1,5 gradi di temperatura entro il 2040

    Nonostante emetta meno del 4% delle emissioni globali di gas serra, l’Africa supererà la soglia di 1,5°C di riscaldamento – il limite stabilito dall’Accordo di Parigi – entro il 2040, anche in uno scenario di basse emissioni. Lo rivela un nuovo studio condotto dagli scienziati dell’Università dello Zimbabwe e dell’International Livestock Research Institute (ILRI), in Kenya, pubblicato sulla rivista CABI Reviews.

    I cambiamenti climatici rappresentano una seria minaccia per gli esseri umani e i sistemi ecologici, aggravando le disuguaglianze sociali, le disparità di genere e riducendo le opportunità di lavoro. “I sistemi di sussistenza basati sull’agricoltura africana saranno inevitabilmente i più colpiti a causa della loro dipendenza da un’agricoltura sensibile al clima e della limitata capacità di adattamento dovuta al basso sviluppo economico legato principalmente a contingenze storiche”, ha commentato il professor Paul Mapfumo, vice rettore dell’Università dello Zimbabwe e autore principale del documento. “Hanno subito perdite e danni considerevoli a causa dei cambiamenti climatici e questo peggiorerà con l’aumentare dell’intensità dei rischi climatici. Né i meccanismi di adattamento incrementali esistenti o pianificati, né i benefici previsti delle misure migratorie sono sufficientemente completi per far fronte alle nuove condizioni climatiche imminenti”.

    Biodiversità

    “Biodiversity leak”, quando la conservazione dell’ecosistema crea squilibri altrove

    di Sara Carmignani

    14 Febbraio 2025

    Secondo gli autori, sono necessari percorsi di transizione equa per l’agricoltura, al fine di ottenere sistemi di produzione sostenibili che migliorino la sicurezza alimentare e riducano la povertà. Le strategie proposte includono finanziamenti destinati al progresso scientifico, tecnologico e all’innovazione, il ripristino di colture trascurate o sottoutilizzate e del patrimonio genetico del bestiame, il miglioramento della fertilità e della salute del suolo, il risanamento dei terreni degradati, la protezione degli ecosistemi naturali e della biodiversità, l’accesso a un’educazione di qualità, lo sviluppo dei mercati e la creazione di nuove opportunità di distribuzione e di commercio.

    “Tali sforzi dovrebbero anche concentrarsi sulla meccanizzazione e sull’ecologizzazione dell’agricoltura africana, guidati da una deliberata ‘rivoluzione industriale verde’ per la nuova normalità indotta dal cambiamento climatico”, ha aggiunto Mapfumo. “La sostenibilità della risposta al cambiamento climatico e un quadro di riferimento per un percorso di transizione equa per l’Africa si basano anche sulla corrispondente trasformazione dei sistemi educativi e delle capacità di ricerca, adattati per guidare lo sviluppo economico dell’Africa”.

    Una transizione giusta offrirebbe, pertanto, opportunità di inclusione sociale, equità, sviluppo di auto-mobilitazione e auto-organizzazione delle comunità, nonché investimenti per costruire un’agricoltura resiliente al clima, che riduca la povertà e contribuisca all’azzeramento delle emissioni di carbonio. LEGGI TUTTO

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    Coltivare le verdure nello spazio: sarà possibile anche in assenza di luce

    L’insalata potrà crescere nello spazio anche senza la luce. Lo sostiene uno studio pubblicato sulla rivista Plant Communications e coordinato dai ricercatori Raffaele Dello Ioio e Paola Vittorioso del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie della Sapienza, in collaborazione con l’Institute of Experimental Botany, l’Agenzia Spaziale Italiana e il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, che […] LEGGI TUTTO