consigliato per te

  • in

    Barbecue: quale scelta tra carbone, elettrico e gas

    Quando le temperature diventano più miti e i primi raggi di sole fanno capolino, cosa c’è di meglio di una grigliata in compagnia? Che sia in giardino, nel cortile, sulla terrazza, è sempre un’occasione per fare festa in famiglia o con gli amici, celebrando l’arrivo della bella stagione. Certo la spensieratezza potrebbe essere un po’ minore se si pensa alla sostenibilità.
    Uno studio pubblicato nel 2025 su Applied Sciences e realizzato dai ricercatori del Politecnico di Varsavia, in Polonia, indica, infatti, che la cottura alla griglia contribuisce non poco all’aumento dei livelli di PM1, ovvero le particelle inquinanti di dimensioni inferiori a 1 micron (un millesimo di millimetro), che hanno un’elevata capacità di penetrare nell’apparato respiratorio, causando irritazioni, asma, riduzione della funzionalità polmonare. Non stiamo suggerendo, ovviamente, di mettere al bando questi piacevoli momenti conviviali, ma semmai di organizzarli e gestirli con maggiore consapevolezza. Nel rispetto dell’ambiente e anche della nostra salute.
    Il tipo di carbone fa la differenza
    Importante è anzitutto la scelta del dispositivo di cottura. Dal punto di vista delle emissioni, i barbecue a carbone sono in generale quelli che rilasciano più inquinanti. Anche se il tipo di carbone impiegato può fare la differenza: da un lato c’è il carbone vegetale in pezzi di legno tostato, dall’altro le bricchette auto infiammabili imbevute di sostanze chimiche. Secondo gli esperti, il carbone vegetale, commercializzato come un prodotto più naturale, potrebbe effettivamente limitare le emissioni atmosferiche. Inoltre, avrebbe anche il potenziale per diventare carbon neutral, perché realizzato a partire dal legno, che potrebbe essere recuperato in modo sostenibile. Nella realtà, però, ciò avviene di rado. Le bricchette sono, al contrario, generalmente prodotte con scarti e rifiuti del legno, il che potrebbe evitare l’abbattimento degli alberi.

    Cibo e ambiente

    Carne coltivata si riapre lo scontro, Coldiretti in piazza ma c’è chi difende l’Efsa

    di Fiammetta Cupellaro

    18 Marzo 2025

    Tanti additivi nocivi
    In entrambi i casi, come riporta The Atlantic, la questione si riduce a come viene reperito e prodotto il carbone. Difficile, comunque, che quest’ultimo sia puro. Uno studio del 2020 ha rivelato che molti carboni, sia in pezzi sia in bricchette, contengono vari additivi, tra cui metallo, plastica, resina, biomassa. E maggiore è la quantità di contaminanti presenti, peggiori saranno le emissioni derivanti dalla combustione. Per limitare tale contaminazione, l’Europa sta imponendo alcuni standard che i produttori devono rispettare, insieme a un test di conformità.

    Dal gas naturale al grill elettrico
    Oltre ai barbecue a carbone, ci sono quelli a propano e a gas naturale. Sebbene emettano minore inquinamento rispetto alla carbonella, bruciano comunque combustibili fossili, una fonte di energia non rinnovabile. Se si sceglie questo dispositivo per grigliare, il propano è solitamente preferibile al gas naturale, perché è più efficiente e brucia più velocemente e a temperature più elevate, consumando, quindi, meno combustibile. In generale, l’opzione più ecologica in fatto di barbecue sarebbe un grill elettrico collegato a una rete di energia rinnovabile.

    Il libro

    “Noi e gli animali, ripensiamoci. Anche a tavola”

    di Marino Midena

    03 Aprile 2025

    Meglio evitare la carne
    Tuttavia, se la selezione del dispositivo non può essere lasciata al caso, lo stesso vale per il cibo da grigliare: di solito carne, spesso rossa. Una pessima scelta, che non fa bene né al nostro organismo, né agli animali, né all’ambiente: basti pensare che le mucche allevate per la produzione di bistecche e costine provocano il 14,5% delle emissioni globali di gas serra ogni anno. Per fortuna, le alternative non mancano. Si possono, per esempio, provare il tofu, le verdure di stagione, gli hamburger a base vegetale. Piatti gustosi, salutari e soprattutto etici. E per chi proprio non volesse rinunciare alle proteine animali, ecco un compromesso: rosolare pollame o maiale che, se non altro, generano minori emissioni rispetto ai bovini.

    I consumatori possono ridurre l’impatto dell’85%
    Attenzione anche allo spreco alimentare, che ha un impatto sull’ambiente non trascurabile. Per ridurre lo sperpero è importante acquistare le quantità necessarie, conservare correttamente i prodotti, riutilizzare eventuali avanzi per i pasti futuri. Inoltre, è bene ricordare che sia un ridotto ciclo di vita del barbecue sia procedure di smaltimento non idonee possono aumentare gli effetti negativi di una singola grigliata. Secondo uno studio pubblicato nel 2024 su Sustainability e condotto dai ricercatori dell’Università di Stoccarda, in Germania, i comportamenti dei consumatori possono avere un’influenza significativa sulla sostenibilità: in particolare, la combinazione di tutte le pratiche virtuose è in grado di ridurre l’impatto ecologico del barbecue fino all’85%. LEGGI TUTTO

  • in

    Inquinamento atmosferico, emerge il legame tra Pm10 e rischio Parkinson

    Lo smog ci fa ammalare. Sotto accusa: i livelli di microparticolato Pm10 nell’aria. Principali fonti di queste micropolveri sono gli scarichi delle automobili, la fuliggine, la combustione del legno, le industrie, le attività agricole e zootecniche che le immettono nell’aria dove possono restare sospese. Una volta respirate, le polveri sottili scendono nei polmoni. Ma se fino adesso gli effetti nocivi a breve e lungo termine sulle salute sono stati analizzati per le malattie respiratorie, cardiopolmonari e cardiovascolari e l’indebolimento del sistema immunitario, un nuovo studio rivela una possibile connessione tra Parkinson.
    La ricerca “Moli-sani”
    La ricerca coordinata dall’Irccs Neuromed di Pozzilli, l’Università Lum di Casamassima (Bari), l’Università dell’Insubria (Varese) e la Sapienza è stata pubblicata sulla rivista Parkinson’s Disease. Si basa sull’analisi di un ampio campione della popolazione italiana, i partecipanti al progetto epidemiologico Moli-sani, che coinvolge 25 mila adulti residenti in Molise la cui salute viene monitorata da 20 anni. Di queste persone è stata valutata l’esposizione ad alcuni inquinanti ambientali, in particolare le cosiddette Pm10, particelle inferiori a 10 millesimi di millimetro presenti nell’aria che possono penetrare nelle vie respiratorie e venire assorbite dall’organismo. Partendo dai dati forniti dall’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale del Molise (ARPA Molise), provenienti da quattordici stazioni di monitoraggio, i ricercatori hanno ricostruito un quadro dettagliato dell’ambiente in cui ciascun partecipante ha vissuto nel corso degli anni, incrociando queste informazioni con le diagnosi di Parkinson.

    L’esposizione al Pm10
    “Abbiamo osservato – spiega il primo autore Alessandro Gialluisi dell’Università Lum di Casamassima – che un incremento dei livelli di Pm10 nell’aria si associa a un notevole aumento del rischio di sviluppare il Parkinson. Questa associazione appare indipendente da una serie di altri fattori di rischio che includono l’età, il sesso, altre patologie prevalenti e fattori occupazionali”. Il dato ottenuto attraverso lo studio di una popolazione italiana e con un lungo periodo di osservazione supporta l’ipotesi di un ruolo centrale delle polveri sottili nell’incrementare il rischio di malattia.
    Una proteina, il possibile mediatore
    “Un dettaglio interessante dello studio – prosegue Gialluisi – riguarda la lipoproteina(a), una molecola che ha un ruolo nel rischio cardiovascolare, che interagisce con l’alfa-sinucleina. Questa proteina è risultata, infatti, un possibile mediatore della relazione tra Pm10 e rischio di Parkinson, spiegandone una piccola, ma significativa parte. Naturalmente saranno necessari ulteriori studi per chiarire a fondo il suo ruolo”. Il lavoro scientifico si colloca in un ambito di ricerca più ampio che da alcuni anni studia i fattori di rischio per l’insorgenza di patologie neurologiche.

    Crisi del clima

    Più arsenico nel riso a causa del cambiamento climatico

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    23 Aprile 2025

    “La malattia di Parkinson è una delle principali cause di disabilità nella popolazione anziana – sottolinea il professor Alfredo Berardelli, professore emerito di Neurologia presso l’Università la Sapienza e coordinatore dell’Unità di Ricerca e di Neurofisiopatologia Clinica dell’Ircss Neuromed – Comprendere i fattori ambientali che possono contribuire al suo sviluppo è fondamentale per pensare a strategie di prevenzione efficaci, che possano affiancarsi agli sforzi in atto nella ricerca farmacologica”.

    Inquinamento

    La spuma che rimuove i Pfas dal percolato delle discariche

    di Dario D’Elia

    10 Maggio 2025

    Smog e clima: patologie legate all’invecchiamento
    Lo studio è parte del progetto PNRR AGE-IT che studia gli effetti dell’inquinamento atmosferico e il cambiamento climatico sulle patologie legate all’invecchiamento. “L’inquinamento atmosferico è uno dei più rilevanti problemi di salute pubblica a livello mondiale – commenta la professoressa Licia Iacoviello, responsabile dell’Unità di Epidemiologia e Prevenzione del Neuromed – Questo studio aggiunge un tassello importante al quadro dei danni che l’esposizione a inquinanti può provocare soprattutto in una popolazione fragile come gli anziani, evidenziando l’urgenza di politiche ambientali mirate a ridurre le emissioni di particolato fine, a tutela non solo della salute respiratoria e cardiovascolare, ma anche di quella neurologica”. LEGGI TUTTO

  • in

    “Sostenibilità o competitività: un falso dilemma”: al via il Festival dello sviluppo sostenibile

    Mille e duecento eventi da Bolzano a Siracusa, dal 7 al 23 maggio: torna da oggi il Festival dello Sviluppo Sostenibile: l’ASviS (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) inaugura la nona edizione del Festival dello Sviluppo Sostenibile a Milano presso il Museo Nazionale Scienza e Tecnologia “Leonardo da Vinci”, con un incontro dal titolo “Sostenibilità […] LEGGI TUTTO

  • in

    Clima, particelle di aerosol nel cielo per abbassare le temperature

    Dopo aver causato il cambiamento climatico, innalzando le temperature con le emissioni inquinanti, stiamo cercando di correre ai ripari. In ritardo, e con una consapevolezza incerta rispetto ai rischi che stiamo correndo. Ora che l’evoluzione climatica a noi sfavorevole, è in atto stiamo tentando di ristabilire l’equilibrio. Una delle tecniche più controverse per raffreddare la Terra, si chiama geoingegneria solare: un processo che raffredda in modo artificiale il pianeta, riflettendo una parte della luce solare nello spazio.

    Non si agisce sulle emissioni
    In realtà, non si agirebbe sulla causa del cambiamento climatico (cioè le emissioni di gas serra), ma sulla mitigazione degli effetti, abbassando la temperatura terrestre in modo temporaneo.Uno dei processi già noti, prevede l’immissione di particelle di aerosol riflettenti nell’atmosfera, come i solfati, imitando gli effetti di grandi eruzioni vulcaniche, che raffreddano temporaneamente il clima e che potrebbero essere rilasciate utilizzando aerei commerciali già esistenti, senza la necessità di sviluppare velivoli appositi. Questo è quanto suggerisce un nuovo studio guidato da ricercatori dell’University College London e pubblicato sulla rivista Earth’s Future, che esamina la tecnica nota come iniezione stratosferica di aerosol.

    Una strategia alternativa
    Si era ipotizzato che fosse necessario intervenire a quote molto elevate – oltre i 20 chilometri – e con aerei progettati su misura, quindi dai costi molto elevati. Il nuovo studio indica una strategia alternativa, secondo cui le particelle di aerosol rilasciate a circa 13 chilometri di altezza sopra le regioni polari, potrebbero avere dei buoni risultati, anche usando aerei come il Boeing 777F.
    Nella stratosfera
    La ricerca dimostra che spruzzando 12 milioni di tonnellate di diossido di zolfo all’anno in primavera ed estate, in prossimità dei poli nord e sud, si potrebbe abbassare la temperatura media globale di circa 0,6°C. Un raffreddamento paragonabile a quello registrato dopo l’eruzione del vulcano Pinatubo, sull’isola di Luzon, nelle Filippine, nel 1991.Il team di ricerca ha utilizzato il modello climatico UKESM1 per simulare gli effetti dell’iniezione di diossido di zolfo (che forma particelle riflettenti) in diverse aree e stagioni. Iniezione che sarebbe effettuata a latitudini di circa 60° – equivalenti a città come Oslo o Anchorage, in Alaska – sfruttando il fatto che la stratosfera è più vicina al suolo nei pressi dei poli, permettendo a normali aerei modificati di raggiungerla.

    L’intervista

    “Per vincere la sfida climatica dobbiamo cambiare mentalità. Il momento è adesso”

    di Giacomo Talignani

    22 Aprile 2025

    Tecnica controversa
    Tuttavia, la geoingegneria solare è una tecnica molto controversa, che “comporta rischi significativi e necessita di ulteriori ricerche”, ha dichiarato Alistair Duffey, dottorando presso il Dipartimento di Scienze della Terra della UCL, secondo il quale “l’analisi mostra che raffreddare il pianeta con questa tecnica potrebbe essere più semplice del previsto, il che apre riflessioni su tempi e modalità di attuazione.”
    Ma quali sono le limitazioni? Rilasciando aerosol al di sotto dei 20 km da Terra, l’efficacia è ridotta di circa un terzo rispetto all’iniezione ad alta quota, il che implicherebbe l’utilizzo di tre volte più aerosol, aumentando i rischi collaterali come le piogge acide. Questo perché con l’iniezione di anidride solforosa a 20 km, le particelle restano nella stratosfera per diversi anni, mentre per pochi mesi a 13 km.
    Da utilizzare per scenari di emergenza
    Inoltre, raffredda soprattutto le zone polari e molto meno i tropici, dove gli effetti del cambiamento climatico sono spesso più gravi. Certamente per scenari di emergenza climatica potrebbe avere senso, perché il pianeta si raffredderebbe con rapidità, ma bisogna fare i conti con gli effetti collaterali globali imprevedibili, come le piogge alterate, cambiamenti nei monsoni, acidificazione. E ancora, se venisse interrotta questa pratica, le temperature potrebbero risalire rapidamente. Infatti, qualsiasi iniezione di aerosol stratosferico dovrebbe essere introdotta gradualmente e ridotta gradualmente, per evitare impatti catastrofici dovuti a un riscaldamento o raffreddamento improvviso.
    “Non è una scorciatoia: bisogna agire sulle emissioni”
    Gli autori avvisano che la geoingegneria non sostituisce la necessità di ridurre le emissioni di gas serra. “Non è una scorciatoia, né una soluzione miracolosa” avverte uno degli autori, Matthew Henry, dell’Università di Exeter, per il quale “solo arrivando a emissioni nette zero potremo ottenere una stabilità climatica duratura”. LEGGI TUTTO

  • in

    Biennale 2025: l’architettura impara dalla scienza per combattere la crisi del clima

    Per decenni la progettazione architettonica ha cercato di rispondere alla crisi climatica con la “mitigazione”, cercando di ridurre il nostro impatto, ma oggi questo approccio non è più sufficiente. Stiamo vivendo nell’età dell’adattamento: le condizioni climatiche ci costringono a ripensare nuovi modi di vivere e abitare. Questo è il messaggio che la Biennale Architettura 2025 che s’inaugura il 10 maggio (pre apertura il 7-8-9) invia al mondo. “L’architettura rappresenta da sempre una risposta alle sfide poste dalle condizioni climatiche. Fin dalle ‘capanne primitive’, la progettazione umana è stata guidata dalle necessità di ripararci per sopravvivere: le nostre creazioni hanno cercato di colmare il divario tra ambienti ostili e spazi sicuri e vivibili. Oggi però per affrontare un mondo in fiamme l’architettura deve sfruttare tutta l’intelligenza che ci circonda”.

    Carlo Ratti, curatore della Biennale Architettura 2025  LEGGI TUTTO

  • in

    Reddito energetico 2025: come funziona e limiti di accesso

    Al via a breve le domande per il Reddito energetico 2025 che consente di ottenere un impianto fotovoltaico destinato all’autoconsumo in maniera del tutto gratuita. L’agevolazione è riservata alle famiglie con un reddito Isee entro i 15.000 euro o 30.000 in caso di quattro figli a carico. Il fondo a disposizione è di 100 milioni di euro l’anno e nel 2024 le risorse disponibili sono andare esaurite in pochi giorni. Nel nuovo decreto di attuazione, firmato a inizio maggio, sono previste alcune semplificazioni riferite sia alla potenza ammissibile degli impianti, sia alla polizza multi-rischi obbligatoria. Per presentare la domanda è necessario scegliere in anticipo l’impresa che andrà a realizzare l’impianto.

    Come funziona il reddito energetico
    Il Reddito energetico è un finanziamento in conto capitale finalizzato alla realizzazione di impianti fotovoltaici a uso domestico, di potenza non inferiore a 2 kW e non superiore a 6 kW. Le risorse finanziarie rese disponibili per gli anni 2024 e 2025 sono complessivamente pari a 200 milioni di euro e, per ciascuna annualità sono previsti:
    80 milioni di euro alle Regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia;
    20 milioni di euro alle restanti Regioni e per le Province Autonome.
    Il Fondo consente ai beneficiari di realizzare impianti fotovoltaici e utilizzare l’energia prodotta per l’autoconsumo senza alcuna spesa. I finanziamenti, infatti, andranno a coprire i costi sostenuti da parte dei soggetti installatori. L’eventuale quota di energia e prodotta e non autoconsumata è resa disponibile per 20 anni al Gse, che la utilizzerà per finanziare il Fondo.

    Chi può presentare la domanda
    L’accesso al Reddito energetico è riservato ai nuclei familiari con un Isee inferiore a 15.000 euro, oppure inferiore a 30.000 euro per chi ha almeno quattro figli a carico, residenti un’abitazione di proprietà sulla quale andrà installato l’impianto. Gli impianti possono avere una potenza da 2kW a 6kW e devono essere collegati a utenze di consumo per le quali, al momento della richiesta di accesso dell’agevolazione, sia attivo un contratto di fornitura di energia elettrica intestato al beneficiario o a un membro del suo nucleo familiare, come definito ai fini Isee. Chi presenta la richiesta può beneficiare dell’agevolazione una sola volta, in quanto è esclusa ogni ipotesi di doppia agevolazione per lo stesso nucleo familiare. Non è possibile richiedere l’accesso al beneficio per impianti realizzati ai fini del soddisfacimento della quota d’obbligo di integrazione delle fonti rinnovabili negli edifici.

    Impianti e assicurazione obbligatoria
    Le domande di accesso alle agevolazioni devono essere inviate al Gse da parte del beneficiario con il supporto dell’impresa scelta per la realizzazione dell’impianto. Potranno ottenere i finanziamenti solo le imprese in regola relativamente ai requisiti di formazione e aggiornamento obbligatori richiesti per le attività di installazione e manutenzione da fonti di energia rinnovabile. Inoltre l’impresa dovrà sottoscrivere una polizza decennale multirischio. Con le novità introdotte dal decreto per il 2025 la polizza dovrà coprire non solo eventuali danni all’impianto, rischi di disservizio e relativa mancata produzione di energia, ma anche da eventuali danni diretti e indiretti in seguito a un attacco informatico. Le imprese potranno scegliere di rivolgersi anche a diverse compagnie di assicurazioni per coprire i diversi rischi. Il costo della polizza è compreso nelle spese per le quali l’impresa ha diritto al rimborso in conto capitale. Sul sito del Gse è possibile trovare una lista di installatori in regola con i requisiti richiesti. LEGGI TUTTO

  • in

    Roma, è la terza capitale più verde d’Europa. Dopo Oslo e Berlino

    C’è anche Roma nella top ten delle capitali più verdi d’Europa. Con i suoi 310 chilometri quadrati di alberi è terza dopo Oslo e Berlino. Lo dice l’European Forest Institute (Efi), l’organizzazione internazionale di ricerca in ambito forestale, su dati European Environmental Agency, analizzando le città europee con più di 50mila abitanti. Un terzo posto […] LEGGI TUTTO

  • in

    Aumento delle temperature e resistenza ai microbici: un legame allarmante

    L’antibiotico resistenza, o più propriamente la resistenza agli antimicrobici senza dimenticare anche le resistenze contro altri microrganismi, quali funghi, virus e protozoi, riguarda una moltitudine di microrganismi. E tanti sono anche i fattori che possono concorrere ad aumentarne o alleggerirne il peso sulla nostra salute. E tra questi un ruolo di primo piano potrebbe averlo anche il clima, motivo per cui le azioni di prevenzione nella lotta al fenomeno non dovrebbero dimenticarlo.
    A mettere sul piatto la questione questo, fornendo un’analisi dettagliata – sebbene con qualche inevitabile lacuna, come gli stessi autori riconoscono – è uno studio appena apparso sulle pagine di Nature Medicine. Nella loro analisi il team di Lianping Yang della Sun Yat-sen University di Guangzhou ha raccolto i dati provenienti da alcuni sistemi di sorveglianza antimicrobica di un centinaio di paesi relativi alle analisi compiute su oltre trenta milioni di colture batteriche di sei tra i principali microrganismi resistenti. Si tratta, in particolare, di Escherichia coli e Klebsiella pneumoniae resistenti a cefalosporine di terza generazione e di E.coli, K.pneumoniae, Acinetobacter baumanni e Pseudomonas aeruginosa resistenti ai carbapenemi.

    L’iniziativa

    La salute del Pianeta? Dipende dagli oceani

    21 Aprile 2025

    Oms: ogni anno 1,2 milioni di morti
    Una volta raccolti i dati, relativi al periodo che va dal 1999 al 2022, i ricercatori hanno estrapolato delle stime di prevalenza della resistenza agli antimicrobici insieme a dei trend temporali. In questo modo hanno osservato che, in media, dal 2000 il fenomeno è cresciuto nella stragrande maggioranza dei paesi analizzati, con un ritmo più elevato nei paesi a basso e medio reddito. Secondo i dati disponibili, inoltre, la prevalenza della resistenza agli antimicrobici – che secondo l’Oms, ogni anno causa 1,27 milioni di morti direttamente e concorre al decesso di 5 milioni di persone – risulta maggiore nell’Asia meridionale, nel Medio Oriente, nel Nord Africa e nell’Africa subsahariana.

    I fattori ambientali e sociali
    I ricercatori hanno quindi approfondito il loro studio spingendosi ad analizzare l’associazione tra il fenomeno della resistenza agli antimicrobici con alcuni fattori ambientali e sociali, cercando anche di capire come le loro variazioni possano influenzarne la prevalenza. Secondo quanto si legge nel paper, l’inquinamento da particolato, il fenomeno del ruscellamento, il consumo di antimicrobici e i costi sanitari diretti – specchio di prescrizioni troppo facili, sottolineano gli esperti – sono associati alla resistenza agli antimicrobici, ovvero quanto più aumentavano allo stesso modo cresceva il problema. Al crescere della spesa sanitaria, delle coperture vaccinali e del deflusso sotterraneo invece diminuiva la prevalenza del fenomeno, continuano gli autori.

    Crisi del clima

    Più arsenico nel riso a causa del cambiamento climatico

    23 Aprile 2025

    La riduzione del consumo potrebbe contenere il fenomeno
    L’aspetto più interessante però del loro lavoro è quello relativo alle simulazioni per gli anni a venire. La riduzione del consumo di antimicrobici potrebbe contenere il fenomeno del 2,1% entro il 2050 (per un dimezzamento dei consumi). Benefici, singolarmente minori ma insieme ben maggiori, si potrebbero avere anche a fronte di un aumento delle vaccinazioni, dei servizi igienici e soprattutto della riduzione della spesa sanitaria diretta. Combinando insieme tutte le misure, compresa la riduzione dei consumi, i benefici sarebbero ancora maggiori. La crisi climatica però potrebbe remare contro.

    Inquinamento

    Anche le gomme da masticare rilasciano microplastiche

    23 Aprile 2025

    Gli scenari
    Nello specifico, nel peggiore degli scenari possibili, scrivono gli esperti, per uno scenario con una crescita delle temperature di oltre 2°C ed alte emissioni per il 2050, potremmo assistere a un aumento del 2,4% della resistenza antimicrobica, ma potrebbe superare il 4% per i paesi a basso e medio reddito. I cambiamenti climatici, proseguono i ricercatori, potrebbero favorire eventi estremi che distruggono i servizi di prevenzione e cura, stravolgere gli ecosistemi favorendo la diffusione di patogeni. E bisognerebbe tenerne conto, concludono gli esperti: “Sebbene le iniziative di sviluppo sostenibile a breve termine e gli sforzi per ridurre il consumo di antimicrobici possano contribuire a mitigare la rapida crescita del fenomeno della resistenza, è importante riconoscere che le conseguenze a lungo termine dei cambiamenti climatici e delle attività umane continueranno a influenzare le dinamiche della resistenza agli antimicrobici”. LEGGI TUTTO