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    Ecco gli alberi che raffreddano di più le città

    Da Madrid a Milano, da Roma a Lisbona, nelle grandi città la colonnina di mercurio sta aumentando sempre di più. Alcuni materiali edili, come asfalto, cemento, mattoni, assorbono il calore durante il giorno, lo trattengono e lo rilasciano lentamente di notte. Pertanto, anche dopo il tramonto, le temperature rimangono elevate, con una differenza sempre più marcata rispetto alle aree rurali, che può raggiungere gli 8 gradi. Una delle soluzioni più efficaci a questo problema sono gli alberi, che non solo forniscono ombra, ma raffreddano anche l’aria attraverso il trasferimento di umidità nell’atmosfera, un processo che gli esperti chiamano evapotraspirazione. Non tutte le piante hanno, però, lo stesso effetto: alcune sono più efficaci di altre nel rinfrescare le aree metropolitane.

    Biodiversità

    Dall’intelligenza artificiale le risposte sulla salute degli alberi di Milano

    di Pasquale Raicaldo

    18 Settembre 2025

    La ricerca spagnola
    Ed è proprio ciò che risulta da un recente studio pubblicato su Building and Environment e condotto dai ricercatori dell’Università di Valencia, in Spagna, che hanno usato sofisticati algoritmi di intelligenza artificiale per analizzare la temperatura della superficie terrestre. Con le Support vector machines, un tipo di machine learning, hanno ottenuto previsioni molto accurate, con un’affidabilità superiore all’80%. Questo metodo ha consentito di andare oltre il dato generale sul calore e di identificare le specie arboree più idonee a mitigare l’afa. Grazie alle analisi, sono emerse tre varietà in particolare: il cinnamomo cinese (Melia azedarach), che cresce rapidamente e ha foglie grandi e fitte; il fiore d’arancio giapponese (Pittosporum tobira), che è resistente alla siccità e ha una chioma bassa e compatta, ideale per le strade strette; l’olmo (Ulmus minor), che vanta fronde ampie, sebbene il suo impiego sia diminuito a causa della vulnerabilità a malattie come la grafiosi, causata da un fungo.

    L’importanza delle specie autoctone
    “Questi esemplari si adattano bene al clima mediterraneo”, spiega Daniel Jato-Espino, professore di Ingegneria e gestione ambientale dell’ateneo valenziano, oltre che autore del lavoro. “Tuttavia, i primi due provengono dall’Asia, rispettivamente meridionale e orientale, mentre il terzo è autoctono europeo. Ed è importante dare priorità alla piantumazione di specie native, che si adattano meglio all’ambiente locale e presentano minori rischi ecologici negli ecosistemi urbani”.

    Tecnologia

    Dalla Corea del Sud arrivano gli alberi solari, per tutelare le foreste

    di Gabriella Rocco

    16 Settembre 2025

    Anche la posizione conta
    Non si tratta, però, solo di piantare più alberi. Bisogna anche scegliere attentamente il luogo in cui posizionarli. Un albero mal adattato o mal collocato avrà, infatti, un effetto limitato, al contrario metterlo a dimora nel posto giusto può ridurre in modo significativo le temperature nelle aree critiche. Nello specifico, per ottenere impatti su larga scala, gli esemplari devono essere integrati nelle reti verdi del territorio, collegandosi a parchi e giardini. Misure, queste, che migliorano pure la qualità dell’aria, aumentano la biodiversità, riducono il consumo energetico richiedendo meno aria condizionata e possono perfino incrementare il valore delle abitazioni nella zona.

    Salute

    Il 5% in più di alberi nelle città aiuta a prevenire 5mila morti premature all’anno

    a cura della redazione di Green&Blue

    11 Settembre 2025

    Città più vivibili grazie alle piante
    Inoltre, secondo la ricerca spagnola, è utile coinvolgere i cittadini nei progetti di riforestazione, incoraggiando così la cura degli spazi pubblici.

    “Gli alberi sono molto più di un semplice ornamento urbano”, sostiene Jato-Espino. “Sono infrastrutture naturali, in grado di fare la differenza tra una città soffocante e una vivibile. In un contesto di cambiamento climatico, investire negli alberi significa investire nel benessere, nella salute e nella resilienza delle nostre città”. LEGGI TUTTO

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    La minaccia più grande per i pascoli è il riscaldamento globale

    Il sovrapascolo è da tempo considerato un fattore chiave nel degrado dei pascoli, ed è la ragione delle restrizioni sulle dimensioni delle mandrie o delle tasse sul bestiame che in alcuni luoghi possono limitare la capacità dei pastori di guadagnarsi da vivere. Ma un nuovo studio pubblicato su Science della Cornell University indica un’altra variabile: il cambiamento climatico.

    Tecnologia

    Dalla Corea del Sud arrivano gli alberi solari, per tutelare le foreste

    di Gabriella Rocco

    16 Settembre 2025

    Utilizzando quattro decenni di dati dettagliati provenienti dalla Mongolia, dove il 70% del territorio è costituito da pascoli, i ricercatori del Cornell SC Johnson College of Business hanno scoperto che, mentre mandrie più numerose possono ridurre leggermente la produttività dei pascoli di anno in anno, il meteo e il clima hanno un effetto molto maggiore. I risultati hanno implicazioni globali: oltre la metà della superficie terrestre è costituita da pascoli, che nutrono il 50% del bestiame mondiale e sostengono il sostentamento di oltre 2 miliardi di persone.

    “Quando analizziamo attentamente l’equivalente della scala di contea sull’intero Paese, nell’arco di 41 anni, scopriamo che i cambiamenti a lungo termine nelle condizioni dei pascoli sono interamente attribuibili ai cambiamenti climatici”, ha affermato Chris Barrett, professore di economia applicata e gestione e autore principale dell’articolo. Il team di Barrett ha scoperto che i pascoli mongoli sono maggiormente influenzati dai comportamenti collettivi che emettono gas serra in tutto il mondo piuttosto che dai pastori locali. Esortano i responsabili politici a concentrarsi maggiormente sulla mitigazione globale, nonché sul risarcimento internazionale per i danni climatici, e meno sulla tassazione dei pastori in una nazione che contribuisce poco alle emissioni globali di gas serra.

    Lo studio

    Entro il 2100 carenze idriche gravi nelle aree siccitose

    a cura della redazione di Green&Blue

    23 Settembre 2025

    Il governo mongolo effettua un censimento annuale di fine anno di tutto il bestiame del Paese, quindi a giugno effettua indagini e campionamenti sulla vegetazione dei pascoli per determinarne le condizioni. Sulla base di questa ricca raccolta di dati, nel 2021 il governo ha reintrodotto un’imposta nazionale sul bestiame, volta a indurre una riduzione dei tassi di capienza per far fronte agli impatti negativi percepiti sui pascoli. Il team di Barrett ha utilizzato questi dati insieme a un metodo di analisi statistica in due fasi, utilizzando i dati del censimento delle mandrie a livello di soum (un soum è simile a una contea) insieme agli eventi dzud (tempeste invernali estreme che causano un’enorme mortalità del bestiame) sui pascoli invernali, per prevedere la variazione nelle dimensioni delle mandrie a giugno. Nella seconda fase dello studio, i ricercatori hanno utilizzato le dimensioni previste della mandria per giugno per generare stime causali degli effetti delle dimensioni della mandria e del clima sulla produttività dei pascoli estivi.

    Per distinguere tra clima e variazioni meteorologiche a breve termine, il team ha costruito medie pluriennali di ciascuna variabile e le ha confrontate su periodi di 10 e 20 anni. Analizzando i dati, il gruppo ha scoperto che le dimensioni più grandi delle mandrie hanno un modesto effetto negativo sulla produttività dei pascoli nel breve termine, ma nessun effetto significativo nel lungo periodo. Il clima, e persino le variazioni meteorologiche annuali, hanno avuto un impatto molto maggiore. “Sono rimasto sorpreso dall’entità dell’effetto climatico rispetto agli effetti delle dimensioni delle mandrie, anche nel breve periodo”, ha ammesso: “Anche solo i cambiamenti climatici annuali hanno avuto un effetto circa 20 volte superiore alle dimensioni delle mandrie”. LEGGI TUTTO

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    Un nuovo materiale per padelle antiaderenti senza Pfas

    Dai tessuti impermeabili agli utensili da cucina: le superfici capaci di respingere liquidi e oli sono onnipresenti. E, di conseguenza, onnipresenti sono diventate le sostanze chimiche che conferiscono queste proprietà: i composti perfluoroalchilici, o Pfas. Peccato che i Pfas siano noti per essere agenti chimici perenni, che tendono a rimanere nell’ambiente e ad accumularsi negli organismi viventi, e sembra siano nocivi anche per la salute umana. Nel tentativo di trovare un’alternativa, un team dell’Università di ingegneria di Toronto ha sviluppato un materiale che, sebbene non li sostituisca del tutto, riduce in modo considerevole il loro impiego, risultando quindi più green e salutare. Ecco di cosa si tratta.

    Pfas, difficili da sostituire
    La repellenza all’acqua e all’olio è una caratteristica ricercata in molti ambiti dell’attività umana: serve per rivestimenti protettivi, per i materiali anti-macchia e per le superfici autopulenti utilizzate in campi come l’elettronica, il settore sanitario e quello tessile. I Pfas conferiscono queste proprietà e sono molto difficili da sostituire se non si vuole perdere in prestazioni. Tuttavia, trovare un’alternativa oggi sta diventando una necessità. Diversi Paesi, compresa l’Unione europea, infatti, hanno ristretto l’utilizzo di Pfas, in particolare di quelli a catena lunga, considerati i più pericolosi.

    Ricerca

    Olio di semi di cotone per tessuti idrorepellenti senza Pfas né formaldeide

    di Sara Carmignani

    21 Agosto 2025

    Un “pennello” repellente
    Il lavoro del team di Toronto si è concentrato proprio sulla ricerca di un nuovo materiale che risultasse ugualmente efficace ma più sicuro. L’attenzione è ricaduta sul polidimetilsilossano (Pdms), un materiale a base di silicone, già noto per la sua biocompatibilità e infatti impiegato anche per la realizzazione di dispositivi medici. Il problema è che, così com’è, il Pdms non può competere con le prestazioni dei Pfas.

    Per superare questo limite, i ricercatori canadesi hanno ideato un metodo originale chiamato nanoscale fletching. Questa tecnica consiste nel creare una struttura superficiale simile a setole microscopiche di brevi catene di Pdms, a ciascuna delle quali viene poi attaccata una molecola di Pfas a catena molto corta, costituita da appena un atomo di carbonio e tre di fluoro. La disposizione su scala nanometrica ricorda le piume stabilizzatrici poste sulla coda di una freccia, da cui deriva il nome della tecnica.

    Salute e ambiente

    Pfas nel vino 100 volte superiori rispetto all’acqua potabile

    di Paola Arosio

    30 Maggio 2025

    Performance elevate e rischio ridotto
    Per convalidare la loro scoperta, il gruppo ha ricoperto un tessuto con il nuovo materiale ibrido e vi ha versato sopra diversi oli, raggiungendo un punteggio di 6 sulla scala di valutazione dell’American Association of Textile Chemists and Colorists – un risultato equivalente a quello conseguito da molti rivestimenti standard basati su Pfas.

    È vero, non ci si è liberati del tutto dei Pfas, ma secondo gli esperti le catene chimiche impiegate sono così corte da non avere lo stesso potenziale di accumulo negli ambienti e negli organismi. Il rischio, insomma, sarebbe nettamente più basso rispetto ai materiali antiaderenti tradizionali.

    Questo nuovo materiale ibrido, secondo i suoi ideatori, può rappresentare un avanzamento fondamentale per i settori industriali che mirano a eliminare gli elementi chimici tossici mantenendo alti standard prestazionali. L’équipe è disponibile a collaborare con i produttori per commercializzare il processo e sta già studiando opzioni ancora più sicure. L’obiettivo finale è sviluppare un materiale che superi le prestazioni del teflon ma sia completamente privo di Pfas. LEGGI TUTTO

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    “La giustizia climatica è un obbligo giuridico, non un principio politico”

    “Disinvestire dalla guerra – Investire nella transizione giusta!”. È questo il motto che ha accompagnato la Settimana di azione globale per la Pace e la Giustizia Climatica, rilanciata in Italia dalla Rete Italiana Pace e Disarmo. Un appuntamento che ha riunito reti pacifiste, ambientaliste, associazioni, giovani e comunità locali, nato dalla consapevolezza che pace e clima sono due dimensioni inscindibili della stessa sfida. E tra le voci emerse, una è diventata sempre più urgente: la giustizia climatica non è solo un principio politico. È un obbligo giuridico.

    Il parere della Corte Internazionale di Giustizia
    A sancirlo, lo scorso luglio, è stato il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite: gli Stati hanno l’obbligo legale di agire per prevenire i danni del cambiamento climatico, proteggere i diritti fondamentali e cooperare attivamente per la mitigazione della crisi. Un principio che, secondo l’avvocato Daniele Marra, esperto di diritto della salute ambientale, si innesta pienamente nel nostro ordinamento. “L’articolo 38 dello Statuto della Corte Internazionale considera la consuetudine tra le fonti giuridiche vincolanti” spiega Marra. “E se è vero, ed è vero, che una consuetudine si forma attraverso una pratica costante e la convinzione che sia obbligatoria, allora l’obbligo di difendere il clima esiste da tempo”. Il parere della Corte sottolinea, ad esempio, che l’impegno a ridurre le emissioni previsto dal Protocollo di Kyoto — pur riferito al periodo 2013/2020 — continua ad avere effetto giuridico. “L’assenza di un nuovo periodo temporale” si legge nel testo, “non priva quel trattato della sua validità legale”.

    Ambiente

    Gli attivisti esultano per la sentenza della Corte dell’Aja: “Trionfo per la giustizia climatica”

    24 Luglio 2025

    Le radici dell’obbligo dello Stato
    Secondo Marra, il parere mostra chiaramente come le norme sul clima si siano stratificate nel tempo, fino a delineare un obbligo vero e proprio per gli Stati. Dalla Conferenza ONU di Stoccolma del 1972 al Rapporto Brundtland del 1984, fino alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite del 1992 e l’Accordo di Parigi del 2015 emerge un dovere di cooperazione e un’obbligazione di risultato: garantire ai cittadini un ambiente salubre. “È evidente la presenza dei due elementi che definiscono una norma consuetudinaria” osserva Marra. “La pratica costante degli Stati e la convinzione della sua obbligatorietà. Questo rende l’obbligo di difendere il clima vincolante, anche in assenza di un trattato formale”. È un dovere che prevale perfino sulla sovranità statale, come dimostra un caso del 1941 tra Canada e Stati Uniti: lì, una sentenza arbitrale stabilì per la prima volta che nessuno Stato può usare il proprio territorio in modo da danneggiare un altro Stato. “Già allora, si riconosceva l’obbligo di agire contro l’inquinamento transfrontaliero, riducendo la sovranità del singolo stato inquinante” aggiunge.

    La legge del clima è già scritta
    Oggi, quel principio vale anche per la crisi climatica e può e deve essere fatto valere anche nei tribunali italiani. “I magistrati hanno già oggi le basi giuridiche per riconoscere l’obbligo dello Stato a difendere il clima come parte del diritto consuetudinario, e dunque pienamente applicabile, anche in Italia. Lo prevede l’articolo 10 della nostra Costituzione, che impone il rispetto delle norme internazionali generalmente riconosciute”. Anche la giurisprudenza nazionale si sta muovendo in questa direzione. Con l’azione nota come Giudizio Universale, lo Stato italiano è stato portato in tribunale per inazione climatica. Recentemente, nella causa intentata da Greenpeace e ReCommon contro ENI e altri soggetti pubblici e privati — la cosiddetta Giusta Causa — la Corte di Cassazione ha riconosciuto, nel luglio 2025, che è possibile promuovere azioni civili contro comportamenti che violano obblighi climatici internazionali. Un precedente che potrebbe aprire le porte a un contenzioso strutturato anche in Italia. “Se il diritto a un ambiente salubre è già riconosciuto sia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sia dall’articolo 37 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, allora già oggi i giudici italiani possono applicare quel principio, riconoscendo che lo Stato ha il dovere giuridico di proteggere il clima” ribadisce l’avvocato romano. La giustizia climatica, insomma, non è più un’utopia. È un obbligo che ha già varcato le soglie dei tribunali. Ora, chiede solo di essere applicato. LEGGI TUTTO

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    Entro il 2100 carenze idriche gravi nelle aree siccitose

    Entro il 2100 il rischio di gravi carenze idriche dovute ai cambiamenti climatici interesserà quasi tre quarti (74%) delle regioni soggette a siccità. Lo rivela una ricerca pubblicata su Nature Communications. Si tratta della prima stima pubblicata di questo tipo. Gli autori riportano che in questo decennio e nel prossimo emergeranno probabilmente focolai di scarsità […] LEGGI TUTTO

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    I ghiacciai italiani pieni di contaminanti e metalli pesanti, che finiscono nei fiumi e in mare

    Per decenni abbiamo congelato i nostri “problemi” ma adesso, per via del surriscaldamento generato dalle nostre stesse attività, stanno per essere “liberati”. I ghiacciai italiani sono infatti pieni di contaminanti: metalli pesanti, DDT, PCB e inquinanti vari sono rimasti congelati negli anni sulle vette ma la crisi del clima che pone gli stessi ghiacciai sempre più in sofferenza oggi amplifica il rilascio di queste sostanze destinate ad arrivare fino ai fiumi e poi ai mari, impattando direttamente sugli ecosistemi da cui dipendiamo.

    Cambiamento climatico

    Alaska, il ghiacciaio si scioglie e emerge una nuova isola

    di Fiammetta Cupellaro

    18 Settembre 2025

    La prima mappa su ampia scala dello stato di contaminazione dei ghiacciai italiani è stata realizzata dall’Università Statale di Milano insieme a One Ocean Foundation che in un articolo pubblicato sulla rivista Archives of Environmental Contamination and Toxicology mettono proprio in evidenza lo stato di inquinanti e la connessione fra sistemi montani e marini.

    Finora, hanno ben documentato gli scienziati in tutto il mondo, i ghiacciai globali hanno mostrato caratteristiche di sofferenza comune: stanno arretrando, diventano più scuri e meno riflettenti e accelerano, con la fusione la perdita delle riserve idriche di ogni Paese aumentando così parallelamente l’innalzamento del livello dei mari. Un nuovo rischio però, ricorda la ricerca italiana, è alle porte: lo scioglimento può infatti comportare il rilascio di tutta una serie di sostanze inquinanti – soprattutto di natura antropica – che sono rimaste congelate per lunghissimo tempo. LEGGI TUTTO

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    Bonus per le auto elettriche: tutto quello che c’è da sapere

    Conto alla rovescia per il bonus per l’acquisto di auto elettriche. Dal 23 settembre lo portello online è operativo per i venditori, e non appena sarà chiusa questa prima fase fase alla piattaforma dovranno registrarsi gli acquirenti. Chi ha i requisiti potrà ottenere un voucher da utilizzare al momento dell’acquisto per ottenere lo sconto sul […] LEGGI TUTTO

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    Al via la Climate Week di New York, senza l’inviato italiano per il clima

    L’Italia e l’Europa si presentano zoppicanti alla Climate Week di New York, uno degli eventi più importanti nel panorama della diplomazia climatica. Organizzato tradizionalmente in concomitanza con l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, quest’anno di svolge dal 22 al 28 di questo mese, ospitando tra i relatori personaggi del calibro si Simon Stiell, responsabile Onu per il clima e Teresa Ribera, vicepresidente della Commissione europea con delega alla Transizione giusta e pulita. E mercoledì 24 settembre il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ospiterà un Summit sul Clima, nell’ambito della settimana dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

    “Entro la Cop30, tutte le Parti dell’Accordo di Parigi dovranno presentare nuovi Contributi Determinati a Livello Nazionale (Ndc) che riflettano azioni coraggiose per il prossimo decennio”, ricorda Guterres. “Questi piani aggiornati rappresentano un’opportunità per sfruttare i benefici di un futuro giusto, resiliente e a basse emissioni di carbonio”.

    L’appuntamento di martedì vuole essere un piattaforma in cui i leader potranno presentare i loro nuovi Ndc. C’è molta attesa per il previsto intervento del presidente cinese Xi Jinping, mentre non ci si fa illusioni sull’Amministrativo Trump che, in patria e all’estero, sta smontando le politiche climatiche Usa. Iscritti a parlare 80 capi di Stato e di governo, ma non ci sarà la premier Giorgia Meloni.

    E, appunto, l’Italia? E l’Europa? Il nostro Paese arriva a New York con le idee confuse sugli obiettivi e acque agitatissime all’interno del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica. Della delegazione partita da Roma nelle scorse ore non fa parte l’Inviato speciale per il clima Francesco Corvaro, nonostante nella Grande Mela diversi appuntamenti prevedano la partecipazione degli Special Envoy delle nazioni partecipanti. La decisione di lasciare a casa Corvaro è riconducibile ad Alessandro Guerri, Direttore generale Affari Europei, Internazionali e Finanza Sostenibile del Mase, che non ha autorizzato la missione a New York. Il conflitto è spiegabile certamente con una “incompatibilità caratteriale” tra i due, come dice chi le conosce. Ma anche con la genesi e la gestione, tutte all’italiana, della figura dell’Inviato speciale per il clima. Il suo battesimo risale al governo Draghi. Dopo un lungo braccio di ferro tra l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il collega di governo Roberto Cingolani (Transizione ecologica) si scelse un compromesso: una figura di secondo piano, scelta dalla Farnesina (gli Inviati speciali sono una sua prerogativa) ma incardinata nel ministero di via Colombo e quindi sotto il controllo di Cingolani. Niente a che vedere quindi con figure di grande spessore e potere decisionale come John Kerry per l’Amministrazione Biden o Jennifer Morgan nel governo tedesco guidato dal socialdemocratico Olaf Scholz. Morgan, per esempio, dopo essere stata per anni leader globale di Greenpeace, aveva a Berlino lo status di sottosegretario di governo.

    Da noi invece, per il primo Inviato speciale clima la scelta (gennaio 2022) cade sul diplomatico Alessandro Modiano, oggi ambasciatore in Messico. Ma l’esecutivo di Giorgia Meloni non può tenere al suo posto una figura, per quanto tecnica, di nomina Cinque Stelle. E così, per riempire una casella che ormai esiste ma che non interessa davvero e che comunque un governo di destra non può cancellare senza scatenare polemiche e accuse di negazionismo climatico, si individua un sostituto (agosto 2023): Francesco Corvaro, professore di Fisica tecnica e “vicino” al governatore Fdi delle Marche Acquaroli. Proprio la sua provenienza accademica fa però di Corvaro un corpo estraneo nei corridoi del ministero. E nessuno, né al Mase né alla Farnesina, si è preoccupato di riempire di contenuti un ufficio che pure esiste in tutti i governi occidentali: “Non gli è mai stato detto cosa doveva fare o non fare, con il rischio di sovrapporsi ad altri se non proprio di pestare i piedi”, dice un suo collega.

    La decisione di Guerri di lasciare a Roma l’Inviato speciale italiano per il clima mentre a New York è in corso la kermesse più importante del mondo, se si escludono le conferenze Onu sul clima, sembra essere la rottamazione definitiva non tanto e non solo di Corvaro ma alla figura stessa dell’Inviato: chi non c’è non serve. Il problema è che il nostro Paese arriva all’appuntamento americano non solo senza il suo Inviato speciale, ma anche senza alcuna idea precisa sui tagli alle emissioni di gas serra che si impegnerà a fare in prossimi anni (i famosi Ndc di cui parla Guterres). Perché è l’intera Unione a non avere le idee chiare è bucare l’occasione newyorkese per assumere, magari insieme alla Cina, il ruolo di leader climatico dopo il vuoto lasciato dagli Stati Uniti.

    La scorsa settimana i ministri dell’Ambiente europei non hanno trovato un accordo sugli Ndc e hanno rimesso la decisione ai capi di Stato e di governo che si riuniranno il 22 e 23 ottobre per il Consiglio europeo, troppo tardi per l’evento Onu di dopodomani e a pochi giorni dall’inizio di Cop30 a Belém, in Brasile. È stata però partorita una “dichiarazione di intenti” da leggere nel Palazzo di Vetro mercoledì prossimo. Probabilmente, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel suo intervento la impugnerà per dire che se è vero che la Ue sta ancora discutendo, lo sta facendo all’interno di una forbice di valori tra cui decidere, valori che comunque dimostrano come l’Europa non voglia tornare indietro rispetto all’Accordo di Parigi. Tra liti interne al Mase e difficoltà a livello europeo c’è da chiedersi quale potrà essere il contributo della delegazione italiana alla Cop30. Per ora c’è solo una certezza: i nostri negoziatori non hanno accora un alloggio prenotato nella città brasiliana che ospiterà l’evento, mentre il ministero degli Esteri li rassicura: stiamo trattando con Costa Crociere per riservarvi delle cabine su una delle loro navi che sarà ormeggiata nel porto di Belém. LEGGI TUTTO