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    Rosmarino, i consigli per potare il re delle piante aromatiche

    Re delle piante aromatiche, il rosmarino è protagonista della macchia mediterranea ed è noto per la sua bellezza, il sapore intenso e il profumo inconfondibile. Impiegato e apprezzato fin dai tempi remoti, appartiene alla famiglia delle Lamiaceae e si contraddistingue per la notevole resistenza e la facilità di coltivazione e manutenzione: tuttavia, per un suo sviluppo rigoglioso, è importante mettere in campo particolari accorgimenti per quanto riguarda la sua potatura.

    Rosmarino: la funzione della potatura
    Arbusto rustico sempreverde, il rosmarino è coltivato sia a scopo ornamentale, che come specie aromatica. Per una crescita rigogliosa richiede un terreno drenato e sabbioso, la luce solare diretta e annaffiature con un buon quantitativo di acqua, evitando però i ristagni idrici. Inoltre, nel suo sviluppo gioca un ruolo fondamentale la potatura. Il rosmarino può crescere allo stato selvatico, ma una potatura ben fatta ne consente uno sviluppo ottimale, mantenendolo in salute. La potatura necessita di tanta precisione, cura e attenzione: grazie a questa operazione si mantiene la forma della pianta, evitando una sua crescita disordinata ed eccessiva, garantendone la produttività e la salute e tenendo alla larga eventuali malattie.

    Non eseguire la potatura del rosmarino regolarmente contribuisce a rendere la pianta legnosa e meno produttiva e a un ingrandimento eccessivo, cosa che potrebbe compromettere i rami interni rendendoli privi di luce e aria. Infatti, la potatura consente una migliore circolazione dell’aria tra i rami, cosa che previene l’insorgere di malattie fungine ed è importante in quei luoghi molto umidi, dove la pianta potrebbe essere attaccata da muffe e funghi. Bisogna anche considerare come tagliando i rami la pianta generi nuovi germogli, facendo sì che diventi più rigogliosa. Anche la qualità delle foglie risente positivamente della potatura: eliminando i rami vecchi, il rosmarino è portato a produrne di nuovi che sono più profumati, aromatici e morbidi, assicurando così un migliore raccolto.

    Potatura del rosmarino: cosa sapere
    Il processo di potatura del rosmarino si divide in tre fasi: osservare la pianta, rimuovere le parti malate, deboli oppure secche e spuntare le cime. Una volta esaminato lo stato del rosmarino, capendo come intervenire, si parte rimuovendo le parti malate e secche: se si pota la pianta regolarmente serviranno solo delle spuntature, mentre, qualora l’ultima potatura sia avvenuta molto tempo prima, l’intervento dovrà essere più consistente, senza però eccedere. Si deve sempre eseguire la potatura seguendo la direzione della crescita dei rami, partendo da quelli più vecchi che si trovano alla base per poi occuparsi di quelli che si incrociano e di quelli che vanno verso l’intero.

    Rosmarino e la sua potatura: consigli utili
    Quando si pota il rosmarino i rami vicini al tronco non dovrebbero essere toccati per non arrecare danni alla corteccia. I tagli non dovranno svuotare la pianta, ma solo contenerne le dimensioni: per fare questo si devono abbassare i rami, tagliando la parte che sale verso l’alto, giovando così alla ramificazione e alla crescita.

    Per quanto riguarda il taglio, questo deve essere effettuato in modo netto, prestando attenzione che non sia sfilacciato e obliquo: se fosse così sulla ferita si potrebbero insediare dei ristagni d’acqua. Per non compromettere la formazione di nuovi germogli, i tagli devono essere eseguiti appena sopra un nodo di foglie oppure in un ramo laterale, punti in cui la pianta tende a produrre nuovi semi. Il tronco non dovrà mai essere privato totalmente delle sue parti verdi, rischiando altrimenti di ucciderlo visto che non è capace di riformarle. Bisogna anche ricordare come la lunghezza di ogni ramo non vada tagliata per più di un terzo. In generale, non deve essere rimosso più del 30% della massa della pianta: malgrado il rosmarino sia contraddistinto da una notevole resistenza, una potatura troppo consistente potrebbe danneggiarlo e indebolirlo. Eseguita la potatura, è importante prendersi cura del rosmarino dandogli subito da bere e ricorrendo a del fertilizzante organico per fornirgli il nutrimento necessario per agevolarne la crescita.

    Quando eseguire la potatura del rosmarino
    La potatura del rosmarino si esegue due volte l’anno, una in primavera dopo la sua fioritura, volta a dargli forma ed eliminare i fiori appassiti, e l’altra prima del freddo in autunno, per liberarlo dai rami secchi, morti e malati e quelli che crescono verso l’interno, preparandolo in vista della stagione invernale. Il momento in cui eseguire la potatura dipende tuttavia da alcuni fattori come per esempio l’età della pianta e il clima del luogo dove vive: se la temperatura è mite si può potare anche in inverno, agevolando così lo sviluppo di nuovi germogli durante il periodo primaverile. Tuttavia, un consiglio utile da tenere a mente, è eseguire questa operazione in modo tale da evitare che il rosmarino subisca le gelate invernali immediatamente dopo essere stato potato. Bisogna anche considerare come la fioritura del rosmarino sia piuttosto lunga, comprendendo tutta la primavera e l’estate: questo significa che se si posticipa troppo la potatura si finirà per dire addio a tanti dei suoi fiori. Qualora il rosmarino sia molto giovane le potature possono non essere frequenti e ci si può occupare solo della rimozione degli eventuali rami malati oppure secchi.

    Che attrezzi usare per la potatura del rosmarino
    Per quanto riguarda gli attrezzi per potare la pianta è necessario ricorrere a delle forbici da giardinaggio affilate. Ci si può dotare di un modello da potatura manuale per i rami giovani, mentre di una forbice elettrica per quelli di dimensioni più grandi, rendendo il processo più facile e meno faticoso, oppure di un troncarami. Tutti gli attrezzi usati nel processo devono essere puliti e disinfettati in profondità prima della potatura per non trasmettere eventuali malattie al rosmarino. LEGGI TUTTO

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    In Cina si studia una plastica che si autodistrugge in un mese

    L’inquinamento globale da plastica ha numeri impressionanti. Sono 52 milioni di tonnellate ogni anno i rifiuti di uno dei materiali più inquinanti del Pianeta che finiscono dispersi nell’ambiente. Uno studio recente dell’università di Leeds stima che circa il 13% di tutto il materiale plastico prodotto annualmente – pari a 400 milioni di tonnellate – faccia questa fine, senza essere smaltito in modo corretto. Anzi, più della metà della plastica sarebbe bruciata, rilasciando emissioni tossiche ed inquinanti dell’aria. Ed ecco che dalla ricerca scientifica proviene una nuova speranza per combattere questo fenomeno inquinante: una plastica che si autodegrada grazie a spore batteriche inserite all’interno del polimero che iniziano il processo di degradamento in determinate condizioni. Si potrebbe quasi dire, che sia la plastica a mangiare se stessa e se questo esperimento pubblicato su Nature Communications, potesse essere replicato su larga scala, l’impatto nocivo sull’ambiente sarebbe progressivamente ridotto.

    Inquinamento

    Ogni anno bruciamo 30 milioni di tonnellate di plastica

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    06 Settembre 2024

    Lo studio condotto da un’equipe di scienziati della Chinese Academy of Sciences, guidato dal biologo Chenwang Tang, ha sviluppato il prototipo di questa plastica speciale che per distruggersi impiegherebbe appena 30 giorni: sappiamo invece che la plastica non biodegradabile, quella più diffusa, può impiegare anche secoli per scomparire. E non del tutto, come vedremo più avanti. I ricercatori hanno applicato alla plastica basata su PCL – un polimero già utilizzato per le sue proprietà biodegradabili – delle spore batteriche scoperte nel 2016 in un impianto di riciclo rifiuti in Giappone. “Abbiamo progettato le spore di Bacillus subtilis che erano resistenti alle sollecitazioni durante la lavorazione del materiale, ma sono state mescolate con policaprolattone (polimero semicristallino sintetico biodegradabile ndr) per produrre plastiche viventi in vari formati. L’incorporazione delle spore non ha compromesso le proprietà fisiche dei materiali”, scrivono i ricercatori nell’abstract scientifico del loro studio innovativo, e aggiungono: “Questo studio illustra un metodo per fabbricare plastiche green che possono funzionare quando le spore sono latenti e iniziare la decomposizione quando le spore vengono attivate”.

    Queste spore, che possiamo definire dormienti, restano inattive finché la plastica non inizia a degradarsi, e solo in quel momento rilasciano gli enzimi che portano ad una rapida accelerazione nella decomposizione del materiale, che non termina il processo finché non è completata l’autodistruzione del materiale plastico. I ricercatori dell’università cinese sono riusciti a superare anche un ostacolo complesso, e cioè trovar delle spore che fossero in grado di sopravvivere alle alte temperature a cui sono sottoposti i polimeri nelle varie fasi della loro produzione, finché non è stato trovato il ceppo di batteri, che geneticamente modificato ha reagito bene, ma senza creare alcun problema all’uomo, visto che sono innocui.

    Inquinamento

    Dal fegato allo stomaco, microplastiche nel 66% delle gazze marine trovate morte nel Tirreno

    di  Pasquale Raicaldo

    02 Ottobre 2024

    Inoltre va sottolineata una differenza non da poco di questo metodo realizzato dagli scienziati cinesi, rispetto alla comune degradazione della plastica, che in realtà si trasforma in micro e nanoplastiche, invisibili alla vista umana, ma ancora più dannose per ambiente ed animali. Questo procedimento invece è di biodegradazione. Il test della plastica “autodistruttiva” è uscito fuori dai confini del laboratorio accademico, visto che gli scienziati ne hanno testato la resistenza immergendola per ben due mesi all’interno di una bibita gassata molto nota, dimostrando che può essere usata anche per gli imballaggi perché molto stabile e resistente, ideale quindi nel packaging industriale che ha si bisogno di robustezza quando è applicata a bottiglie o altri prodotti, ma che sparisce dall’ambiente dopo appena un mese. Ma se i vantaggi sono innegabili, ci sono, come è naturale per ogni nuovo prodotto da immettere sul mercato, delle perplessità; i ricercatori, infatti, temono che la plastica possa decomporsi prematuramente in determinate condizioni ambientali o che i batteri responsabili della degradazione possano “infettare” l’ecosistema, una volta diffusi su larga scala all’interno della plastica. Per rispondere servono ancora altri studi e test, ma bisogna fare in fretta perché l’inquinamento da plastica cresce, così come la produzione di plastica, raddoppiata negli ultimi 20 anni LEGGI TUTTO

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    Silvana Galassi: “L’ecofemminismo ci insegna che in tutti noi c’è empatia nella Natura, se la si coltiva”

    Silvana Galassi, ex docente, classe 1948, ha a cuore la tutela dei territori e delle donne: è stata professoressa ordinaria di ecologia, ecologia della nutrizione e di ecotossicologia all’Università degli Studi di Milano e mantiene vivo il suo impegno attraverso l’attivismo ambientale e la scrittura di saggi.

    “Sono nata a Faloppio – spiega Galassi – un paesino in provincia di Como. Non ricordo di avere avuto particolari predilezioni ma sono sempre stata una buona lettrice e una nuotatrice. Sono cresciuta a Como e passavo l’estate alla Como-nuoto. Sono laureata in biologia e sono diventata docente di ecologia. Ho insegnato sia a Biologia, sia a Scienze Ambientali, dove gli studenti erano molto orientati verso le tematiche ambientali. Da quando sono in pensione svolgo un lavoro di volontariato a tempo pieno. Aiuto ragazze straniere che hanno difficoltà scolastiche. Sono vice-presidente di un’associazione che sta realizzando una casa per le donne nei Paesi Dogon, in Mali. Sono un attivista del Comitato Milanese Acqua Pubblica e faccio lezioni e seminari su argomenti ecologici soprattutto per sensibilizzare le persone all’uso responsabile dell’acqua e ad adottare stili di vita sostenibili”.

    Nel suo nuovo libro Dalla parte di Gaia – Teorie e pratiche di ecofemminismo (Edizioni Ambiente), fa chiarezza sulle teorie dell’ecofemminismo. “È un filone – continua Galassi – del femminismo degli anni Settanta che ha sviluppato la teoria che le donne e la natura siano accomunate dallo sfruttamento da parte del sistema capitalista patriarcale. Da allora si sono sviluppate diverse correnti di pensiero grazie al contributo di filosofe, antropologhe, sociologhe, ma non mi risulta che ci sia stato un dialogo con le ecologhe. Esistono poi ecofemministe di fatto che hanno dato un grosso contributo alla difesa dell’ambiente in diversi Paesi del mondo. Come ho scritto nel mio libro, esiste una geografia dell’ecofemminismo che si esprime con modalità diverse a seconda delle radici religiose, storiche e delle tradizioni dei popoli alle quali le attiviste appartengono”.

    Secondo il pensiero ecofemminista, esiste un parallelismo costante nella storia tra l’oppressione delle donne e lo sfruttamento della natura e la scrittrice, nella sua riflessione, smantella un luogo comune. “Non c’è nessun motivo – sottolinea Galassi – di pensare che l’empatia per la Natura sia una prerogativa femminile. Probabilmente è innata in tutti noi ma si sviluppa negli adulti solo se viene coltivata, come scrive Rachel Carson in A Sense of Wonder. Storicamente alle donne è stato affidato il compito di cura e agli uomini quello di combattere. Questo deve avere avuto un certo peso nell’atteggiamento nei confronti della Natura. Ma queste divisioni di ruoli non dovrebbero sussistere nelle società moderne”.

    Galassi ripercorre le fasi storiche che hanno portato alla radicalizzazione di questa visione, tuttora difficile da divellere. “In Occidente – aggiunge Galassi – l’idea del dominio dell’uomo sulla natura ha radici giudaico-cristiane e si è consolidato con l’Illuminismo che è alla base del modello di sviluppo tecnologico e dell’organizzazione delle società capitaliste. Col colonialismo questo modello è stato esportato in altri continenti e la globalizzazione ha fatto il resto. Nel modello capitalista patriarcale è funzionale affidare il lavoro di cura alla componente femminile della società senza riconoscerne il valore economico. Analogamente, si sfrutta la Natura accumulando un enorme debito ambientale a beneficio di un modello di sviluppo che è insostenibile perché aliena le risorse e aumenta le disuguaglianze”.

    Nonostante le criticità subite dal nostro ecosistema mediante lo sfruttamento delle risorse e il confinamento, per troppi anni, delle donne al focolare domestico, la scrittrice manifesta ottimismo verso le nuove generazioni. Ho molta fiducia nei giovani. Mi sembra che nelle giovani famiglie la divisione dei ruoli sia meno rigida rispetto al passato. Negli ambienti di ricerca le donne sono molto più presenti rispetto ai miei tempi. Ma del resto del mondo non so cosa dire. Se penso all’Iran, all’Afghanistan e alle guerre in corso non riesco a essere ottimista. L’ecofemminismo è interessante dal punto di vista antropologico e storico ma i giovani ora devono lottare insieme se vogliono vincere le battaglie per il clima e per tutelare il loro territorio. LEGGI TUTTO

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    Riscaldamento globale, aumenta il pericolo di collisioni tra navi e squali balena

    Quali saranno le rotte degli squali balena nei prossimi anni? Ma soprattutto, come cambieranno a seconda di quando cambierà, ancora, il nostro pianeta? Da queste domande è partito il team di ricercatori internazionale guidato dai ricercatori della University of Southampton e del Marine Biological Association di Plymouth (Regno Unito) per capire quanto aumenterà il rischio per questo gigante dei mari di incrociarsi pericolosamente con le grandi navi. Perché gli effetti dei cambiamenti climatici non solo solo la perdita di habitat, il rischio che in nuovi ambienti gli animali fatichino a nutrirsi e riprodursi, ma anche che finiscano, sempre di più, vittime di minacce di natura umana.

    Le temperature degli oceani
    A parlare di tutto questo, mostrando mappe e snocciolando numeri che cercano di misurare questo rischio, sono gli stessi ricercatori dalle pagine di Nature Climate Change. Lo studio si inserisce nel ricco filone di ricerche che cercano di capire come cambieranno gli areali di distribuzione degli animali (ma anche delle piante) in risposta all’aumento delle temperature. La regola generale, ricordano gli autori, prevede un generale spostamento verso i poli o verso altitudini più elevate.

    Salute degli oceani: essenziale proteggere gli squali

    di Simone Valesini

    19 Agosto 2024

    “Oggi è necessario conoscere quantitativamente le interazioni tra movimento della fauna selvatica, le attività umane e i cambiamenti climatici per incorporare questi dati nelle valutazioni di conservazione”, si legge nel paper. Soprattutto per le specie considerate più a rischio, ha ricordato Freya Womersley, a capo dello studio: lo squalo balena al momento è classificato come in pericolo nella lista rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura.

    E quanto osservato in generale, vale lo stesso pare anche per questi animali (studiati anche a ricchi dati di tracciamento satellitare raccolti negli anni), che si sposteranno mediamente verso latitudini più elevate (con spostamenti anche di mille km), e più in generale, scrivono i ricercatori anche verso le aree più di confine delle loro attuali aree di distribuzione (complessivamente circumtropicale).

    Biodiversità

    Pesci e tartarughe: nei mari rifiuti e plastica continuano a uccidere gli animali

    di Pasquale Raicaldo

    12 Agosto 2024

    I pericoli sulle rotte degli squali balena
    Lo studio però ha indagato più a fondo le previsioni sugli spostamenti di questi animali marini cercando di comprendere in che modo nel prossimo futuro, in diversi scenari climatici, le rotte degli squali balena si sarebbero incrociate con quelle delle grandi navi. Il risultato è che, per tutti gli scenari considerati – quelli a più alte e basse emissioni – le probabilità di scontro degli animali con le navi aumenteranno, anche se, puntualizzano gli autori, non dovessero aumentare (come invece previsto) le flotte di navi. Per misurare questo valore i ricercatori hanno calcolato lo ship co-occurrence index, un indice che tiene conto della distribuzione degli squali balena e della densità delle navi. Per alcuni scenari più ottimistici, di cosiddetto sviluppo sostenibile a basse emissioni, la combinazione navi-squali nello stesso luogo aumenterebbe di 20 volte, ma il numero si impenna fino a 15 mila negli scenari di sviluppo ad alte emissioni entro la fine del secolo. LEGGI TUTTO

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    Il “bosco virtuale” per spiegare alle scuole i cambiamenti climatici

    Un vero e proprio “Bosco Virtuale”, da esplorare alla scoperta della biodiversità: è uno degli appuntamenti dedicati ai più piccoli, ma non solo, nell’ambito di ComoLake, la Conferenza internazionale sull’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie che anche quest’anno si terrà presso il Centro internazionale Esposizione e Congressi di Villa Erba a Cernobbio, dal 14 al 18 ottobre.

    Il “Il Bosco Virtuale”, realizzata in collaborazione del CUFAA (Comando delle Unità Forestali Agroalimentari dell’Arma dei Carabinieri e dell’Aeronautica Militare), che è già stata esposta, con un grande successo di pubblico, nella sede dell’ONU a New York nel 2023 in occasione della “Settimana sui Cambiamenti Climatici”, rappresenta un articolato viaggio all’interno della Biodiversità.

    L’idea di base dell’installazione è quella di portare il visitatore all’interno di una foresta ideale, un bosco concettuale e simbolico, che rappresenta idealmente il patrimonio naturale italiano che deve essere custodito e preservato, dove immagini e suoni di ambienti naturali scorrono su schermi distribuiti lungo il percorso, dando vita ad un suggestivo paesaggio immersivo. LEGGI TUTTO

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    Via libera al decreto Ambiente: non solo eolico e fotovoltaico, per la transizione anche nucleare e idrogeno

    Cambiano le priorità italiane in materia di transizione energetica. Il dl ambiente approvato oggi dal Cdm prevede che i progetti prioritari sull’energia non saranno più soltanto eolico, solare e idroelettrico, ma tutti quelli che permettono di conseguire gli obiettivi nazionali di decarbonizzazione e che sono sostenibili economicamente. In particolare vengono definiti prioritari i progetti sull’idrogeno […] LEGGI TUTTO

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    Sciopero del clima, Fridays for Future torna in piazza: “Non è tardi per il cambiamento”

    Sono cambiate tante cose per le ragazze e i ragazzi del clima, ma non la volontà di ribadire l’importanza di agire. Dal Covid in poi i movimenti dell’onda verde, come Fridays For Future, hanno fatto sempre più fatica a ritornare nelle piazze con la stessa spinta del 2019, ma in tempi in cui la crisi climatica è sempre più evidente il loro intento non è mai mutato.
    Per questo l’11 ottobre i cortei e le manifestazioni di Fridays For Future torneranno di nuovo a popolare le città italiane, con una narrativa chiara: “Non è troppo tardi, il cambiamento è possibile”, un appello all’unione per la giustizia sociale e climatica.

    Tanti eventi concentrati nelle principali città
    In un momento storico scandito da guerre, aumento del carovita, crescita delle temperature medie, ma anche eventi chiave come le elezioni americane o la Cop29 in partenza a Baku -gli attivisti vogliono ribadire l’importanza di cambiare rotta.
    “L’attuale scenario porta le persone a pensare che sia troppo tardi per fare qualcosa e spesso crea un senso di impotenza. Per questo Fridays For Future Italia lancia un appello, possiamo ancora cambiare la rotta e contenere l’aumento della temperatura media globale a +1.5°, quello che manca è il coraggio e la volontà politica di mettere in atto strategie a lungo termine per la difesa dei territori e delle persone” ha spiegato Antonio Iodice dei Fridays.

    Editoriale

    I nuovi negazionismi climatici

    di  Riccardo Luna

    07 Ottobre 2024

    Come scrivono i giovani dell’onda verde, il nuovo sciopero per il clima sarà ricordato come “la comunità scientifica globale si è espressa all’unanimità: i cambiamenti climatici attuali sono causati dalle attività umane; in particolare i cambiamenti che stiamo vivendo sono più rapidi di quello che si è visto in tutte le ere precedenti, e la causa diretta è il nostro modello economico e la distruzione dell’ambiente necessaria per la sua sopravvivenza. Difendere il clima significa difendere la vita delle persone”. LEGGI TUTTO

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    In 50 anni la dimensione media delle popolazioni animali è diminuite del 73%

    ? L’ultimo mezzo secolo è stato devastante per la fauna selvatica del Pianeta: tra il 1970 e il 2020 si è assistito a un crollo del 73% delle popolazioni di animali monitorate. Il dato, clamoroso e preoccupante, è contenuto nell’edizione 2024 del Living Planet Report redatto dal Wwf internazionale. La storica associazione, nel presentare il rapporto sottolinea come i risultati confermino che gli habitat sono in pericolo: “Ciò che accadrà nei prossimi cinque anni sarà cruciale per il futuro della vita sulla Terra, ma abbiamo il potere – e l’opportunità – di invertire la rotta”.

    Dal 1970 sono state monitoriate 35.000 popolazioni di 5.495 specie di vertebrati in tutto il mondo. L’analisi delle tendenze ha permesso di stilare il Living Planet Index, elaborato dalla Zoological Society di Londra, che sintetizza gli andamenti della fauna selvatica. Ebbene, nell’ultimo mezzo secolo “il calo più forte si è registrato negli ecosistemi di acqua dolce (-85%), seguiti da quelli terrestri (-69%) e poi marini (-56%)”, si legge nel rapporto. Dal punto di vista della distribuzione geografica, “in America Latina e nei Caraibi c’è stato il calo più marcato delle popolazioni animali monitorate (-95%), seguite da Africa (-76%) e Asia-Pacifico (-60%)”. Scendendo nel dettaglio delle singole specie animali, sfogliando il Living Planet Report sui scopre che “tra le popolazioni monitorate si è assistito a un calo del 57%, tra il 1990 e il 2018, nel numero di femmine nidificanti di tartaruga embricata sull’isola Milman, nella Grande Barriera Corallina in Australia; un calo del 65% dell’inia (un delfino di fiume) nel Rio delle Amazzoni e un calo del 75% della più piccola sotalia tra il 1994 e il 2016 nella riserva di Mamirauá sempre in Amazzonia. Lo scorso anno, durante un periodo di caldo estremo e siccità, oltre 330 inie sono morte in soli due laghi”. Tra le cause, “la perdita e il degrado degli habitat, causati principalmente dai nostri sistemi alimentari, rappresentano la minaccia più frequente per le popolazioni di specie selvatiche di tutto il mondo, seguita dallo sfruttamento eccessivo, dalla diffusione delle specie invasive e di patologie”, scrive il Wwf.

    Natura

    C’è sempre meno biodiversità, soprattutto in montagna

    di  Pasquale Raicaldo

    07 Ottobre 2024

    “Il cambiamento climatico rappresenta un’ulteriore minaccia in particolare per la biodiversità in America Latina e nei Caraibi, regioni che hanno registrato un impressionante calo medio del 95%”. E il cambiamento climatico, è ormai certo, ha comunque origine nelle attività umane e nell’uso dei combustibili fossili. Viene citato proprio l’esempio dell’Amazzonia, vittima di una decennale deforestazione per mano umana e, più di recente, di una ondata siccitosa senza precedenti. C’è qualche buona notizia: “Alcune popolazioni animali si sono stabilizzate o sono aumentate grazie agli sforzi di conservazione, come è accaduto per la sottopopolazione di gorilla di montagna, aumentata di circa il 3% all’anno tra il 2010 e il 2016 all’interno del massiccio del Virunga nell’Africa orientale, e per il bisonte europeo, che ha visto un ritorno delle popolazioni in Europa centrale”. Ma si tratta di esempi sporadici che non invertono la tendenza generale.

    Crisi climatica

    Nel Pantanal e in Amazzonia i peggiori incendi selvaggi in quasi due decenni

    redazione Green&Blue

    23 Settembre 2024

    Dimostrano tuttavia che gli esseri umani, se davvero vogliono, possono rimediare almeno in parte agli errori del passato che per ora pagano i nostri compagni di avventura sulla Terra e che presto potremmo pagare anche noi. “La natura sta lanciando un vero e proprio SOS”, dice Kirsten Schuijt, direttrice generale del WWF Internazionale. “Le crisi collegate alla perdita della natura e al cambiamento climatico stanno spingendo le specie animali e gli ecosistemi oltre i loro limiti, con pericolosi punti di non ritorno globali che minacciano di danneggiare i sistemi che supportano la vita sulla Terra e di destabilizzare le società. Le conseguenze catastrofiche della perdita di alcuni dei nostri ecosistemi più preziosi, come la foresta amazzonica e le barriere coralline, colpirebbero le persone e la natura di tutto il mondo”. LEGGI TUTTO