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    Il radicchio cresce meglio nella serra in perovskite

    Nuove interessanti prospettive nel campo dell’agricoltura sostenibile. Un gruppo di ricercatori dell’Istituto per la microelettronica e microsistemi di Catania, parte del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Imm), ha infatti appena dimostrato come l’applicazione di celle solari in perovskite sui tetti delle serre migliori significativamente la crescita delle piante – radicchio, nel caso dell’esperimento condotto dagli scienziati – e contribuisca all’autosufficienza energetica delle celle stesse. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Communications.

    L’agrivoltaico, ossia l’integrazione di sistemi fotovoltaici nella coltivazione agricola, è una tecnica studiata e adoperata già da qualche tempo, che ha per obiettivo l’abbattimento dei consumi di energia elettrica necessari al funzionamento delle serre. Tradizionalmente si usano celle solari in silicio opaco, che garantiscono una buona efficienza ma, proprio in quanto opache, trattengono molta della luce solare che le colpisce, il che limita la crescita delle piante. È proprio per cercare di superare questo problema che i ricercatori del Cnr-Imm si sono concentrati su celle solari semitrasparenti in perovskite (St-Psc), un altro materiale già ampiamente utilizzato nel fotovoltaico che, a differenza del silicio opaco, lascia passare una frazione molto più alta della luce che lo colpisce.

    Nel loro esperimento, i ricercatori hanno costruito una serra in miniatura dotata di un tetto rivestito con perovskite e altri materiali, e vi hanno lasciato crescere delle piantine di radicchio. Dopo qualche tempo, hanno confrontato la maturazione delle piantine cresciute sotto la serra “potenziata” con quella delle piantine cresciute sotto una serra tradizionale, con tetto in vetro, constatando così che le prime presentavano effettivamente una crescita più rapida e foglie più grandi rispetto alle seconde – nonostante, e qui sta la parte più interessante del risultato – la quantità di luce totale che investiva le piantine fosse inferiore nella serra con perovskite.

    Energia

    Un fotovoltaico da record di efficienza con il tandem silicio-perovskite

    Dario D’Elia

    06 Febbraio 2024

    Questi risultati, scrivono i ricercatori nel lavoro, suggeriscono che a fare la differenza in termini di crescita delle piante non è solo la quantità di luce che ricevono, ma anche la sua “qualità”, o, in termini più precisi, la sua composizione spettrale. La perovskite, infatti, ha la caratteristica di filtrare la componente blu della luce solare e di aumentare la componente rossa, creando condizioni apparentemente migliori per lo sviluppo delle foglie. Ma c’è dell’altro: i ricercatori hanno anche analizzato l’espressione genica delle piantine di radicchio, scoprendo che quelle cresciute sotto perovskite mostravano piccole differenze nell’espressione di geni legati allo stress ambientale, al metabolismo e alla percezione della luce, il che suggerisce che le piante siano in grado di adattarsi attivamente alle nuove condizioni di illuminazione.

    La perovskite non sembra far bene solo al radicchio, ma anche alla bolletta: i ricercatori hanno stimato che una serra dotata di questa tecnologia potrebbe produrre tra 220 e 243 chilowattora per metro quadro, sufficienti a coprire il fabbisogno di serre ad alta intensità, quelle che richiedono molta energia per riscaldamento, raffreddamento e illuminazione. Resta solo da scoprire se il radicchio sarà altrettanto gustoso. LEGGI TUTTO

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    Come ci fa sentire la crisi del clima? In Italia perlopiù tristi e arrabbiati

    Il cambiamento climatico ci mette di fronte a enormi sfide e soprattutto a grandi incertezze: come sarà il nostro futuro e quello delle generazioni successive alla nostra? Domande che suscitano inevitabilmente un turbinio di emozioni diverse. Molti gruppi di ricerca stanno iniziando a studiare questa “componente emotiva” legata al grande tema del cambiamento climatico: quali emozioni spiccano maggiormente?

    Le diverse sensazioni sono in qualche modo collegate alle politiche ambientali che le persone scelgono di sostenere? Proprio su questo tema, un team di ricercatori dell’Università di Aarhus in Danimarca e dell’Istituto internazionale per l’analisi dei sistemi applicati in Austria ha condotto un sondaggio online in 19 lingue diverse, coinvolgendo più di 30mila adulti di 30 paesi diversi. Le risposte sono state raccolte fra agosto e dicembre del 2022, e i risultati delle relative analisi sono appena stati pubblicati su Risk Analysis.

    Nel dettaglio, gli autori dello studio hanno “mappato” l’intensità di cinque emozioni, o sensazioni, che possono essere collegate al cambiamento climatico: rabbia, tristezza, paura, preoccupazione e speranza. La cosa interessante, e forse in parte anche attesa, è che sono emerse specifiche tendenze in base all’area geografica presa in considerazione.

    Per esempio, fra i 12 Paesi risultati più “speranzosi”, 11 sono in via di sviluppo, come la Nigeria, il Kenya, l’India e l’Indonesia. Il dodicesimo, l’unico appartenente al cosiddetto “nord globale” fra i 12 di questo gruppo, è rappresentato dagli Stati Uniti.

    I Paesi europei, fra cui Germania, Austria e Svezia, sono invece risultati essere fra i meno fiduciosi. E spostando il focus in particolare sulla porzione meridionale dell’Europa è inoltre emerso che Spagna, Italia e Grecia sono quelli caratterizzati da un livello più alto di rabbia e tristezza per quanto riguarda il cambiamento climatico. La paura e la preoccupazione, infine, sono le due emozioni espresse maggiormente dai partecipanti del Brasile.

    Le emozioni legate all’uso di tecnologia per contrastare la crisi

    L’altro obiettivo della ricerca era poi quello di esaminare il possibile collegamento fra le diverse reazioni emotive al cambiamento climatico e la relativa opinione o posizione in merito all’utilizzo di specifiche tecnologie per contrastarlo. Il team ha quindi analizzato la relazione statistica fra le cinque emozioni prese in considerazione e il sostegno a dieci diversi tipi di intervento, fra cui l’imboschimento, tecniche di rimozione attiva dell’anidride carbonica dall’atmosfera e metodi che modifichino l’incidenza delle radiazioni solari (in modo che il pianeta riceva in sostanza meno calore dal sole), come l’iniezione di particolari aerosol nella stratosfera. Stando ai risultati, la speranza sarebbe strettamente collegata alla propensione per il supporto agli interventi climatici, soprattutto per quanto riguarda i più innovativi. Un discorso analogo vale per la preoccupazione e per la paura, anche se il legame sembrerebbe essere meno marcato con quest’ultima.

    Non si tratta della prima indagine di questo tipo. Anche uno studio pubblicato su Plos Climate nel 2024 mostrava che le diverse reazioni emotive di fronte al cambiamento climatico hanno a che fare con il tipo di politica climatica che si sceglie di sostenere. In quel caso le emozioni analizzate dagli autori erano senso di colpa, rabbia, paura, speranza e tristezza. Il sondaggio aveva coinvolto circa 16mila statunitensi di età media compresa fra 45 e 54 anni, di cui circa la metà erano donne e circa il 73% si era dichiarato di etnia “bianca, non ispanica”. Dai risultati di questo studio era emerso che rabbia e senso di colpa porterebbero ad essere favorevoli a politiche che gravano molto sul singolo. Speranza e tristezza sembrano invece essere associate più spesso al sostegno di politiche proattive, come l’investimento nella costruzione di infrastrutture green. LEGGI TUTTO

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    Che impatto avrà il riarmo dell’Europa sulle sue politiche climatiche?

    Che impatto avrà il riarmo dell’Europa sulle sue politiche climatiche. ReArm Europe prenderà a cannonate e affonderà definitivamente il già traballante Green Deal pensato per decarbonizzare le economie della Ue? “Sicuramente assisteremo a una distrazione di risorse economiche. E già vediamo una distrazione dell’agenda politica: le politiche sono già passate in secondo piano”, risponde Matteo Leonardi, cofondatore di Ecco, think tank italiano per il clima. “Ma ci sono implicazioni indirette, che potrebbero anche essere positive”.

    Leondardi, avete già fatto una valutazione precisa di quanto costerà riarmo della Ue alla sua decarbonizzazione?
    “È presto per farlo, in termini di cifre. Ma certamente ci sono implicazioni dirette che vedremo nel breve termine. La prima è che appunto ci saranno meno risorse, proprio in un momento in cui la decarbonizzazione aveva bisogno di un input di risorse con una consistente partecipazione pubblica. Distrarre il 3% del pil su un settore che non ha nulla a che fare con la decarbonizzazione, rappresenta un grosso problema per le politiche green europee. Ancora più grosso è il problema della distrazione dell’agenda: non si tratta solo di dove trovare i soldi, ma di come costruire le politiche di cui l’Europa ha bisogno per la sua crescita, con investimenti su innovazione, industria, lavoro. Ma per costruire politiche ci vuole tempo. Anche nell’interlocuzione con i migliori e più illuminati decision maker è ormai evidente che l’agenda è cambiata. Perfino il Green Industrial Deal di qualche giorno fa è passato in secondo piano”.

    C’è anche un problema di consenso da parte dei cittadini europei?
    “È la terza implicazione diretta che vediamo: l’universo sociale che più supporta l’idea di Europa si trova spiazzato nel momento in cui l’Unione sposta la propria azione dai temi della solidarietà, delle questioni sociali, a quelli del riarmo. C’è il rischio di perdere il consenso sociale di chi fino a oggi ha sostenuto di più l’idea di Europa, proprio mentre il continente affrontare crisi all’interno e all’esterno”.

    Cosa salvate?
    “Ci sono alcune implicazioni indirette del ReArm Ue che vogliamo approfondire, perché potrebbero avere conseguenze non facilmente prevedibili al momento. La prima è che il riarmo, indipendentemente da come lo si farà, non ha alcun senso se non ci sarà una maggiore integrazione europea. Questo nuovo scenario innescherà un processo che farà superare ostacoli finora insormontabili tra i 27? Non è detto che da una cosa in cui non ci si riconosce possa nascere una maggiore unità. Poi c’è la questione del debito…”.

    È caduto il tabù?
    “Pare di sì. In tre settimane, dopo che per decenni il mantra è stato: non si può fare. E allora ci chiediamo: se l’Europa lo fa fa per le armi, perché non l’ha mai fatto per il sociale o per il clima? Inoltre, se da oggi si può fare, vuol dire che si aprono nuovi spazi per la politica. Come ha detto il premier spagnolo Sanchez: spiegateci meglio il piano, perché per la Spagna sicurezza non vuol dire fronteggiare le armate russe ma cybersecurity e sicurezza energetica”.

    Ma l’Europa cosa può fare in termini di politiche climatiche, stretta tra gli Usa di Trump e la Russia di Putin?
    “È possibile un ribilanciamento delle relazioni diplomatiche e commerciali tra Europa e Cina. Dobbiamo capire che spazio si apre, visti gli interessi reciproci. Entrambi i blocchi sono poveri di combustibili fossili, ma Pechino ha una sovracapacità di tecnologie per la decarbonizzazione, di cui ha un grande bisogno Bruxelles. Che però finora era intenzionata a metterci i dazi. Nella nuova situazione, la Ue metterà comunque i dazi sui pannelli fotovoltaici cinesi? Se li importi è perché ti fidi, e per fidarti vuol dire che hai spostato un po’ l’asse verso Est. In questo momento non è nell’interesse e nelle possibilità economiche dell’Europa finanziare un esercito e contemporaneamente avviare una industria di pannelli fotovoltaici fatti nel bresciano, per dire. Mentre di sicuro abbiamo la necessità di procurarci energia a prezzi convenienti”.

    Tornando alle parole di Sanchez: la sicurezza si fa con le armi o con l’indipendenza energetica?
    “La sicurezza dell’Europa passa necessariamente per l’energia e per la sua governance. E anche qui servirebbe una Europa più integrata. E poi: chi è l’alleato in questo caso? Gli Stati Uniti? Ma se ci costringono a riarmaci, potremo poi fidarci di loro come fornitori di gas? E della Russia ci possiamo fidare? Sappiamo la risposta. E viene in effetti d chiedersi se il vero problema dell’Europa non sia proprio l’indipendenza energetica. Sapendo che le tecnologie rinnovabili ci offrono l’alternativa”.

    Questo ritorno ai blocchi è la fine del multilateralismo e quindi anche delle Conferenze Onu sul clima?
    “La sensazione è che tutti i processi multilaterali, dalle Cop al G7, stiano perdendo valore e si pongano obiettivi sempre meno ambiziosi. Ma si dovrà vedere quale sarà il nuovo equilibrio. La Cina è un grosso difensore del multilateralismo. Qualcuno ha detto: o sei seduto al tavolo o sei nel menù. Pechino lo sta mettendo in pratica. Come Europa, cerchiamo di non finire nei menù”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, l’apicoltore: “Nelle arnie il segreto del cibo sano”

    Chiamarlo lavoro, è riduttivo. Una passione? Le api e l’apicoltura possono essere entrambe le cose”. Parole chiare quelle di Giuseppe Cefalo, presidente dell’Unaapi (l’associazione che riunisce gli apicoltori italiani) e imprenditore agricolo. Cinquant’anni, irpino, una laurea in Economia, alla spalle una famiglia impegnata in agricoltura da cinque generazioni: producono olio e miele. ”Ho iniziato ad occuparmi di apicoltura dopo la laurea, perché in casa avevamo le arnie lasciate da mio nonno. Alcune risalivano addirittura al 1922, è stato lui a trasferirmi la passione per le api. Ho cominciato gradualmente finché ho capito che quel mondo affascinante, poteva diventare davvero anche il mio lavoro”.

    Una professione di grande responsabilità, l’apicoltore. Non solo perché le specie di cui si occupa sono considerate a rischio estinzione (in Europa in trent’anni il numero delle api si è ridotto del 70%), ma anche perché il ruolo di questi insetti è considerato cruciale, visto che influisce sull’intero ecosistema. ”Basti pensare che l’impollinazione è essenziale per la produzione di cibo a livello globale. Oltre il 70% della produzione agricola mondiale di frutta, verdura, ortaggi e semi dipende dagli insetti impollinatori, di cui le api sono la specie più numerosa e importante”, tiene a sottolineare Giuseppe Cefalo, che oggi gestisce 600 alveari. LEGGI TUTTO

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    Balena ritrovata a Trieste: lo scheletro verrà recuperato e studiato

    Dallo scorso 30 agosto, data della morte, è laggiù, sotto i pontili di Porto San Rocco, a Muggia, ultimo comune del Friuli-Venezia Giulia. Ora quel che resta di una “balenottera comune” aiuterà a comprendere i misteri che ancora avvolgono una specie straordinaria, il secondo animale più grande del pianeta. Ed è per questo che dopo il trasporto al largo e l’affondamento della carcassa in una zona portuale off-limits, l’area marina protetta di Miramare ha avviato un’attività di monitoraggio subacqueo sui resti dell’animale. Attorno ai quali si sono immersi, in questi giorni, i ricercatori Saul Ciriaco e Marco Segarich, animati dal desiderio di rispondere a interrogativi più o meno comuni. Per esempio: in quanto tempo si decompone la carcassa di una balena? E ancora: quali processi biochimici si attivano sott’acqua? Quanti dati può offrire e quali storie può raccontare l’analisi e lo studio del suo scheletro, del cranio, delle vertebre, dei fanoni?

    Biodiversità

    Senza l’impatto dell’uomo le balene vivono molto più a lungo di quanto credevamo

    03 Gennaio 2025

    Il contributo alla salute dell’oceano
    Le attività, che procedono con il coordinamento della Capitaneria di Porto di Trieste, hanno già mostrato che il processo di decomposizione è in stato avanzato: circa il 90% dei tessuti molli della balena non è più presente, decomposto o predato. Proprio in questi giorni, del resto, uno studio guidato dall’Università del Vermont pubblicato su Nature Communications ha evidenziato come le balene contribuiscano in modo determinante al sostentamento nutritivo di molte specie oceaniche anche indirettamente, attraverso le loro carcasse, che nutrono ‘spazzini’ del mare (squali tigre e grandi elasmobranchi), non di rado interessati a seguire le grandi rotte migratorie dei cetacei proprio con il malcelato obiettivo di trarne giovamento. E non finisce qui. LEGGI TUTTO

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    Dai pesi alle scarpe, così il fitness diventa sostenibile

    Allenarsi tonifica l’organismo, migliora l’umore, tiene alla larga molte malattie. E potrebbe anche aiutare l’ambiente. È ciò che accade nelle palestre ecologiche, che si stanno gradualmente diffondendo, dove sono presenti luci Led, soffioni per la doccia a risparmio idrico, rubinetti a basso flusso, bidoni per differenziare i rifiuti, bottigliette per l’acqua riutilizzabili. Alcune strutture, poi, vanno oltre, proponendo macchine e attrezzi green.

    Produrre energia elettrica pedalando
    Una nuova generazione di macchinari sfrutta, per esempio, il movimento degli utenti per generare elettricità. Pare che i primi tentativi in tal senso risalgano al 2007, quando il California Fitness Club di Hong Kong impiegò una tecnologia in grado di convertire l’energia cinetica in energia elettrica. Su questa scia, l’anno successivo, il personal trainer Adam Boesel fondò, in Oregon, negli Stati Uniti, The Green Microgym, la cui sfida era quella di avvicinarsi il più possibile all’autosufficienza energetica proprio attraverso l’allenamento dei clienti. Così creò una spin bike capace di trasformare, tramite il collegamento a un generatore, le pedalate in corrente. “Le mie palestre consumano circa l’85% in meno di elettricità e hanno un’impronta di carbonio che ammonta a circa un decimo rispetto a quella di una palestra tradizionale”, quantifica il proprietario.

    Oggi lo stesso meccanismo della bicicletta viene applicato anche a step, cyclette, tapis roulant. Tra le aziende che producono attrezzature di questo tipo c’è anzitutto SportsArt, che offre anche prodotti eco-friendly per la riabilitazione.

    Dal legno alla gomma, fino al sughero
    Un’altra sfida è quella dei materiali. Dalle balance ball ai rulli addominali, molti attrezzi prodotti in serie e di plastica possono, in realtà, essere realizzati anche con materiali naturali, rinnovabili, riciclabili e a basso impatto. L’azienda Nohrd crea, per esempio, vari macchinari con legni duri, come ciliegio, noce, quercia, provenienti da foreste degli Appalachi gestite in modo sostenibile. Tra le proposte, SlimBeam, attrezzo a cavi con sistema a doppia puleggia; WaterGrinder, macchina che simula il lavoro del velista; WaterRower, vogatore che utilizza una tecnologia basata sul principio della resistenza dell’acqua.

    Anche il produttore finlandese FitWood punta, come suggerisce il nome stesso, sul legno: con questo materiale, derivante da foreste scandinave sostenibili, crea anelli da arrampicata e spalliere di alta qualità. A partire da gomma di pneumatici recuperati, plastica riciclata, acciaio, il marchio svedese Eleiko produce, invece, pesi per un allenamento a 360 gradi.

    E ancora, Paragon propone corde in pelle per saltare, mentre Casall realizza tappetini da yoga in sughero, estratto a mano senza danneggiare o abbattere gli alberi. In più, per chi volesse, molti di questi attrezzi sono perfetti anche da utilizzare a casa.

    Abbigliamento sportivo eco-friendly
    Importante pure scegliere l’abbigliamento giusto. Si calcola che ogni anno la produzione di capi sportivi in poliestere provoca oltre 700 milioni di tonnellate di emissioni di carbonio e utilizza una quantità di petrolio pari a quella che servirebbe per alimentare 47mila navi da crociera. Ma le alternative, per fortuna, non mancano. Allbirds, per esempio, realizza scarpe da ginnastica utilizzando fibre naturali come lana, canna da zucchero, eucalipto. Inoltre, i suoi lacci vengono creati a partire da bottiglie di plastica riciclata, mentre le solette contengono olio di ricino.

    Community Clothing, impresa con sede nel Regno Unito, ha di recente messo a punto la linea Organic Athletic, che comprende indumenti di cotone biologico certificato, elastici in gomma naturale, istruzioni per manutenzione e lavaggio scritte con un inchiostro non tossico a base d’acqua. L’azienda sta, inoltre, collaborando con varie università per sviluppare nuovi materiali sostenibili. Tra questi, l’acetato di cellulosa, una fibra di origine vegetale che può essere facilmente riciclata. LEGGI TUTTO

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    Nel parco museo dove si salva la flora brasiliana

    Mentre Juliano Borin, il curatore del giardino botanico di Inhotim, fa il suo appello perché le istituzioni botaniche di tutto il mondo accedano all’incredibile mole di dati su piante e cambiamento climatico elaborati dal suo istituto, un colibrì approfitta delle fioriture e un tucano si alza in volo da una delle palme a rischio di estinzione, una Euterpe edulis, di cui Borin e i suoi collaboratori studiano l’adattamento al riscaldamento globale. Poco lontano, una delle opere d’arte di Inhotim, la “Viewing Machine” dell’artista danese Olafur Eliasson, invita i visitatori a modificare la loro visione del mondo, a percepire se stessi e l’ambiente circostante in maniera diversa. In quest’angolo di paradiso brasiliano, a Broumadinho, cittadina del Minas Gerais a 60 chilometri da Belo Horizonte, basta guardarsi intorno per comprendere l’unicità dell’istituto Inhotim. Nato nel 2002, l’Instituto Inhotim è insieme museo d’arte contemporanea e giardino botanico, uno dei più grandi musei open-air al mondo, di sicuro uno dei luoghi migliori per immergersi in una fusione di arte, natura e architettura. L’ampio terreno di Inhotim offre la rara opportunità di presentare opere d’arte di grandi dimensioni che non troverebbero spazio nei musei tradizionali e la sua posizione, tra la foresta atlantica e la savana tropicale del Cerrado, lo rende un ambiente naturale tra i più ricchi di biodiversità. Nei suoi 140 ettari di estensione si può godere di una foresta lussureggiante, di circa 700 opere di oltre 60 artisti provenienti da quasi 40 Paesi diversi esposte sia all’aperto, sia in gallerie, e di un giardino botanico con oltre 4,3 mila specie rare, provenienti da tutti i continenti.

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    Una piazza per l’Europa: “Tutti uniti per il clima, il cibo e l’ambiente”

    L’Europa è tutela dell’ambiente. L’Europa è piani e fondi per tagliare l’emissioni, programmi per la scienza e il cambiamento climatico, come i satelliti di Copernicus. L’Europa è politiche agricole. L’Europa è sostenibilità, con i suoi 17 obiettivi dell’Agenda 2030. L’Europa è rispetto della natura e della biodiversità.
    Su tutti questi aspetti, quelli che riguardano il green e l’ambiente, l’Europa può essere migliorata e perfezionata, ma solo se “uniti”.
    Di questo sono convinti i tanti partecipanti del mondo del verde – con in testa associazioni ambientaliste, della sostenibilità, del clima e dell’agricoltura – che prenderanno parte il 15 marzo a Roma a “Una piazza per l’Europa”, l’iniziativa lanciata da Michele Serra, una manifestazione apartitica con sole bandiere europee rivolta a tutti i cittadini che desiderano dire di sì all’Ue e mostrare la loro unione.

    “La pace dipenderà da come gestiremo le risorse”
    Ci saranno soci Wwf e ci sarà una delegazione di Legambiente. Proprio Legambiente ha raccontato che “il 15 marzo saremo anche noi in piazza a Roma, perché vogliamo un’Europa più verde, più innovativa e più inclusiva, protagonista delle uniche azioni di pace nel mondo davvero efficaci, che non sono fondate sull’uso delle armi ma su politiche di giustizia ambientale e sociale”.
    Se scenderanno in piazza gli ambientalisti è perché dalla “democrazia e la pace dipenderanno molto da come il mondo riuscirà a gestire le risorse, a governare la crisi climatica, a decarbonizzare l’economia, a farlo in modo equo”.
    Legambiente ricorda che l’Europa “ha svolto un ruolo fondamentale per la tutela dell’ambiente e della salute delle cittadine e dei cittadini dei Paesi membri. E ha promosso iniziative importanti per rilanciare il suo protagonismo nello scenario economico globale. Un’identità che rischia di smarrire oggi, se non facciamo sentire con più forza la nostra voce”.

    Transizione

    Eurostat: emissioni gas serra diminuite nella Ue del 7% nel 2023

    redazione Green&Blue

    13 Gennaio 2025

    E aggiungono di essere “fermamente convinti che una efficace operazione di peacekeeping nel mondo, soprattutto di fronte alla deriva isolazionista della presidenza di Trump e alla strategia guerrafondaia di Putin, con la criminale aggressione all’Ucraina, si possa fondare solo su una politica europea e mondiale che punti velocemente all’indipendenza energetica dalle fonti fossili, grazie alla diffusione di impianti a fonti rinnovabili, all’innovazione produttiva e alla mobilità elettrica, grazie all’economia circolare in tutte le filiere, a partire da quelle che consentono di recuperare dai rifiuti, come le apparecchiature elettriche ed elettroniche, materie prime critiche fondamentali per la transizione ecologica”.

    Crisi climatica

    Riscaldamento globale, a rischio il limite dei +1.5 gradi definito con l’accordo di Parigi

    di Sara Carmignani

    20 Febbraio 2025

    Lo slogan
    In Piazza del Popolo porteranno anche uno slogan: “Più rinnovabili, più economia circolare, no riarmo, più pace. Lo facciamo perché crediamo nel sogno europeo, fondato sui principi di partecipazione democratica, lanciato da Altiero Spinelli con Il Manifesto di Ventotene”. Anche l’ASvis, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, sarà presente, in nome della sostenibilità e della coerenza per centrare “i 17 Obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, la cui attuazione costituisce l’impegno quotidiano dell’ASviS. Per conseguirli, in Italia, in Europa e nel mondo, riteniamo indispensabile rafforzare l’Unione europea, anche sul piano istituzionale, migliorando la democraticità dei suoi processi decisionali, come indicato nei diversi Rapporti elaborati dall’ASviS”.

    La sicurezza alimentare
    Al loro fianco, anche gli agricoltori della Confederazione italiani Agricoltori (CIA) per “un’Europa di pace, diritti e cibo sicuro”. Proprio sulla sicurezza alimentare la CIA ricorda come l’agroalimentare “è Il nostro capitale per il futuro ed è minacciato dalla instabilità Ue e a corto di finanze, visto anche il debito nazionale, ma è una risorsa non replicabile, a vantaggio dell’Europa intera. Occorre dunque una maggiore consapevolezza condivisa tra gli Stati membri, a riconoscimento del valore aggiunto di ciascun Paese e in questo caso, tra l’altro, nella sfida più ampia per la sicurezza alimentare globale, che deve posizionare l’agricoltura, e il suo reddito, a obiettivo chiave e comune, da incentivare e non sanzionare”. Così come fa leva sull’importanza di “affrontare i cambiamenti climatici” e sul fatto che “per restare competitivi sui mercati internazionali occorrono investimenti fondamentali alla sostenibilità agricola, nella sua valenza economica, ambientale e sociale”.

    Crisi climatica

    Copernicus: mai così poco ghiaccio ai poli

    a cura della redazione di Green&Blue

    06 Marzo 2025

    L’Europa del Green Deal
    Tra le adesioni del mondo verde, anche quella di Italian Climate Network, organizzazione che si occupa proprio di cambiamenti climatici e di divulgazione e che segue da sempre le Conferenze globali sul clima. Come spiega il presidente, Jacopo Bencini, il network aderisce perché “l’Europa è l’Europa del Green Deal. È l’Europa della leadership nei negoziati ONU per il clima, pur con tanti punti migliorabili. L’Europa sono i dati del programma Copernicus, consultabili gratuitamente dalle cittadine e i cittadini. L’Europa è il programma Erasmus, il diritto allo studio europeo e la libertà di movimento per studenti, ricercatori, attivisti. Sono le cattedre europee e le borse di studio Marie Sk?odowska-Curie in ambito STEM, il programma Horizon, i programmi LIFE e DEAR su ambiente, clima e biodiversità”. E ricorda infine che “la prospettiva di un’Europa dei popoli sempre più unita, in questo futuro che ogni giorno promuoviamo verso la transizione ecologica, è un postulato necessario, e quando viene chiesto di dimostrare con la presenza che ancora qualcuno ci crede non possiamo che rispondere affermativamente”.

    Le idee

    Cop29, Slow Food Italia: “Chi paga? Paga l’umanità, se non si fa nulla”

    12 Novembre 2024

    Concetti simili a quelli che in piazza porterà anche Slow Food Italia, “perché vogliamo un’Europa di pace, che sia unita e investa sulla vita, non sulla morte”, spiega la presidente Barbara Nappini.
    Se partecipano, chiosano da Slow Food, è infatti proprio “per sottolineare che in questo momento di grande difficoltà è necessario lavorare tutti insieme, mettere da parte le ostilità della guerra e le differenze che naturalmente ci contraddistinguono avendo il coraggio e la forza di accogliere la complessità, che è l’essenza delle democrazie, e realizzare insieme qualcosa di straordinario e di urgente”. LEGGI TUTTO