Arriveranno in Amazzonia da continenti che bruciano, si allagano o si svuotano. Dall’Africa che perde fino al 5% del proprio Pil annuale a causa di disastri climatici, all’India che affronta la stagione più calda della sua storia, fino all’America Latina frammentata e contraddittoria nella scelta delle politiche ambientali. È il Sud del mondo che avanza verso Belém con la stessa richiesta che accompagna ogni conferenza Onu sul clima: giustizia. Ma la Cop30 arriva in un contesto diverso. L’Occidente è distratto e politicamente stanco, mentre i Paesi emergenti cercano di occupare il vuoto di leadership lasciato dagli Stati Uniti e dall’Europa.
La presidenza brasiliana della Conferenza, guidata dal diplomatico André Corrêa do Lago, promette “la Cop più inclusiva di sempre”. In realtà, una parte consistente della società civile del Sud rischia di restare fuori: voli troppo costosi, alberghi esauriti o inaccessibili, accrediti tagliati. “L’inclusività è ancora basata su quanto hai in tasca”, riassume Marina Agortimevor, coordinatrice dell’Africa Just Transition Network.
Piccole delegazioni
Per molti attivisti, la Cop in Amazzonia doveva rappresentare una rinascita dopo tre edizioni ospitate in Paesi autoritari — Egitto, Emirati, Azerbaigian — che avevano ridotto al minimo la partecipazione dal basso. Invece, le delegazioni del Sud arrivano a Belém più piccole e più indebitate. Alcune organizzazioni africane hanno dovuto rinunciare a mandare i propri rappresentanti, altre dividono i pochi badge ricevuti tra la prima e la seconda settimana di lavori. “È un fallimento di pianificazione, non di geografia”, ha detto Rachitaa Gupta, della rete globale Demand Climate Justice. La sensazione diffusa è che l’inclusione resti uno slogan, non ancora una pratica. E questo pesa, perché proprio la presenza del Sud del mondo – attivisti, ricercatori, comunità indigene – è la chiave di legittimità di una Cop che vuole rimettere al centro il multilateralismo.
Finanziamenti fantasma
Sul piano politico, il nodo resta sempre lo stesso: i soldi. I Paesi ricchi avevano promesso nel 2009 di mobilitare almeno cento miliardi di dollari all’anno per sostenere mitigazione e adattamento nei Paesi vulnerabili. Non ci sono mai riusciti davvero, e la distanza tra promesse e realtà si è allargata. Oggi i flussi di finanza climatica verso il Sud coprono meno di un decimo del fabbisogno stimato. Secondo Oxfam e CARE, nel 2025 le risorse per l’adattamento potrebbero addirittura diminuire, fermandosi a 26 miliardi di dollari contro i 40 necessari solo per onorare l’impegno assunto a Glasgow quattro anni fa. La presidenza brasiliana punta a fare di Belém “la Cop dell’adattamento”: un pacchetto di misure per fissare indicatori comuni, misurare i progressi nei settori più vulnerabili — acqua, cibo, salute — e definire un nuovo obiettivo di finanziamento stabile.
“Vorrei che fosse ricordata come una Cop dedicata alla resilienza”, ha detto Corrêa do Lago.Ma la partita più delicata riguarda il Loss and Damage Fund, istituito due anni fa per risarcire i Paesi colpiti da disastri irreversibili. Al momento il fondo dispone di poco più di 700 milioni di dollari, una cifra simbolica a fronte di perdite che l’Onu stima in oltre 400 miliardi ogni anno nei Paesi in via di sviluppo, in aumento del 25% rispetto a un decennio fa. Senza un incremento rapido delle risorse e regole chiare per l’accesso, rischia di restare un guscio vuoto. I negoziatori africani e asiatici chiedono che almeno metà dei finanziamenti arrivi sotto forma di sovvenzioni dirette, non di prestiti. “Non c’è niente di peggio che annunciare miliardi mentre chi ne ha bisogno non riceve neanche un dollaro”, ha detto il direttore del Fondo, Ibrahima Cheikh Diong. Il gruppo dei Paesi meno sviluppati propone di triplicare i fondi rispetto ai livelli del 2022, mentre i donatori frenano.
Africa unita, India leader
Dal continente africano arriva intanto una voce più coesa che in passato. Dopo il vertice di Addis Abeba di inizio ottobre, i governi hanno elaborato una posizione comune da portare in Brasile: meno assistenza, più investimenti. L’Africa contribuisce a meno del 4% delle emissioni globali, ma è la più esposta agli impatti: siccità, alluvioni, perdita di suolo fertile. Chiede che i finanziamenti non siano più prestiti onerosi ma fondi a basso costo e accessibili, e che i mercati del carbonio non diventino una nuova forma di sfruttamento. “Abbiamo un credito di carbonio accumulato nei secoli”, ha ricordato Carlos Lopes dell’African Climate Foundation, proponendo di collegarlo al debito finanziario. Anche l’India arriva con un’agenda chiara. Dopo aver raggiunto con cinque anni di anticipo l’obiettivo di produrre metà della propria elettricità da fonti non fossili, si propone come ponte tra Nord e Sud: un Paese che conosce la povertà energetica ma al tempo stesso investe in decarbonizzazione. Alla scorsa Cop aveva assunto la guida del G77 + Cina, il gruppo che riunisce oltre 130 Paesi in via di sviluppo: a Belém l’India punta a consolidare quel ruolo, dando al Sud del mondo una voce coordinata sui temi finanziari, ma anche sull’adattamento urbano e la sicurezza alimentare.Il Sud per il SudL’America Latina gioca in casa. Lula vuole fare della Cop amazzonica un momento di riscatto simbolico e politico, riportando il Brasile al centro del negoziato dopo gli anni del negazionismo bolsonarista. Il Paese ospitante vuole essere attore. A Belém sarà inaugurata la Global South House, uno spazio dedicato alle forme di finanza “dal e per il Sud del mondo”, che raccoglie esperienze di cooperazione tra fondazioni, reti indigene e organizzazioni comunitarie. È l’altra faccia della diplomazia climatica: quella che cerca di spostare le risorse verso progetti locali, bypassando burocrazie e condizionalità imposte dal Nord.
Test post-americano
Gli Usa restano ai margini, dopo il ritiro dall’Accordo di Parigi, e la Ue è paralizzata tra crisi industriali e tensioni interne. Per questo Belém sarà, più che mai, un test sul futuro del multilateralismo. “La Cop30 può essere un laboratorio per ricostruire fiducia nel processo multilaterale”, osserva Jacopo Bencini, presidente dell’Italian Climate Network.
“Guardare oltre Parigi non significa archiviare l’accordo, ma rimettere in moto la macchina che lo deve rendere operativo: nuove regole per la finanza, monitoraggio degli impegni, una governance più rappresentativa per il Sud globale”. Il rischio è che la frammentazione del negoziato apra la strada a nuove alleanze parziali: accordi bilaterali sul carbonio, club regionali e intese energetiche fuori dall’Onu, con il pericolo di svuotare proprio il processo multilaterale. Lula sogna la “migliore Cop della storia”. Il successo, visto con gli occhi del Sud del mondo, si misurerà in due traguardi: se i fondi promessi troveranno un percorso chiaro verso i Paesi che ne hanno bisogno, e se chi vive gli impatti più duri potrà davvero sedersi al tavolo delle decisioni. In caso contrario, resterà la scena di sempre: il Sud che aspetta, e il Nord che promette.

